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PAVESE

CESARE PAVESE, IL DESIDERIO MI BRUCIA – GARZANTI, MILANO 2021

Un Cesare Pavese (1908-1950) inedito e inaspettato, per noi che l’abbiamo conosciuto e amato leggendo i suoi romanzi secchi e disperati, il diario, le poesie petrose di Lavorare stanca: è quello proposto da Garzanti ne Il desiderio mi brucia, che raccoglie versi amorosi scritti a partire dall’ottobre del 1923 fino al 1929, con l’inserimento di pochi testi più tardi. Le composizioni adolescenziali sono assolutamente e retoricamente tradizionali, nel solco della poesia romantica ottocentesca e fors’anche della librettistica d’opera, molto rimate, metricamente composte e regolari, tematicamente prevedibili e ridondanti. Le immagini sono quelle, consuete, del desiderio sensuale fervido e appassionato, della brama di possesso negata, del sogno irrealizzabile, della delusione più amara e avvilente.

Dalla doppia quartina inziale (rimata ABAB-ABAB: “Oh, vagare con lei la sera scura, / perderci tra le piante ed ascoltare / le strida rauche su per la pianura / tremule come la luce stellare!”) ad altre dedicate a un quadro di D.G. Rossetti (“Sorge dall’ombra ed un lento mattino / le piove tra le mani una quieta luce / che il cuore pianamente acqueta / e le imbianca il volto alabastrino”), a una “Chioma d’Oro, bella ballerina”, o a un’ attrice idolatrata, giovanissima, straniera, lontana (“Ti vidi un giorno per alcuni istanti / e so che mai potrò più rivederti”), fino al turbamento smanioso (“Mi strugge l’anima perdutamente / il desiderio d’una donna viva, / spirito e carne, da poterla stringere / senza ritegno e scuoterla, avvinghiato / il mio corpo al suo corpo sussultante”.

Si tratta di evidenti esercizi stilistici di un ragazzo che coniuga la passione per la poesia con le prime inquietudini sessuali e i complessi tipici dell’età, vagando dal più estenuato romanticismo al timore del confronto e alla voglia di sfregiare volgarmente la figura femminile. Stilnovo e Baudelaire si fondono nelle prime prove letterarie di Pavese (“Le tue mani pallide / mi paiono due mistici gigli / fioriti sull’esile stelo, / nero fino al calice, / delle braccia sottili” versus “se fate le puttane o vi cedete / a chi solo vi piace o siete ignare, / soffro tremendamente e insieme godo / al pensiero che forse vi potrò / possedere in un letto”).

Sono già presenti in questi versi giovanili alcuni caratteri tipici delle donne raccontate dallo scrittore maturo: la voce roca, i capelli fini e biondi, i denti forti, la gola fresca, le gambe nervose: attributi più idealizzati che concreti, di un eterno femminino perseguito per tutta la vita.

Le poesie scritte tra la fine degli anni ’30 e la morte assumono ovviamente uno stile più maturo, secco e personale, anche nell’aggettivazione curata (“E l’acuto sorriso / ti percorse sbarrandoti gli occhi stupiti”, “come terra, sei chiusa… Sei riarsa come il mare”, “germogliante silenzio”, “Sei radice feroce”). Così, nella famosissima Verrà la morte e avrà i tuoi occhi troviamo: vizio assurdo, vana parola, grido taciuto, labbro chiuso. E nell’unica composizione in inglese: dappled smile, white-limbed doe, gliding grace.

Avvicinandosi alla scelta estrema, Pavese sembrò volersi asciugare da ogni concessione all’enfasi e all’artificio, per raggiungere l’essenzialità a cui si riduce sempre il dolore.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 12 febbraio 2021

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PAVESE

CESARE PAVESE, LA SPIAGGIA – EINAUDI, TORINO 2017

Il romanzo breve La spiaggia, che Cesare Pavese scrisse nel 1941, fu pubblicato da Einaudi una prima volta nel ’56, e in seguito ristampato a più riprese, fino all’ultima edizione del 2017. Racconta del rapporto tra un professore trentenne e un ingegnere suo compagno di gioventù, Doro, che sposandosi con Clelia, aveva lasciato le colline piemontesi per trasferirsi a Genova. Chi scrive confessa sia il rancore per la mai perdonata fine dell’amicizia con Doro, sia la gelosia per la sua felicità coniugale. “Doro è di quelli che la felicità rende taciturni, e a ritrovarlo sempre pacato e intento a Clelia, capivo quanto doveva godersi la nuova vita. Fu anzi Clelia che, quand’ebbe con me un po’ di confidenza, mi disse, un giorno che Doro ci lasciò soli: “Oh sì, è contento” e mi fissò con un sorriso furtivo e incontenibile”.

Quando l’amico gli propone inaspettatamente una gita di alcuni giorni sulle colline che li aveva visti condividere da ragazzi lunghe passeggiate, conversazioni impegnate, litigi, donne, bevute e canzoni (“Avevamo allora l’età che si ascolta parlare l’amico come se parlassimo noi”), intuisce che forse nelle attuali esistenze di entrambi non tutto è sereno e invidiabile come sembra. E il ritrovato affiatamento tra loro lo riempie di emozione: “Ciò di cui sono certo è la gioia, l’improvvisa beatitudine, che provai tendendo la mano a toccare la spalla di Doro. Ne sentii il sussulto nel respiro, e improvvisamente gli volli bene perché dopo tanto tempo eravamo tornati insieme”.

Dopo aver raggiunto Doro e Clelia in vacanza sulla riviera ligure, il professore ha la conferma di una sofferta reciproca estraneità all’interno della coppia. Pur tentando qualche timida mediazione e incoraggiando la rivelazione di eventuali segreti, non riesce a comprendere i reali motivi del loro disaccordo. Inoltre, gli pesa l’atmosfera creatasi nel gruppo degli amici vacanzieri dei due sposi: “Provavo il mio solito piacere scontroso a starmene in disparte, sapendo che a pochi passi fuori dell’ombra il prossimo si agitava, rideva e ballava…”. Clelia, affascinante ed enigmatica, finge spensieratezza tra bagni di sole, futili pettegolezzi e flirt appena accennati, cercando vanamente di nascondere un’evidente malinconia e un timore sempre sospeso; Doro, silenzioso ed evasivo, si apparta dagli altri nuotando per ore, o dipingendo acquerelli marini. I due, circondati da comparse vanesie, volgari o smaniose, mantengono una loro signorile riservatezza, che affascina e insieme inquieta l’amico professore, il quale solo nell’ultimo capitolo arriva a comprendere, di fronte a un’imprevista e decisiva svolta nel rapporto tra marito e moglie, che i sentimenti altrui sono imperscrutabili, e vanno rispettati nella loro indefinibile segretezza.

Pavese offre il meglio della sua scrittura sia nella caratterizzazione psicologica dei tre protagonisti e degli altri personaggi, sia nella descrizione del paesaggio: “andai in cerca di una stanza, e la trovai in una viuzza appartata, con la finestra che dava su un grosso ulivo contorto, cresciuto inspiegabilmente proprio nel mezzo dell’acciottolato. Tante volte in seguito, rientrando solo, mi capitò di guardarlo sovrapensiero, che è forse la cosa che meglio rivedo di tutta l’estate. Visto dal basso, era nodoso e scarno; ma dalla stanza, quando m’affacciavo, era un sodo blocco argenteo di foglioline secche accartocciate”.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › La-spiaggia-Pavese 1 giugno 2021

 

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PAVESE

CESARE PAVESE, IL COMPAGNO – EDIZIONI CLANDESTINE, MASSA 2020

L’incipit de Il compagno è memorabile, una delle frasi più note della narrativa novecentesca:
“Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra”. Pablo e la sua chitarra sono una cosa sola, infatti: lui la suona nelle feste di quartiere, tra amici che vogliono solo cantare a squarciagola, fare casino, divertirsi: senza alcuna reale attenzione per la musica e l’abilità dell’interprete. Poi, improvvisamente, il giovanotto perde ogni interesse per lo strumento, per la tabaccheria di famiglia in cui lavora, per le facce che gli stanno intorno. E lo ripete in continuazione, “sono stufo”, “voglio andare via”. Si tratta di un topos nei romanzi di Cesare Pavese. Tutti i suoi protagonisti desiderano partire, tentare la fortuna altrove, uscire dall’abbraccio soffocante delle abitudini e degli affetti parentali. Poi tornano, in genere nostalgici e sconfitti.

Per Pablo il momento discriminante, quello in cui ci si confronta con la propria esistenza mettendola in discussione, è l’incidente occorso al suo più caro amico, Amelio, finito in un fosso con la moto e rimasto paralizzato. Lo va a trovare, steso nel letto e disperato; suona la chitarra per distrarlo, bevono insieme, parlano o stanno zitti. Incontra nella stanza la ragazza di lui, Linda, uscita incolume dall’incidente; ne aspira il profumo, la osserva prendersi cura del malato, muovendosi con leggerezza tra il letto e la cucina. Se ne innamora.

Pablo e Linda iniziano a frequentarsi, vanno a ballare, e poi a letto insieme. Tra loro, ingombrante, il pensiero fisso di Amelio costretto all’immobilità, rabbioso, tra bottiglie di liquore e sigarette. Tentando di distrarsi, e di non sentirsi in colpa, Pablo esce con i compagni di sempre (Lario, Gigi, Martino, Chelino), torna con loro nelle trattorie a suonare, o in bicicletta sugli argini del Po fino alle colline. La notte, attraversa a piedi una Torino deserta. Entra nel giro un po’ losco degli amici di Linda, teatranti e ballerine, ma se ne stanca presto: “Certi giorni, a pensare quanta gente c’è a questo mondo, anche poveri diavoli che nessuno conosce, mi veniva una voglia di andarmene a spasso, di saltare sopra un treno, che quasi gridavo… ne avevo abbastanza e capivo che ormai tutta quanta Torino e il mestiere e le strade e le pietre di casa non bastavano più a darmi pace”.

Allora cambia lavoro, fa il meccanico e gira col camion, pur continuando a suonare la chitarra, a ballare nelle sale, a ubriacarsi. Ma quando Linda lo lascia per un altro, decide di accettare la proposta di un amico, seguendolo a Roma. “Mi piaceva di Roma proprio quel fare perditempo che si sente nell’aria. uscivo e andavo a spasso… Mi guardavo le strade e i palazzi, e ce n’erano di così vecchi e mai visti, che soltanto i romani li avevano fatti”.

La capitale, in quegli anni fascisti antecedenti la guerra, non è per Pablo solo aria tiepida, donne in carne, osterie e monumenti: è soprattutto la scoperta di una nuova coscienza civile, la volontà di opporsi a una dittatura ingiusta, lottando a fianco dei lavoratori sfruttati, organizzando scioperi e riunioni politiche clandestine. Rinuncia a Linda riapparsa a Roma per rivederlo, rinnega gli anni sventati della giovinezza torinese, diventa uomo scoprendosi comunista. Trova lavoro in un’officina che ripara bicilette, e presto intreccia una relazione con la proprietaria, una giovane vedova “brusca e asciutta”. Tuttavia, la vocazione per cui combattere non è più l’amore, bensì la resistenza contro il regime, la solidarietà con i nuovi amici: Giulianella, Dorina, Carletto, Fabrizio, Luciano. E Gino Scarpa, reduce dalla guerra di Spagna, che lo fa crescere intellettualmente, attraverso incontri, letture, lunghe discussioni. Pablo infine viene arrestato, passa in cella alcuni giorni, per essere poi sottoposto a sorveglianza speciale nella sua città di provenienza, Torino. Lascia Roma, adulto, consapevole, pronto a rimettersi in gioco. “Le cose importanti, le cose che buttano a terra, queste cose succedono per conto loro. Vengono addosso come un camion, come una brutta polmonite, e dietro c’è qualcuno che ci gode e che gioca”.

Nel descrivere lo sviluppo della consapevolezza antifascista di Pablo, lo stile di Cesare Pavese diventa sempre più scarno, i dialoghi franti e veloci, a imitazione dell’ansia ribelle del protagonista e dei co-protagonisti, “compagni” come lui.

© Riproduzione riservata  SoloLibri.net      13 luglio 2021

 

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PAVESE

CESARE PAVESE, LA FAMIGLIA – ENSEMBLE, ROMA 2021

Il racconto di Cesare Pavese La famiglia, da poco riproposto dalla casa editrice romana Ensemble, ci riporta alle atmosfere tipiche di questo autore, ai suoi luoghi piemontesi solitari e ombrosi, al male di vivere dei suoi personaggi, al timbro sommesso e sconfortato della sua scrittura. E senz’altro al nucleo fondante del suo disagio esistenziale, all’aridità di affetti patita nel rapportarsi con gli altri, ulcerosa e insopprimibile.

Protagonista del racconto è un giornalista trentenne introverso e scontento di sé, Corradino, che vive “con un’ansia annoiata” la propria quotidianità, passando da solo i pomeriggi estivi sulle rive del torrente Sangone, deciso ad abbronzarsi con la smania di cambiare pelle, “per diventare un altro”, senza però cambiare nessuna delle sue radicate abitudini. Così si confessa a un amico: “io la gente, e special mente le donne, li avevo sempre trattati allo stesso modo: conosciuti e piantati. Con nessuno ho mai fatto vita in comune né assunte le mie responsabilità. Non sono amico di nessuno”.

Animato da “un desiderio di solitudine antico”, e contemporaneamente ossessionato all’idea dell’immutabilità della sua esistenza, si rassegna a frequentare donne che non ama, finché una sera ritrova Cate, amica degli anni universitari: “un’impiegatuccia” divenuta artista di varietà, molto diversa da quando l’aveva conosciuta: “Anche la voce era mutata: aveva scatti, aveva nella franchezza un’energia, una   prontezza aggressiva che appunto sapeva di palcoscenico”.

I due riprendono a frequentarsi, dapprima con qualche imbarazzo e reticenza, in seguito inseguendo una disinvoltura difficile da ristabilire. Entrambi privi di legami sentimentali stabili, faticano a confidarsi reciprocamente, non tanto per diffidenza, quanto per una specie di pudica riservatezza. Cate in maniera del tutto imprevista presenta all’amico il suo bambino di sette anni, che ha cresciuto da sola, lasciando intendere di averlo avuto proprio da Corradino, in un fuggevole rapporto sessuale. L’uomo entra in crisi, sospetta un inganno ma è tormentato da dubbi e sensi di colpa, da improvvisi desideri di paternità e paralizzanti paure: “un uomo, per quanto in gamba, è come un                  ponte che ha una certa portata e non oltre. Viene un carretto         che pesa di più, e il ponte crolla”. Spia Cate indagando sui suoi rapporti con possibili corteggiatori, cerca nel ragazzino, che porta il suo nome, eventuali somiglianze fisiche o caratteriali. Infine, tentato dalla volontà di ancorare la sua esistenza a un ormeggio più solido, propone all’amica di sposarla. Ma il racconto si chiude, come molto spesso in Pavese, in modo vago e sospeso, con i due che si lasciano non si sa se per poco o per sempre, “dicendosi cose inutili e cortesi… senza cerimonie,         quasi senz’imbarazzo”.

L’approfondito e interessante commento del postfatore Riccardo Deiana si sofferma sulle varianti che lo scrittore piemontese impose al testo, scritto nel 1941 e riveduto più volte, quasi fosse un canovaccio sperimentale per prove narrative di maggiore impegno. Le similitudini, di contenuto e formali, con altri romanzi dello stesso periodo (La bella estate, La spiaggia, Feria d’agosto), sono evidenti nella tensione tipicamente pavesiana tra una realtà deludente ma vincolante e l’aspirazione a una sovrarealtà mitizzata e irraggiungibile. La vita quotidiana viene subita dal protagonista con “irritazione e rabbia”, in una gabbia spazio-temporale a cui cerca di sfuggire rifugiandosi nella solitudine, o in una sorta di eden naturale protettivo e consolatorio, che tuttavia finisce per ribadire l’immutabilità della sua situazione esistenziale. Corradino riassume, nella sua incapacità di scegliere il cambiamento, attendendo dal destino un imprevisto che gli imponga decisioni che non sa assumere, tratti caratteristici di molti personaggi maschili di Pavese, e della stessa indole dell’autore, soprattutto nella sua vocazione e paura dell’isolamento.

Nel Mestiere di vivere, il 15 maggio 1939, infatti scriveva: “Tutto il problema della vita è dunque questo: come rompere la propria solitudine […]. Co sì si spiega la persistenza del matrimonio, della paternità, delle amicizie”. Tre argomenti topici del racconto che abbiamo esaminato.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › La-famiglia-Pavese22 ottobre 2021

 

 

 

 

 

 

 

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PAZZI – MARTY

ROBERTO PAZZI, IL BAMBINO ; INSEL MARTY, CAPO DI NOTTE – GUIDA, NAPOLI 1991

Già più di venti sono i volumetti usciti per i tipi dell’editore napoletano Alfredo Guida nella collana  La Clessidra; volumetti bifronti, doppi e incrociati, metà bianchi e metà neri, con due racconti diversi di due diversi autori: uno molto noto, e uno meno, o affatto. Letto il primo testo si capovolge il libro proprio come fosse una clessidra, e si inizia il secondo. Formula intelligente e spiritosa che permette di attirare l’attenzione dei lettori su scrittori esordienti, dimezzando le spese di pubblicazione. Da alcuni mesi si trova in libreria la coppia Roberto PazziInsel Marty, in passato già a fianco nella redazione della rivista Sinopia, autori di due racconti lunghi differenti tra loro quanto tematica, simili per gusto e per sensibilità. Attenti ai moti dell’anima e ai viaggi della mente, più interessati all’individualità che alla collettività, Pazzi e Marty sembrano apprezzare in misura maggiore la miniatura che l’affresco. Roberto Pazzi, che si era imposto nell’85 con Cercando l’imperatore, romanzo sulla Russia della rivoluzione, racconta qui con la cura per le sfumature e la delicatezza d’accenti che gli sono propri, la storia semplice di un bambino, semplicemente intitolata appunto  Il bambino. Ritratto dello scrittore da piccolo, autobiografia fiabesca (già dall’incipit «Molti anni fa, in un piccolo paese, nacque, sotto il segno del Leone, un bambino») e malinconica di un ragazzino come ce ne sono tanti, senza particolari drammi e grosse infelicità, ma con un’evidente inclinazione alla fantasticheria, alla tristezza immotivata. Il bambino è nato in una città di mare, ma presto è stato portato a vivere nella pianura nebbiosa, come in esilio, all’ultimo piano di un palazzone tetro: «seppe subito di essere prigioniero e molto presto vide nelle stazioni e nei treni la magia della liberazione». L’avventura grande della sua esistenza è il viaggio estivo che riporta al mare lui e la mamma, sottraendoli alla noia dei riti paterni (le partite alla radio, i discorsi sportivi – metafora di ben altre aggressività e umiliazioni-, il lavoro ripetitivo in banca), alle passeggiate educative con il vicino di casa, ai rapporti difficili coi parenti più ricchi. Il bambino è protagonista involontario di fondamentali scoperte: il telefono misterioso, che sa svelare la «fittizia teatralità» di chi lo usa, la lettura miope del quotidiano, indagato dai grandi solo nella pagina dei morti, l’universalità della cultura intuita attraverso le eterne romanze di Verdi… E’ un mondo piccolo, ripiegato su se stesso, quello in cui il bambino vive, in anni – quelli del dopoguerra – nei quali la politica si impone come tragedia ignorata dai più. Lui ne recepisce solo echi lontani, meno interessanti delle voci che gli parlano dentro. Diverso è il tema di  Capo di notte, racconto lungo di Insel Marty, analista junghiana che risiede a Firenze, autrice di versi e raccolte poetiche tra le più originali degli ultimi anni: è alla sua prima prova narrativa, e fa ben sperare per il futuro. Protagonista della sua storia è un giovane intellettuale, glottologo nella formazione e nelle aspirazioni, per necessità taxista notturno, che indaga l’aspetto oscuro della città, dei colleghi e dei clienti con l’ansia del filosofo e del mistico, sperando di imbattersi almeno in una risposta alle tante domande che lo tormentano. Emiliano vive un difficile e disincantato rapporto “diurno” – e nel suo universo mentale il giorno appartiene alla banalità, alla ripetitività, all’inautentico – con una quasi moglie indolente e gattesca, una Fausta che ama cucinare col burro e ciondolare in disordinata attesa di lui. Ma la vita vera è quella passata a bordo della sua vecchia Citroen, la Tilde O, con i minuti scanditi dalla voce femminile della centrale, e i passaggi offerti alle persone più strambe. Una coppia di musicisti in crisi, due gemelli lestofanti, e infine una misteriosa ragazza che si fa portare al canale, in cerca di volpi o lepri che danzino alla luna. Con questi personaggi il taxista riesce a superare le convenzioni di colloqui insipidi, riesce ad attingere a scampoli di autentico che illuminano la notte esterna e interna ai pensieri. Insieme a loro è testimone di visioni improvvise e inebrianti: uno sciamare di zingarelli imprevisti che sbucano dal buio per poi farsi improvvisamente ringhiottire, un gruppo di Hare Krishna ondeggianti festosi nella nebbia, prostitute ferme ai falò, visioni reali che si alternano a memorie di infanzia (volti, cani, periferie del passato), implorando quasi una partecipazione, una sofferenza. Tutto, meno che l’indifferenza. Al racconto, fascinoso e in qualche modo turbante, nuoce qualche eccesso di disinvoltura analitica, qualche citazione professorale che fa capolino qua e là («Di giorno lo spettro linguistico spazia tra fonemi visibili, non cade nell’infrarosso animale né svetta ebbro sull’ultravioletto della mente»; «Ma proprio questa potenza ad Emiliano appariva coercitiva in modo intollerabile, non faceva gioco bensì necessità – era come la flagranza accecante del bios»). Sono stecche narrative che finiscono per rompere l’incanto, il tono favoloso che lega i vari episodi, così come il finale pare inadeguato rispetto alle attese del lettore, quasi che l’autrice si fosse spazientita dei suoi stessi indugi.

 

«L’Arena», 7 maggio 1992

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PEANO

MARCO PEANO, L’INVENZIONE DELLA MADRE – MINIMUM FAX, ROMA 2015

Questo non è solo un romanzo scritto bene (cosa di cui, in questi tempi di letteratura sciatta dovremmo già essere molto grati all’autore), ma è soprattutto un romanzo da cui traspaiono con pudore sentimenti che abbiamo timore di riconoscere persino in un libro, oltreché dentro di noi: pietà, dedizione, gratitudine, e insomma in una parola sola, amore. L’amore più inevitabile e radicale, quello che unisce un figlio a una madre che sta morendo. Marco Peano lo racconta senza retorica e senza compiacimenti, quasi a dirci: “è così, ho perso mia mamma e non sono riuscito a salvarla, e adesso sono vuoto, ho paura, mi sento solo, quasi in colpa per esserle sopravvissuto”. Un’agonia straziante e ingiusta, quella di questa dolce signora poco più che cinquantenne, malata di un cancro recidivo, in metastasi progressiva, che lentamente le fa perdere mobilità, parola, pensiero e dignità. Il suo unico figlio Mattia, universitario fuori corso, aspirante cineasta ma lavoratore precario e sottopagato, la cura con l’abnegazione che si può riservare a un neonato, lavandola e medicandola, accompagnandola alle terapie, trepidando per ogni ripetuto intervento chirurgico, ribellandosi alla curiosità morbosa o imbarazzata di vicini e parenti, difendendola da tutto e da tutti: anche da se stessa, dalle paure e dai cedimenti, dalla voglia di andarsene per non soffrire più e per non disturbare più. Mattia si occupa della madre con “tenace commozione”, tentando ostinatamente di trovare rimedi alternativi al progredire della malattia, rifiutandosi di credere all’ineluttabile. Vicino a lui il padre, quasi catatonico di fronte al dolore, e la sua ragazza, affettuosa nel tentativo di distrarlo. Ma niente serve ad allontanare strazio e timore, e l’interrogativo senza risposta: “perché?”. Peano affronta i grandi temi della vita e della morte con una lievità e un’eleganza di stile assolutamente non casuali, né contrabbandabili: com’è doveroso quando si fanno i conti con la sofferenza.

IBS, 4 marzo 2015

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PECCHINI

ANTONIO MARIA PECCHINI, QUI NEL CONTINUO DEI GIORNI – NOMOS, Busto Arsizio 2023

Nelle due sezioni in cui si suddivide il libro di Antonio Maria Pecchini (Del disamore e Nel continuo dei giorni), la seconda parte che dà il titolo al volume è la più rilevante, sia come consistenza di pagine sia per l’intensità del messaggio trasmesso.

Pecchini (Busto Arsizio 1947) – docente di arte, scultore e pittore – ha già pubblicato con Nomos altri due volumi di versi, con notevole successo di pubblico e di critica: Qui nel continuo dei giorni nasce da un percorso di riflessione e sofferenza personale, segnato da particolari situazioni di salute, che si intreccia con quello collettivo attraversato dalla società durante il Covid. L’autore si trova improvvisamente catapultato in una realtà inattesa e dolorosa, messo “fuori gioco” dalla malattia che “misura il vivere, modula tempi, / rallenta desideri, cancella sogni d’avventura”. Sconcerto dolore paura sono i sentimenti prevalenti di chi deve affrontare una situazione non prevista, come il ricovero in ospedale, un’operazione, cure impegnative, esercizi di riabilitazione, costretto nella solitudine e nel silenzio di una camera dalle pareti bianche, su cui la mente proietta ombre minacciose.

La consapevolezza della propria fragilità fisica, il pensiero della fine, il desiderio di prolungare la normalità di un quotidiano non abbastanza apprezzato in precedenza, induce a godere di ogni piccola ma preziosa gioia offerta dalla vita. Abbandonarsi al ritmo regolare e monotono del proprio respiro diventa àncora di salvezza, nell’assicurare la sopravvivenza: si affaccia la consapevolezza di una necessaria solidarietà con chi patisce un’uguale, angosciosa afflizione, soprattutto con gli anziani che si affidano alla memoria per ritrovare in sé il ricordo di giorni più felici. Il perseverare costante delle rime utilizzate nel volume esprime una rassicurante consolazione melodica nell’imperversare del male, con la sua prosaicità concreta, impersonale e severa.

La storia privata si confronta con quella collettiva, fatta di guerre e violenze, ingiustizie e sopraffazioni: negli stessi terribili mesi infuriano virus micidiali e bollettini bellici, a sottolineare la presenza incombente della morte nel mondo: “troppi sono i lutti / da dover conteggiare nei giorni, troppe / le reliquie da poter conservare nel tempo”. I termini cui si affida l’autore indicano una negatività subita con amarezza e impotenza (assedio- letargo- scacco- cul de sac- resa- smarrimento- balbettio), e gli esseri umani sono considerati “ostaggi”, “reduci”, “battuti”, pedine mosse sullo scacchiere internazionale da potenze sovrastanti nella loro indifferenza ai destini dei singoli.

Osservando i “segnali choc / dalla storia”, il dolore individuale si confronta con l’iniquità patita da tutte le vittime della “costante durezza / di un giogo, assegnato da tempo, /   da prepotenti occidentali certezze”. Nel nostro minuto procedere giornaliero, “persi come siamo in guerre personali”, “abbiamo negato / domande attorno al senso del vivere, ricco / semplicemente del tepore d’un breve raggio di sole”, confusi e distratti in “un mondo disattento, / soltanto attento ai tanti bla, bla, bla”. Invece proprio “Qui nel continuo dei giorni” dovremmo riuscire a superare, con ritrovato ottimismo e con testarda speranza, il male sofferto da ciascuno e da tutti. La riflessione di Antonio Maria Pecchini diventa indicazione filosofica, appello alla positività, invito ad aprirsi coraggiosamente al futuro: “passerà, domani passerà / e ancora saremo tra noi / a benedire i giorni e insieme / a contemplare la bellezza del creato”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net              14 gennaio 2024

 

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PECORA

ELIO PECORA, NEL TEMPO DELLA MADRE – LA VITA FELICE, MILANO 2011

Elio Pecora, prolifico e stimato poeta salernitano, dedica questo delicato poemetto (definito alla greca “epicedio”) alla figura della madre, morta centenaria dopo una lunga e invalidante malattia. E il contrasto tra gli anni ultimi, sofferti e in ombra, nonostante il traguardo raggiunto («cent’anni, ad aprile, un sabato: / come una meta, un traguardo / il premio di questo disfarsi / in un torpore che annaspa»), e la vita piena, felice, ormai trascorsa, risalta prepotente già nei versi di apertura: «Che n’è di quella di un tempo? / Dov’è mai stata? ma quando?». Non esistono più piedi leggeri, capelli vaporosi, le mille attività in casa e nell’orto, i discorsi con le amiche e i parenti che invadono l’abitazione. Gli anni della vecchiaia sono segnati da «l’arco dei denti nel bicchiere, / ecchimosi sugli avambracci, / livido il cranio, le dita / palpano il fazzoletto, le pupille velate…». E poi ancora la casa vuota, ricordi annebbiati e confusi, fotografie ingiallite, la badante moldava…
Allora al figlio poeta non resta che cantare, con strazio e malinconia, la «minima storia» di sua madre, che faceva Elena di nome, nata ultima e indesiderata dopo tredici fratelli e sorelle: ma subito vezzeggiata e amata più degli altri. Il paese campano, all’inizio del novecento, era «scosceso / fra le colline e la valle, / dietro gli ulivi e le selve / di castagne e di abeti», tormentato da dissesti geologici, incuria e povertà. La storia ufficiale veniva subita con rassegnazione, e maledetta: guerre, emigrazioni, fascismo… Ma la bambina Elena cresceva slanciata e dolce, suonava il piano, cantava in chiesa: fino a raggiungere l’età da marito, quindi il matrimonio con uno sposo sempre lontano («L’uomo dagli occhi azzurri / andava per mare, / ritornava distratto, / tornava per ripartire») e la nascita di due figli maschi. Il primo, il poeta che racconta: «A quel bimbo la madre / si mostrò uguale e compagna / nell’aspro amato viaggio / che non s’è ancora compiuto».
All’interno del tanto tempo condiviso dai due si è incuneata la storia di tutti, diventata individuale nel dolore di lutti familiari, stenti economici, sogni disillusi, abitudini domestiche cui aggrapparsi per andare avanti. Cose piccole, che poco aggiungono alla profondità insondabile dell’amore filiale: «Resta una ressa di oggetti, / anche rotti, perduti… E tutto il resto che è stato? / Le ansie, le febbri, i ritorni? / Che n’è delle notti, dei giorni / trascorsi, che delle attese? / … E’ tutto e così poco, / ma questo tempo è dato. / Pure da questo poco / non vuole partire, / se pure è un sogno, un gioco».

Gli anni recenti sono i più penosi, con la madre «curva, rimpicciolita», chiusa nell’egoismo senza parole dei suoi pochi gesti, e il poeta intristito, forse rancoroso: «Il primo figlio, quello / non s’allontana, / entra, socchiude le imposte, / la siede in poltrona, / è quasi vecchio, / si pretende felice, / grida che è stanco, / s’infuria, la maledice».
Un rapporto intenso, sofferto e travagliato, quello tra la madre e il figlio scrittore, se ancora adesso lui si interroga: «Da che può intendere il figlio / se la madre l’ha amato?», e conclude il poemetto con una constatazione angosciata: «Si sono traditi entrambi, / il figlio e la madre».
L’elegante edizione de La vita felice, che in copertina riporta una vecchia fotografia color seppia della madre di Elio Pecora, è corredata da un’approfondita e partecipe nota critica di Gabriella Fantato.

 

«Incroci» n. 29, giugno 2014

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PEDROLI

GUIDO PEDROLI, IL SENSO E LE PAROLE – CASABLANCA, BELLINZONA 1990

Certamente un importante fattore di giudizio nella valutazione di un testo è costituito dalla sua resistenza nel tempo, dalla sua capacità di non lasciarsi ossidare dalle mode, di mantenere una sua pregnanza di significato anche in diversi contesti culturali. Gli scritti di Guido Pedroli, pubblicati a trent’anni dalla sua morte, in un primo volume curato da vari studiosi per le edizioni Casablanca di Bellinzona, godono di questo raro privilegio, conservano dopo un così lungo periodo di silenzio, e forse di ostracismo, tutta la lucidità teorica e il peso politico di quando furono scritti. Si tratta di articoli, pubblicati tra il 52 e il 62 per lo più sulla stampa ticinese, di contributi a convegni, di introduzioni a volumi, limpidi e decisi nella prosa, correttamente polemici nelle argomentazioni e nei contenuti. Fu un maestro, questo giovane filosofo ticinese, cresciuto alla scuola di Abbagnano e di Paci, a cui solo una malattia crudele e inaspettata ha impedito di diventare una voce autorevole del pensiero e della cultura svizzera di questo secolo. Del maestro aveva la vocazione e la caratura morale: lo possiamo dedurre dalle pagine vibranti di sdegno verso una scuola che isterilisce e non educa, verso una pedagogia «addomesticata alle esigenze produttive di una società che tende a svuotare l’individuo, a ridurlo sempre più al rango di strumento efficiente, di essere che produce servizio (…). L’uomo ha la sua unica espressione nel “Job”, dal suo lavoro riceve l’individuazione, ma è individualità non sua, individualità senz’anima: la pedagogia che ne deriva è quella (…) che si preoccupa esclusivamente di adattare l’uomo alla funzione che esso è destinato a ricoprire nella società (1952)».

Sembra di rileggere i Quaderni piacentini degli anni 70, o Ivan Illich. Ci sono anche altre espressioni che hanno una valenza esplosiva contro la didattica rigida e funzionalistica tanto in voga oggi: «E nemmeno bisogna distogliere il maestro dalla ricerca personale. Più si diventa persona e più si diventa maestro. E un valore conquistato per sé è una valore conquistato per tutti gli altri. L’educazione deve dunque andare contro corrente rispetto all’attivismo moderno. Se il mondo moderno ci svuota e ci esteriorizza, la scuola ha il compito di riportare l’uomo dentro se stesso, di fargli ritrovare la sua natura spirituale e personale».

C’è quasi una foga missionaria in questo compito del docente, che Pedroli individuava non solo nel suo lavoro di professore, quanto proprio nel ruolo di intellettuale al servizio di una regione, di una cultura. Idealismo, certo, ma non donchisciottismo: gli obiettivi a cui mirare erano – e sono – ben concreti, armati, resistenti, gli interessi da scalzare enormi. Pedroli non lottava contro i mulini a vento, e le sue parole assumevano spesso uno slancio cui la morte precoce ha consegnato un senso quasi profetico. Temi privilegiati erano i giovani: «…i giovani quando si aprono al mondo, hanno il diritto di sentirlo davanti a loro come mondo da conquistare. Nostro compito è solo di fornire loro i mezzi tecnici e culturali perché possano orientarsi in esso e trasformarlo, e non già di deprimere i loro entusiasmi e prepararli ad una accettazione supina e rassegnata».

E la politica: «Io sono convinto che democrazia e civiltà si difendono nel socialismo. Alla domanda che cosa ci distingue dai comunisti, risponderei: ‘una diversa concezione dell’uomo’. Anzitutto una diversa concezione della sua individualità. Il comunismo considera la realizzazione di una società senza classi dal punto di vista della storia universale: l’uomo è un elemento trascurabile di questo processo storico assoluto e può quindi essere sacrificato, l’uomo di oggi, alla felicità dell’uomo di domani. Il socialismo invece tiene fermo l’uomo nella sua individualità. La storia è storia di uomini e non di ragione; la nuova società sarà quindi realizzata dagli uomini, non contro di essi)».

Ma è soprattutto la situazione della cultura ticinese, l’ambivalenza di fondo in cui sono costretti a vivere gli intellettuali del suo cantone, a suggerirgli articoli insieme orgogliosi e sprezzanti, comprensivi e infuriati: «Il Ticino è svizzero ma non è la Svizzera, è italiano ma non è l’Italia… C’è un complesso verso l’Italia, che è insieme di superiorità – l’ordine, l’onestà, l’automobile e il frigorifero che abbiamo come Svizzeri – e di inferiorità – la facilità di parola, la fantasia di vivere che si sono appannate da quando non siamo più italiani…- Il protezionismo della cultura, se favorisce la quantità della produzione, non favorisce certamente la qualità. Le acque si fanno stagnanti, si forma un’aria viziata, di serra, la fauna e la vegetazione è troppo fitta e rigogliosa per essere ricca di nerbo, di vita. Ecco allora il Ticino diventare la più provinciale delle province…Come lo scrittore romagnolo e piemontese portano, il più delle volte, l’impronta caratterizzante della loro terra, a maggior ragione la porteremo noi, di questa valle che la frontiera ha reso tanto diversa dalle altre valli italiane. L’Italia non aspetta nulla da noi. Quasi non sa che esistiamo. Ma se le facciamo nascere un fiore, vuole essere un fiore della nostra terra».

Non c’è nulla da riassumere, da tagliare, da contestare: sono considerazioni che hanno l’evidenza della verità, validissime ancora oggi, da sottoscrivere in toto. Un’intelligenza cristallina, quindi, quella di Guido Pedroli, e una moralità altrettanto forte ed esemplare, come si può dedurre dalle poche pagine del diario presentate nel volume. Pagine che rasentano l’altezza degli insegnamenti di Mounier, la severità etica del Sisifo camusiano: «Essere nel mondo e tra gli uomini – questo è il problema che devo risolvere. Oggi non è più possibile per me lasciarmi vivere – porterei sempre con me il senso di sprecare la mia vita, di non fare ciò che appunto il mondo e gli uomini chiedono da me, di sotterrare i miei talenti, pochi o tanti che siano. E d’altra parte debbo superare una volta per tutte la fissazione che per fare “qualcosa”, per non disperdere la propria vita nel mondo, occorre sacrificare il mondo. Non si tratta di fare “qualcosa” – giungere a una cattedra o scrivere un libro importante – si tratta semplicemente di non abdicare al posto che ci è assegnato, non fuggire la responsabilità che abbiamo il dovere di assumerci, esaudire nel modo migliore il proprio compito».

Non abdicare, non fuggire, esaudire il proprio compito. Semplicemente.
Fosse facile.

 

«Agorà» (Svizzera), 15 maggio 1991

RECENSIONI

PENNA

SANDRO PENNA, UN PO’ DI FEBBRE – MONDADORI, 2019.

Colgo l’occasione dell’opportuna e nuovissima pubblicazione mondadoriana in edizione economica delle Poesie di Sandro Penna (Perugia 1906- Roma 1977) per proporre una rilettura delle sue prose uscite nel 2019 con il titolo di Un po’ di febbre. Entrambi i volumi sono risultati da una ponderata scelta dello stesso autore, che così commentava l’antologia poetica del 1973: “Queste sono le poesie che al di fuori di qualsiasi critico io stimo più di tutte. Sarebbero insomma quello che io lascerei ai posteri se posteri esisteranno”. I posteri, che continuano ad amare i suoi versi (e come non amarli?) per fortuna esistono e resistono. Un po’ di febbre raccoglie racconti e pagine di diario, scritti dal 1939 al 1941, in cui si ritrovano i temi tipici di tutta la produzione penniana: l’esaltazione della corporeità, lo stupore per qualsiasi bellezza fisica e naturale, la delicatezza dei sentimenti, la luminosità del paesaggio e l’icona del fanciullo, puer aeternus, simbolo di un’infanzia da celebrare nella sua innocenza primitiva.

Giustificando la propria personale selezione, il poeta umbro così si era espresso: “Queste pagine attestano un rapporto febbrile con la realtà e con il mio lavoro di poeta e le ho sistemate, non secondo un ordine cronologico, poco rilevante, ma una progressiva chiarificazione; per il lettore ovviamente e non per me”. Chiarificazione non tanto stilistica, c’è da immaginare, dato la coerente e costante liricità della sua prosa, quanto sentimentale, accomunante il trasporto emotivo nei riguardi di ciò che a lui pareva degno di attenzione, sgomento, suggestione, meraviglia. “L’atteggiamento percettivo”, di cui parla Roberto Deidier nella sua appassionata introduzione al volume (con commosse parole di poeta che legge e interpreta un poeta), è del tutto evidente in questi racconti, nell’applicazione concentrata con cui l’autore osserva e segnala ciò che appare ai suoi cinque sensi: ogni movimento, espressione, suono, parola, profumo, contatto fisico. Anche quando non attuale e presente, ma rivissuto e riassaporato nella memoria, come viene ribadito nell’uso frequente dei verbi all’imperfetto: andavo/a, guardavo/a, parlavo/a…

Da “flâneur impenitente”, Sandro Penna cammina a lungo e ovunque, si sposta in tram, in corriera o in treno, scruta ed esplora, studia strade, spiagge, fiumi, campagne, osterie, si ferma a parlare con tutti, entra nei negozi e chiede informazioni, non si sottrae a qualsiasi fenomeno atmosferico, dal caldo asfissiante al piovasco leggero fino al diluvio più inclemente. Ma soprattutto appare sensibile alla luce, al chiarore del cielo, all’aria limpida e frizzante. Più di quaranta sono le reiterazioni del sostantivo luce, spesso accompagnato da aggettivi (turchina, fresca, tenera, estiva), oppure riferito agli sguardi e ai sorrisi: “una felice luce canzonatoria negli occhi vividi; gli occhi avevano sempre quella luce scintillante e infantile; la luce era nei denti e nelle labbra perfino”. Come non ricordare i quattro versi semplicissimi, pacati e straordinariamente felici di una sua poesia in cui il mare risplende di una pace serenamente raggiunta e illuminata? “Il mare è tutto azzurro. / Il mare è tutto calmo. / Nel cuore è quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo”.

Quest’ansia di luminosità, di leggerezza, di candore cercata e amata nell’aria intorno, è ovviamente simbolo e sintomo dell’aspirazione all’innocenza che Penna cercava di trovare sia nell’ambiente naturale, sia nei rapporti personali istintivi e meno costruiti, sia nella visione e frequentazione di adolescenti non ancora corrotti dalle abitudini e dalle imposizioni degli adulti. “Pensavo come evidenti siano le ragioni dell’amore che tutti portiamo ai giovani. Essi hanno la vita, che a noi tutti piace. E non hanno altro piacere che di scambiarla con la nostra povera noia. Vendono una merce preziosa e sovrabbondante, e non hanno bisogno di essere pagati. Di nessuna moneta hanno essi bisogno. Non hanno nulla da comperare”. Un inno alla vita in tutte le sue manifestazioni, talvolta anche le più torbide, ma rese meno brutali dalla profondità del sentirsi parte di un’esistenza condivisa nel bene e nel male del mondo: “Eppure la vita, ogni giorno, fosse sotto un ardente sole, fosse sotto una pioggia autunnale, ci dà, vuol dare ad ogni costo una smentita alla nostra stupida noia, un fresco bacio ora sulla casta fronte, ora sulla fervida bocca”.

Ne abbiamo testimonianza in molti racconti in cui il poeta avvicina dei ragazzi, sentendosi appagato dal solo guardarli, e non restando mai avvilito o contrastato dalla loro totale indifferenza. Spesso è un desiderio fisico, il suo, che sfiora i corpi, turbato, ma non si impone e non si impossessa. Lo sguardo che posa su questi adolescenti è ansioso, stupito, emozionato, a partire dal testo iniziale, in cui il cuginetto Quintilio (“esile e dritto… calmo e lucente”) lo saluta scontrosamente da lontano; così il bruno bigliettaio del vaporetto di Venezia, e ancora il contadinello grossolano osservato in biblioteca, il neghittoso garzone di un bar, l’apprendista del barbiere, i giovincelli seduti al cinema, i marinai che fanno a botte per scherzo e ridono di lui. In questo modo li descrive: “Il ragazzo si volse appena, e allungandosi di più sulla poltrona tirò dalla sigaretta una boccata più languida che mai. I suoi capelli erano proprio quelli dei giovinetti delle statue antiche, e tutto il resto era forse lo stesso con in più il fuoco di quegli occhi e di quella sigaretta nel crepuscolo romano”, “si vedrà quel suo sorriso, quel suo ripiegare la testa dolcemente e malinconicamente e subito dopo, ma subito subito, esplodere in risate aggressive dolcemente, come una grandine primaverile”, “Niente di femminile. Niente di estranea durezza virile. Tutta infantilità. Ma tutta grazia così, come un gatto, un bimbo, inconscia”, “il fanciullo – che è una nuvoletta di riccioli neri coi soliti occhi da meraviglia e il solito colorito di cielo”, “Due ore e più sempre a camminare e durante le quali ho avuto la forza di non toccarlo, di non fare un ragionamento che la triste legge direbbe poi corruttore. Egli è un angelo e non voglio descriverlo … avevo paura della sua bellezza”.

Quando il poeta riconosce in se stesso il peccato, e confessa i suoi rapporti mercenari, allora maledice malinconicamente di non poter semplicemente amare, e di doversi accontentare di avventure fugaci, talvolta umilianti: “A me solo è negata la vera felicità… Per me la legge consente il vizio, non consente il puro amore”. Indifferente alla politica e ai mutamenti sociali, in anni turbinosi di scontri violenti, sangue, repressione, Sandro Penna viveva una classicità senza tempo, quasi mitologica, e le figure che tratteggia, gli episodi che racconta, sfumano in un ideale estetico di armonia e inviolabile purezza: “Fanciullo bello della bellezza delle mie più belle poesie. Tutto è in te delicato senza opulenze e la tua linea semplice e un po’ acerba è così poco amata dal volgo. Hai l’armonia della più grande e più semplice bellezza”.

 

«Gli Stati Generali», 19 settembre 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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