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RECENSIONI

PUGNO

LAURA PUGNO, LA MENTE PAESAGGIO – PERRONE, ROMA 2010

Tutte le poesie che compongono le cinque sezioni di La mente paesaggio di Laura Pugno sono spezzate in due o tre strofe che lasciano consapevolmente molto spazio al bianco della pagina, quasi a suggerire un’ipotesi di sospensione o silenzio, un invito alla pausa. Che non è mai indicata da punti fermi, inesistenti in tutta la raccolta: ci sono virgole, e soprattutto trattini di separazione, a segnalare una sottolineata divisione tra i versi (a volte brevissimi, di una sola parola; a volte ipermetri, o spesso consegnati all’invocata pacatezza dei settenari o degli endecasillabi).
Sembrano poesie che reclamino una loro ribadita oralità, scritte per essere recitate e offerte a un pubblico, sullo sfondo di una scenografia da documentario naturalistico. Le immagini evocate si susseguono ripetutamente, a confermare l’intenzionalità espressa dal titolo: un’esplorazione del paesaggio, del fuori, dell’ambiente noto o lontano, ma assolutamente controllato dall’attività mentale, concettuale, della poeta. Sono le profondità degli abissi marini, il bianco luminoso dei ghiacciai e delle nevi perenni, il verde intenso dei boschi a colpire l’immaginario del lettore, in panorami che poco tengono conto della figura umana: “è mondo prima del mondo”. Anche presenze animali attraversano queste pagine: volpi, uccelli, pesci, meduse, ostriche che rinserrano perle preziose. Ma il “tu” cui ci si rivolge sembra piuttosto un alter ego dell’autrice, la richiesta di una conferma intellettuale al proprio esistere fisico, fibra universale pensante: “tu-io sei quella che rimane / corpo quasi identico / visibilità estrema del da te / non visto”.

E la domanda che Laura Pugno fa a se stessa e al lettore è quella di un riconoscimento di sé, della sua parola poetica che abita corpo e mente: “balbetta una nuova / lingua nel buio / che avvolge il corpo // ha pochissime parole nel buio // il corpo ora è la coperta / della mente”.

 

© Riproduzione riservata    «sololibri», 9 novembre 2016

RECENSIONI

PULCINI

ELENA PULCINI, INVIDIA – IL MULINO, BOLOGNA 2011

Nella collana che Il Mulino dedica ai 7 vizi capitali, il volume riservato all’invidia è affidato alla sapiente competenza letteraria e filosofica di Elena Pulcini. Già il primo capitolo, destinato alla definizione etimologica e culturale dell’invidia (“Passione triste”, dal latino in-videre, guardare storto), si apre con un’acuta distinzione tra invidia, gelosia e risentimento, attraverso una colta disamina dei vari apporti alla comprensione di questo sentimento.

Elena Pulcini spazia infatti da Esopo a S. Tommaso, da Scheler a Nietzsche, da Lacan a René Girard, senza dimenticare le arti figurative e il cinema, e con riferimenti alla cronaca più recente (da Erba a Avetrana). Nei capitoli successivi, l’excursus dell’autrice prende l’avvio dai greci: pressoché ignorata da Omero (che privilegia la descrizione dell’ira), è invece narrata efficacemente a partire dai tragici (che arrivano ad attribuirla persino agli dei) e ai politici, che ne danno addirittura una concretizzazione sociale nell’istituzione dell’ostracismo. Ben nota alle pagine delle Scritture (da Lucifero a Caino, da Giacobbe a Giuseppe, per finire con lo stesso Gesù, vittima consegnata alla croce proprio per invidia), ritorna prepotentemente in scena durante il Medioevo. E’ infatti Gregorio Magno che la cataloga al secondo posto tra i vizi capitali, e Dante nel Purgatorio condanna gli invidiosi ad avere gli occhi cuciti col fil di ferro. Se si invidia soprattutto quando ci si confronta, in un ambito a cui si tiene molto, con qualcuno che ci è pari, realisticamente commensurabile con noi (e mai con chi ci è troppo superiore), si pecca proprio “con la malignità dello sguardo, in quell’evil eye che si posa obliquamente sull’invidiato”. E allora risulta particolarmente pungente, nella galleria iconografica offerta dal volume, la foto di una Sofia Loren che occhieggia invidiosa la scollatura di Jayne Mansfield…  Un libro illuminante, che arriva a indagare questo universale “tarlo dell’anima” fino alla cultura moderna e postmoderna.

 

IBS, 16 marzo 2011

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PUSTERLA

FABIO PUSTERLA, BOCKSTEN – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1989

Fabio Pusterla è uno dei poeti ticinesi più interessanti; se posso essere meno diplomatica, mi spingo ad affermare che è il più importante che il Ticino possa vantare tra i poeti che hanno meno di quarant’anni. Lo ha dimostrato con la sua prima raccolta di poesie (Concessione all’inverno, Bellinzona 1985), prefata da Maria Corti e vincitrice dei premi Montale e Schiller. Lo conferma con questo suo secondo lavoro, pubblicato da Marcos y Marcos, Bocksten, libro decisamente meno autobiografico del primo, meno ironico e polemico, ma senz’altro più colto e sofferto. Verrebbe da definirlo “disperato”, se non si temesse la retorica suscitata da tale aggettivo. Bocksten è una località svedese, vicina al mare e al confine con la Norvegia, dove nel 1936 è stato ritrovato lo scheletro di un uomo del XIV secolo, probabilmente linciato o ucciso nel corso di qualche rituale magico-propiziatorio. Di lui rimangono (straordinariamente ben conservati dall’azione della torba in cui era sepolto) le ossa, brandelli di un abito di tela, i capelli rossi e alcuni pioli confitti nel petto. Partendo dalla descrizione di questo crudo fatto, Pusterla innalza il Bockstenmannen a simbolo di un destino più generale delle vittime misconosciute della storia: compito del poeta è quindi dare voce a un morto di cui nessuno sa niente, riscattarlo dal silenzio orrendo dei secoli, dall’indifferenza delle generazioni successive: «Ti presterò un voce per il buio / una mano per i tre pioli / nel tuo petto». Il bosco in cui si attua questa rivisitazione (quasi ricerca archeologica e insieme rito apotropaico) è un bosco ossessivo, “in rovina” come fosse un tempio sconsacrato: melma, palude boscosa, pozzo fangoso, putridume, detriti, rottami, muschio, rami rotti, luce spiovente, silenzio, sono i termini usati per offrirne una prima, angosciante, immagine. Si susseguono poi altre presenze tacite e minacciose come fantasmi («La marcia umida degli alci, / il bramire dei cervi»; «Altri incontri nel bosco / orbite vuote, fisse, / mani scarne…// Li immagino / strisciare lungo bave di lumache, / spiare dalle tane delle talpe…»; «ed è lontano / il trotto dei cavalli, il passaggio / di corpi e luci e sagome sull’acqua…») a rafforzare l’idea di un incubo che esplode nella nebbia di un sonno lungo quanto la storia. E’ uno scenario che può ricordare i primi film di Bergman, l’angoscia sottile di una natura immodificabile matrigna dell’uomo. Il poeta da una iniziale, oggettiva per quanto partecipe narrazione in terza persona, arriva poi a identificarsi totalmente con la sorte dello sconosciuto morto seicento anni fa, e a descriversi in prima persona: «Mi portano qui / con mille ragioni o per un disguido, / digrignando i denti e recitando preghiere»; addirittura inventa quale può essere stata la vera causa della sua morte, estrema e vivifica libertà dell’arte rispetto alla ottusa costrizione della realtà storica: «ho deciso per te la snellezza del viandante / ucciso per un motivo».
Il destino di chi scrive – di chi soffre scrivendo, non dei poeti salottieri e festaioli purtroppo sempre più numerosi e premiati dalla nostra società – è un destino di solitudine e diversità, alla ricerca faticosa di risposte, con la consapevolezza tragica che una risposta definitiva non si avrà mai: «Alcuni hanno scelto il mare, il suo rollio. / Altri coltivano segale, radici, / e danzano la notte attorno ai fuochi. / Io scavo, scavo, non so perché». Vittima dei suoi incubi, ma anche di quelli di chi legge, portavoce dell’inconscio collettivo, amplificatore della paure di tutti, Fabio Pusterla in quest’ultimo libro fa parlare il nostro terrore ancestrale di non essere niente, di non servire a niente: «Sale su, aggalla in un risucchio lento, / il gorgo abbagliante che preme, si espande, / strascina un ricordo di caverna…// è il mostro della stiva che sale sulla plancia, / l’urlo che nasce in pancia e vuole uscire»; «E se il buio fosse di tutti, e servisse a qualcosa / tastarne gli scalini da basso inferno?».

Il suo discorso usa termini duri, immagini violente, ma curiosamente ne escono versi dolci, armoniosi: ne sono testimonianza le numerose poesie che iniziano con gli endecasillabi più tradizionali, molto cantati. Quasi ancora cercasse nella musica una consolazione al disagio del vivere. Il poemetto è incastonato tra alcune poesie di apertura e altre di chiusura, testamentarie. Le prime le potremmo definire introduttive al tema, e narrano del fluire cosmico del tempo, del lento e inarrestabile distruggersi del mondo, con la certezza dell’ inessenzialità della vita umana e della storia individuale (non a caso prevalgono qui le immagini di rifiuti, di scarichi, di stracci e immondizie materiali e morali). Le ultime sono anch’esse un messaggio di asciutta disperazione, ambientata nelle immobili pianure del nord, in un’Europa settentrionale freneticamente tesa ad annientarsi, tra catastrofi ecologiche in cui «l’anguilla sorella» di Montale «guizza tra scoli di atrazina…/ perché il mare è un profumo lontanissimo»». Cosa rimane indenne da questa scena apocalittica? L’immagine appunto di questa anguilla testarda e innamorata della vita che lotta «per strappare / un attimo all’asfissia, un’idea di vita / all’evidenza dei fatti…». L’immagine di una poesia che lotta per continuare a esistere, e -si può dire?- civile, nel senso più alto, come questa di Fabio Pusterla.

«Agorà» (Svizzera), 20 dicembre 1989

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PUTNAM

HILARY PUTNAM, FILOSOFIA EBRAICA. UNA GUIDA DI VITA – CAROCCI, ROMA 2011

Hilary Putnam (19262016), filosofo e matematico statunitense, si è a lungo occupato di filosofia della mente e filosofia del linguaggio, ma negli ultimi vent’anni la sua ricerca ha seguito un disegno più complesso, spaziando dalla metafisica alla scienza e alla religione. In Filosofia ebraica. Una guida di vita, saggio uscito in America nel 2008, Putnam – ebreo di origine, ma sempre definitosi ateo – esplora le tesi dei tre più importanti filosofi ebrei del ‘900 (Franz Rosenzweig, Martin Buber ed Emmanuel Levinas), a cui affianca marginalmente Ludwig Wittgenstein, cristiano da due generazioni, ma di ascendenze ebraiche, perché comunque interessato ad affrontare il tema della religione come insegnamento morale.

Sia nell’introduzione che nella postfazione, l’autore introduce le sue riflessioni partendo dalla propria esperienza, con l’affermazione perentoria che la religione “o è anche una questione personale, o non è nulla”. Il suo avvicinamento alla pratica religiosa, in età matura e dopo una vita agnostica, non è stato determinato da una conversione, ma da un avvenimento occasionale ed estrinseco: la volontà del figlio Samuel di celebrare il bar mitzvah (la cerimonia con cui i bambini ebrei raggiungono la maturità, a 13 anni), coinvolgendo tutto il nucleo familiare nelle funzioni e nelle formule rituali di preparazione. L’abitudine presa allora di ricorrere quotidianamente a mezz’ora di raccoglimento e di preghiera (in un’epoca in cui era di moda tra gli intellettuali americani rivolgersi alla meditazione trascendentale, alla psicanalisi, al training autogeno e ad altre pratiche di autocoscienza per risolvere il proprio disagio esistenziale), fece del celebre filosofo Hilary Putnam un convinto “ateo credente”. Ateo in quanto negatore di qualsiasi vita ultraterrena e della Provvidenza divina, nella storia e nelle vite individuali; credente perché convinto che la pratica costante della meditazione, della preghiera, dei riti e dei testi millenari dell’ebraismo, e dell’adesione ai precetti morali ad essi sottesi, producessero effetti positivi di miglioramento nelle persone e nella società.

Nei pensatori presenti in questo volume, Putnam recuperava appunto un insegnamento spirituale capace di avvicinare l’uomo al suo prossimo e a una verità oltrepassante la pura materialità dell’esistere. Martin Buber insisteva sulla relazione io-Tu nel rapportarsi con il divino, sostenendo che l’uomo non deve teorizzare su Dio, ma “rivolgersi” a lui. Emmanuel Levinas indicava nella disponibilità e nell’apertura all’altro la “fenditura” che sgretola le categorie individuali e mette in comunicazione con il soprannaturale. Franz Rosenzweig suggeriva di affidare sé stessi a un esercizio di filosofia esperiente, trasformatrice, che conducesse al precetto del “retto fare”. Non è tanto, quindi, l’attività speculativa e teorica che può introdurre a Dio, quanto un atteggiamento di “perfezionismo morale” in grado di porre l’individuo in una disposizione di ascolto, di umile accettazione del magistero biblico, di servizio verso l’altro da sé.

 

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https://www.sololibri.net/Filosofia-ebraica-guida-vita-Putnam.html              10 aprile 2018

 

 

 

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QIU XIAOLONG

QIU XIAOLONG, LE POESIE DELL’ISPETTORE CAPO CHEN – MARSILIO, VENEZIA 2016

Strano poliziotto, l’ispettore capo Chen Cao. Guida una squadra speciale che si occupa di casi politicamente sensibili, è quotidianamente alle prese con crimini subdoli e corruzioni di vario tipo, che lo portano spesso a scontrarsi con i suoi superiori e con il potere politico e ed economico dominante la tentacolare e corrotta società di Shangai. Eppure, Chen conserva dentro di sé una gemma preziosa che gli illumina anima e mente, mettendolo al riparo dalle brutture del mondo: ama, infatti, scrivere e tradurre poesie.

L’ideatore di questo personaggio, Qiu Xiaolong, ne ha fatto il protagonista di una serie poliziesca di grande successo, che racconta – utilizzando gli strumenti letterari del genere giallo e noir – le contraddizioni della Cina contemporanea: il controllo del regime comunista, la vertiginosa ascesa finanziaria di un paese che sembra aver rinunciato ai suoi ideali di uguaglianza, inseguendo il miraggio di un’espansione infinita, a scapito della felicità degli individui e di una millenaria tradizione culturale. Alla sua creatura più famosa, Chen Cao, (poliziotto integerrimo e fedele funzionario di partito, appassionato gourmet e sensibile poeta dalle scarse pubblicazioni), Qiu Xiaolong rende omaggio con questo volume, Le poesie dell’ispettore capo Chen, che raccoglie composizioni precedentemente sparse in altri suoi romanzi della stessa serie.

Che tipo di versi scrive l’ispettore capo, quando vuole ripulirsi i pensieri e in sentimenti dalla follia e dalla crudeltà quotidiana con cui è costretto a misurarsi? A volte sono legati alla classicità più collaudata dell’antica letteratura cinese, come in questa poesia che non solo ricalca formalmente il tono intenerito dell’idillio paesaggistico, ma ne utilizza i simboli più consueti (notte, luna, fiori, ventagli, musica, uccelli, acqua…): «Sotto il ponte della dinastia Song, / sotto la luna della dinastia Tang, / noi ci separiamo, come il fiore di prugno / che si dispiega su un ventaglio di carta, / come l’orizzonte che affonda sull’ala di un corvo, / mentre gli steli all’improvviso cominciano a ondeggiare / al ritmo di una melodia sconosciuta. / Una bolla di larve di zanzara / sull’acqua verde».   Altre volte, invece, trae ispirazione dagli episodi truci e violenti cui la sua professione lo obbliga ad assistere, e quindi ambienta le poesie in vicoli sordidi, tra personaggi ambigui, sempre cercando tuttavia di salvare uno scampolo di umanità, di solidale comprensione e pietà.

Agli inizi degli anni ’80, Chen Cao studia letteratura all’Università di Shangai, e si laurea sull’opera di T.S. Eliot, quando gli viene assegnato un incarico al dipartimento di polizia, secondo una prassi della politica governativa per cui tutti dovevano lavorare nell’interesse del Partito. Poliziotto riluttante, è sempre la sua fedeltà alla poesia a offrirgli una scialuppa di salvataggio cui aggrapparsi nei momenti professionali ed esistenziali di maggiore difficoltà. Le poesie qui espunte dai vari romanzi di Qiu Xiaolong sono commentate da note finali, e occupano solo la prima metà del volume: essendo la seconda parte riservata all’assaggio di alcune pagine di tutti i libri dell’autore pubblicati da Marsilio, per un’astuta strategia di promozione editoriale.

 

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www.sololibri.net/poesie-ispettore-Chen-Xiaolong.html;    27 marzo 2017

 

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QUARENGHI

GIUSI QUARENGHI, IO SONO IL CIELO CHE NEVICA AZZURRO – TOPIPITTORI, MILANO 2011.

Chi è nato intorno agli anni 50 si riconoscerà in questi nove racconti della scrittrice bergamasca Giusi Quarenghi: cioè si riconoscerà nei dettagli comuni di una storia familiare e paesana, ma anche civile e collettiva tratteggiata dall’autrice con delicatezza e nostalgia, con ironia e lucidità .
Originaria della Val Taleggio, nata in una famiglia che gestiva una trattoria («la cucina dove si stava tutti, noi e anche i clienti»), con un grosso padre «sublime maestro del farniente» («una vita intensa, pur senza una goccia di sudore», appassionato giocatore di carte e di bocce, a suo modo filosofo e osservatore dei costumi contadini) e una madre che invece lavorava per tre (commoventi e ricche di interesse le pagine dedicate alla preparazione del bucato), Giusi Quarenghi non descrive la sua infanzia con un retorico amarcord . Semplicemente narra di un mondo in cui i tempi erano scanditi dal suono delle campane, dall’avvicendarsi dei giorni di festa, dalle cerimonie religiose e dalla cura degli animali, che vivevano allora in simbiosi con gli esseri umani. Ma di questo mondo racconta anche le ingiustizie, le ottusità e le superstizioni, prima fra tutte quella che riguardava la scarsa considerazione in cui veniva tenuto il sesso femminile. Una realtà condivisa da parenti e vicini, amici e signori che arrivavano in villeggiatura dalla città, e in cui la corsa al denaro e al successo non assorbiva i pensieri e le ambizioni di tutti come succede oggi. La narrazione induce a un sorriso intenerito soprattutto quando si sofferma sui particolari di un’educazione e di tradizioni in quell’epoca condivisi un po’ da ogni famiglia: la raccomandazione rivolta alle bambine di stare «composte», sedute con le ginocchia «unite e coperte»»; la vestizione per la Messa grande («calzette bianche e traforate e scarpe bianche con le fibbie»); i titoli dei temi assegnati dalle maestre; gli elastici «grogren»; le visite ai morti; le cacche delle mucche per strada. E la natura, la gente, la storia che avanza e cambia le abitudini e le coscienze…

Leggendaria” n. 94, luglio 2012

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QUINTAVALLA

MARIA PIA QUINTAVALLA,  I COMPIANTI – EFFIGIE, MILANO 2013

Nella postfazione al volume, Bianca Garavelli, elogiando la «voce composita, arcaica e dialettale, caleidoscopica» dell’autrice, ne sottolinea un elemento aggiuntivo ris petto a ciò che caratterizzava esiti precedenti della sua ricerca letteraria: «una dolcezza riflessiva» determinata quasi certamente dall’argomento trattato in questi versi. Il libro infatti è interamente dedicato alla figura del padre della poetessa, Piero Quintavalla, «Caro padre / dal cappello e cappotto infagottato, come un uomo dell’ultima guerra / che fu soldato, maestro povero, / poi deportato; infine fu salvato / e ritornato…». Vita e morte di un uomo molto amato e raccontato nelle tappe fondamentali della sua esistenza, e poi dell’agonia e della morte, in un compianto che mantiene lo stile classicheggiante (decisamente diverso dalle sperimentazioni linguistiche di prove poetiche passate, e scandito spesso in eleganti endecasillabi e novenari) di notissimi Compianti scultorei e pittorici del nostro Rinascimento. Le sette sezioni del volume, corredate da testimonianze scritte dal padre sulla sua esperienza di prigioniero in un lager austriaco e da numerose fotografie su luoghi e protagonisti descritti nei versi
(Parma e la campagna emiliana, la famiglia dell’autrice, il campo di Kaisersteinbruck e riproduzioni da Correggio e Mazzoni), prende le mosse dall’ambiente in cui Piero Quintavalla nacque e fu educato («Più in là del Po»: «I cascinali invece, i casolari / erano su sfondo antico, soleggiati»), per soffermarsi poi sul suo matrimonio («Sposò China, ebbe due figlie»), sui suoi studi e sulla guerra: ma descrivono con tenerezza anche i suoi tratti più peculiari («il naso lungo / le mani belle, il fisico da sano contadino»; «il gesto delle mani nelle tasche»), ricordando pure le naturali incomprensioni tra genitore e figlia, gli allontanamenti e le riconciliazioni («le ingiuriate abrasioni dei no!»; «ma l’edipo è una storia un po’ attempata…In braccio al suo babbino / la seduzione è lenta, stanca / non produce (più) battito cardiaco / ma dolenti note del ritiro, / stracche»). Soprattutto commuovendosi poi nel ripercorrere la malattia e la morte del padre, narrata con devota partecipazione ad un sofferto e crudele calvario («Io l’ho tenuto in braccio, / gorgogliava entro la testa il sangue»; «Al terzo giorno non resuscitasti, / ti portarono via, nessuno vide»).
All’asciutta disperazione provata durante una visita al cimitero-sepolcro («Ma di carta il tuo avello, o padre / nel cemento spalmato dai ragni, / su fiorami tra la polvere e il vetro / ti trovai, / allineato dal fondo e da stagioni, / sotto spessa carta già celato il nome, / mi chinai e non vidi») segue tuttavia la constatazione consolatoria, che chiude questo straziato compianto: «Padre che non sei mai partito affatto».

 

«Leggere Donna» n.163, aprile 2014

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QUINZIO

SERGIO QUINZIO, DALLA GOLA DEL LEONE – ADELPHI, MILANO 1980

Gli aforismi, le raccolte di massime, di riflessioni, di indicazioni in genere piacciono molto al pubblico. Mantengono un fascino che non può essere spiegato solo con il desiderio di una lettura impegnata ma breve, profonda ma non troppo coinvolgente: in questi moderni breviari laici si respira un po’ la stessa aria di mistero, di iniziazione alla saggezza e alla verità che troviamo leggendo gli antichi sapienti (da Eraclito in poi), o i mistici, o le raccolte rabbiniche. Siamo attratti da questi testi, nonostante la diffidenza che nasce dall’ aristocraticismo di gusto e di pensiero spesso manifestato dagli autori, dalla loro posizione politica talvolta conservatrice, dalle perentorietà dei toni (“ipse dixit”).
Da Adelphi è uscito nel 1980 (ed è ancora in catalogo!) Dalla gola del leone di Sergio Quinzio (1927-1996), libro in cui non si avverte un didascalismo così accentuato come in altri volumi di meditazioni e pensieri sparsi : «Non esistono più maestri, chi è nella condizione di dire qualcosa non può dire ormai che parole chiuse nell’orrore, non più parole d’insegnamento».

L’orrore che vive e ferisce in queste pagine è «lo scandalo del male, anche del male piccolo», che esiste ingiustificato e ingiustificabile, l’ingiustizia della morte (il male è la morte, e viceversa), il fallimento di Dio. Si tratta quindi di un libro religioso, scritto nell’unica maniera in cui si può scrivere oggi un libro religioso: nella disperazione, nel dubbio, nel rifiuto della logicità. E la proposta dell’autore è appunto a-logica, insostenibile: accettare la fede proprio perché inaccettabile, continuare a sperare perché la speranza è finora stata delusa, salvare un Dio che non sa salvare. Lontano dal cristianesimo odierno inteso come «rilancio mondano di ogni genere di trionfali sacralità»- un cristianesimo che mentendo anche a se stesso pubblicizza l’immagine di un Dio pietoso ma impotente nei confronti del dolore umano, battuto dal male che lui stesso ha creato. Un dio umiliato, fallito, che ha promesso per millenni una salvezza che non arriva mai, è un dio «che fa tenerezza», proprio perché l’altro Dio, quello trionfante, quello celebrato dalla Chiesa, offeso dal peccato e non dalla sofferenza umana, è incomprensibile, la sua presenza è ingiustificabile.
Quel Dio, creando il male e il dolore per i suoi fini imperscrutabili, si è condannato alla sconfitta. Non può pretendere di essere amato dagli uomini che ha condannato alla disperazione, all’attesa senza senso, al nulla. Quelli che soffrono non sono più vicini a Dio, come insegna la tradizione cristiana, ma se ne allontanano, incapaci si sperare, aridi; il dolore come mezzo in vista di un fine diventa un’empietà, e non esiste niente che possa spiegarne l’esistenza. Così la morte della moglie non ha mai potuto trovare per l’autore nessuna giustificazione teologica, né può essere consolata dall’attesa cristiana della resurrezione. «Le cose desiderate tardano a venire fino a quando lo stesso desiderio si spegne?»
Chi è colpito dalla scomparsa di una persona amata, deve lottare contro il sentimento di ingiustizia subita, contro il proprio desiderio di annullamento, ma anche contro l’involontaria ma inevitabile rassegnazione a questa morte, il lentissimo oblio che cancella gesti e voce: lotta, insomma, contro la morte e contro la vita insieme. Quello che Quinzio ha salvato «dalla gola del leone» non è tanto una qualsiasi speranza di salvezza, di riscatto o di vita oltre la morte, quanto questo senso di ribellione all’assurdo di un’esistenza destinata a scomparire, a non essere niente. In questa sfida al niente è il senso del libro, perché «i veri problemi sono quelli che non ammettono soluzioni».

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Dalla-gola-del-leone-Sergio.html           2 novembre 2015

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QUINZIO

SERGIO QUINZIO, MYSTERIUM INIQUITATIS – ADELPHI, MILANO 1995

Pubblicando nel 1995 Mysterium iniquitatis, una raccolta di pagine “apocalittiche”, feroci e disperate, Sergio Quinzio (1927-1996) sperava che potessero interrogare, scuotere e sconcertare il “sempre più vago, timido, incerto, reticente annuncio cristiano nel mondo”. E nell’immaginare due encicliche (terribili e liquidatorie) firmate da un ipotetico ultimo papa Pietro II, si spingeva a profetizzare “la consumazione dell’orizzonte teologico cristiano”, la fine di una Chiesa ormai ridotta a un trionfale ruolo mondano, e la cancellazione dell’istituto pontificio con il suicidio sacrificale dello stesso Vicario di Cristo.
Le due encicliche trattano di argomenti spinosi e tormentanti, su cui la Chiesa da secoli non si interroga più, temendo le reazioni incredule e la commiserazione ironica della contemporaneità: da un parte la resurrezione dei morti “nella stessa carne nella quale hanno patito nel mondo”, e dall’altra l’affermazione del fallimento del cristianesimo a causa del male esistente all’interno della Chiesa stessa.
Se riguardo al primo argomento Sergio Quinzio si espresse sempre con l’esaltata convinzione di chi vuole credere “quia absurdum”, opponendosi a qualsiasi edulcorazione teologica del radicale annuncio evangelico, nella seconda enciclica dichiarava a gran voce la sua rabbia verso una Chiesa-istituzione che “ha ibernato verità che erano essenziali”, riducendosi laicamente a indicazioni puramente etiche, ma sostanzialmente dimentiche del messaggio di Cristo.
Consapevole che il suo prestare a un fantomatico ultimo papa il suo pensiero e le sue parole poteva definirsi un atto “non precisamente umile”, Quinzio nella postfazione precisava cosa l’avesse spinto a scrivere pagine tanto profeticamente esaltate e dure, e ribadiva il suo rifiuto a qualsiasi religione annacquata da esoterismi, ecumenismi, secolarizzazioni, ansie scientifiche, ipotesi ermeneutiche e demitizzazioni. Così radicale e impietoso da auspicare una Chiesa crocefissa nel mondo, morta nella storia, per poter risuscitare alla vita senza fine.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Mysterium-iniquitatis-Quinzio.html     25 ottobre 2016

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RAFFO

SILVIO RAFFO, AL FANTASTICO ABISSO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2011

Il secondo volume dell’elegante collana che le edizioni Nomos dedicano alla poesia contemporanea propone ai lettori i versi classici e raffinati di Silvio Raffo, stimato e versatile autore, traduttore e critico. Secondo la prefatrice, Marisa Ferrario Denna, «l’uso colto e sapiente della rima, la sonorità calda e precisa dell’endecasillabo e dei settenari» evidenziano una dotta e cosciente abilità di alternare con uno stile tradizionalmente erudito e alto «testi di grazia quasi infantile a testi più marcatamente filosofici». I motivi fondamentali della raccolta sono già tratteggiati nei titoli assegnati alle tre sezioni: La magica angustia, Fiaba dell’intertempo, Al fantastico abisso. Senz’altro, infatti, il tono favoloso e sospeso di alcune composizioni riesce a rendere la particolare levità di un mondo innocente e perduto (lasciando che nel secondo capitolo irrompa la magia della fiaba con i suoi attori più consumati: il principe, il drago, la fanciulla, il bosco, il castello, lo specchio, «i luminosi paggi»), ma sono soprattutto due i temi che si stagliano prepotentemente dalle pagine di questo libro: appunto l’angustia, l’abisso della solitudine e il corteggiamento assiduo e per nulla tragico della morte.

«Il destino che abbiamo condiviso / con i grandi poeti è di durare / nella coscienza della solitudine», «Da poche ore eravamo / al grigio paese arrivati, / la mia solitudine ed io», «Svanire io voglio / come la rugiada / … goccia di fiume che lento discende / al fantastico abisso che l’attende», «Son solo e come sempre sorridente / Non aspetto nessuno – al mio passato, / all’amore e alla morte indifferente», «Ce ne andremo da veri signori / senza strepiti o clamori»

Un’accettazione tranquilla e saggiamente conscia della propria finitudine, dunque, e un accordo placido e rasserenante con il fluire magico e sacro della natura («Avvolgimi di te, nulla infinito», «Ieri, un millennio fa, sostava il Tempo / a una fermata d’autobus con me», «Nel tuo grembo m’immergo / notte – o notte»), insieme alla consapevolezza fiera della propria e vivida unicità di persona e di poeta, in un dialogo inesausto con un “tu” che è sì ricerca dell’altro, ma anche una ribadita sottolineatura della propria irriducibile grandezza: «Sono la fiamma errante / che divaga del sogno alla deriva», «Tu guardalo con l’occhio della lince / il tuo dolore, guglia d’alabastro- / … ma con lo stesso sguardo ammira il volo / della tua gioia, alata Durlindana». Ecco: la gioia, l’inscalfibile pietra preziosa che ogni poeta, interprete di una scintilla di assoluto, porta in sé, e che in Silvio Raffo è orgogliosamente declamata : «V’è una sorta di ebbrezza / nel più acuto dolore-», «Era il mio personale paradiso. / E dovevo tenerlo chiuso in me, / senza svelare del mio rango il segno?», «Quella gioia suprema / d’essere sempre te stesso».
Queste poesie così parche di punteggiatura, quasi a voler esibire un’aperta continuità di pensiero e di collegamento al tutto, a cui un po’ nuocciono, anche graficamente (ed è forse l’unico appunto da rilevare a questa squisita raccolta) la definizione pleonastica e rapsodica di date e luoghi di composizione nell’ultima parte del libro, hanno sempre una loro leggiadra compiutezza, una loro generosa offerta di gratuita verità, che talvolta le apparenta al tono lieve di Sandro Penna, come in questi riuscitissimi versi: «Dei treni in partenza in arrivo / del tutto ignaro, sostavo / nell’atrio, semplicemente / solo, con il mio niente / Ma a un tratto all’edicola antico / un libro prezioso scoprivo / da tanto invano cercato / Lieto poi, col mio dono / al cuore in subbuglio serrato / la soglia fumosa varcavo».

 

«incroci on line», 21 marzo 2013