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PITTALUGA

LORENZO PITTALUGA, SONO LA FOCE E LA SORGENTE – ITALIC PEQUOD, ANCONA 2015

La casa editrice marchigiana Italic Pequod ha meritatamente pubblicato, Sono la foce e la sorgente, un’antologia poetica di Lorenzo Pittaluga, che comprende versi editi, inediti e postumi scritti da questo sfortunato e visionario poeta tra il 1984 e il 1995, anno in cui si uccise gettandosi dal decimo piano dell’Ospedale San Martino di Genova.
Nei dintorni della città ligure Lorenzo era nato nel 1967, segnato precocemente dalle stimmate di una sensibilità ulcerata, da una sostanziale incapacità di adattarsi al reale, dal desiderio ossessivo di confrontarsi con la parola scritta, sperando di trarre da essa un più sicuro ancoraggio alla vita.

Marco Ercolani, che gli è stato vicino come amico, psichiatra e mentore per oltre un decennio, e lo conosceva dall’adolescenza, ha scritto un’affettuosa prefazione al volume, in cui così lo descrive: «Assorbiva parole da ogni stimolo esterno, da ogni sensazione, come se non avesse potuto far altro che questo: immergersi nella loro materia, nella sintassi in cui combinava, articolava, disarticolava il linguaggio. Come se, non essendo facile vivere, si potesse sostituire la vita con l’incantesimo di una parola ’liberata’ dai vincoli del significato». Il rapporto di Lorenzo con la parola era quindi totalizzante, febbrile, euforico: di essa si nutriva e in essa cercava di assemblare i confini del suo pensiero che riconosceva dolorante, piagato: «Diverrò vocale tersa, sillaba / alabastrina, parola che giunge / all’inganno dell’amore;Io non resisto ai princìpi / senza vera sostanza, presento / un resto, un ritardo fra gli uomini; Più del pane risolve il nominare; Movimento dell’arto destro / che muove il lapis e presto / cancella il mondo manifesto; Sono / l’unico poeta uscito dalla / placenta della terra desolata». Addirittura usava toni divertiti, surreali e beffardi nel descrivere il farsi della sua poesia: «Ma io la poesia me la parlo, me la porto a letto, ci faccio / la frittata, un pollo, una romanza, / un tè a due o un vino dolce solo per me, ma io la poesia / mica… mica la considero / più bassa della torre Eiffel, ma io il mio prestigio, il mio prestito, / questa poesia pantera questa poesia / balera. E basta»

Troppo facile forse accostare al destino di Lorenzo e alla sua sofferenza psichica, quella di tanti poeti che come lui hanno scelto la morte volontaria (Georg Trakl, Sergej Esenin, Marina Cvetaeva, Paul Celan, Hart Crane, Sylvia Plath, Giuseppe Piccoli, Amelia Rosselli, Beppe Salvia, Remo Pagnanelli, Nadia Campana). Certo è che Lorenzo Pittaluga aveva consapevolezza della sua malattia, e secondo quanto ancora scrive Ercolani, viveva «una doppia incandescenza: quella del suo dolore personale e quella della vocazione poetica». Leggiamo infatti alcuni versi che rivelano non solo lo spasimo convulso della sua mente, ma anche il tragico e ineluttabile presagio della sua morte: «Le scritture, le mie, naturalmente / nate postume, celano la forma / del riposo, del denso incantamento //… Leggimi di notte come io scrivo, / fallo pietosamente, con indulgenza, / perché, lo sai, sono nato sfinito; Stai fra te / decidendo la tua sorte: / imprevista verrà a modo, / fortuito inganno / della rosa che medica; Ti incupisci di vedere / la foglia – senza amore – / accartocciarsi. / così è il tuo cuore / senza soffio; Eppure qualcosa, è certo, non deve giungere / a un fine; Su questa mia scrittura testamentaria / ti giungesse come un barbaglio / o un fuoco minimale e accorto. / Io transiterei verso una / seconda morte cercata, disvelata / nell’etere che assorbe spoglia; Ma io sono in un mondo / migliore, sono la foce / e la sorgente: sono Lorenzo; Ho un vuoto da comunicare //… Io bevo il gesto, frantumo / l’esile ordito della familiarità. / Sono asceta e sono angelo //… Mi rinchiudo poi, solo, nella stanza / buia e compio il tempo. / Il delirio, la sua virulenza di bestia / ctonia e fra i diversi amori un muro».

Fino all’ultimo, toccante e profetico, scritto:«Fuggo da un mondo distante / dal pubblico pagante, / dal mio corpo volante. / Fiaccola nella tenebra / celebra l’inchiostro». Alla tormentata ricerca formale, al deragliamento dell’io e all’identità franante di Lorenzo Pittaluga sono dedicati, nell’antologia Sono la foce e la sorgente, approfonditi interventi critici di diversi commentatori, e affettuose testimonianze personali, che ne ripercorrono la sofferta, disarmata nudità davanti a un vivere quotidiano banale, impoetico, che non seppe aiutarlo, e che lui decise di rifiutare.

 

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www.sololibri.net/Sono-foce-sorgente-Pittaluga.html         2 maggio 2016

 

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PLUTARCO

PLUTARCO, L’ARTE DI ASCOLTARE – GARZANTI, MILANO 2018

“Dicono che la natura ci abbia fornito un paio di orecchie, ma una lingua soltanto, per costringerci ad ascoltare di più e parlare di meno”. Così Plutarco (46-127 d.C.) al giovane Nicandro, in una epistola esortativa tratta dai Moralia, miscellanea di interventi vari, a carattere etico-filosofico. Il primo brano, dedicato a L’arte di ascoltare, parte da considerazioni generiche sull’importanza dell’udito, il più discreto e sottovalutato dei sensi: quello che più ci dispone all’attenzione e al rispetto verso gli altri, ma che necessita di essere educato, per filtrare con oculatezza le parole che lo raggiungono, spesso inutili, fuorvianti, dannose. Soprattutto i giovani devono concentrarsi sull’ascolto silenzioso e meditativo dell’insegnamento di interlocutori saggi, evitando la presunzione e la polemica a cui spesso l’impulsività li induce. “Nell’eloquio si annidano inganni tutte quelle volte che lo si applichi ai fatti in maniera abbondante e carezzevole, non scevro di una certa alterigia e affettazione”.

Fondamentale è un corretto allenamento all’oratoria e al dibattito, non inteso come un gareggiare nell’abilità espositiva, ma come capacità di arricchire il prossimo attraverso un’argomentazione ponderata ed essenziale, priva sia di adulazione e falsità, sia di provocazione aggressiva. Il giovane che partecipi a un dibattito, dovrebbe evitare di porre troppe domande, di chiedere precisazioni e o di intervenire con petulanza, ma disporsi a un ascolto educato, senza eccedere nell’assenso entusiastico o nella critica malevola. In che atteggiamento, quindi, è opportuno ascoltare? “Schiena dritta e postura composta, occhi rivolti a chi parla e atteggiamento vivamente interessato, viso che abbia un’espressione chiara, da cui non traspaiano soltanto supponenza o fastidio, ma anche pensieri e occupazioni di altra natura”.

Nel secondo intervento, L’arte di tacere, Plutarco mette in guardia dai fanfaroni, dai logorroici, che vanno evitati perché producono noia e perdita di tempo, sono futili, vanesi e irriflessivi. “Il silenzio è qualcosa di profondo e religioso, qualcosa di sobrio… Non c’è parola detta che abbia giovato quanto le molte taciute: c’è sempre modo, infatti, di dire ciò che si è taciuto, ma non di tacere ciò che si è detto e che ormai è già fuoriuscito e va diffondendosi”.

Sono numerosi gli esempi che Plutarco trae dalla storia romana e greca, o dalla vita di uomini celebri, per indicare quanto la chiacchiera e i pettegolezzi possano nuocere a livello personale e politico; altrettanto frequenti le citazioni e gli aforismi riportati, alcuni illuminanti e saggi, altri decisamente comici. Sul valore del silenzio si sono scritte molte pagine, dalla Sacre Scritture (Pr 10,19; Is 30, 15; Mt 12,36…) ai poeti contemporanei. Forse basta ricordare l’epigrafe che Salvator Rosa incise alla base del suo famoso autoritratto: “Aut tace, aut loquere meliora silentio”, lapidaria e ironica nella sua severa ammonizione.

 

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https://www.sololibri.net/L-arte-di-ascoltare-Plutarco.html        6 agosto 2018

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POCH

JOHN POCH, CANTIAMO, PRENDIAMO IL COLTELLO – ENSEMBLE, ROMA 2022

Con testo inglese a fronte, e traduzione di Pietro Federico, le edizioni Ensemble hanno pubblicato Cantiamo, prendiamo il coltello, del poeta americano John Poch.

Poch, nato in Pennsylvania nel 1966, dal 2001 insegna scrittura creativa presso la Texas Tech University, occupandosi anche di critica letteraria. L’antologia appena uscita, dal titolo curioso (in realtà, il coltello citato è quasi innocuo: serve per tagliare una malinconica torta di compleanno…) raccoglie componimenti provenienti da diverse raccolte, eterogenei nei contenuti, ma coerenti nello stile colloquiale e pacato, elegantemente composto e privo di azzardi sperimentali, pur nell’evidente adesione al parlato.

I temi ricorrenti sono gli affetti amicali e familiari, con qualche effusione romantica che mai arriva a esplicitare passione o sensualità. Quindi il viaggio, inteso come vacanza, distrazione ma soprattutto come curiosità e interesse culturale: numerose poesie hanno per sfondo stazioni ferroviarie, aeroporti, traghetti, frequentati sia da presenze fisiche concrete sia da personaggi storici e mitologici ricreati nel presente. Infine, fondamentale è il tributo che il poeta presta alla bellezza, nell’esplosione vitalistica della natura e nella nobile raffinatezza dell’arte.

Per entrare più nello specifico di questi tre assi contenutistici portanti, l’amore si indirizza verso la moglie e le due figliolette, oltreché verso una seducente e ambigua figura che appare e scompare lasciando dietro a sé una traccia dolorosa di rimpianto e inquietudine, in “una resa dei conti non senza sangue”.

Il viaggio – scoperta del nuovo e recupero del passato – si situa tra il disamore per l’America (“paese muto”, violento, malato e parossistico, lontano da qualsiasi umanesimo) e il richiamo irresistibile della mediterraneità: Portogallo, Marocco, Spagna, Grecia e Italia. Tanta Italia visitata ovunque, Bologna, Ravenna, Assisi, Spoleto, Ischia e Roma: specialmente Roma, percorsa dalla Stazione Termini alle catacombe, dai monasteri alle basiliche, con riferimenti costanti alla storia cristiana (San Paolo e San Francesco).

Il poeta riconosce la propria mediocrità individuale, rispetto all’armonia e alla solennità di tutto quello che nello spazio e nel tempo gli viene offerto, consapevole che l’appiglio alla sola parola non assicura alcuna salvezza o immortalità: “Dio sa che la legge della vita è la morte”. Dunque anche la poesia si presenta come una delle tante risposte disponibili per chi cerca di dare un significato alla propria esistenza, senza però celebrarla in fasti eccessivi: “La poesia la trovi in solitudine, vola più bassa di quanto immagini”.

La bellezza invece, la grande bellezza della natura, va onorata nel tripudio dei suoi colori, piante e fiori, insetti e uccelli, nel profumo dell’oceano, nella pesca in fiumi vorticosi, e addirittura nella spietata caccia ai cinghiali che riporta l’uomo alla sua indomabile ferinità. Mentre il fascino che emana dall’arte, classica e sacra, purifica dalle scorie stratificate nella coscienza dei cittadini delle metropoli occidentali, nevrotici e infiacchiti: “Con facce bianche come pillole, ci imbottiamo di pillole”.

Le ultime pagine del volume, dedicate a una vacanza in Campania, comunicano l’entusiasmo del poeta, in veste di frastornato turista, davanti a “lo sciabordio del bagnasciuga… le secche sabbiose… le pareti bianche delle case…  l’azzurro dei tonni pescati di fresco”, di fronte agli “anziani strinati dal sole / che aspettano anziane sul molo”, alla vista “degli oleandri e dei gerani che non fanno che fiorire”, finché “le paste napoletane saranno / ancora croccanti a mezzogiorno”, e “quando / i fuochi d’artificio esplodono sull’acqua” si assaggiano “queste orecchiette ai gamberetti viola, / dopo le quali la tua vita non è più la stessa” …

John Poch, giunto da una lontana “città universitaria del Texas”, ci rammenta in versi estasiati da quanta immeritata grandezza siamo attorniati nel nostro Paese.

 

© Riproduzione riservata                   «L’Indice dei Libri del Mese» n. V, maggio 2023

 

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POESIA – MENSILE DI CULTURA POETICA

POESIA, MENSILE DI CULTURA POETICA – Anno I, numero 1- CROCETTI; MILANO 1988

Quasi tutte le riviste italiane di un certo livello culturale (da Alfabeta a Il piccolo Hans a Linea d’ombra) riservano uno spazio limitato, ma di prestigio, a quel genere particolare di comunicazione letteraria che è la poesia. Come a dire che al pubblico che legge versi – sempre più striminzito ed esigente, agguerrito anche se in via d’estinzione – va riconosciuto il diritto all’esistenza che ormai non si nega nemmeno agli esemplari animali più rari, ancorché patetici e talvolta bruttini. Poiché insomma la poesia non serve a niente, e tuttavia non fa male, la cultura ufficiale assume nei suoi riguardi atteggiamenti spesso protettivi e paternalistici, come con certi placebo, e con certi partitini ambientalistici: ben attenta però a non concederle più di tanto, che non si sa mai… Stando così le cose, suscita curiosità e ammirazione la decisione temeraria di pubblicare una rivista per addetti e appassionati, dilettanti e professionisti, che si intitola semplicemente Poesia, e chiarisce il suo scopo nel definirsi «mensile di cultura poetica». Edita da Crocetti (raffinato traduttore dal greco moderno, e diffusore benemerito di eleganti volumi di versi), diretta da una delle voci più originali della giovane poesia (Patrizia Valduga), questa rivista si rivela subito ambiziosa e nuovissima, decisa nel voler informare e formare insieme lettori più sensibili al discorso poetico. Ricca di rubriche graffianti («Plagi», ad esempio, che in questo numero uno dà a Rebora quello che è di Rebora, appannando un poco gli Ossi montaliani…), di interviste meno calibrate e diplomatiche di quelle solitamente in uso tra accademici (incide, il critico Pier Vincenzo Mengaldo, arguto anche nella foto), mi sembra offra il meglio di se stessa nel porgere ampi spazi alla poesia da scoprire. Molti gli stranieri antologizzati (tutti, rigorosamente, con testo a fronte; anche l’indiano Shahryar, che non so quanti siano riusciti a leggere nell’originale. Io, comunque, ho imparato come si scrive “amici” in lingua Devnagri…). E poi la poesia in dialetto, molto ben rappresentata da Raffaello Baldini, poeta e critico di se stesso. Numerose pagine sono riservate poi al rapporto poesia/musica e poesia/traduzione. Di taglio limpidamente giornalistico i servizi fotografici, con i vari poeti finalmente e più volte immortalati, messi a confronto: allucinati e rabbiosi (Attila Jözsef – Gunnar Ekelöf), ispirati (Held – Atencia), professorali (Baldini). La rivista si apre e si chiude con due interventi filosofici, dello psicanalista Ignacio Matte Blanco, che definisce poco originalmente la poesia come «pensiero imbevuto di sonorità musicale», e di Platone, che nel libro X della Repubblica metteva in guardia dagli effetti nefasti che deriverebbero alla società dal praticare poesia e poeti…

«Agorà» (Svizzera), 9 marzo 1988

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POESIA OPERAIA

POESIA OPERAIA: POESIA DEGLI OPERAI O POESIA PER GLI OPERAI?

Ci sono libri di poesia (eletti, di quelli che vincono i premi) che riesco a leggere restando immobile dove mi trovo, seduta al tavolo, sdraiata sul divano. Ce ne sono altri che mi mettono così in contraddizione, urtandomi dentro le loro ragioni e facendole cozzare con le mie, da costringermi ad alzarmi continuamente, a camminare agitata per la stanza, a mangiare qualcosa: insomma a muovermi. Mi capita sempre di distinguere tra questi due tipi di poesia: li chiamo poesia che ricuce e poesia che strappa. La poesia che ricuce tende in generale a sciogliere i nodi, non è sempre consolatoria ma è sempre conciliante, porta il lettore con sé, lo immerge nella sua scia, lo universalizza, spesso mettendolo a confronto con i temi definitivi (bene, male, vita, morte, amore). La poesia che strappa fa invece il contrario: entra nel lettore, lo contesta. Lo fa soffrire. Ha una funzione di pungolo e di provocazione. Solo essa riesce a essere poesia politica. Rifacendomi a questa mia distinzione, quando sento parlare di poesia operaia, immediatamente e inconsciamente colloco i suoi prodotti nella seconda categoria, cadendo nell’errore di pensare che gli operai (in quanto classe antagonista, classe subalterna) non possano scrivere che poesia che strappa: di rifiuto, di accusa, di lotta. Mi rendo conto che questa mia attesa è arbitraria e ingiustificata, so di investire di una mia mitica aspirazione dei soggetti sociali su cui già pesano ben altre responsabilità e troppe altre mitizzazioni. Ma non riesco ad allontanare da me una certa delusione, quando non addirittura un notevole fastidio, se mi capita di leggere poesie operaie che parlino d’amore, o contengano elementi paesaggistici, o dilemmi esistenziali. Perché scivolo in questa contraddizione? Perché altri critici e intellettuali sono caduti in questo non troppo innocente errore, di ghettizzare culturalmente l’operaio, assegnandogli un campo specifico e limitato di letteratura (benevolmente definita “selvaggia”, tanto per intendere che non è la letteratura “vera”), da studiare con la stessa buonafede degli antropologi che vanno in Africa? Sembra che il lettore non-operaio, l’intellettuale-critico anche se di sinistra, si aspetti dagli operai che parlino SOLO di fabbrica, cioè di qualcosa di cui hanno diretta esperienza. Se la poesia operaia è poesia di fabbrica, si perdona ad essa anche la non competenza linguistico-formale, visto che c’è competenza di contenuti. Ma se questa poesia scritta da operai, oltre a non essere “colta” (cioè a non rispettare determinate regole di gusto, e di sapienza, letteraria) non è nemmeno giustificata, riscattata dai contenuti, ecco che la si snobba, non le si dà più credito. C’è in questa domanda di riscatto che si pone alla poesia operaia molta più severità di quella usata in genere verso la poesia borghese, alla quale già da decenni non si chiede più di aderire ai contenuti, e con le cui disinvolture e trascuratezze formali si è molto più indulgenti. Perché allora il critico pretende dall’operaio contenuti operai, requisitori nei toni, aspri nella forma? Forse perché tende a domandargli anche in letteratura quel rifiuto esplicito, quella lotta politica immediata che egli non sa/può leggere altrove… E perché oltre a essere così esigente per i contenuti, è addirittura insofferente riguardo alla forma? Sembra che voglia far arrivare all’operaio questa indicazione: “Non vuoi più essere operaio? Vuoi diventare scrittore? Allora impara a scrivere bene, cioè COME NOI. Coi TUOI contenuti ci garantisci che sei e rimarrai operaio, con la NOSTRA forma ti garantiamo l’attenzione letteraria”. Queste sono le più macroscopiche contraddizioni in cui si imbatte il lettore non-operaio. Ma lo scrittore operaio ne vive sulla sua pelle altrettante, e più esasperate ancora. Intanto, perché scrive? Per antagonismo di classe, per dare voce a una letteratura alternativa o invece per un’aspirazione più individuale e “borghese”, quale quella di farsi conoscere, o di cambiare condizione sociale? Perché poi scrive così, con contenuti operai e forme tendenzialmente borghesi? Perché davvero non conosce altro (quella è la sua vita, quella la cultura che gli hanno dato), o perché – come si è visto – questo gli chiede l’unico mercato da cui aspira di essere letto, quello dei critici borghesi? Infine, in quale altra maniera può scrivere, come sottrarsi al giogo dei significati obbligati (e scontati) e a quello dello stile scopiazzato, importato?
A tutte queste cose, e a molte altre, pensavo leggendo tre numeri della rivista operaia ABITI/LAVORO, dove le poesie dure, di ribellione, si mescolano a poesia tradizionali, perfino elegiache. Questi operai/redattori sono alle prese con problemi enormi, su cui è sperabile aprano un dibattito approfondito. In primo luogo su cos’è la loro scrittura, ma anche su qual è il loro pubblico, che funzione avrà una loro editoria, ecc. Ci sono tutte le premesse perché nasca una rivista davvero nuova, e fatta da addetti ai lavori: i poeti-operai, che sono tantissimi, ma che ci devono e si devono chiarire tali questioni, se non vogliono che rimaniamo nello scontato, nella solidarietà (dei critici con loro) o nell’ostilità (loro contro i critici) espressa solo a parole, ma sostanzialmente ipocrita.

«abiti-lavoro» n. 4, autunno 1982

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POLESE

RANIERI POLESE, PER UN BACIO D’AMOR – ARCHINTO, MILANO 2017

L’interessante e ben documentato volume del giornalista Ranieri Polese su “I baci nella canzone italiana” si conclude con tre interviste al linguista Giuseppe Antonelli, alla saggista ed esperta di fenomeni sociali Marta Boneschi e allo scrittore Federico Moccia: tutti d’accordo nel ritenere che la rilevanza del bacio all’interno dei testi delle nostre canzoni si è andata drasticamente riducendo negli ultimi 20-30 anni, in concomitanza con i mutamenti culturali, sociali e sessuali degli italiani. Solo Moccia pare voler salvare qualche residuo di romanticismo nei rapporti interpersonali attuali: «Il bacio è un gesto molto intimo, forse più dell’atto sessuale completo. Occorre avvicinarsi con delicatezza all’altro, capire i tempi, se c’è accoglienza…».

Che in ogni epoca si diano dei sentimenti e delle loro espressioni corporee diverse interpretazioni e valutazioni è addirittura ovvio; nella storia dell’umanità si è passati da periodi di permissivismo, promiscuità e libertinaggio ad altri di moralismo estremo, oscurantismo, censura. La stessa cosa è avvenuta rispetto al valore dato al bacio e al baciare, nella letteratura e nell’arte figurativa. Per ciò che concerne più strettamente il campo musicale, la ricerca di Ranieri Polese in questo libro edito da Archinto, Per un bacio d’amor, si individua una periodizzazione scandita in decenni, a partire dalla romanza del 1881, Musica proibita, in cui per la prima volta si decantava il bacio. In seguito, fu tra il 1890 e il 1930 che apparvero canzoni fortemente erotiche e sensuali, nei café chantant, nei varietà e nei tabarin di Napoli, Roma e Milano: sciantose dai nomi esotici turbavano i sogni lascivi dei viveurs esibendo peccaminosi piaceri proibiti. Le fantasie dei maschi italiani del primo ‘900 erano animate da formose femmine spagnole o cubane («La spagnola sa amar così / bocca a bocca la notte e il dì», «Straziami, ma di baci saziami»), misteriose orientali sulla scia di Madama Butterfly, o faccette nere del desiderio imperiale, con doppi sensi evidenti o volgarità appena suggerite («Si fa, ma non si dice»).

Con l’avvento del fascismo, la politica del regime impose un ritorno all’ordine, e un richiamo alla pubblica moralità e ai valori familiari: fu il tripudio di mamme, mogliettine fedeli, fidanzate timorose di Dio, e amori casti e malinconici: Parlami d’amore Mariù, Violino tzigano, Portami tante rose, Mille lire al mese, Mamma, Ma l’amore no….Una sorta di controriforma, che dettò un canone di riferimento rimasto in vigore per i successivi quarant’anni: cieli stellati, chiari di luna, fedeltà eterne suggellate dal bacio trionfante (Un’ora sola ti vorrei, Venezia la luna e tu, Ti dirò…), in cui la fisicità veniva smaterializzata in una dissolvenza pudica. Nel 1951, con la nascita di Sanremo, arrivò il trionfo del sentimentalismo, in un paese dalla libertà ritrovata dopo la guerra, e con essa il sogno e la passione, l’abbandono e lo strazio proposti da Claudio Villa, Nilla Pizzi, Betty Curtis, Luciano Tajoli, Achille Togliani, Gino Latilla, Domenico Modugno.

C’erano in effetti anche incursioni ironiche e trasgressive nelle parole di Fred Buscaglione e Renato Carosone, del primo Celentano (Con 24mila baci, Il tuo bacio è come un rock), e di una giovane Mina ribelle: exploit originali ammorbiditi negli anni 60-70 da un repertorio eterogeneo di effusioni appassionate o delicate, romantiche e sfrontate, presentato in numerose manifestazioni canore di successo (Cantagiro, Un disco per l’estate, Canzonissima, Studio Uno). Ma si affacciava l’era del pop, i primi juke-box e i gruppi beat, il filone dei testi impegnati, e i cantautori: l’intensità di Endrigo, Gaber, Lauzi, Paoli, De Andrè, De Gregori e il divertimento balneare di Edoardo Vianello, i neoromantici Morandi, Baglioni e Ranieri, Nicola di Bari e DorellI. Quindi le sensuali Vanoni e Patty Pravo, le rivoltose Nada, Mia Martini, Loredana Berté e Caterina Caselli, gli arrabbiati Cocciante e Venditti. Di baci si cantava ancora… Il primo a mettere il bacio in sordina fu forse Lucio Battisti, con i suoi testi semi-narrativi che parlavano un po’ di tutto. Dopo di lui, labbra bocche e respiri cominciarono a cedere il passo alla sessualità più spinta delle nuove leve (Oxa, Grandi, Nek, Rettore), coerentemente con l’evolversi in senso libertario dei costumi: meno baci e più sesso, meno sentimento e più desiderio fisico.

Il libro di Ranieri Polese ci fa ripercorrere un secolo di storia italiana attraverso le canzoni, che da sempre sono il leit motiv delle coscienze e dei comportamenti individuali e sociali di una nazione: un modo intelligente e spiritoso di riflettere su quello che siamo stati e siamo diventati.

 

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4 aprile 2017

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POLESE

RANIERI POLESE, TU CHIAMALE, SE VUOI…  – ARCHINTO, MILANO 2019

Già autore nel 2017 di un interessante volume sulla rilevanza del bacio nei testi della canzone italiana, Ranieri Polese pubblica ancora con Archinto “Tu chiamale, se vuoi…”, una documentata ricerca sull’utilizzo di citazioni letterarie nella produzione musicale del nostro ’900.

Lo scambio di parole o frasi tra letteratura e canzoni è stato quasi sempre unilaterale: più frequenti sono le tracce di poesie nei testi delle canzoni (echi, titoli, analogie, recuperi) che viceversa. I modi in cui si attua questa trasfusione lessicale sono sostanzialmente quattro: reminiscenze, imitazioni, allusioni nascoste, citazioni. Inoltre, ci possono essere accostamenti inconsapevoli, addirittura inconsci, in quanto il patrimonio musicale di un paese deriva da una koinè d’uso sia generalizzata sia personale, per cui ogni fruitore può cogliere individualmente una risonanza emotiva, ignorata da altri.

La lingua usata nelle canzoni italiane tra il 1920 e il 1960 era modulata su una metrica tradizionale, disseminata di espressioni auliche, rime, assonanze, parole tronche, verbi accentati, dislocazioni di termini: lontanissima, quindi, dal parlato comune. Utilizzava sia l’eredità del melodramma, con i libretti d’opera cristallizzati in espressioni convenzionali e retoriche, sia calchi dei poeti minori dell’800, artificiosi ed enfatici, che per decenni influenzarono il lessico familiare e più estesamente quello popolare dell’intera nazione. Il canone letterario di riferimento delle canzoni nella prima metà del secolo era decisamente classico: Dante, Petrarca, Leopardi, nella maniera in cui venivano recuperati dai ricordi scolastici, secondo “gli ovvi stereotipi e i vieti luoghi comuni” del poeta innamorato e infelice, o più raramente ripresi con intento satirico o dissacratorio (Petrolini, Cattaneo, Battiato).

Dante, “Top of the Pop”, è il più citato dai parolieri nostrani, non solo nel recupero di versi e locuzioni, ma anche come personaggio, figura esemplare inserita nell’ambiente fiorentino trecentesco e memorizzata collettivamente. Nella sua Danthology, Polese ricostruisce cronologicamente tutti gli apporti danteschi al canzoniere nazionale dalla metà dell’800 ad oggi. Ricostruzione ardua, vista la scarsa reperibilità di testimonianze affidabili, parzialmente ovviata dal nascere di siti specifici su internet e dalla diffusione della Divina Commedia (soprattutto del primo, quinto e ventiseiesimo canto dell’Inferno) nella cultura contadina del passato e nella conoscenza scolastica tradizionale. L’accurato confronto tra i testi e la fonte dantesca riserva al lettore più di una sorpresa: nella miniera del sommo poeta hanno attinto a piene mani Garinei e Giovannini, Rascel, De André, Venditti, Vecchioni, Guccini, Jovanotti, Ligabue, Nannini, Baustelle. Così da tutto il repertorio dello Stilnovismo (il giovane in ginocchio di fronte alla donna angelicata, il sentimento mistico e sublimante, il messaggio amoroso divulgato al mondo intero) hanno tratto ispirazione le più note canzoni di Nilla Pizzi, Claudio Villa, Tony Dallara, Gianni Morandi, Little Tony, Lucio Dalla. Nei brani sanremesi ha spesso imperato la spiritualizzazione dei sentimenti: il sostantivo “anima” ricorre 205 volte dall’inizio della rassegna canora, a indicare la trasfigurazione quasi metafisica prodotta dall’innamoramento, proprio sulla scia dell’esempio stilnovistico.

Anche i lasciti della poesia petrarchesca sono evidenti nei testi delle nostre canzoni: il predominante e quasi esclusivo tema dell’amore irrealizzabile o perduto; la sofferenza per la lontananza; l’autoanalisi del protagonista maschile; il linguaggio medio, mai innovativo o sperimentale, accessibile a tutti i livelli; il riferimento alla natura e agli animali; la puntualizzazione temporale (ore, giorni, mesi, stagioni); il nome di Laura ripreso in molte composizioni (Nek, Michele, Tony Renis, Vasco Rossi, Vecchioni).

Per quanto riguarda l’influenza di Giacomo Leopardi nella letteratura, nel cinema e nelle canzoni, Ranieri Polese parla addirittura di “leopardimania”, per i continui richiami alla giovinezza fugace, ai palpiti del cuore, al cielo e alla notte, all’infinito e all’eternità, alla solitudine, alla morte e alla rinascita che ritroviamo ovunque: allusioni se non esplicitate, perlomeno riscontrabili nella ricreazione di atmosfere particolari. Pure qui, gli esempi offerti dall’autore del volume sono numerosi e puntuali.

Nelle due appendici finali vengono affrontati i casi in cui le canzoni riprendono versi o titoli di libri di autori stranieri (Villon, Lee Masters, Ginsberg, Poe, Baudelaire, Sagan) o recepiscono echi della poesia erotica di Catullo e Saffo. A testimonianza della vastità degli interessi culturali di Ranieri Polese, spazianti attraverso epoche e argomenti diversi, arricchiti da dettagliate informazioni bibliografiche e di cronaca, resi in uno stile vivace e accattivante.

 

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https://www.sololibri.net/Tu-chiamale-se-vuoi-Polese.html             2 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

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POLI

ALFREDO POLI, DI TERRA E DI CIELO – ALETTI, VILLANOVA DI GUIDONIA 2018

La vocazione tardiva alla poesia ha avuto per Alfredo Poli, insegnante veronese in pensione, senz’altro un significato terapeutico non solo nello scavo interiore di sé, e non solo nella ricerca intellettuale di un’espressione consona alla propria sensibilità, ma soprattutto nell’esigenza di rapportarsi agli altri per scoprire una comune partecipazione allo stare al mondo, “nel” mondo. Bene lo sottolinea Mario Allegri nella prefazione all’ultimo volume di Poli, Di terra e di cielo, citando questi versi che “accorciano le distanze e affratellano nella voce che vuol farsi voce di tutti”: “La mia voce / sia il silenzio / di chi ascolta / e di chi si ascolta. / E non sia sola / ma sorella a tutte quelle / con diritto di sogno, diritto di parola”.

Un’intenzione etica, quindi, quella che ha spinto l’autore a scrivere alcune delle composizioni più riuscite: intenzione che tuttavia non ha nessuna pretesa di conversione o di proselitismo nei riguardi di chi legge, ma si limita a decifrare il reale nella sua oggettiva durezza, auspicandone una trasformazione in senso positivo, di sospensione del dolore, di recuperata mansuetudine.

In una sorta di francescanesimo laico, Alfredo Poli esclude qualsiasi ricorso alla violenza e alla vendetta, da non usare nemmeno per riparare un torto o una prevaricazione: “pertanto abbiamo appreso: / anche l’odio contro la vigliaccheria / deforma i lineamenti; / anche la rabbia per l’ingiustizia / altera la voce”. La pietas è misura del rapportarsi al prossimo, e alla sofferenza di ciò che ci circonda: l’anziano malato (2° piano, Geriatria), la natura offesa (Rosa d’inverno, Fiocco di neve), il dissidio tra amanti (Incomprensione), la morte di un amico (Un altro addio).

In “questi tempi fatti di maschere / e di crepe nel cuore” ci sono momenti, episodi, incontri che tuttavia aiutano a superare la desolazione di un presente mortificante, e incoraggiano a uno sguardo positivo sul futuro. L’osservazione della bellezza di un paesaggio naturale (“Oggi gran festa nel giardino. / All’albicocco s’è aggiunto / il ciliegio in fiore”, “Nella luce calante della sera / le bianche lanugini dei pioppi / come un posarsi lieve ai ricordi”, “Trasparente mattino di sole / sopra queste colline d’erica / digradanti morbide al mare”), la corrispondenza di un affetto o di un amore (“Già del tuo sguardo sono grato / e dei silenzi che mi regali”), la lettura di una poesia (“Quella poesia / che hai scritto per me, / l’ho ricopiata fedelmente / su un pezzetto di carta / e l’ho nascosta / in una tasca segreta / del mio portafoglio”).

Alfredo Poli traccia un ritratto di sé che può sembrare rassegnato, o comunque malinconico, ma in realtà è animato dall’umile consapevolezza dei limiti di ogni creatura umana, riscattabile sempre attraverso l’anelito costante all’infinito, al superamento della contingenza: “Amo la mia finitezza: / fa da filtro ai sogni / e li alimenta”, “noi / che siamo / passeggere storie / senza traccia”, “Amo spesso sostare fuori / dai margini del sentiero”.

E in questa sua dichiarata marginalità rispetto al convulso e superficiale intrecciarsi dei rapporti umani, così spesso asserviti all’interesse e al potere, privi di gratuità e di sentimento, orgogliosamente afferma il suo originale rifiuto del conformismo, la sua discrepanza dal vuoto comunicativo oggi imperante: “Amo le parole semplici, / essenziali, appese / in precario equilibrio / alla profondità di senso”. Anche se questo differenziarsi può comportare il rischio dell’isolamento (“Respiro piano / ai margini della battaglia. / Solitudine è darsi alle paure / nel ritrovare un tempo perduto”), ciò che importa è rimanere consapevoli della propria unicità, nelle gioie e nei dolori che la vita ci dispensa.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Di-terra-di-cielo-Poli.html   3 settembre 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

POLICASTRO

GILDA POLICASTRO, INATTUALI – TRANSEUROPA, MASSA 2016

I tredici testi poetici che Gilda Policastro (italianista, ricercatrice universitaria, critica letteraria e scrittrice in versi e prosa) presenta sotto il titolo polemico di Inattuali (cosa c’è di più inattuale della poesia, oggi?), si rivelano molto ambiziosi sia letterariamente sia ideologicamente. Per commentarli è forse il caso di partire dal saggio posto in conclusione al volume, in cui l’autrice esibisce – orgogliosamente e bellicosamente – la propria dichiarazione di poetica, rovesciando nell’esergo la nota formula rimbaudiana: “Il faut être absolu(ta)ment inactuelles”.
In che modo, secondo Gilda Policastro, è ancora possibile praticare la poesia, ai giorni nostri? Senz’altro e solamente disattendendo il desiderio di leggibilità del lettore, disobbedendo alle aspettative del mercato, contaminando il testo a livello tematico e lessicale. Ciò si può e deve fare attraverso la decostruzione degli stereotipi letterari (descrizioni romantiche di amori e bellezze naturali, esibizione compiaciuta della propria soggettività, ricerca della bella forma e dell’armonia del suono), e “in una relazione mobile, conflittuale, tormentosa” col presente, con la sua nevrosi generazionale e storica.
Il rischio che corre una ricerca sperimentale come quella proposta (l’autrice ne pare ben consapevole) è di “trasformare la poesia in un ambito di verifica permanente, il cui fine ultimo andrebbe a coincidere, nei casi peggiori, col testo in sé, non più col coinvolgimento o l’interesse del lettore”.

La scommessa verte quindi sulla possibilità di cercare una possibile comunicazione con chi legge, sperimentando nello stesso tempo nuovi linguaggi, più contaminati col gergale, (secondo le ultime direttive dell’eavesdropping), smontando e ricombinando stili diversi. “Annoto perciò le frasi che orecchio ai tavolini del bar vicino casa come sull’autobus o sui treni” sia che vengano scambiate da studenti sulla digeribilità dei “quattro salti in padella”, o da operai sentenzianti in romanesco “da novembre a febbraio nun se dovrebbe lavora’”.
Non troviamo solo inserti di parlato quotidiano, in queste poesie: recuperiamo anche cadenze sanguinetiane: “che poi, mi interrogavo verificando la faccia, / di questo si fanno le vite, le cose: / incontri, chiamarsi, chiavare, per dirla con l’ES”. O terminologie specifiche dell’informatica (byte, internet disease, default, pixel, cromakey, switchando, google, keyboard, game over, tumblr, pin, hashtag, stringhe OT, wii, resettare…), della linguistica (ellissi, ipotassi, nessi, terne aggettivali, retorica Lausberg) o di differenti mode e abitudini contemporanee (spanking, shibari, pashmina, Armani, Maria De Filippi). E ancora, citazioni colte – Fortini, Adorno, Montale, Rosselli, Woolf, Lacan, Zizek, Cioran, Bernhard -, riesumate però con una sorta di ironia e autoironia per l’intellettualismo di maniera.

Le varie sezioni si susseguono intercalando giocosità sarcastiche (l’ottava, sui fiori, rielabora canzonette e proverbi, modi di dire e versi celebri) a meditazioni sconsolate e luttuose sulla morte (un elenco truce di malattie, suicidi, sgozzamenti, stragi, veleni ambientali e guerre, anima tutta la sezione dodicesima). Il richiamo al nostro sconfortante presente – con la mancanza di prospettive di lavoro per le giovani generazioni, le insulsaggini mediatiche, la maleducata prevaricazione dei nuovi ricchi, le vacanze intruppate, la violenza perpetrata sulle donne e sugli inermi, lo snobismo e il ruffianesimo accademico – offre un quadro nerissimo dell’oggi, rivelando un pessimismo inconsolabile proiettato sul futuro individuale e collettivo. La poesia, quindi, non risulta in grado di offrire risposte, soluzioni, salvezza, nella sua assoluta inattualità e inutilità: Gilda Policastro la utilizza con scaltrezza come puro scandaglio interiore e trapano critico di una società disumana, fagocitante, sfrontatamente impoetica. Perché un “dolorificio” universale ci aspetta, in cui tutti “vivremo ruspanti / e malati”, “alterazione e corruzione, / odio e infelicità al nostro meglio”.

 

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www.sololibri.net/Inattuali-Gilda-Policastro.html         29 settembre 2016

RECENSIONI

POLLA-MATTIOT

NICOLETTA POLLA-MATTIOT, ESPLORARE IL SILENZIO – ENRICO DAMIANI EDITORE, SALÒ 2019

È strano come, per commentare il silenzio, si sprechino oggi tante parole. Ma se a farlo è Nicoletta Polla-Mattiot, ci troviamo davanti a un’attenta conoscitrice ed esperta del linguaggio non verbale, che da decenni affianca all’impegno di giornalista (La Stampa, Repubblica, Il sole 24 ore, How to Spend it) un’intensa attività didattica e di ricerca. Curatore scientifico del Festival del Silenzio di Vicenza e Treviso, fondatore del sito www.ascoltareilsilenzio.org, nel 2010 ha fondato con Duccio Demetrio l’Accademia del silenzio, scuola di pedagogia e comunicazione del silenzio.

Nel volume Esplorare il silenzio edito da Enrico Damiani, l’autrice raccoglie interventi di vari studiosi che analizzano il valore del non-detto, del taciuto, dell’ineffabile, e il ruolo che la sospensione della parola riveste nella società e nella cultura contemporanea. Il prefatore Gigi Spina considera il silenzio “un’esperienza individuale e collettiva, sperimentabile ma non facilmente definibile”, oscillante tra due poli: di sottrazione e mancanza da una parte, di aggiunta e pienezza dall’altra. Nell’esaustiva e approfondita introduzione di Nicoletta Polla-Mattiot si sottolineano i molteplici significati di cui si carica il tacere, in specie quando è volontario, scelto, intenzionale, e non imposto da una condizione di malattia, inferiorità o dolore.

Abbiamo tutti sperimentato “silenzi d’amore, d’intesa, di dominio, di controllo… silenzi professionali, personali e intimi”. Gli antichi retori insegnavano tecniche del discorso che prevedevano pause e dilazioni per meglio catturare l’attenzione degli ascoltatori, valorizzando così la parola per espanderne il senso. Anche oggi molte aziende organizzano corsi e lezioni per migliorare l’eloquenza del personale, insegnando metodiche comunicative che implicano l’utilizzo di interruzioni nell’esposizione argomentativa. Addirittura, in linguistica esistono figure retoriche caratterizzanti il controllo della narrazione: reticenza, preterizione, enfasi, ironia, ellissi, perifrasi eufemistica, litote, cesura, metafora esornativa.

Tacere può manifestare l’intenzione consapevole di opporsi alla verbosità eccessiva e ridondante, alla chiacchiera, al fatuo pettegolezzo, all’esibizione autoreferenziale, alla martellante iperconnessione mediatica attuale, per privilegiare invece l’ascolto, la riflessione, l’intensità emotiva. Esistono tuttavia anche silenzi meno nobili. Quello dei potenti, ad esempio, che minaccia e intimorisce. Quello agonistico che esprime superiorità e umilia. La maldicenza insinuata e non espressa chiaramente. Oppure il travestimento ipocrita dell’allusione, il ricatto intimidatorio, il mistero di un segreto irrivelabile, la deferenza carica di ritegno verso un superiore, la rimozione difensiva di un conflitto interiore.

Con le ventiquattro lettere dell’alfabeto, si possono ottenere 243.373.844.957.207.298 miliardi di combinazioni diverse, eppure nella quotidianità utilizziamo un vocabolario standardizzato, banale, ripetitivo. Per questo, a volte, sarebbe semplicemente preferibile non aprir bocca, come invitava a fare Menandro: “Di’ qualcosa migliore del silenzio o taci”. Sul fascino del silenzio hanno scritto tutti i grandi della letteratura mondiale, da Alcmane a Virgilio, Tasso, Ariosto, Milton, Goethe, Lee Masters, Auden, Anche in questo poliedrico e interessante volume si esprimono noti intellettuali e professionisti convinti che la dicotomia esistente tra il detto e il taciuto imponga una riflessione approfondita in ambito teorico e di ripercussione sociale. Sono romanzieri, musicologi, classicisti, psichiatri, biologi, pittori che ne indagano la rilevanza nella creazione artistica, nella natura, nella scienza, nell’analisi psicanalitica, nei rapporti interpersonali e nella famiglia.

Parlare di meno, ascoltare di più è la ricetta che propongono, come suggeriva un antico apologo orientale: “Poco prima della predica di un maestro buddhista, un uccellino iniziò a cantare su un ramo fuori dalle mura del monastero. Il maestro tacque e tutti ascoltarono il canto in rapito silenzio. Appena l’uccellino smise, il maestro annunziò che la predica era finita, e se ne andò”.

 

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https://www.sololibri.net/Esplorare-il-silenzio-Polla-Mattiot.html      18 ottobre 2019