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RECENSIONI

POP

IOAN ES. POP, UN GIORNO CI SVEGLIAMO VIVI – VALIGIE ROSSE, LIVORNO 2016

La Romania è terra di poeti: due tra i maggiori del ‘900, Paul Celan e Nina Cassian, vi sono nati e ne sono stati presto esiliati. Terra di grandi sofferenze e povertà, anche, e di turbinose, tragiche vicende politiche. In una cittadina dell’estremo nord della Transilvania è nato nel 1958 il poeta Ioan Es. Pop, trasferitosi poi a Bucarest nel 1989, nell’anno della fine della dittatura ceauşista. Operaio non qualificato nonostante la laurea in lettere, vissuto per anni in situazioni di estrema precarietà economica, ha nutrito la sua scrittura di desolate biografie collettive “dal sottosuolo”, sullo sfondo di un paesaggio urbano avvilente e dimesso. Poesie pluripremiate e tradotte, le sue, di cui oggi l’editore Valigie Rosse offre una stimolante antologia.

L’umanità raccontata da Pop è composta da derelitti, persone svuotate di qualsiasi identità e prive di prospettive, funamboli sospesi in uno spazio sgombro di passato e di futuro, il cui unico presente è rappresentato dall’abbrutimento della fatica, della miseria, dell’alcol sanitario allungato con acqua. Hanno anche dei nomi, queste larve di uomini da lui descritti (Mircea, Hansi, Sebastian, Zoli), ma sono in realtà manichini privi di anima, ombre intercambiabili accomunate solo dallo sfruttamento e dalla povertà: «sempre me ne vado in giro come avvolto in qualcun altro», «qui la vita si beve e la morte si dimentica», «non conta più nulla se io sono io o io», «per cosa dovrei svegliarmi e con cosa rimarrei / se mi svegliassi del tutto».

C’è più abbandono che solitudine, più rassegnazione che rabbia, in questo Lumpenproletariat narrato da Pop; nessuna rivendicazione sociale o politica, nessuna attività fisica, lavorativa, amatoria, nell’apatia totale determinata dall’assenza di speranze e di obiettivi: «so che domani non sarà altro domani che / il solito oggi e oggi e oggi e oggi tutto il tempo / e oggi per oggi non si può fare granché». Nemmeno la parola può salvare, e infatti esce da questi versi smozzicata, balbettante, iterata in cantilene infantili, incapace di effettiva comunicazione: non c’è bestemmia né imprecazione «nel vicolo cieco del nostro parlare», solo la pura constatazione di un’infelicità senza desideri, ridotta ad articolarsi in interiezioni elementari: «mircea ha detto eh! e tutti hanno detto eh! io ho detto eh!». Si abita in condomini fatiscenti, in stanze murate metafora dell’incomunicabilità col mondo esterno, prive di porte e finestre («invano ti affannerai a cercare l’uscita l’entrata l’uscita»), con pareti grattate dalle unghie come nelle carceri, e stufe che fanno più fumo che fuoco. Perché uscire dall’inferno, allora, se fuori c’è solo «sterpaglie e acqua», fango e pozzanghere, topi e malattie, neanche mezzo autobus che passi, e nemmeno un dio che prometta riscatto o pietà? «Nessuno avrà tanto niente come noi».

Il volume, il cui titolo appare disperatamente ironico e profetico (Un giorno ci svegliamo vivi), con traduzione e postfazione di Clara Mitola, è introdotto da un’empatica presentazione di Andrea Inglese.

 

«Poesia» n. 327, giugno 2017

 

RECENSIONI

PORTANTE

JEAN PORTANTE, VOGLIO DIRE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Inconsueta questa prova letteraria di Jean Portante proposta dalle edizioni La Vita Felice: l’autore, nato nel 1950 in un villaggio minerario del Lussemburgo, figlio di emigranti italiani, e vissuto nella condizione sradicata e arricchente del trilinguismo, offre qui ai suoi lettori cinquanta prose poetiche, in uno stile pianamente narrativo che tuttavia vibra dei soprassalti emotivi e lirici della più pura poesia. Presentate con testo francese a fronte, e con partecipi note critiche di Gabriela Fantato e Elio Pecora, queste composizioni hanno la labirintica temerarietà di una sfida visionaria al placido e composto senso comune di chi legge graniticamente, sospettoso di ogni coinvolgimento, timoroso di qualsiasi spiazzamento logico. In quasi ognuna di queste pagine ricorre la perifrasi «voglio dire», con l’intento dichiarato, ma poi non mantenuto, di esemplificare i concetti esposti, di spiegare e chiarire le immagini e le metafore: «Queste parole preferisco tacerle. / Se sono cadute con L’ULTIMA PIOGGIA è quasi come. / Da quattro mesi le aspettavo: voglio dire: aspettare è un modo di parlare: voglio dire: quel che aspettavo era il solco che di lassù chiamava prendendo il corpo delle nuvole per imitare la voce dell’umidità».

In realtà, dopo i due punti (che sono il segno di interpunzione più frequente), e dopo la ribadita volontà di dire, i sentieri polisemantici del discorso si infittiscono e accavallano, lo stile si fa più ansioso e quasi spaventato, nel tentativo di districare un pensiero sempre più intorbidito, confuso: «Voglio dire: quando la farina finisce non comincia necessariamente a mancare il pane dell’oscurità», «Voglio dire: a questo falso inizio che vuole e non vuole che tutto questo sia un fiume». Situazioni e azioni si presentano in una loro indifferente antinomia («Potrei abbassare lo sguardo o sollevarlo», «Tutto è vero e tutto è falso su queste cordate che portano alle parole intime»), in un relativismo ostentato e continuamente sottolineato da i “se”, “forse”, “chissà”, “supponiamo”. Perdura intorno, nelle cose e nelle parole, una sorta di mistero, di enigma che rende indecifrabile il procedere del tempo e dei gesti, sia di quelli quotidiani e minuti, sia di quelli ciclici e universali: e in continuazione il poeta passa dalla descrizione di fatti e sensazioni minime a meditazioni filosofiche più totalizzanti. In particolare la sua riflessione sembra ipnotizzata dallo scorrere devastante delle ere, dal trasformarsi perpetuo degli elementi, dal buio in cui si perde l’origine del cosmo. E di fronte agli interrogativi primordiali, mette in atto una sospensione del giudizio, arretra, sembra intimorito: allora, la sua richiesta di chiarezza, di svelamento, non è rivolta solo a se stesso, ma anche a un “tu” insieme nascosto e dichiarato, a cui ricorre cercando un supporto non solo sentimentale, bensì più propriamente esistenziale, che però non arriva a salvare, a mettere al sicuro: «Tu sollevavi lo sguardo ma dentro tutto si nascondeva». Il rapporto con l’amata ha le stigmate della casualità e di una sostanziale incomunicabilità, come di un ingranaggio fortuito destinato a incepparsi nello scorrere rigoroso e immutabile dei giorni. Se Elio Pecora nella sua appassionata postfazione individua il carattere fondamentale del libro in una specie di «diario amoroso, fitto di ammissioni e di sconfessioni, di estenuanti rivisitazioni e di stremanti addii», in realtà la cifra peculiare di queste composizioni sembra essere maggiormente quella del turbamento, non solamente affettivo, ma culturale: una specie di corpo a corpo con le ultime scoperte dell’astronomia, della fisica quantistica. «L’innocenza genetica», «gli assi elementari del sistema», «la meteorite dell’inizio», «la polvere cosmica» hanno agli occhi dell’autore la stessa, inspiegabile, impenetrabilità dei gesti d’amore: «Nessuna condensazione all’orizzonte tranne quella che segretamente faccio scivolare nella tua tasca», «voglio dire: quando il legame tra gli elementi mi sfugge faccio appello a questa seconda vita che non ci è dovuta». La banalità di un movimento qualsiasi assurge allora al più inquietante interrogativo filosofico, espresso sempre con l’intelligente mimesi del parlato: con le sue esitazioni, le ripetizioni, le incongruenze, le associazioni inconsce che qua e là creano però nel lettore il sospetto di un eccesso quasi manieristico di bravura, di uno sfoggio non sempre necessario di originalità.

 

«incroci on line»,  4 gennaio 2014

RECENSIONI

PORTELLI

ALESSANDRO PORTELLI, IL GINOCCHIO SUL COLLO – DONZELLI, ROMA 2020

“I can’t breathe. I can’t breathe”: non posso respirare, ripetuto undici volte dall’afroamericano George Floyd, il 25 maggio 2020 a Minneapolis, mentre l’agente di polizia Derek Chauvin lo teneva per otto minuti bloccato a terra con un ginocchio sul collo. Alessandro Portelli ricostruisce quel tragico episodio e il movimento di protesta di massa che ne è seguito, inserendoli all’interno dell’ininterrotta sequenza di violenze praticata dalla polizia americana negli ultimi decenni, per risalire poi al racconto delle discriminazioni razziali e delle disparità sociali che hanno segnato la storia secolare degli Stati Uniti. Lo fa utilizzando materiali letterari e cinematografici, canzoni di protesta, cronache giornalistiche e giudiziarie, con riferimenti anche all’attualità italiana e al dibattito internazionale sulla cancel culture. Portelli (Roma, 1942), critico musicale, storico e anglista, ha dedicato molti saggi alla letteratura afroamericana e alle tradizioni popolari orali: è stato professore ordinario di letteratura angloamericana all’Università “La Sapienza” di Roma, e dagli anni ’70 scrive su Il Manifesto.  Il ginocchio sul collo non è il suo libro più recente (sono usciti altri volumi in italiano e inglese, tra cui il fondamentale We shall not be moved. Voci e musiche dagli Stati Uniti (1969-2018), con 4 CD-Audio), ma senz’altro rappresenta una testimonianza appassionata dell’impegno culturale e politico dell’autore contro ogni violenza di stato. Facendo riferimento all’omicidio di Floyd, scrive: “C’è qualcosa di mitologico nell’immagine del poliziotto col ginocchio piantato sul collo di George Floyd: san Giorgio che calpesta il drago sconfitto, la divinità purissima che schiaccia il serpente, il cacciatore bianco sull’elefante ucciso in safari. Sono figure della vittoria della virtù sulla bestia, della civiltà sul mondo selvaggio… E del bianco sul nero. Ma in questa immagine il senso si capovolge: l’animale è quello che sta sopra e calpesta, e la vittima calpestata è quella che invoca il più umano e insieme il più simbolico dei diritti: il respiro”.

L’assassinio di George Floyd ha scoperchiato un intreccio di contraddizioni e ingiustizie sedimentate nel tempo, provocando la reazione dei moltissimi uomini e donne di ogni età, neri, bianchi, ispanici “senza parola e senza rappresentanza”, che finalmente hanno urlato la loro rabbia di fronte alla disuguaglianza crescente, alla precarietà, allo svuotamento della democrazia e alla violenza poliziesca diffusa, che solo nel 2020 ha causato più di due uccisi al giorno. Le imponenti manifestazioni che ne sono derivate, protrattesi per mesi, hanno coinvolto milioni di persone, suscitando reazioni solidali e allarmate nell’opinione pubblica mondiale (soprattutto tra i giovani e i militanti per i diritti civili), e interventi legislativi mirati a correggere lo strapotere repressivo, esercitato militarmente, dei corpi di polizia. Davanti all’ingiustizia di tante morti di afroamericani, impressiona rileggere le parole di Huckleberry Finn riportate in epigrafe del libro: “S’è fatto male qualcuno?”. “Nossignora. È morto un negro”, a ribadire che black lives don’t matter.

Il volume segue coerentemente la traccia della denuncia etica e politica, sia negli interventi di taglio più spiccatamente giornalistico e di cronaca, sia nelle documentazioni raccolte dall’autore nei suoi frequentissimi viaggi in America, per risalire infine alla ricostruzione storica degli ultimi due secoli di sopraffazione della civiltà occidentale bianca sulle minoranze e le popolazioni più povere.  Tre sono le vicende esemplari recuperate dal passato, in cui dominio e repressione dei bianchi si sono scontrate con la violenza delle rivolte nere: la ribellione degli schiavi a Charleston nel 1822, la sommossa ad Harlem nel 1943, i disordini esplosi nel ghetto di Los Angeles nel 1992. Alessandro Portelli narra questi episodi con la vivacità e la partecipazione emotiva del romanziere più che del distaccato saggista, interrogandosi sulla discrepanza tra l’intensità e la complessità dalle proteste e “l’inossidabile capacità della cultura dominante di non sentire, non vedere, non capire”.

Dal 2013 al 2020 le persone uccise dalla polizia negli Stati Uniti sono state 8264, per il 28% afroamericane, ma molto più numerosi sono state le vittime tra i nativi indiani; vengono uccisi individui considerati “sospetti” in termini di colore, di classe, di genere: si tratta quasi sempre di indigenti ritenuti potenziali criminali, a volte trovati in possesso di armi improprie, a volte valutati come ostili o provocatori. Il pregiudizio razziale è comunque prevalente, e l’elenco degli ammazzati fornito da Portelli, con le circostanze che hanno condotto alla loro eliminazione, è impressionante. Bruce Springsteen ha ammesso in un’intervista: “Incombe ancora su di noi, generazione dopo generazione, il fantasma della schiavitù, il nostro peccato originale e il dilemma irrisolto della società americana”.

Perché i poliziotti sparano in maniera indiscriminata e ingiustificata, contro obiettivi di solito indifesi? Tra le cause elencate da Portelli sono da considerare il disprezzo per il diverso, la certezza dell’impunità (nel 99% dei casi non c’è stata nessuna sanzione nei confronti degli agenti responsabili), lo spirito di corpo, l’incompetenza e la paura. Anche le forze dell’ordine europee e italiane non sono esenti da tali responsabilità, e vengono citati come esempi i nomi di Aldrovandi, Cucchi, Magherini, Sandri…

Il terzo capitolo del libro, polemicamente appassionato, si intitola “Uomini di marmo”, e affronta il discusso argomento della cancel culture e dell’abbattimento delle statue erette in onore di discutibili personaggi storici, che si sono macchiati di crimini contro gruppi di etnie diverse. Negli States sono centinaia i monumenti, le targhe commemorative, le cerimonie e i titoli onorifici celebranti non solo gerarchi e militari sudisti, politici schiavisti, intellettuali che hanno legittimato il razzismo, ma addirittura membri e fiancheggiatori del Ku-Klux Klan, tutti uomini e tutti osannati molti anni dopo la morte, mentre nessun monumento è stato eretto in memoria delle migliaia di neri e nativi sacrificati nelle guerre nazionali e cittadine, pubbliche e private.

Portelli sottolinea con veemenza che “un monumento esiste perché qualcuno l’ha eretto, e l’ha eretto in qualche momento e con qualche intenzione: è un messaggio, un segno di quelle intenzioni… le statue, lungi dallo svolgere una funzione di memoria storica, congelano la storia in un passato monumentale spesso falsificato e negano tutta la storia che è venuta dopo… sono segni intenzionali con cui il potere presente afferma il proprio diritto di definire il significato del tempo storico e dello spazio pubblico”.

La lunga querelle riguardante la distruzione di sculture commemorative intitolate ai conquistatori ha una sua ragion d’essere: se è vero che Cristoforo Colombo appartiene all’immaginario collettivo degli italiani, alimentato da affetto e orgoglio, è anche indubbio che la colonizzazione dei territori americani ha comportato stragi, usurpazioni, oltraggi. Per rimediare all’ingiusta e colpevole parzialità delle varie rappresentazioni culturali (in marmo, carta, pellicole) non esiste solo la soluzione dell’abbattimento: tra iconoclastia e celebrazione si possono individuare altri percorsi di risignificazione, di commento chiarificatore, di accompagnamento critico. Senza aspettare che la polvere del tempo ricopra le testimonianze fallaci e che le statue celebrative si sgretolino da sole.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», I gennaio 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

POZZI

GIOVANNI POZZI, TACET – ADELPHI, MILANO 2013

L’essere umano «è un’entità fatalmente duale, maschile e femminile, corporeo e spirituale, io e tu». Così affermava in un suo scritto del 2001, ora ripubblicato da Adelphi, Padre Giovanni Pozzi, illustre letterato e monaco ticinese, studioso di testi sacri e mistici. Ma al colloquio, al rumore, al confronto polemico, a tutto ciò che porta a confondersi nel pubblico, spesso è da preferire l’isolamento e il tacito raccoglimento. Quindi al silenzio, alla solitudine, alla contemplazione sono dedicati questi brevi e intensi contributi meditativi, che richiamano severamente il lettore alla necessità di «sottrarsi alla banalità quotidiana», nella ricerca di uno spazio interiore che sappia aprirsi alla riflessione, fuggendo il caos del molteplice «nell’anelito di giungere all’inseparabile». I «solitari in Dio» (gli eremiti, gli stilisti, i dendriti…) hanno cercato l’assoluto nella mortificazione sessuale, nel digiuno, nel deserto, convinti che nel rifiuto del mondo si celasse la risposta alla loro ansia spirituale. I monaci trovano nell’isolamento delle loro celle il rifugio dall’inquietudine e dal turbamento («pax in cella, foris bella»), convinti che non si sale a Dio solo attraverso la scala di Giacobbe, ma anche scendendo nella tomba di se stessi. E quindi immergendosi nel silenzio, che è rinuncia all’imposizione di sé e insieme capacità di ascoltare e conservare la parola altrui. Parola che risulta tanto più preziosa e apprezzabile quando si presenta silenziosamente in un libro letto: «Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace». Conquistare un silenzio che sappia farsi memoria, preghiera, contemplazione, in un itinerario dal buio alla luce: questa è la proposta di salvezza di Giovanni Pozzi.

«Accademia del Silenzio», 10 dicembre 2013

RECENSIONI

POZZI

ANTONIA POZZI, MIA VITA CARA – INTERNOPOESIA, LATIANO (BR) 2019

A partire dalla fine degli anni ’80 si sono intensificati studi, convegni, edizioni degli scritti di Antonia Pozzi (Milano, 1912-1938), quasi a voler risarcire il silenzio, l’indifferenza e le censure seguite alla sua tragica fine. I critici ne hanno spesso interpretato tendenziosamente sia l’opera sia la biografia, chi facendone un vessillo di indipendenza femminista, chi decantandone l’ansia di assoluto e di ricerca spirituale. Le sue più importanti commentatrici, Alessandra Cenni e Onorina Dino, le hanno attribuito caratteristiche opposte: la prima una fisicità disinibita e ardente, la seconda un fiero anticonformismo, animato però da una castità misticheggiante.
Coesistevano probabilmente entrambi gli aspetti, nel temperamento e nella produzione letteraria di Antonia, come si può dedurre dalle sue lettere e dai versi, amorosamente appassionati e insieme nobilmente ascetici:
“Guardami: sono nuda. // … Vedi come incavato ho il ventre. // … Oggi, m’ inarco nuda, nel nitore / del bagno bianco e m’ inarcherò nuda / domani sopra un letto, se qualcuno / mi prenderà”, “Io non devo scordare / che il cielo / fu in me”, “Afferrami alla vita, / uomo. Passa la nebbia / e lambe e sperde l’incubo mio folle”, “A tratti le parole si frangevano / in sfumature lunghe di silenzio / e all’anima sembrava di vibrare / nuda nel vento e di sfiorare Dio”, “Ciascuno la propria tristezza / se la compra dove vuole”, “Ma io ardevo / dal desiderio di scattare fuori, / nell’invadente sole…”, “Signore, per tutto il mio pianto, / ridammi una stilla di Te / ch’io riviva”.
Da un lato l’ostilità verso il “velenoso mondo”, dall’altro la brama di aderirvi anche sensualmente.
Poetessa sensibile e raffinata, studiosa di filosofia e di letteratura, appassionata fotografa, nella sua breve vita intrecciò amicizie importanti con Vittorio Sereni, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni, seguendo all’Università Statale le lezioni di Vincenzo Errante e di Antonio Banfi, con cui si laureò discutendo una tesi su Gustave Flaubert.
Antonia proveniva da una stimata e ricca famiglia milanese (suo padre, Roberto Pozzi, era un noto avvocato, podestà in epoca fascista; la madre, contessa Lina Cavagna Sangiuliani, era nipote dello scrittore risorgimentale Tommaso Grossi); trascorse i suoi pochi anni tra il palazzo liberty di via Mascheroni 23 e una villa settecentesca a Pasturo, ai piedi delle Grigne, in provincia di Lecco, dove amava rifugiarsi per dedicarsi alla scrittura. Dopo un’infanzia e un’adolescenza protette e serene, vissute tra attività sportive (bicicletta e alpinismo), viaggi all’estero e studi di lingue straniere, negli ultimi anni di frequenza al Liceo Classico Manzoni aveva intrecciato con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione molto osteggiata e poi interrotta nel 1933 per il severo intervento dei suoi genitori. Si uccise a ventisei anni nel prato dell’abbazia di Chiaravalle, e il suicidio venne fatto passare dai parenti per polmonite; il padre distrusse il suo testamento e arrivò ad alterare le poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite, eliminandone i riferimenti affettivi più espliciti.
Antonia fu sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo, i suoi scritti e la stessa casa di vacanza furono ceduti alle Suore del Preziosissimo Sangue di Monza: fu Madre Onorina Dono che con perizia filologica creò un archivio dei manoscritti (con tutte le poesie, i diari, l’epistolario, la tesi di laurea, le fotografie), ceduto poi all’Università dell’Insubria.
Molto si è scritto soprattutto sul suicidio di Antonia Pozzi, che alcuni attribuirono a una cocente delusione sentimentale (dopo l’amore infelice per il suo insegnante Antonio Maria Cervi, patì il doloroso rifiuto del filosofo Dino Formaggio), ma anche il cupo clima politico italiano ed europeo di quegli anni, e le leggi razziali del 1938 che avevano colpito alcuni dei suoi amici più cari, contribuirono ad acuire il suo disagio esistenziale. “Forse l’età delle parole è finita per sempre”, aveva scritto quell’anno a Vittorio Sereni.
L’italianista Maria Corti, che la conobbe all’università, disse che “il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull’orlo degli abissi. Era un’ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava più dei suoi simili”.
Così infatti aveva scritto nel suo biglietto d’addio per i familiari: “Papà e mamma carissimi, non mai tanto cari come oggi, voi dovete pensare che questo è il meglio. Ho tanto sofferto… Ciò che mi è mancato è stato un affetto fermo, costante, fedele, che diventasse lo scopo e riempisse tutta la mia vita… Fa parte di questa disperazione mortale anche la crudele oppressione che si esercita sulle nostre giovinezze sfiorite… Desidero di essere sepolta a Pasturo, sotto un masso della Grigna, fra cespi di rododendro. Mi ritroverete in tutti i fossi che ho tanto amato. E non piangete, perché ora io sono in pace. La vostra Antonia”.
La scelta di finire i suoi giorni sdraiata in un prato era stata adombrata in molti versi giovanili: “Poi restare, a notte, / stesa nel prato, con le vene vuote: / le stelle ‒ a lapidare imbestialite / la mia carne disseccata, morta”, “O lasciate lasciate ch’io mi perda / ombra nell’ombra ‒ / gli occhi / due coppe alzate / verso l’ultima luce”.
La giovane casa editrice InternoPoesia ha da poco pubblicato Mia vita cara. Cento poesie di amore e di silenzio, a cura di Elisa Ruotolo, selezionando le liriche in ordine di composizione, dal 1929 al 1938. Vi sono raccolte le più note ed emblematiche, con la prevalenza di temi sentimentali, dedicate a A.M.C. (dolce mio bene, mio dolce amico, fonte della vita, anima buona) o a un altro amore, più sognato che vissuto: e sono pagine commoventi e accorate, in cui il desiderio di fusione e completa dedizione all’amato si confonde con l’acuta necessità di sentirsi protetta, abbracciata, difesa dai propri incubi.
“Ma vieni: camminiamo: anche l’ignoto / non mi spaventa, se ti son vicina”, “Io vorrei, per te, essere la terra / tepida e molle, che attutisce l’urto”, “Dammi la mano, amore. Attraversiamo / l’ombra di questa porta”, “Accettami così, ti prego. Prendimi / così come ora sono. Non mi chiedere / di più. Sei forte: sii pietoso. Tendimi / la tua mano tenace; fammi credere alla vita”, “Tu sei tornato in me / come la voce / d’uno che giunge, / ch’empie a un tratto la stanza, / quando è già sera”, “Ti do me stessa, / le mie notti insonni, / i lunghi sorsi / di cielo e stelle”, “Non tu, / ma le tue mani giovani / dicono alle mie mani, / a me: Come siete / vecchie”.
Un primo consistente nucleo di versi, scritti negli anni adolescenziali, risente dell’atmosfera crepuscolare, sia nel ricordo di un’infanzia già segnata da una sensibilità ferita, sia nel vagheggiamento di una natura intatta, materna, rasserenante (le montagne, i laghi, i prati fioriti).
Più mature e malinconicamente rassegnate, diverse poesie alludono a un bambino mai nato, e che mai vedrà la luce, nella consapevolezza di una maternità fortemente desiderata ma negata dalle circostanze: “Oh bimbo, bimbo mio non nato, / la tua mamma non sa / che viso avrai”, “Questo è il mio bambino / ‒ vedi ‒ / il mio bambino / finto”, “E perciò il nostro bimbo / unico / sarà quello / che noi sognammo / nei mattini di giugno”, “ma tremo / come una mamma piccola giovane / che perfino arrossisce / se un passante le dice / che il suo bambino è bello”.
Solo la poesia riesce a trasfigurare una realtà che si esibisce aggressiva e ingiusta, e nella poesia Antonia crede come viatico e benedizione. In una lettera aveva scritto: “La poesia ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci rimbalza nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella celeste vastità del mare”.
La vita troppo amata non si fa perdonare quando tradisce le aspettative: “Per troppa vita che ho nel sangue / tremo / nel vasto inverno”. Eppure, è amata comunque, regalo riconosciuto persino quando la si abbandona: “oh, per averti sognata, / mia vita cara, / benedico i giorni che restano”.
Per accomiatarci dalla figura e dai versi di Antonia Pozzi, mi piace trascrivere quella che ritengo la più intensamente evocativa tra le sue composizioni, Confidare: “Ho tanta fede in te. Mi sembra / che saprei aspettare la tua voce / in silenzio, per secoli / di oscurità. / Tu sai tutti i segreti, / come il sole: / potresti far fiorire / i gerani e la zàgara selvaggia / sul fondo delle cave / di pietra, delle prigioni / leggendarie. / Ho tanta fede in te. Son quieta / come l’arabo avvolto / nel barracano bianco, / che ascolta Dio maturargli / l’orzo intorno alla casa”.

 

© Riproduzione riservata                         «Il Pickwick», 30 maggio 2019

 

RECENSIONI

PRETE

ANTONIO PRETE, TUTTO È SEMPRE ORA – EINAUDI, TORINO, 2019

Delle cinque sezioni che compongono il volume einaudiano di Antonio Prete, Tutto è sempre ora, l’ultima presenta tredici passaggi narrativi dedicati al tema dell’apparenza. In queste brevi “prose d’inverno”, come le definisce l’autore (alludendo non solo al periodo stagionale, bensì anche al silenzio, al freddo, al biancore dell’età senile), ciò che si mostra fugacemente al pensiero si oppone alla concretezza del reale rischiarandolo di una luce nuova, incorporea e trascendente. Così, a partire da un contesto fisicamente tangibile (un tavolo, una finestra, una strada), si affacciano visioni leggere e impalpabili (nuvole, visi di donna, stelle, musiche) che conducono chi scrive in uno “stato di sospensione” arioso e armonioso, in cui “tutto quel che appare è come un simulacro di qualcosa che sta altrove, sotto un’altra forma, in un’altra materia, in un altro tempo”.

Ecco, il tempo è forse il leitmotiv principale che deve accompagnare il lettore alla scoperta di questo libro composito, in cui si intrecciano versi in lingua italiana e in dialetto salentino, descrizioni paesaggistiche e meditazioni filosofiche, ricordi personali e letterari, recuperi sottintesi ed eredità palesi di poeti classici e contemporanei: tutto reso eterno e insieme fuggevole dallo scandire le ore di un’impietosa clessidra, cosmica e mentale. Il tempo, già implicito nel titolo eliotiano, riporta passato e futuro a un adesso in cui ogni elemento si fonde e trova una sua giustificazione: “L’inizio, i fuochi e le pietre stellari / dell’inizio, la fiumana di tempo / fatta conchiglia, deserto, montagna, / le voci d’animali nelle selve, / tutto è sempre ora”, “tempo qui raccolto nell’angustia / dell’accaduto // disperso / nei miraggi”, “E camminano i morti lungo le rive / deserte di tempo”, “Il tempo che è cammino e apparizione. / Pulsazione di radice, / vertigine / di millenni. / Il tempo che è solco / di conchiglia e fuga di comete”.

La rarefazione, l’immaterialità, la “perlata trasparenza” in cui cose e persone si trasformano, divenendo quasi evanescenti, è evidente nel riproporsi di alcuni termini: ombra, chimera, piuma, nuvola, sabbia, soffio, profumo. Ma a questa predilezione per l’evanescenza (richiamata dalle figure dei trapassati, dell’angelo, dell’assente, dei fantasmi) si frappone improvvisamente la durezza dell’attualità, dei rumori del mondo, con i suoi soprusi e la sua detestabile ingiustizia. Allora il poeta riscopre una propria voce civile, più vicina comunque alla pietà che all’indignazione, come nei versi dedicati ai migranti morti in mare, alla sofferenza muta degli animali, alle sommosse dei popoli oppressi.

La seduzione della vita brulicante, colorata, vivace persiste nel ricordo dei luoghi abitati o solo visitati: la Puglia amata (Antonio Prete è nato a Copertino nel 1939), la campagna toscana (ha insegnato per molti anni Letteratura comparata all’Università di Siena), o la Milano cosmopolita, la marina ligure, una romantica Venezia vespertina, e altri orizzonti europei o americani: sempre sfondo a qualche profilo umano, talvolta leggiadramente femminile. In questi ritratti geografici ritornano i prediletti elementi naturali e atmosferici (il vento, la luce lunare, il mare, le spiagge, gli ulivi), a testimoniare bellezza e innocenza. Si impone poi la possanza di una visione infantile, la torre sveva del paese natale, cui si accompagnano suoni e danze locali, sorrisi incantatori di ragazze, odori di cibo e di mosto: “E la luce, com’era bianca la luce / fin dentro il cuore della sera”.

Ogni memoria di luoghi e di incontri, di poeti a cui è dovuta gratitudine (John Donne, Eliot, Stevens, Celan, Valente, Jabès…), ogni lampo di ricordo offre rifugio e salva dal nulla cui siamo destinati: “Un esercizio amaro è dare / un nome a quello che è perduto”. Anche il solo nominare regala infatti consistenza a ciò che è esistito, donando un sovrappiù di “grazia, precisione, finezza” alla nostra lingua che si sta stemperando “nell’inerte, nel vago”, e che – come ogni cosa fragile e preziosa – dovrebbe essere preservata con cura e dedizione.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Tutto-e-sempre-ora Prete.html          3 ottobre 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

PRETE

ANTONIO PRETE, DEL SILENZIO – MIMESIS, MILANO-UDINE 2022

In un volumetto pubblicato da Mimesis, il Professor Antonio Prete ha raccolto prose, versi, riflessioni, appunti critici sul fascino misterioso Del silenzio, indagato da poeti, filosofi, pittori e musicisti già a partire dagli albori della cultura occidentale. Antonio Prete – saggista, poeta, narratore, traduttore di classici -, ha insegnato Letterature comparate all’Università di Siena: oggi continua a esercitare la sua competenza di insigne studioso in articoli e recensioni su blog e riviste letterarie.

Le prime pagine del saggio sono dedicate alle varie definizioni attribuite al silenzio, percepito sia ai margini di ciò che cade sotto i sensi, sia nel raccoglimento interiore: “Il silenzio è il legame profondo che unisce in uno stesso respiro l’essere e l’apparire, la forma e la natura”, nel primo incontro con la parola modulata dal carezzevole linguaggio materno, e poi con il suono avvertito attraverso i rumori dell’habitat circostante.

Il silenzio che zittisce le voci disorientanti del proprio tempo diventa esplorazione di sé, meditazione, ascolto: assomiglia al Silentium raccomandato dal monachesimo nel raccoglimento della preghiera e dell’ascesi.

Prete distingue fa tra i due verbi latini tacere e silere, dove il primo sembra alludere a una zona d’ombra, forse al nascondimento di un segreto o a una mancanza di coraggio, mentre il secondo si propone come “un’attitudine interiore, un abito mentale, o anche una ricerca”. È il silenzio luminoso, “non come assenza di parola, ma come esperienza di un’attenzione al visibile, e all’invisibile, che passa dall’ascolto, e non dalla pronuncia, dalla contemplazione e non dalla descrizione, dalla cura interiore dell’immagine e non dalla sua rappresentazione esteriore”.

Pochi pittori sono riusciti, nelle loro tele, a dipingere il silenzio, facendo emergere gli oggetti da una presenza priva di tempo, sulla soglia in cui si manifestano ancora prima del loro apparire concreto: “Cézanne, Morandi: le loro nature morte fanno del silenzio la materia della forma, la linea e il colore e lo spazio della forma. Il rosso delle mele di Cézanne, le linee delle bottiglie di Morandi sono figurazioni silenziose perché non danno presenza al reale ma alla sua enigmatica ombra, non raccontano il visibile ma il suo sfondamento verso l’invisibile”.

La concentrazione mentale e spirituale favorita dalla sospensione della parola vana, del brusio ininterrotto, della comunicazione superficiale, aiuta a riscoprire ciò che rimane nell’al di qua della lingua umana, oltre la corruzione che si attua tra il pensiero e la sua espressione: la quale resta intatta, invece, nella magia della produzione poetica. Al silenzio i poeti hanno infatti dedicato versi memorabili, da Virgilio a Dante, da Foscolo a Leopardi, fino a Hölderlin, Mallarmé, Rilke, Valéry, Jabès.

Quando Hölderlin – il poeta impazzito prigioniero nella torre – scriveva: “Capisco i silenzi dei cieli, / non capisco la parola degli uomini”, indicava la sua scelta della verticalità, di uno sguardo contemplativo verso l’alto. Lo stesso che ha nutrito i versi di Leopardi e Baudelaire, indagati dall’autore negli ultimi due capitoli del libro. Del recanatese si mettono in luce composizioni celebri, che hanno alimentato l’immaginario di generazioni di italiani (L’infinito, La sera del dì di festa, La vita solitaria, Il canto notturno), insieme ad alcune Operette morali. “L’idillio leopardiano L’infinito è silenzio che muove verso la parola e che dalla parola si ritrae quando il pensiero che ha tentato l’estrema sfida – voler dire l’infinito – incontra sé stesso, cioè il suo proprio limite: l’impossibilità di rappresentare l’infinito”. Di Charles Baudelaire si sottolineano i momenti in cui dal silenzio scaturisce il respiro poetico: l’elevazione verso un altrove, il ricordo dell’infanzia, l’immersione nel buio notturno, la visione rapita della figura femminile.

Lo stesso Antonio Prete riconosce nel silenzio la capacità di rendere la sua anima e il suo pensiero più aderenti alla verità, nel momento in cui si incarnano nel ritmo dei versi, o delle prose liriche qui riportate: “amo le forme che non sono, / la loro trasognata trasparenza”. La poesia, infatti, “è lingua abitata dal silenzio. Sopra quel silenzio le vocali e le consonanti sono le acrobate del senso e del suono, della loro congiunzione: la poesia è lingua che non definisce le cose ma mostra, delle cose, il loro respiro, la loro necessità, viventi in un universo che è vivente”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 12 agosto 2022

 

 

RECENSIONI

PRETE

ANTONIO PRETE, CONVITO DELLE STAGIONI – EINAUDI, TORINO 2024

 Come giustamente rileva il commento in quarta di copertina a Convito delle stagioni, ultimo volume di Antonio Prete (Copertino 1939), i due caratteri fondamentali della raccolta sono senza ombra di dubbio la natura e il tempo. La natura contemplata e raccontata in ogni sua espressione, dal cosmo al paesaggio che ci circonda, dal mondo vegetale e animale all’ambiente antropico, sempre riflessi attraverso la lente magica della meditazione metafisica, capace di riassumere in sé sentimenti di stupore, gratitudine, consapevolezza del sublime. Il tempo come mistero che permea l’esistenza degli esseri umani, nello scandire delle ere geologiche, della cronologia storica e della vita privata di ciascuno.

In questo senso, la lezione leopardiana concentrata nei quindici versi dell’Infinito, ha impresso tracce indelebili nella scrittura di Prete, egregio studioso e interprete della poetica del recanatese: il verde del colle e della siepe, il passato e il presente, la lontananza dell’orizzonte, il silenzio e lo spaesamento del pensiero, l’immensità di cielo e mare. Ognuno di questi elementi viene ripreso e amplificato nelle sei sezioni che compongono il libro, vero e proprio convito ricco di emozioni, suoni, colori, memorie.

In un capitoletto interno, Per un bestiario, sono celebrate presenze animali che hanno la funzione illuminante e fugace di una rivelazione improvvisa, più spirituale che materiale. Apparizioni angeliche, nel loro inaspettato mostrarsi e nei nascondimenti segreti: cani, gatte, istrici, insetti, cervi “vicini al respiro / della terra”, che hanno “in comune gli stellari / silenzi, l’indecifrata distanza”.

Sparse invece in tutte le pagine del volume sono le presenze vegetali, più di trenta specie di alberi e fiori, ascoltati nel canto sommesso dello stormire delle foglie, osservati nei mutamenti stagionali,

compianti nella crudele agonia imposta dalla siccità, dal disboscamento, dalle epidemie batteriche: “C’era nella musica degli alberi / un silenzio che era specchio / del cielo, dei suoi silenzi”.

L’attenzione al paesaggio, essenzialmente quello salentino di nascita, si esplica in una poesia intessuta di immagini che abbracciano in un quadro luminoso (invaso dalla luce, celebrata non solo come elemento fisico, ma come capacità di illuminazione interiore) terre e cieli, minimi figuranti umani e presenze animali, come in questo Notturno: “il tempo dell’infanzia, con il folto / degli ulivi sulla terra rossa, gli spaccapietre / sul ciglio della strada, sotto il sole, / il monaco che sostava nella controra / all’ombra dell’eucalipto, la ragazza / nella casa di calce, vestita di bianco, / la voce del violino che la chiamava al ballo / di san Paolo, i cavalli nel meriggio / con i carri carichi d’uva, // e il mare, il grido / del mare nelle notti di luna, sotto l’alta / torre saracena”.

Il Sud, “lontananza e insieme spina” è “lingua del ricordo”, “vento dei pensieri”, mitizzato nella sua fissità arcaica, non vissuto nelle contraddizioni sociali, ma reso eterno dalla memoria e dal desiderio di Stare: “stare in quella privazione di tempo / dove tutto quello che accade, amori, / erranze, perdite, ardimenti, / non conosce il gelo della sparizione, // stare nell’incantata spera / d’una sempre lucente primavera”.

Appunto al tempo (“che è lampo di presenza e stilla / d’accaduto”) viene demandato il compito di preservare il ricordo, pur nella coscienza della sua labilità: memoria che si affaccia negli anni che si accumulano, visi e voci amate che ritornano a vivere, squarci che si aprono nel buio, riportando alla mente le tante città visitate, i poeti incontrati, le parole pronunciate. Ma anche il tempo della storia collettiva, quella passata e quella violentata, tenebrosa, del presente, con le guerre in atto, tra eroismi e sopraffazioni, ingiustizie e morte. E infine il tempo dell’universo, delle galassie “sul cui confine il tempo non è più tempo”, in cui il pensiero, leopardianamente, si annega.

Compito della parola rimane quello di preservare tutto il vissuto e ciò che rimane da vivere, per salvare un barlume di speranza che aiuti ad andare avanti: “Le parole camminano con noi”. In particolare è la parola poetica, curata e sensibile, che assume su di sé la responsabilità di un’espressione più intensa, matura, sofferta: “la poesia, conoscenza e insieme / angustia per le ferite del mondo”. Antonio Prete celebra nel suo convito verbale l’accadimento dei giorni, sforza lo scrigno della bellezza perché si apra al mondo.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 2 ottobre 2024

 

RECENSIONI

PROUST

MARCEL PROUST, LETTERE ALLA VICINA – ARCHINTO, MILANO 2015

Nelle eleganti edizioni Archinto sono uscite queste 23 lettere proustiane, scritte in otto anni – tra il 1908 e il 1916 – e indirizzate alla vicina di casa, signora Williams, che occupava con il marito dentista i due piani superiori rispetto all’appartamento dello scrittore. Nate con il pretesto esplicito, e alquanto ossessivo, di implorare rispetto e discrezione nei riguardi della sua attività compositiva, e soprattutto di chiedere una tregua ai lavori di ristrutturazione che disturbavano il suo sonno e la sua riflessione, queste missive vanno via via manifestando nel tempo una maggiore attenzione e confidenziale simpatia verso la loro destinataria. Marcel Proust si interessa al ménage familiare della vicina, alla sua salute, ai suoi lutti, alle sue passioni musicali; la informa sulla propria attività letteraria, sui problemi editoriali, sulle sue amicizie; condivide con lei la preoccupazione per il tragico destino del mondo in guerra, per la sorte della cultura e dell’arte mondiale. Ma soprattutto rivela la sua ansiosa e ansiogena fobia per il rumore, che gli scatena attacchi asmatici, insonnia e blocchi creativi, e lo fa con una sorta di isterica ironia, con cerimoniosa deferenza, e in definitiva ammettendo di essere inguaribilmente nevrotico: “A me sembra normale essere ammalato… E poi, come tutti gli infermi, ho imparato a passare la vita nella bruttezza in cui, per ironia della sorte, di solito sto meno male… Devo compiere il grande sforzo di cercare di uscire la sera e, siccome ho crisi d’asma tutta la notte, se al mattino danno martellate sopra di me posso dire addio al riposo per tutto il giorno, la mia crisi non si ferma più e mi è impossibile uscire… Dato che di notte riparano il boulevard Haussmann, di giorno rifanno il suo appartamento e negli intervalli demoliscono il negozio del 98 bis, è probabile che quando questa squadra armoniosa si sarà dispersa, il silenzio suonerà al mio orecchio così innaturale che… sentirò la mancanza della mia Ninnananna”.

IBS, 17 aprile 2015

RECENSIONI

PROUST

MARCEL PROUST, POESIE – FELTRINELLI, MILANO 2020 

Le Poesie di Marcel Proust furono pubblicate nel 1982 da Gallimard, nel decimo dei “Cahiers Marcel Proust”, con l’introduzione di Claude Francis e Fernande Gontier.

Oltre alle otto poesie contenute in Les Plaisirs et les Jours (1894) e a poche altre sparse su riviste,  ne sono state ritrovate decine negli epistolari, o utilizzate come dediche accompagnatorie: probabilmente esistono  ancora composizioni simili, non ancora recuperate,  in manoscritti e archivi privati, protette dalla riservatezza o dall’autocensura degli eredi dei destinatari con cui l’autore aveva avuto rapporti d’amicizia o amorosi. Molti dei titoli sono stati apposti dai curatori.

Un gruppo di versi sono dedicati ad amici e amiche (Reynaldo HahnDaniel Halévy, Robert de Billy, Madeleine Lemaire, Marie Nordlinger, Louisa de Mornand, Antoine Bibesco, Emmanuel Bibesco, Bertrand de Fénelon, Louis d’Albufera, Jean Cocteau, Armand de Gramont, Paul Morand e ai conti Greffuhle), spesso poco comprensibili per le allusioni alla vita privata o ad accadimenti quotidiani. Due poesie sono destinate alla fedele cameriera degli ultimi anni, Céleste Albaret (“Alta, slanciata, bella, un poco magra, / qualche volta stanca, qualche volta allegra, / sia la teppa che i principi rallegra / getta a Marcel una paroletta agra, / rende aceto per miele e mai è pigra, / ma sempre agile spiritosa integra…”).

La versione italiana di Franco Fortini, uscita nel 1983, fu accolta da diverse polemiche, soprattutto da parte di Alberto Arbasino che non condivideva la decisione della trasposizione in prosa di parte della raccolta.

L’attuale riproposta di Feltrinelli recupera due precedenti edizioni, curate da Luciana Frezza, del 1993 e del 2008, ed è introdotta da una presentazione di Luigi De Nardis. Le poesie qui raccolte ricoprono gli anni 18881922, e spaziano dai primi schizzi giovanili fino alla morte dell’autore. Si tratta di un centinaio di composizioni dalla prevalente motivazione ludica, spesso burlesche o satiriche, composte con atteggiamento mimetico nei confronti di altri scrittori, e con un gusto di accentuato virtuosismo. Versi in cui probabilmente lo stesso Proust non credeva appieno: dopo le prime prove giovanili ispirate a Baudelaire e a Verlaine, parve considerare la poesia un’arte minore rispetto alla prosa, incapace di rappresentare la ricchezza e molteplicità dei dettagli e delle sfumature dell’esistenza.

Luciana Frezza nel suo bel saggio introduttivo ritiene che volutamente Proust abbia scelto di bloccare nella crescita e lasciare allo stadio di ipotesi la produzione in versi, consapevole della sua evidente inferiorità nei confronti della narrativa. Secondo la traduttrice il mondo non ha perso molto, rinunciando a un Proust poeta, che “sarebbe stato forse, nella più felice delle situazioni, un fantaisiste, combinando la voglia di giocare con la leggerezza di segno nel delineare alla svelta paesaggi o silhouettes umane”.

Perché scriveva versi, quindi, il sommo autore della Recherche? “Per rilassarsi, per comunicare, stuzzicare o provocare, per essere gentile o chiedere un indirizzo, ‘perdere’ insomma un po’ di tempo, giocando con le cianfrusaglie del Tempo che si perderà”.  Nel suo divertito e dissacrante verseggiare “Proust ci mostra, più che la sua faccia umana, la sua maschera sociale”. L’eletta mondanità viene implicitamente evocata nell’uso ammiccante di nomi propri, nelle allusioni a pettegolezzi salottieri, nell’utilizzo ambiguo dei pronomi possessivi per rivelare la realtà di alcune relazioni. “Ginnastica da camera, saltelli per sgranchirsi e tonificare i muscoli e accrescere così l’agilità sociale… – trionfo dell’effimero!”, postilla Frezza.

In questo poetare di circostanza, la cerimoniosità con cui l’autore si rivolge al sesso femminile rivela sia un’ironica superiorità, sia un parodiante cicisbeismo da librettista settecentesco: “Signora, può darsi che dimentichi / il vostro divino profilo d’uccello / e come si salta in un cerchio / io sfondi la follia del mio cervello / ma gli occhi vostri sul soffitto della mia testa / chiari rifulgeranno come lampadari”.

L’amore è affrontato come argomento retorico, secondo stilemi recuperati da una frustra tradizione letteraria: “Lo so, domani me ne andrò perdutamente / di nuovo solo verso conturbanti dimore / ma oggi la tua grazia mi è amica: / per me i lenti tuoi sguardi color malva sono tutto al mondo. // La tua fronte non chiude nell’esigua bianchezza / l’ombra infinita da cui scaturirà la luce / eppure, o testa cara, io t’amo stranamente. // Quando al tuo riso chiaro non batterà più il cuore / arrossirò forse ancora alla dolcezza / che sarebbe stata accucciarmi nel tuo cuore / come nel chiaro cortile di un delizioso convento”.

Anche l’autoritratto assume caratteri imitativi, quasi parodistici: “Ahimè che troppo ho aperto finestra / e porta, ho cercato / l’azione, il piacere, fosche parole”, “Proust abita al 102 del Boulevard Haussmann più ardente per Ormuz e stufo di Arriman”, “Con il pretesto che è Domenica / Marcel Proust in quel paradiso / da cui un angelo fa capolino / tanto è restato… che è lunedì!”.

Nel ritrarre personalità maschili, Proust sembra più a suo agio, più sciolto e frizzante, addirittura mordace nelle punzecchiature polemiche, spesso con espliciti riferimenti omoerotici: “Maure, balzacchiano, dal passo affrettato / Jean, levigato, occhi viola del pensiero, / Lucien barboncino rasato a squadra, / Douché falso magro sempre desiderabile; / Herrmann per cui la stessa / Pazienza l’ha persa, / Nijinski, del sublime fuoco d’artificio nerastro, / inconcepibile, residuo sottile / Bakhst, spettro della rosa e asino della lesina, / Boni, pancia di crusca e viso di bambola, / la sua mano pare sempre che ti porga una spada / l’occhio che ti giudica ti ha bell’e sistemato”.

Invece languido e ammirato appare nell’omaggiare i musicisti che ama: Chopin: “Pallido e dolce compagno della luna e dell’acqua, / principe della disperazione…”, Schumann “sognante e disilluso combattente”, Mozart, il cui “magico Flauto / stilla nell’ombra ancora calda / degli addii di una bella giornata, / la freschezza dei gelati, / dei baci e del sereno”.

Accompagnando come un divertissement leggero e vivace la monumentale struttura della Recherche, i versi di Marcel Proust ne sottolineano per contrasto la complessità. Sono, come suggerisce la curatrice, “un angolo incolto nell’immenso giardino” della sua opera. La presentazione di Luigi De Nardis non si sofferma tanto sulle qualità letterarie della raccolta, quanto invece sull’eccellenza della traduzione di Luciana Fresa (Roma, 1926-1992), che è stata oltreché francesista di rispetto, valida e originale poetessa: le sue rese in versi sono vere ri-creazioni e introiezioni in un lessico poetico personale, che ha saputo valorizzare lo stile proustiano, “troppo spesso privo di espressività”, in vivaci moduli ritmici e indovinate accensioni verbali.

© Riproduzione riservata             «Il Pickwick», 16 giugno 2020