Mostra: 1011 - 1020 of 1.318 RISULTATI
RECENSIONI

RAIMO

CHRISTIAN RAIMO, LE PERSONE, SOLTANTO LE PERSONE – MINIMUM FAX, ROMA 2014

Christian Raimo, tra i più noti narratori quarantenni contemporanei, e coordinatore del blog Minima&Moralia, ci dà in questi nove racconti una prova della sua elegante capacità affabulatoria e versatilità tematica. Il protagonista delle sue narrazioni è sempre una sorta di alter ego, talvolta addirittura esplicitamente biografico, più spesso invece modulato sulla sua vicenda esistenziale, che resta comunque paradigmatica di tutta una generazione. Maschio ma non macho, intellettuale ma non inserito, adulto ma non maturo, perennemente precario dal punto di vista economico e sentimentale, oscillante tra convivenze pseudo-matrimoniali e ritorni fallimentari nella casa dei genitori. Come fa dire a uno dei suoi personaggi: «…sapevo appena badare a malapena ai miei bisogni. Ero in un periodo di desertificazione finanziaria e di quello che definirei etere progettuale».

Se viaggia, rimane ancorato alle rassicuranti nostalgie domestiche, e continua a sentirsi impermeabile a nuove esplorazioni ambientali, diffidente verso le altre culture. Se ama lo fa senza mai lasciarsi sconvolgere visceralmente dai sentimenti: tradisce ed è tradito, si dedica quasi meccanicamente a una sessualità compulsiva e ansiosa nei riguardi delle sue prestazioni. Nel lavoro preferisce qualsiasi tipo di indipendenza intellettuale rispetto a ogni gratificazione carrieristica. Gli affetti familiari e le amicizie ruotano sempre intorno ai suoi bisogni e alle sue opache fantasie di pura sopravvivenza quotidiana. Raimo insomma offre al lettore uno specchio sconsolato, ironico e autoironico di come i suoi irrealizzati coetanei affrontano l’esistenza, un po’ depressi e molto scazzati, con una prosa riecheggiante i più noti modelli statunitensi, anche se l’ambientazione nell’ intellettualità piccolo-borghese romana potrebbe ricordare l’amaro sarcasmo de Il male oscuro di Giuseppe Berto, se pure con meno mordente e con qualche morbosità in più.
Il più originale (e surreale, e paradossale) dei racconti è quello che reinventa un Calvino rivoluzionario, paranoico e fumato che si scontra con un Pasolini integratissimo boss editoriale: beffardo stravolgimento delle due più importanti figure intellettuali del nostro dopoguerra.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Le-persone-soltanto-le-persone.html    12 novembre 2015

RECENSIONI

RAIMONDI

EZIO RAIMONDI, LE VOCI DEI LIBRI – IL MULINO, BOLOGNA 2012

«Non sono mai stato e non sono un collezionista. Del collezionista mi mancano l’ossessione dell’ordine e quella del pezzo unico. Ciò che mi è sempre importato in un libro era che comunicasse delle idee», afferma nell’ultimo capitolo di questo interessante volume il Professor Ezio Raimondi, insigne critico e storico della letteratura. «Nel caos vivente della biblioteca» i suoi volumi sono affastellati in maniera disordinata e quasi misteriosa, a farne «luogo della stabilità e della metamorfosi, della protezione e del rischio»: ne sono testimonianza le fotografie che corredano queste pagine, e ne immortalano l’autore sommerso da migliaia di libri. Libri viventi, pulsanti, con una loro voce inconfondibile, che da sempre ha forgiato e ammaliato l’intelligenza inquieta, curiosa e appassionata dello studioso. Nato nel 1924 in una casa «dove non c’erano libri» e si parlava il dialetto, figlio di un calzolaio e di una donna di servizio, proprio dall’umiltà rispettosa della cultura della madre il bambino Ezio apprese la funzione «liberatrice, democratica della lettura». In questi otto capitoli viene raccontata tutta un’esistenza dedicata ai libri: dalle prime bibliotechine di classe delle elementari, alle lezioni studiate sul tavolo della cucina, «fra il piacere della scoperta intellettuale e l’odore di soffritto», agli incontri fondamentali segnati sempre dall’intreccio tra cultura e vita. Quindi l’amicizia con straordinarie personalità bolognesi degli anni bellici e del dopoguerra (Franco Serra e Giuseppe Guglielmi), le loro discussioni interminabili e i reciproci arricchimenti disciplinari, le lezioni di Roberto Longhi all’università: in un clima storico senz’altro stimolante, pur nelle difficoltà provocate dalla miseria economica e dai contrasti politici e ideologici dell’epoca. Ma soprattutto furono le letture esaltanti e sprovincializzanti dei grandi intellettuali stranieri (Heidegger, Marc Bloch, Curtius, Huizinga, Lucien Febvre) che venivano a innestarsi sulle fondamenta radicate nello studio di De Sanctis, Flora e Devoto, ad aprire nuovi orizzonti nella mente e nel cuore del giovane studioso. E in queste pagine si rincorrono i nomi di tanti altri autori che hanno segnato la crescita intellettuale di Raimondi, da Pasolini a Gadda, da Broch a Céline a Queneau, all’amato Bachtin. Come suggerisce nella sua attenta e affettuosa postfazione Paolo Ferratini, «l’ascolto delle voci degli scrittori è stata (ed è) un lungo esercizio di attenzione all’altro, … un percorso autoformativo durante il quale filologia e affetti, folgorazioni dell’intelligenza e moti del cuore hanno sempre congiurato all’edificazione del proprio profilo morale». Un grande studioso e un appassionato insegnante, quindi, Ezio Raimondi, che ha saputo ascoltare le voci dei libri rendendosene innamorato interprete, «in una relazione straordinaria, mai pacifica, mista di inquietudine e di ebbrezza».

 

«incroci on line», 9 maggio 2013

RECENSIONI

RAIMONDI

STEFANO RAIMONDI, PORTATORI DI SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Chi sono, per il poeta e critico letterario milanese Stefano Raimondi (tra i fondatori dell’ Accademia del Silenzio), i «Portatori di silenzio»? I poeti, i filosofi, gli artisti, gli emotivi, gli scalfibili, gli ultimi, i vinti, i malati? Coloro che non fanno chiasso, che non si impongono, che non urtano imperiosamente gli spazi altrui: forse… Certamente, chi sa «concentrarsi maggiormente sull’eleganza e la grazia del proprio portarsi nella vita e nel proprio irrefutabile passare nel mondo della vita». Chi è «in grado di abitare per silenzio il mondo ammutolito e afasico dei rumori, della celaniana ‘chiacchiera comune’ che violenta, stupra e offende chiunque, mediante i suoi carichi di disattenzione, indifferenza coatta e berciante».

Nei tre brevi interventi che compongono questo libriccino, sospesi tra meditazione filosofica e poesia, prosa lirica e illuminazione, Raimondi affronta teoricamente senso e significato del silenzio, inteso come «luogo di rivelazione», forma concreta di attesa, attenzione, possibilità epifanica.

«Al silenzio si arriva per atteggiamento e propensione dunque! Si giunge concedendogli spazio e dignità: afferrandolo quasi per commozione!» Modo di essere, modo di porsi tra gli altri e per gli altri: «è la postura di un pensiero, è la deambulazione di un’insistenza incastonata nel proprio stile di vita… da qui, da questo punto di coincidenza di sé con sé, si riparte per iniziare altro, per diventare Altri». E forse silenzio per eccellenza è quello offerto dalla parola poetica, a cui «non si addice lo spreco e neppure la superficialità dell’uso»: il bianco «dicente» e silente dei versi appuntiti e contratti di Celan, di Ungaretti: «bianco… assoluto, rarefatto. Quel bianco della decifrazione, dell’ermeticità, del fraintendimento». Nel suo ultimo saggio, Raimondi suggerisce poeticamente di imparare il silenzio, coltivandolo «come si coltiva un orto», disponendosi ad ascoltarlo, finché diventi «orizzonte, realtà, deserto, oceano, isola, meta».

 

«Accademia del silenzio», 22 novembre 2013

RECENSIONI

RAIMONDI

STEFANO RAIMONDI, IL CANE DI GIACOMETTI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2017

«L’oscillazione tra solitudine, miseria e armonia, tra luce, stella, tremore e senso d’abbandono, è forse davvero la cifra del nuovo libro di Stefano Raimondi… Esplorare l’abbandono, il senso d’abbandono, dentro le parole e dentro l’orizzonte urbano… ricercarne le costellazioni di immagini, le risonanze interiori, la voragine di un tombino che si spalanca e il viaggio che tuttavia si apre, in una luce incerta: ecco l’orizzonte di quest’opera…».

Così Fabio Pusterla nel risvolto di copertina del volume di versi Il cane di Giacometti del poeta Stefano Raimondi (Milano, 1964), che individua con precisione il leitmotiv che attraversa queste pagine, il senso acuto di impotenza e incomunicabilità, nostalgia e rimpianto, isolamento e timore. Facilmente rilevabili già da una prima, superficiale lettura, in cui riscontriamo da subito il reiterarsi di una stessa preposizione (“senza”, ripetuto una decina di volte), degli stessi verbi (tremare, finire, sparire), di aggettivi che paiono rincorrersi (spezzato, schiacciato, inutile, vuoto). Anche i nomi, sia quelli astratti (buio, paura, silenzio, abisso), sia quelli concreti (stortura, taglio, crepa) sottolineano continuamente l’idea di una ferita immedicabile, di un distacco doloroso, di un addio definitivo. E se nella descrizione degli interni (cucine e camere disadorne, fredde) si citano finestre, vetri, porte, le vediamo serrate od opache, mai in grado di segnalare un passaggio, un’apertura; mentre l’immagine che più caratterizza l’arredo urbano è quella del tombino, che grigio e gelido ha il compito di coprire i rifiuti della città.

«Devastati dalla fedeltà prendiamoci / carezze, spasimi, boccate, brani di fiato / ognuno dalla sua parte, disossata e accesa. / Sentire il peso dell’aria, l’abisso / dei tombini, stare nella cerchia buona / dell’ultima parola, tra una città / che cade tra sé e sé».

Una Milano disumana, quella raccontata da Stefano Raimondi, sfregiata da «scavi aperti», in cui la «vita rasoterra» si trascina per inerzia, tra muri sordi, cantine, ringhiere, parchi desolati, passanti «dormienti»: una metropoli malata, che non offre scampo o ancore di salvezza. «Ci si guarisce così nelle città: / aspettando».

In questo libro di prose che sembrano poesie, e di poesie cadenzate narrativamente, il cane solitario di una scultura che Alberto Giacometti descriveva all’amico Jean Genet è puro pretesto allusivo per Stefano Raimondi, essendo tutto interiore il cane che a lui rode il cuore e accerchia i pensieri: scodinzola, ringhia, minaccia, tiene a bada, morde, annusa, insegue. Impietoso come ogni solitudine dopo ogni abbandono.

 

© Riproduzione riservata          

www.sololibri.net/Il-cane-di-Giacometti-Raimondi.html      9 settembre 2017

RECENSIONI

RAMAT

SILVIO RAMAT, UNA FONTE – CROCETTI, MILANO 1988

Queste cinquanta poesie di Una fonte, pubblicate nel 1988, sono state scritte da Silvio Ramat nell’arco di sei mesi, dal gennaio al luglio dell’81. Solo due di queste liriche sono state composte nello stesso giorno (il I aprile), molte invece in giornate contigue: infatti l’autore chiarisce, nella postfazione, di aver creduto “nel valore traente, nell’energia aggregante e autogenerativa che ha l’idea forma del poema”.

L’essere stati prodotti in un periodo di tempo circoscritto, e il fare parte di un unico flusso poetico, fa s^ che questi versi abbiano tutti uno sfondo ambientale comune: un’unica stagione dominante (l’inverno), un’ora prediletta (l’alba che sfora nel mattino), un colore ricorrente (il grigio, nelle sue varie sfumature dal bianco al nero), un paesaggio urbano e nordico, con o senza fiume (“Il fiume che manca a questa città / duole di mattina come il frammento / dell’arto reciso”).

Scritte quasi in stato di trance, o comunque “imposte” da un’inconscia pressione coercitiva (“Dettando / a me stesso invasato invischiato / in una dettatura d’abisso o / alla mia altezza”, “Questi versi paiono tradotti da altro / e magari lo sono, il testo-base / è in una lingua sospesa, la parlavano / qualcuno la parla tuttora in qualche terra sospesa”), le poesie alludono cripticamente a un messaggio di salvezza, o forse indicano con foga millenarista nella loro stessa possibilità d’espressione l’unica alternativa alla condanna del silenzio.

Il poeta è di nuovo vate, profeta, vox clamans: a lui è demandata la comprensione ultima del significato reale dell’esistenza e la rivelazione finale della sua verità agli altri. Ne è un chiaro esempio la poesia XXXIII (un’allusione agli anni di Cristo?): “Ma – fuori tema, fuori poema oggi / tocca al poeta, a chiunque s’accerti / nei suoi panni sensitivi segnato / consegnato alla febbre intempestiva – // misurare in minuti / dove i più leggono anni lo scempio / lo sbriciolarsi dell’ostia”. Il poeta è “tardivo come ogni divinante”, “demonico”, “erede / sensitivo non del fuoco, del fumo”. E ancora in XXII: “I poeti dicono la verità. / Una parte di essa duole in altri / ed è quella che dura”.

Il libro, secondo l’autore, “stringe l’essenziale dei suoi nuclei nella stessa parola-titolo”. Una fonte è infatti parole-chiave nel volume: fonte come origine, sorgente lustrale, ma anche come eredità culturale, o sollievo nel cammino, oasi nel deserto: in quest’ultimo caso collegata all’idea di palma (“Un’isola di capogiro / … una palma, una fonte”, “la fonte occulta / verso il cuore occulto della palma?”). L’albero (più spesso, appunto, individuato come palma, segno di pace, di festa, ma anche segno inquieto, interrogativo) è un altro simbolo ricorrente, come la briciola, l’animula, il sole, la caverna. In un crescendo di spessore culturale, di tradizione filosofica a sottolineare quanto più la poesia diventi messaggio, idea.

Molteplici nodi concettuali e morali vengono toccati: la partecipazione politica (“Sali – mi cercano – alla nostra corte. / Siamo dalla parte della storia ‒. / Mi danno in mano la carta più facile / per il labirinto, nessun’ombra da scansare”), la polemica letteraria (“Adesso incontrerò / qualche Innamorato della Parola, / qualche Parola che per Amore si fa / Società di Poesia”), l’esserci nella storia (“Persi, persi di vista, / slittati in punta d’ali giù dai margini / bassi del quadro, i committenti umiliati – // … chi sta in campo nessuno lo cancella”), il rifiuto dei maîtres à penser, gli “immortali” delle ultime pagine. Qui la vis polemica rasenta lo sdegno, la poesia si fa civile riuscendo a elevarsi in versi molto intensi: “Gli immortali tramontano. / Qualcuno aveva mentito, / se non loro gli agiografi, i servi”, “Il tacere, il tacere oltre il tempo / non meno che nel tempo, questa dote / inflessibile hanno gl’immortali / in vincoli. Non potrò amarli mai, / neanche se le apparenze mi trasportano / con loro, in una stessa caverna”, Il teatrino / dei dotti – pentole con strani coperchi / nel cui brodo non voglio mescolarmi – / sto fuori scena, un’altra la mia scena”.

Il rifiuto dell’apparenza, che talvolta ricalca moduli espressivi montaliani, assume qua e là echi evangelici, lascia affiorare ricordi di versetti di Marco (XLVI) e Matteo (XXXIII), parabole rovesciate (XVI), termini di indubbia risonanza (vigna, samaritana, Damasco), nell’ipotesi di un nuovo Getsemani, ma senza salvezza, senza riscatto finale (“Che cosa è in ritardo, / quanto di previsto non sta accadendoci?”)

Un libro non facile, questo di Silvio Ramat, carico di suggestioni, denso di chiavi di lettura diverse, “Un libro da avverare in mille rami”, e che merita tutto il tempo che il lettore gli deve dedicare per penetrarlo almeno in alcuni dei suoi sensi.

 

© Riproduzione riservata              10 aprile 2020

https://www.sololibri.net/Una-fonte-Ramat.html

RECENSIONI

RAMEY MOLLENKOTT

VIRGINIA RAMEY MOLLENKOTT, DIO FEMMINILE – MESSAGGERO, PADOVA 1995

L’autrice è una teologa protestante americana molto nota per la sua competenza di biblista e per il suo impegnato femminismo. In questo libro, partendo dalla tesi, tanto dibattuta quanto ormai scontata, che l’origine del sessismo e della dominazione maschile si possano situare nel linguaggio, prodotto da un inconscio marchiato dalla cultura patriarcale, propone con forte vis polemica un’operazione difficile e senz’altro anticonformista, quale quella di «cambiare il linguaggio liturgico», adattando alle nostre espressioni religiose tradizionali il «linguaggio inclusivo».
Così viene definito in area anglosassone quel modo di esprimersi che non fa riferimento a un sesso specifico, o li include entrambi, con lo scopo di poter parlare di un ente supremo che trascenda da caratteristiche sessuali peculiari: non più God=Dio (termine che rimanda in modo marcato a un immaginario maschile), ma preferibilmente Divinità, Deità, Essere, Uno. O, ancora, l’uso di pronomi neutri (quali l’inglese “it”) e di particolari circonlocuzioni onde evitare la meccanica associazione a caratteri virili della divinità.
Virginia Mollenkott distrugge stereotipi per proporre una divinità tenera, materna, che dà vita e nutre; perché davvero Bibbia e Vangelo presentano frequentemente immagini femminili applicate a Dio: dio padre e madre, dio partoriente, dio che allatta e levatrice, dio donna di casa e dio simile a tanti animali al femminile (aquila, chioccia, orsa, pellicano femmina), dalla Genesi all’Apocalisse, passando soprattutto attraverso i profeti, ma non trascurando i Vangeli.
Molto toccanti sono le pagine sul pellicano femmina, che restituisce alla vita i piccoli trucidati dal padre spargendo su di loro il suo sangue, e assurgendo così a simbolo (fin dai bestiari medievali) del sacrificio di Cristo. Altrettanto coinvolgente risulta il capitolo sulla creazione della donna, definita in ebraico “Ezer”, aiuto, sostegno per l’uomo. Tale termine viene attribuito solo a due entità: a Dio e a Eva, entrambi chiamati a un servizio che deve essere reciproco tra uomo e donna, tra Creatore e creature.
Scrive la Mollenkott : «Sì, io credo che anche Dio debba servire gli uomini. La nomina di Adamo ed Eva da parte di Dio fu sicuramente un atto di sottomissione di Dio, un atto con cui Dio volutamente faceva un passo indietro e tracciava dei limiti al suo io, per divenire dipendente dalle sue creature».

E ancora Dio-aquila, che insegna agli aquilotti a volare e a essere autosufficienti, è un dio che sta cercando di creare esseri uguali, capaci di non sfruttarsi unilateralmente, ma semmai di scoprire una nuova vicendevole solidarietà. Le immagini bibliche di Dio l femminile costituiscono, secondo l’autrice, una specie di «resoconto minore», a fianco dell’immaginario maschile (spesso addirittura bellicoso, violento) predominante: eppure ad esse dovremo saper ricorrere se vogliamo favorire la crescita di una coscienza religiosa che sia fondata sull’uguaglianza e la reciprocità dei sessi.
In un breve excursus storico all’inizio del volume, La Mollenkott suggerisce l’ipotesi che le chiese occidentali (frequentate ormai quasi esclusivamente da fedeli donne) siano così disertate dagli uomini perché essi sarebbero «inconsciamente respinti dall’idea di essere chiamati a un’intimità con un Dio esclusivamente maschile». Ostacolo che nei secoli è stato superato dal clero maschile con un escamotage non solo linguistico: la Chiesa è diventata madre, l’anima del sacerdote sposa di Cristo.
Culturalmente, quindi, alle soglie del duemila, si impone di imparare a parlare di Dio in termini inclusivi sia per il maschile sia per il femminile: l’Essere perfetta/o nell’unità, della cui natura divina ogni creatura è chiamata a partecipare.

 

«Leggere Donna» n.57, luglio 1995

RECENSIONI

RAPINO

REMO RAPINO, SULLE SIGNIFICANZE DELLE PERIFERIE – BORDEAUX, ROMA 2020

Remo Rapino (1951), vincitore dell’ultimo Premio Campiello con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, in un breve pamphlet recentemente pubblicato da Bordeaux, Sulle significanze delle periferie, recupera il protagonista del suo romanzo per offrire ai lettori una stimolante riflessione sull’importanza della letteratura e del linguaggio come pratica di intervento sociale.

Nel romanzo di Rapino, Liborio Bonfiglio esprime la lotta per la sopravvivenza combattuta da un emarginato, che per tutta la sua “svalvolata” esistenza paga, tra lutti familiari, carcere, manicomio, la condanna alla marginalità e all’ininfluenza in un contesto culturale discriminante. Liborio assume su di sé il ruolo di figura simbolica dei senza storia, “barboni, contestatori, vagabondi, menti incomprese… idioti esemplari…filosofi del quotidiano”: a questi personaggi Remo Rapino demanda l’unica possibilità di ribellione “a un mondo soffocato sempre più dal crisma della normalità”, resistendo ai processi livellanti di assimilazione culturale.

I rifiutati, gli esclusi indicano “nicchie di salvezza, atti di libertà” che trovano il loro regno nella periferia, nella strada, nella piazza. Chi abita la piazza? “Vagabondi, prostitute, ladri, quanti vivono di espedienti, abitatori di margini al contempo fisici, sociali e mentali, non inquadrabili in alcuna classe…Figure che, se ben fotografate, danno alla letteratura la capacità di affrescare un’immagine complessa e stratificata del Paese reale”.

In che modo comunica il suo rifiuto Liborio, e con lui tutti “gli ultimi” nella scala sociale? Attraverso un linguaggio spontaneo (gergale, meticciato, sdrucito, stralunato, deformante), che lo scrittore utilizza osservando di sguincio nelle crepe di una realtà rimossa, imbavagliata, e documentandolo sulla pagina.  Ecco che allora “la parola letteraria – …che non assolve mai, e solo, la funzione di un meccanico rispecchiamento della realtà – …può porsi come strumento di conoscenza e di trasformazione del mondo”. Con la volontà di recuperare i valori di fratellanza, solidarietà, accettazione dell’altro, contestando il mito imperante del successo, del narcisismo, dell’obbedienza servile. Gli eroi letterari indicati da Rapino sono dunque i non allineati, gli idioti inutilizzabili: il Principe Myškin di Dostoevskij, Don Chisciotte, Bouvard e Pecuchet, Mattio Lovat di Sebastiano Vassalli, Lennie Small di Uomini e topi, Frank Drummer di Edgar Lee Masters, Macario di Juan Rulfo, Gimpel l’idiota di Isaac I. Singer. Tutta una galleria di eroi bizzarri, sognatori, solitari, incompresi, voci sommesse di un’antologia dell’invisibile che, frantumando rigidi schemi mentali, instillano dubbi nelle nostre presunte verità e rassicuranti certezze.

Questo testo di Remo Rapino deriva dalla registrazione di una lezione tenuta lo scorso ottobre per il #RIF Museo delle Periferie, progetto di Roma Capitale inteso ad approfondire la conoscenza delle metropoli del terzo millennio, contribuendo a realizzare, tramite pratiche artistiche e relazionali, una città più equa, partecipata, inclusiva.

© Riproduzione riservata            8 gennaio 2021

https://www.sololibri.net/Sulle-significanze-delle-periferie-Rapino.html

 

RECENSIONI

RASY

ELISABETTA RASY, FIGURE DELLA MALINCONIA– SKIRA, MILANO 2012

Le otto riflessioni che Elisabetta Rasy raccoglie in questo volume sono state pubblicate su Il Foglio  tra il 2010 e il 2011, in occasione di importanti mostre di pittura avvenute in diverse città italiane ed europee. Partendo da considerazioni estetiche (la natura della luce, l’importanza del paesaggio, lo scorrere inesorabile del tempo nelle espressioni dei volti, il rilievo politico della ritrattistica… E ancora: la malinconia, l’abbandono, l’ordine e il disordine…), l’autrice compie degli excursus culturali che abbracciano sapientemente letteratura e filosofia, storia e psicanalisi, in una scrittura insieme lieve e profonda, elegante e allusiva. Così le considerazioni sull’uso della luce in Turner e Goya trovano un loro puntuale contrappunto in rimandi e citazioni che spaziano da Rousseau a Poe, da Bachelard a Adorno, senza che la pagina risulti appesantita da un eccesso di esibizionismo nozionistico. Il paesaggio di Cima da Conegliano, quasi attonito e invariato («ogni cosa, se pure è soggetta al tempo, ha diritto alla sua intemporalità, ogni cosa vuole essere se stessa nel tempo immobile e interminabile della creazione»), viene commentato da passaggi tratti da Goethe e Zola, e attraverso i severi richiami critici di Cesare Brandi. La vecchia  di Giorgione offre lo spunto per una meditazione sulla vanitas come caducità e morte; i ritratti risorgimentali di Garibaldi suggeriscono riflessioni sullo sguardo e la tristezza. Ma è soprattutto nel capitolo dedicato ai gatti che l’ intelligente acutezza di Elisabetta Rasy manifesta una particolare seduzione: partendo da un ricordo infantile (i felini domestici della bisnonna, e il “pappone” di pesce che si preparava per loro quotidianamente), la scrittrice passa a illustrare il chiostro di Santa Chiara a Napoli, con i suoi colori lussureggianti e le scene profane animate dai personaggi più vari e, appunto, da gatti; per poi commentare l’annunciazione di Lorenzo Lotto e finire con la drammatica descrizione delle stragi di animali nella Mosca stalinista raccontata da Šalomov.

 

«Leggere Donna» n. 166, gennaio 2015

RECENSIONI

RASY

ELISABETTA RASY, SCRIVIMI – NOTTETEMPO, ROMA  2011

Le edizioni Nottetempo pubblicano nella collana  I sassi  libriccini di narrativa, saggistica, poesia limitati alla quarantina di pagine. Non si tratta di capolavori, non propongono idee nuove o sconvolgenti, non provocano né alimentano dibattiti e polemiche. Ma offrono una lettura generalmente piacevole, in uno stile dignitoso ed elegante: con i tempi che corrono, non è poco.
Così questo racconto di Elisabetta Rasy, che ho letto in treno passando un quarto d’ora di distesa non-concentrazione. Un avvocato di Roma narra in prima persona la fine dello zio materno, novantenne malato di vecchiaia, stanchezza e forse di Alzheimer. Il nipote vorrebbe fare in modo di trattenere il «soffio dell’esistenza in quel corpo che andava trasformandosi in un pesante fantasma di carne stanca e muscoli infiacchiti». Ovviamente lo zio non era sempre stato così, malandato e inebetito; bancario di ««radicale e altera energia», lo zio Enrico era stato «possente atletico e indecifrabile come un cavallo di razza … formale e austero, lesinava i gesti espansivi e le parole». Aveva avuto anche una moglie, sudamericana dolce e bellissima, che però l’aveva lasciato dopo solo un anno di matrimonio: quindi un’esistenza solitaria e orgogliosa, silenziosa e dedita esclusivamente allo sport e al lavoro. Poi la malattia, e il nipote da lui aiutato e seguito per tutta la vita gli cerca delle badanti che lo assistano giorno e notte, anzi, che divengano quasi angeli custodi, amorevoli e fedeli. La custode delle notti malate del vecchio è una giovane cilena, Isabel, che allevia l’immobilità incosciente di lui facendogli ascoltare sempre lo stesso disco, un tango intitolato Scrivimi, che gli aveva regalato decenni prima la moglie sudamericana. E mentre assiste il vegliardo, la giovane Isabel scrive lunghe lettere d’amore al fidanzato cileno, che non le risponderà mai. Quando il vecchio muore, la ragazza chiede al nipote come regalo d’addio proprio quel disco: e il racconto finisce in sordina, quasi con l’imbarazzo di trovare un finale adeguato a una storia che non dice molto. E così, anche il finale rimane sospeso, e non dice molto.

 

«Leggere Donna» n.156, luglio 2012

RECENSIONI

RAVASI

GIANFRANCO RAVASI, SIAMO QUEL CHE MANGIAMO? – EMI, BOLOGNA 2015

Sua Eminenza il Cardinale Gianfranco Ravasi, che l’anno scorso ha inaugurato il padiglione della Santa Sede all’Expo di Milano, ha pubblicato con evidente cognizione di causa Siamo quel che mangiamo?, un interessante libricino sul rapporto che intercorre tra cibo e Sacre Scritture.
Eruditissimo, fitto di citazioni e rimandi linguistici dal greco e dall’ebraico, riprende nel titolo l’affermazione di Feuerbach (“Der Mensch ist was er isst”) per ribadire che sì, ovviamente, siamo quel che mangiamo (quello di cui la nostra cultura, tradizione ed economia ci esorta a nutrirci), ma siamo soprattutto altro. Cibo come alimento, quindi, ma che deve mantenere una sua dimensione simbolica e spirituale.

Il saggio è suddiviso in tre sezioni: quella finale riporta un essenziale lessico biblico di termini alimentari ricorrenti nei testi sacri; quella centrale analizza due modalità inerenti all’assunzione del cibo, il digiuno e il vizio della gola. La parte iniziale è forse la più stimolante e istruttiva.
In essa, Gianfranco Ravasi illustra il rilievo che nelle Scritture hanno avuto tre archetipi dell’alimentazione: pane, vino e acqua. Il pane, nominato cento volte nel Nuovo Testamento, conosce il suo momento topico nell’istituzione dell’Eucarestia, e nella preghiera del Padre Nostro. Il vino, che rimanda a vissuti di festa partecipata, può assumere anche una valenza negativa e tentatrice, come nell’episodio dell’ubriacatura di Noè. Ma è l’acqua l’elemento che riveste nei testi sacri un’importanza simbolica ancora più evidente: disseta e purifica, lava e battezza. “Proprio perché è al centro dell’esistenza fisica, l’acqua diventa un simbolo dei valori assoluti, della vita anche nella sua dimensione spirituale, della stessa trascendenza”.

Pane, vino, acqua nutrono e devono essere condivisi: la religione cristiana non va vissuta solo come emozione interiore e ascesi, ma è “una fede legata ai corpi, alla storia, all’esistenza… per questo ritornare alla civiltà e alla simbologia del cibo ha un valore culturale e spirituale”.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Siamo-quel-mangiamo-Ravasi.html      31 luglio 2016