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POESIE

SABATO SERA

I piedi neri che sporgono dal letto,
brache arrotolate sui polpacci: Isaac dormicchia
in canottiera, sudato, sporco di terra, e il fiato
gli puzza d’aglio e di vino. Il suo vicino è Moses,
curiosi nomi di ricchi ebrei, i loro, che invece
più musulmani di così si muore.
Moses fa il bucato in una bacinella, lava
calzini e varia biancheria; mai fatto prima
in vita sua il bucato, ma ora che è via di casa
si arrangia in tutto, e canta nenie, Moses, e lava
spazza cucina, proprio come se fosse una donna.
Appeso al muro è uno zaino semivuoto, due giacche
a vento buttate sulla sedia per quando piove,
per terra sandali, scarpe da tennis quasi nuove.
Isaac insiste a non aprire gli occhi e pensa
a sua sorella, a una ragazza bella che ha incontrato
la mattina e lo guardava triste, imbarazzata
al ciao di lui, al suo sorriso: ma sua sorella mai
starebbe ad osservare uno straniero; e Isaac sa
cos’è bene e cosa male, lui che è nero.
Moses lo spruzza di acqua saponata, gli urla «Alzati!»
facendolo grugnire. Isaac si alza, spalanca fauci
e braccia, va a pisciare nel cesso lordo da far paura
e poi si veste senza lavarsi, si cambia i pantaloni,
infila una camicia scura.
Decidono di uscire. La camera odora di corpi
lucidi accaldati, ci sarebbe bisogno d’aria fresca,
di una sera pulita nei polmoni.
Ciondoloni si avviano per la strada sterrata
fino a un viale che sbuca sul raccordo anulare;
parlano ridono, fanno versacci ogni volta che ne incrociano
una, poi le girano attorno caroselli eccitati,
carambole di balli improvvisati, e lei si arrabbia,
li manda a quel paese.
Moses e Isaac riprendono il cammino,
sulla strada una fila di auto interminabile,
voglie pesanti da sabato sera, noia di tutti contro la loro
gioia: grazie dell’aria, della libera uscita, di una vita
lontana dalla storia.
Memoria di non esserci, di non essere contati
altrove, in un dove che non sia la propria stanza,
danza che trova un senso solo nel movimento,
nella fatica di andare sempre. Ecco che vanno
in centro, prendono l’autobus, stipati tra tanti
disperati come loro, lingue diverse, altri colori,
e fuori dai finestrini è buio, e nei pensieri buio
o luce a sprazzi. Ragazzi pronti alla discoteca
si trascinano a cercare nuove facce e nuovi sessi,
storditi amplessi per dimenticarsi. Isaac invece vorrebbe
ritrovarsi, sentirsi pieno e accolto e benedetto;
in un letto di piume magari, in un fiume che scorre,
dentro una donna moglie. Asseconda le sue voglie serali,
si avvicina a due giovani amiche, spingendosi tra loro
con il suo corpo forte; ad una preme il seno col torace,
all’altra tocca il fianco come senza volerlo. Moses
lo guarda e ride, Isaac strabuzza gli occhi, gode
del suo coraggio malandrino, finché un giovanotto
lì vicino avanza minaccioso a dirgli di piantarla:
ma Isaac lo sovrasta di una testa, è una bestia di muscoli
e allegria, l’altro non osa nulla e torna via,
a sedersi al suo posto. In centro tutti scendono,
le due donne ancheggiano gazzelle e ammiccanti
davanti ai due ghepardi noncuranti. Belle le luci
come se fosse giorno; intorno gente, tanta ed elegante,
ressa nei bar, voci e baci, bulli e pupe.
Isaac e Moses camminano veloci, guardano rapaci
e avidi quello che non avranno: una cena con bianche
tovaglie, camerieri ubbidienti alle spalle, madame
ingioiellate, e soldi, soldi. Trovano conoscenti
ad angoli di strade affollate, magrebini, ganesi,
altre facce già viste nei loro quotidiani appostamenti:
è un fioccare di saluti rituali, di frasi gutturali
incomprensibili, grandi manate, abbracci,
esibizioni candide e orgogliose di oggetti in vendita
invenduti, oltraggi e sputi dietro a chi passa ignaro
e non acquista, canti di scherno ad un inverno
dei cuori, a un fuori meno freddo di ogni interno.
Moses e Isaac svoltano in un vicolo diverso
da quello dell’altra settimana: questo si chiama
Via della Borsa. Tentano l’avventura e la ventura,
che il loro Dio gliela mandi buona come la volta scorsa
almeno, una matrona spaventata che non aveva opposto
resistenza. Senza fiatare seguono uno dal fare impiegatizio,
tenera pelatina e occhiali spessi, un giubbino di stoffa
striminzito. Di colpo lo spintonano in un canto, Moses
gli blocca mani e bocca, il tizio quasi casca mentre
Isaac gli strappa il portafoglio dalla tasca, e via
di corsa che non rinvenga, che non gli venga in mente
di urlare. Si fa presto a contare quarantacinquemilalire,
bestemmia Moses in italiano, Isaac ha il fiatone
e guarda lontano, vorrebbe riprovare con un altro
tra la folla, ma -strano- è Moses questa volta a non volere,
dice «Ci bastano per bere, per fare qualche cosa»,
e maledice la sorte, implora la morte più schifosa sui ricchi
nascosti a farsi ricchi senza che nessuno li tocchi.
Loro, pitocchi, devono adesso
tornarsene a casa, rabbiosi impotenti, riprendere l’autobus
con poca gente e stanca, stare zitti a guardarsi le scarpe,
appoggiando la testa al finestrino. Che voglia di altre notti,
altri vestiti addosso, padri severi a cui ubbidire, parole
compagnia consolazione, e invece qui il silenzio perdizione,
condanna a non esistere.
Alla fermata giusta Isaac e Moses scendono, ed è già scuro,
le macchine più rade, il viale non risponde ai loro passi.
Moses fischietta, Isaac dà calci ai sassi.
Ritrovano le donne accanto ai fuochi, e quella, sfatta,
che avevano schernito poco prima. Fanno salamelecchi,
sorrisini: le chiedono se con quanto hanno rubato
li può accontentare tutti e due,
veloce, e buona almeno lei, sul prato.

In Linea d’ombra n.114, aprile 1996; in Litania periferica, Manni, Lecce 2000
e in La poesia e lo spirito, 4 febbraio 2018.

 

 

POESIE

SYMBOLUM

lo diede ai suoi discepoli  (Matteo 26,26)

 

Nella notte, le strade dell’addio:

strade che portano a tacere

nel buio; al nascosto mistero.

Al dio vero e abbandonato,

a un amore lasciato cadere. All’altare

nei campi, appena schiarito

da fari di auto veloci

come lampi di luce,

o raggi pietosi penetranti.

Ma l’ostia spezzata chiude il gesto

per sempre, e tutto è compiuto

nella notte senza voci,

senza aiuto.

 

 

Fu tradito: una porta sbarrata,

il passaggio taciuto, o chissà

che miscuglio nel vino.

E c’era chi brindava, c’era chi bestemmiava

lì intorno.

Più lontano qualcuno godeva

tra lenzuola macchiate,

rito antico a chiusura

di una indegna vittoria.

Oltraggio verso una storia arresa;

il tradito implora pietà

da chi lo consegna al nemico

perduto, anche lui,

di paura.

 

 

Prese il pane materia, il pane grano

nostro quotidiano sostentamento.

Pane del padre e simbolo di fame

per sempre domata, sudore di terra

o immeritata manna dal cielo.

Mano di madre che si infarina,

forno di legna, cenere e fuoco.

Crosta dorata, profumo

che lento si sparge in cucina.

Prese il pane e lo spezzò,

nutrimento della carne;

guardò fuori

aspettando il rumore del giorno.

 

 

Grazie per l’aria e per la luce,

grazie per la croce futura.

“Nolite quaerere a Deo”, sola preghiera

riconoscente, misura di un sorriso,

del ginocchio piegato.

In questa sera oscura, o truce notte

ardente; fatti benedizione,

voce dall’alto, “nisi Deum”,

ha supplicato:

ucciso.

 

 

Lo diede offerta, gratuito dono,

  • amici non più servi – disse;

mangiate tutti, mangiamo insieme

in questa cena ultima, mia mensa

e mia comunità. Certa alleanza

perché non vi abbandono,

unica vera vena del cuore

e ricompensa, umanità di Dio

raccolta in una stanza.

 

 

Corpo sacrificato, sacrificante

corpo: muto, in ascolto, angosciato,

tremante nell’ orto. Corpo

rivestito di spini e sudari,

vivente carne sofferente;

corpo svuotato, fino alla morte

obbediente: spogliato e sputato.

Come agnello portato al macello;

sgozzato, mangiato.

E fu sepolto.

Risorto poi, corpo glorioso elevato,

liberato dal male, rinato.

Corpo sdoppiato

eterno e bambino, immobile

e in cammino: anima crocefissa

alla materia, anima bella, luce

da luce generata.

Questo è il mio corpo,

umano e divino.

 

 

Sangue vendemmia raccolto

in un calice, deterso dal volto,

mani inchiodate e cuore trafitto;

sangue stillante dai rami,

dai mali di ogni palestina;

rappreso incrostato indelebile,

castigo e delitto,

flebile pianto di neonato,

canto roco di uno

disperso nel deserto, mestruo

colante di babilonia.

Sangue che intride la terra

e stride vendetta, si infetta

per una ferita veniale;

sangue di carneficina

o di cerimonia nuziale,

di agguato e di guerra.

Sangue di vite e di una vita,

linfa di tralci aggrappati

alla vigna, sangue

che danza inebriato,

esplode di stupore,

si immola per amore.

 

Per voi, per tutti: l’offerta, il dono.

Che è perdita

di corpo e di pensiero, parola e gesto;

rinuncia alla memoria,

aperta resa

al non più io, al noi,

al resto.

O dio – mio dio. Se pesa

questo lasciare

la propria storia,

sola certezza, vero che sazia…

Cosa chiedere poi?

Grazia e perdono.

 

 

Remissione, assoluzione,

ritorno al prima e nuovo inizio;

magica forza dal niente

al tutto, da notte a giorno.

Servizio

di clemenza e pietà,

abiura del peccato,

impostura del male:

nihil videbat, il dannato,

nel tombale silenzio.

Improvvisa la luce

cum ipso et in ipso.

Carità.

 

 

In memoria. Non cancellate,

mantenete il ricordo:

ogni parola serbate, il bene

il tempo la preghiera.

Quello che è destinato a sparire

  • il non ritorno, gloria del nulla.

Ora della passione,

crocifissione cosmica,

il vuoto sordo e cieco.

Morire del giorno, e sera

inesorabile.

Ma poi di nuovo aurora,

il chiaro, l’eco di una risposta

che aspettavate;

e c’è.

Questo fate,

in memoria di me.

 

 

In Gli Stati Generali, 4 marzo 2021 e in Consacrazione dell’istante, Animamundi, Otranto 2022

POESIE

TARCISIUS

(omaggio a Pier Paolo Pasolini, rileggendo  Le ceneri di GramsciIl pianto della scavatrice)

 

I

Non è di maggio questa impura aria
di quasi alba, di quasi estate
che non somiglia a una stagione calda:

ma sembra il primo autunno, fresco,
un po’ bagnato di foschia leggera…
Con un quarto di luna strana, bianca

che già la sera prima si affacciava
stanca tra le nubi grige, sfilacciate,
e ora ha voglia di sparire in cielo.

E la stazione è muta, solitaria, scura:
poche le luci al neon ancora accese.
Ma a che serve la luce?

Tanto uno solo abita la fine notte
sulla panchina del binario sei.
Truce, aggrondato sopra la pietra dura

dorme col membro gonfio tra gli stracci,
e gli altri poveracci come lui non sono qui,
spariti chissà dove, inghiottiti

in altri posti squallidi: la spiaggia,
il lungomare, depositi di autobus
o cantieri, rimesse abbandonate.

Eppure è maggio, è quasi estate
e c’è silenzio, fradicio e infecondo;
se intorno spiove fa più paura

il mondo zitto di chi non serve a niente,
gente che non domanda e non risponde,
alza le spalle, sputa, non saluta.

Il mare si intravede di lontano,
si sentono le onde che sbattono
sul molo, e piano uno sciacquio.

Lui è solo, la schiena sopra il marmo
gli fa male, si rigira, si tocca,
con la bocca semiaperta: è giovane,

rumeno, lo chiamano Tarcisius.

II

Si è appena addormentato, ha aspettato
che passassero le guardie, i metronotte
custodi del silenzio e del sonno cittadino.

Vicino alla panchina c’è il suo sacco
teso di roba sporca, dentro: calze,
mutande e fogli di giornale.

Stracco così si sente già da tempo,
eppure non lavora, un posto fisso
insomma; non ha niente. Cammina

ogni mattina tra la gente, gira
nelle piazze e nei mercati,
presta le braccia a trasportare casse,

lava le auto, fa il manovale
se è fortunato, e lo pagano
a ore. La sera è morto di sudore

e fatica, sente addosso l’odore
aspro della pelle, la puzza
dei piedi martoriati.

Come i poveri povero, a volte
ruba. Una mela, biscotti
nei negozi alimentari, robetta.

Si lava al mare con una saponetta,
lava i vestiti e li asciuga
sulla sabbia. Sotto la camicia

nasconde il passaporto, sacro
come fosse un sacramento.
Giù al porto si è fatto degli amici

rumeni come lui, ma più felici
perché hanno un lavoro. Tarcisius
non dispera; ogni mattina spera

nel miracolo. Di trovare un portafoglio
per strada, gioielli d’oro perduti
tra i rifiuti. Fruga

nei mucchi secchi d’immondizia

del quartiere in penombra,
non teme la sporcizia delle dita.

Ma da dove gli viene
quest’amore per la vita, questa
disperata passione di essere nel mondo?

In fondo al cuore crede
che domani sarà meglio,
che qualcosa accadrà, di grandioso.

Il riposo arriva la sera. Respira la spenta
trepidazione della notte,
e si addormenta come un bambino:

come dopo aver detto una preghiera.

III

La stazione si trova tra grami caseggiati,
fumosa, quasi in periferia.
Pochi lampioni le fanno compagnia

di notte, con scarsa luce gialla,
spioni tra le ombre dei carrelli,
tra i tabelloni di partenze e arrivi.

Vicino c’è un locale: lì si spaccia
(pasticche, coca, robaccia da poco).
La polizia sta al gioco, ogni tanto

ferma qualcuno e lo denuncia.
Disamore, mistero, e miseria
dei sensi: il vuoto, e senti

il mancare di ogni religione vera.
La musica martella nel silenzio,
rimbomba uguale, monotona, distante.

Il rombo delle auto e delle moto
si perde tra le grida di ragazze
stridule e pazze di frenesia e di sesso,

avvinghiate a corpi esaltati, esibiti
nel loro turgore vitale.
Sono le quattro del mattino, e in quattro

sbucano dal sottopasso di corsa
sul binario. Cercano da fumare
e si spintonano, parlano, fischiano,

forti come ventenni forti, belli,
quasi eleganti nelle scarpe a punta,
nelle camicie fresche. I jeans di marca.

Hanno vinto se stessi e gli altri
in questa notte di tarda primavera:
giovani divinità cui non si nega

una vittoria facile, una preda.

IV

Allegri, inconsci, interi
vivono di esperienze ignote
a loro stessi, non amano indagare

nei pensieri. A loro basta
avere da bere, da fumare: e divertirsi,
ridere, godere come ossessi.

Ecco si fermano ad osservare
il fagotto a forma di uomo
sdraiato sul marmo della panca,

addormentato. Gli passano vicino:
uno di loro sputa sul suo sacco
di tela, glielo sfila di sotto

la mano penzoloni, lo solleva
a braccia alzate e ride soddisfatto
del trofeo. E lui bambino dorme

e non si accorge che gli svuotano
per terra il suo tesoro.
Povero come un gatto del Colosseo,

possiede un po’ di biancheria spartana,
tre sigarette, un accendino in similoro,
e cara più di tutto una fotografia.

Se la mostrano a vicenda, sghignazzando,
facce rotonde e serie da rumeni:
una famiglia come tante, ma via, lontana,

che odora di bisogno e nostalgia.
Da quella realtà umile e sporca,
confusa e immensa si devono salvare,

i quattro leoncelli di periferia.
E allora il fuoco come un rito antico
può purificare. Brucia la foto,

il sacco: gli indumenti.
Si sparge fumo e una puzza acre.
Loro contenti mostrano i denti al buio,

e non è che l’inizio, si guardano
eccitati e vogliosi di qualcosa
di forte, un esercizio di sana goliardia.

Maschi e virili, in due
pisciano addosso a lui addormentato,
uno gli spruzza il viso e i capelli,

e svegliati vigliacco invertebrato!

V

In un attimo è in piedi, spaventato:
non capisce cosa diavolo succede.
Sente il viso bagnato di orina,

vede quattro ragazzi intorno a lui
con un ghigno feroce, e una voce
che lo chiama bastardo, fatti sotto

se puoi, ma non sa l’italiano molto bene,
teme un gesto sbagliato, finché un pugno
codardo lo raggiunge sul mento,

poi uno schiaffo in piena faccia.
Altri colpi, da tutti, qua e là, sulle braccia,
sul dorso e le spalle, calci alle gambe,

sangue dal naso che forse si è rotto.
Allora si difende, colpisce a caso,
rabbioso come un cane rabbioso,

e ogni tanto si preme con la mano
sul petto, a tastare il passaporto
che non cada, meglio morto

che senza documenti…Loro attenti
a colpire dove fa più male,
sono in quattro e lo pestano duro,

uno lo prende e lo sbatte contro il muro,
e gli picchia la testa, brutta bestia
gli grida, ti ammazzo! E poi

cazzo! Non vi vogliamo qui,
ladri ruffiani, ti diamo una lezione
così impari, coglione, sparisci,

torna in Romania, e via! Via!

VI

Tarcisius scivola sul marciapiede, è lì,
sdraiato: non ha più fiato, o voce,
insanguinato, non vede niente,

non vede loro che se la danno a gambe,
ridendo, che lezione!, lasciano la stazione
di corsa, raggiungono le moto

parcheggiate lì sotto, salgono in sella,
ma prima di partire uno sventola qualcosa:
gli ho preso questo! Almeno che si sappia

come si chiama, che nome da befana,
che foto da bravo ragazzino; ha sedici anni,
ridono, un bambino lontano dalla mamma…

Motori al massimo, e partono rombando.
Da un gran silenzio le strade sono invase,
le case indifferenti, la gente dorme.

Loro veloci, con l’aria fresca in faccia,
per una strada che avanza
tra i primi prati primaverili,

e sopra un cielo bruciante, senza un brivido:
corrono fieri e vincenti, piccoli dei
degli inferi, i nuovi combattenti

di chissà quale onore. Ma sul sesto binario
è rimasto qualcosa che assomiglia
a un cadavere con la faccia in poltiglia:

ha una mano sul petto, sbucciata,
che tra cuore e camicia nascondeva una cosa
importante, preziosa.

Più in là, in un campo spellato di periferia,
l’hanno gettato via, tra i sacchi di rifiuti,
il passaporto aperto con la foto e il suo nome:

Tarcisius, in questo sole che crudele
inizia a splendere, già addolcito
da un po’ d’aria di mare.

 

In Bloc Notes n.59, giugno 2010 e in Omaggi, Einaudi, Torino 2017.

 

POESIE

UN DIVERSO LONTANO

Dove saremo, caro, dove saremo
quando non ci saremo
più?
In qualche pensiero che abbiamo pensato
di noi, in una carezza sospesa
a mezza mano:
e in questa attesa
di un poi, di un diverso lontano.

***

Se ti tocco i capelli
è per trattenerti nel tuo corpo,
nei tuoi confini stretti
di pelle, sotto le dita
che mi tremano.
Vorrei fermarti ancora:
in questo preciso momento,
con questo gesto che implora.

***

E’ nel tuo silenzio che mi ascolto,
nel tuo raccolto tacere; voce di allora
ricomposta a memoria. E’ nel tuo non esserci
che io ci sono; e sfogo i miei minuti,
i mesi, e prego che tu sia – ancora,
e ancora – in qualche luogo, e sappia
pronunciare il mio nome, ripeta a chissà chi
la nostra storia, e chissà come.

***

Una cosa mi avevi promesso:
che ci avresti difese anche dopo.
Che saremmo rimaste lo scopo
di ogni tuo pensiero inespresso
e celeste, di qualsiasi preghiera.
Invece, quanto buio e silenzio, la sera.

***

Dire a loro che non c’eri più,
che non ti avrebbero più rivisto,
questo è stato terribile. Non solo il tuo
già temuto non vivere, non essere
visibile: che al tuo nome chiamato rispondesse
il silenzio. Sapevamo che sarebbe successo;
non l’ adesso, il dove e come.
Ma dirlo, spiegarlo, dare un senso
al dolore. La più grande incapace
di muoversi, e la piccola
«lo portiamo da un bravo dottore».

***

Sei venuto ieri sera a trovare le bambine
e le hai viste così tanto cresciute,
senza te così tanto cresciute che una
è quasi donna. E allora cerca nei loro sonni
di riscoprirle, recuperando compleanni
e natali, le canzoni che non hai ascoltato.
Assomigliano sempre di più ai loro nomi,
che insieme abbiamo scelto
(la prima fatta d’aria, l’altra di selva):
hanno il tuo modo di sbattere gli occhi
di corrugare la fronte. Guardale
dalla porta come facevamo prima,
attenti a non svegliarle. Entra nei sogni
che hanno, e poi rimani lì,
nel loro respiro che non se ne accorge.

***

Liberi dalla terra e da Dio,
dove non c’è nuvola o vapore
e l’aria è aria solo perché vuota
e la tua voce è quella di mia madre
morta, ed è la mia: dove saremo
per sempre, mi hai promesso, senza
riconoscerci e sapere di noi; senza toccarci
le mani che non avremo più. Privi di memoria
delle nostre parole, privi di storia, in una ruota
di tempo non tempo; l’ adesso
sarà ieri: sarà dopodomani.

***

Buongiorno – mia essenzialità.
Mia notte fatta luce,
voce che mi traduce.
E densità.
Con te (per te), ritorno.

***

L’arte di non trattenere è da imparare,
come quella di stare zitti, e soli:
quella di ricordare i minuti buoni,
le buone parole – senza volerle possedere
per sempre. L’arte di accontentarsi
di poco amore, di vivere l’assenza:
è da imparare.
Se un debole fuoco può bastare alla notte,
il silenzio deve farsi presenza.

***

Ti intuivo nel buio
della camera sterile:
la mascherina i guanti
e te già persa nel sonno più duro,
pelle squamata labbra arse,
capelli che stentavano a spuntare;
ti pulivo, ti incremavo le piaghe
come a Cristo Maria per mantenerti viva.
Picchiavo il muro, la porta
se mi chiamavi mamma
dicendomi di non andare via,
e io a te lo stesso, come fossimo
un’eco, mia mamma mia bambina,
bellissima e cattiva che mi sei morta.

 

In  Un diverso lontano, Manni , Lecce 2003

POESIE

UN GIORNO IN CUI NULLA ACCADRA’

Non sanno come rifiutare, gli oggetti; dire di no
alle pretese indelicate di noi che li afferriamo, li consumiamo
senza ringraziare, senza scusarci, abusandoli.
La sedia (ad esempio) ci sopporta, materna accoglie
la nostra stanchezza, non si lamenta del peso
impassibile sorretto. Coi piedi strusciamo
i suoi piedi, dondolandoci, e lei rimane solida
paziente, fedele al posto in cui viene abbandonata
quando – stanchi di fissità – decidiamo di alzarci, andiamo via,
ingrati. Ci seguirà con il suo sguardo cieco,
col suo pensiero immobile, sottomessa
al destino che le spetta: per cui è stata
costruita. Prona alla nostra padronanza
presuntuosa e indifferente.

*

In cucina sta il tavolo, sgombro o apparecchiato,
agghindato per le feste in famiglia, lercio
di briciole macchie di vino avanzi di cibo
dopo notturne bravate di commensali
allegri: ma stabile tollerante ospitale,
disposto a fare da paciere nei litigi,
a glissare su bugie, su tradimenti. Ci si sono
appoggiati gomiti di uomini piangenti,
di spose che aspettavano trepide un ritorno
pentito; mani unte di operai, volumi spalancati
su lezioni da imparare, ricevute cambiali telegrammi
biglietti d’addio… Più antico degli avi di casa,
encomiabile modello di dedizione e ascolto.

*

Sul tavolo le chiavi, che ci portiamo dietro
nelle borse, o in tasca, tutto il giorno:
garanzia di ritorno e accoglienza,
nostro apriti sesamo scongiuro, ancora di salvezza,
certezza della porta che ci aspetta e si aprirà,
docile balia, approdo, mettendoci al sicuro
dal fuori tenebroso. Chiavi di serrature
blindate perché non ci fidiamo, temiamo
sfondamenti violenze ruberie: vorremmo catenacci,
fili spinati, allarmi, ronde notturne,
e brandiamo le chiavi come armi, freddo metallo
dentato, in difesa di noi e del possesso.

*

I libri amici aspettano di essere riaperti, sorpresi
con tremore da chi riconoscente li ha imparati, sfruttandone
le righe, gli affettuosi tormentanti insegnamenti. Stretti vicini,
si sostengono sugli scaffali, offrono titoli incisi sul dorso
allo sguardo curioso che li interroga, e cataloga ordinato
nel pensiero, ritrovando entusiasmi di memoria. Uno a caso
è sottratto all’esercito uniforme, indagato nei segni a matita,
nelle pagine sgualcite, a spiare una traccia intuita e poi
persa, stupidamente dimenticata. Ecco la frase, il verso,
la parola: punge il mattino, consola la notte irriducibile
al sonno, fa compagnia al silenzio. Non sa tradire, un libro;
rimane – identico a se stesso, disponibile, discreto.

*

Il fuori che ci è dentro alimenta pensieri e nostalgie,
la voglia di tornare a quello che non siamo: attraverso
i vetri trasparenti invadono la stanza i colori del giardino,
le luci dei fari, visi lontani dei lontani vicini. Li guardiamo
stupiti, spettatori a cui è permesso di osservare
senza eccessivi coinvolgimenti. Ci difende, la finestra,
ci ripara dal troppo dell’esterno, dalle incaute sofferenze
di chi senza volerlo è testimone; eppure, con cautela,
possiamo dichiararci partecipi, affacciati in fratellanza
all’accadere altrui, al quotidiano esserci del mondo.
Restiamo nelle nostre cucine, nelle camere da letto, al riparo
da moleste invasioni, e scrutiamo con attento riserbo
dolori e gioie che non ci appartengono.

In Elegie del risveglio, Sigismundus, Ascoli Piceno 2016 e Nualla Die, Piazza Armerina 2022