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RECENSIONI

RAVASI

GIANFRANCO RAVASI, GRAMMATICA DEL PERDONO – EDB, BOLOGNA 2015

Sua Eminenza il Cardinale Gianfranco Ravasi, biblista di fama internazionale e Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, si confronta in questo libriccino (uno delle dieci pubblicazioni date alle stampe solo nel corso del 2015) con il complesso tema del perdono. E lo fa con il consueto sfoggio di erudizione, che spazia dalle Scritture alla filosofia contemporanea, non disdegnando però proverbi, citazioni e aforismi (come quello, celeberrimo, di A. Pope: “errare è umano, perdonare è divino”. O l’altro di La Fontaine; “Perdoniamo tutto a noi stessi e nulla agli altri”). Arcinote sono le raccomandazione evangeliche di Luca (“perdonate e sarete perdonati”) e di Matteo (“perdonare fino a settanta volte sette”), meno conosciute le esortazioni dei profeti dell’Antico Testamento, dei Salmi, e della sapienza rabbinica. Secondo Ravasi, il perdono è “un atto trascendente la pura e semplice etica razionale… è una potenzialità che fa varcare il ristretto circuito ell’ego… fa sì che dal semplice meccanismo della giustizia si possa passare gratuitamente al regime dell’amore”. Non è detto che per arrivare al perdono si debba obbligatoriamente dimenticare o cancellare il male ricevuto, anzi la vera virtù consiste nel saper perdonare proprio ricordando, consapevoli della propria sofferenza, dell’ingiustizia immeritatamente subita. Ma dovremmo essere capaci di cauterizzare la nostra ferita liberandoci dall’incubo di una memoria sofferta, sgravandoci del peso soffocante che ci inibisce pensieri e azioni, e ci rinchiude nel cerchio angoscioso della volontà di rivalsa, o addirittura di vendetta: “il perdono spezza la catena rigida del dare-avere e introduce la logica della donazione libera e generosa”. Chissà però se anche i cardinali più illustri hanno l’umiltà di chiedere perdono a chi hanno offeso, infangato pubblicamente, calunniato dall’alto di un pulpito o dalle colonne di prestigiosi giornali, seguendo coerentemente le loro stesse indicazioni di carità fraterna e cristiana.

IBS, 25 settembre 2015

RECENSIONI

RAVASI

GIANFRANCO RAVASI, LA BIBBIA SECONDO BORGES – EDB, BOLOGNA 2017

In un volumetto pubblicato quest’anno dalle edizioni Dehoniane di Bologna, il Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, introduce i lettori al confronto con alcuni temi narrativi e poetici di Jorge Luis Borges, forse meno noti della sua produzione comunemente definita fantastica: spunti di riflessione riguardanti la teologia ebraica e cristiana, che percorrono tutta la sua scrittura, affiorando come correnti carsiche dal fertile terreno della sua enciclopedica cultura. Borges si è a più riprese qualificato agnostico, quando non del tutto ateo (Leonardo Sciascia lo definì «il più grande teologo ateo del nostro tempo»), ma fu sempre molto interessato ai fenomeni religiosi, e coltivò rapporti durevoli con esponenti del clero cattolico. Tra di essi, conobbe personalmente Papa Francesco, che ‒ trentenne insegnante di lettere in un collegio di Santa Fe ‒, lo aveva invitato nel 1965 a tenere un corso residenziale di scrittura ai suoi allievi liceali. Tra i due Jorge correvano circa una quarantina d’anni di differenza, ma si stabilì un rapporto di stima e confidenza reciproca, che per quanto riguarda Francesco, si concretizzò poi in una conoscenza approfondita di tutte le opere del Maestro di Buenos Aires.

Ecco quindi che Gianfranco Ravasi delinea in La Bibbia secondo Borges «una mappa a maglie larghe e incomplete» del filone «religioso, spirituale e persino mistico» individuabile nell’opera di questo autore da lui massimamente apprezzato. Così descrive la personalità dello scrittore: «Una fisionomia segnata dalla mobilità di un ecclettismo nobile, erede della curiositas insonne della classicità latina». Agendo tra storia e mito, leggenda e cronaca, verità e finzione, Borges assorbiva dal reale un labirintico universo di fantasie mobili, ramificate e fluide; reinterpretando Matteo 7,24, infatti, così esortava: «Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra».

Il suo avvicinamento alla Bibbia, determinato più da interesse culturale che dalla fede, fu incoraggiato dalla nonna, inglese e anglicana, che conosceva le Sacre Scritture a memoria. Attraverso le parole di lei cominciò ad apprezzare le narrazioni epiche del testo biblico, le parabole e le massime sapienziali, i personaggi dal tragico e umanissimo spessore (da Caino e Abele, da Giobbe a Giuda), la poesia dell’Ecclesiaste, intuendo pur nel suo scetticismo di non credente la grandezza del mistero, e quella di un eventuale progetto divino che potesse offrire una giustificazione all’esistenza del dolore e del male, e una proposta di perdono e salvezza. Da Cardinale della Chiesa Cattolica, Sua Eminenza Gianfranco Ravasi mette in luce ovviamente il fascino inquieto che la figura di Cristo e la sua crocifissione esercitarono su Borges, così come la grande ammirazione da lui provata di fronte al monumentale edificio teologico costruito da Dante nella Divina Commedia. Ma tace della preferenza più volte dichiarata dallo scrittore argentino per la storia e la letteratura ebraica (e addirittura per la cabbala), considerate fucina di tutto il sapere occidentale. E della sua pungente ironia verso molti atteggiamenti e dogmi cristiani, che in Elogio dell’ombra lo indussero a riscrivere in maniera quasi beffarda le Beatitudini, circoscrivendole in una morale del tutto umana, accessibile a chiunque: «Beati quelli che non hanno fame di giustizia, perché sanno che la nostra sorte, avversa o benevola, è opera del caso, che è imperscrutabile…».

 

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www.sololibri.net/La-Bibbia-secondo-Borges-Ravasi.html       14 dicembre 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RAVASI

GIANFRANCO RAVASI, LA VOCE DEL SILENZIO – EDB, BOLOGNA 2018

Partendo da una rivisitazione di alcune pagine bibliche, il Cardinale Gianfranco Ravasi ci offre una riflessione in sei brevi capitoli sul significato e l’importanza morale e culturale della parola. L’Antico Testamento è la sorgente ispiratrice (orizzonte, punto di riferimento, codice) di tutta la cultura occidentale, nella letteratura e nelle arti: lo è stato per scrittori, filosofi e intellettuali di ogni epoca e credo, se è vero che, come scrisse Blaise Pascal, «La Scrittura sacra ha passi atti a consolare tutte le condizioni, ma ha passi adatti anche a inquietare tutte le condizioni». Fonte di conforto e di tormento, quindi, ma anche di altissima poesia, se si leggono le pagine dei Salmi, del Libro di Giobbe, del Cantico dei Cantici, del Qoèlet. Eppure, questa miniera di sapienza e di poesia della Bibbia è racchiusa in un vocabolario limitato, formato soltanto «da 5.750 parole ebraiche, compresi gli avverbi, i segni dell’accusativo e alcuni segni marginali». Un lessico ristretto, formulato «in lingua pietrosa come il deserto da cui proveniva, una lingua di pastori, espressione di una civiltà nomadica», che tuttavia riesce a comunicare la trascendenza, l’infinito, l’eternità e il mistero.

Privilegiando più la parola che l’immagine, la cultura ebraico-cristiana è riuscita ad esaltare la potenza del linguaggio: è il verbo di Dio (“Dio disse”) che dà inizio alla creazione. Ma il Logos divino per farsi comprendere si deve affidare alla voce umana, fioca, esile, simile a un bisbiglìo (Isaia 29,4). È talmente fragile e inadeguata, la parola degli uomini, che nell’Antico Testamento non può nemmeno proferire il nome del Signore, scritto in quattro impronunciabili consonanti: YHWH. Il nome di Dio per il popolo ebraico va taciuto. Il primo dei profeti biblici, Elia, quando – perseguitato e in fuga, anche da se stesso – teme di avere perso la protezione del cielo, sul Sinai si illude di trovare Dio in una rivelazione prodigiosa, violenta, sensazionale, come nel fulmine incandescente, nel terremoto, nella tempesta: lo trova invece in «una voce di silenzio sottile» (1Re 19,12).

Partendo da questo ossimoro, La voce del silenzio di Gianfranco Ravasi si interroga sul rapporto misterioso e fecondo che lega la parola al tacere, quando la comunicazione più intima e arricchente non necessita d verbalizzazione. È probabilmente la poesia la forma letteraria che, attraverso il suo simbolismo e la sua musicalità, con le sue pause, i ritmi e gli spazi bianchi del verso, meglio riesce a rendere l’enorme potenzialità espressiva della parola, donandoci un’esperienza sensoriale che mette in relazione silenzio e significato, come nella musicalità del Cantico dei Cantici che esprime la tenerezza del dono reciproco dell’amore tra due giovani amanti. Anche la pittura, nell’arco dei secoli, ha sempre innalzato l’osservatore alla trascendenza, spesso utilizzando il repertorio della narrazione biblica, come nel quadro di Paul Gauguin riprodotto nella copertina del volume di cui parliamo, La visione dopo il sermone, del 1888. Marc Chagall scriveva: «La Bibbia è l’alfabeto colorato della speranza, nel quale hanno intinto il loro pennello per secoli i pittori». Arte figurativa, musica, saggistica traggono tutte ispirazione dal sontuoso immaginario biblico, attraverso le modalità dell’attualizzazione, della degenerazione, della trasfigurazione. Ravasi elogia quindi la potenzialità dell’espressione umana, per quanto essa sia labile e manchevole, quando in ogni ambito sappia esaltare la spiritualità, superando «i territori della superficialità, della banalità, della volgarità» della comunicazione contemporanea. Forse da lui e dal titolo del suo libro ci saremmo aspettati un più esplicito elogio del valore del silenzio, così come viene sottolineato da molte splendide pagine bibliche (Pr 10,19; Is 30,15; Mt 5,37-6,7-12,36…): voce sottile che si oppone alla forza del tuono, in una resistenza discretamente attiva.

 

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https://www.sololibri.net/La-voce-del-silenzio-Ravasi.html            8 ottobre 2018

 

RECENSIONI

REA

ERMANNO REA, LA COMUNISTA – GIUNTI, FIRENZE 2012

Nei due racconti di cui si compone questo libro dello scrittore partenopeo Ermanno Rea, da poco scomparso, Napoli entra per così dire di sbieco: non nell’intelaiatura linguistica, che è classicamente tersa, lontana da sperimentalismi e da espressioni vernacolari; nemmeno concretamente nella trama – anche se nel primo è evocata in alcuni quartieri, chiese, e nei problemi legati allo smaltimento dei rifiuti, e nel secondo incombe minaccioso ma dormiente il profilo del Vesuvio su Torre del Greco. E forse neanche nel carattere dei personaggi, per quanto Ermanno Rea faccia spesso riferimento al fatalismo e all’indolenza dei suoi concittadini. Sono racconti che potrebbero essere ambientati anche altrove, e si snodano pacati nella tranquilla narrazione, scevra di sorprese o soprassalti, di due incontri fuori dall’ordinario.

La comunista del primo racconto è il fantasma di una donna, un tempo amata dallo scrittore e descritta in un suo contestato romanzo di successo (“Francesca era una disubbidiente nata, un’irregolare per scelta ideologica prima ancora che per indole”) che gli appare improvvisamente una sera piovosa, e lo accompagna in un suo percorso mentale e materiale attraverso la città scoraggiata e delusa, invitandolo a una presa di coscienza più utopisticamente ottimista, nella speranza di un riscatto sociale di tutta la realtà meridionale.

Il secondo racconto ci presenta un anziano professore, vedovo e ricco, “affetto da bibliomania devastante”, che vive con una domestica in una splendida e trascurata villa, assediato dalle presenza di ventimila volumi preziosi. L’incontro che viene a cambiargli la vita è quello con un immigrato polacco “dalle mani d’oro”. Tadeusz in breve tempo gli ristruttura la casa, e gli costruisce una grandiosa libreria, ricavandone in cambio denaro, amicizia e lezioni di italiano. Poi scompare, con il suo linguaggio troppo forbito e la sua inquietudine: il professore muore, casa e libri vanno in rovina, e il lettore rimane un po’ sconcertato.

 

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www.sololibri.net/La-comunista-Ermanno-Rea.html      19 settembre 2016

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RECALCATI

CLAUDIO RECALCATI, MICROFIABE – MONDADORI, MILANO 2010

Questo volume di versi, scandito in sette capitoli, si apre mantenendo fede alle indicazioni critiche introduttive, che parlano di «energia violenta», «inquieta tensione drammatica», «narrazione franta, in bilico fra realtà e incubo». E in effetti, la prima parte del libro offre al lettore un’immagine forte del male, della corruzione fisica e della sofferenza, con la sezione iniziale dedicata a una drammatica visita a un ospedale, dove è ricoverato il padre del poeta: corpi martoriati, carne ridotta alla macerazione, tra cannule tubicini pitali, deambulare di pazienti, respiri catarrosi, «ciurma di arti indipendenti». Anche la quotidianità familiare sembra sopravvivere in una scenografia desolata, in cucine disfatte: «un sudario di sughi è il tavolo», «l’osso scarnificato nel piatto», «bottiglie vuote di gin e aromi d’aglio», che arriva a coinvolgere la vita tutta: «le ossa, questa carne lessata / al pallido sole estivo», in cui i protagonisti si riducono a un «cumulo di cenci / avvolti come sudari irrispettosi». L’amore si fa vivo a sprazzi, e mai consolatorio, quasi consapevole del disfacimento a cui tutta la realtà è destinata: «Qui non è regno è l’idiozia / del poco degli affetti»; e l’autore è consapevole della sua responsabilità nella visione negativa dell’esistere: «i sussurri d’eco / là dove ho smarrito la luce…», «Anni e anni ho vissuto / con questo senso ostile alla vita». Ancora la parte centrale del volume (Il seme ferito, dedicata a Dino Campana) assume questa visionarietà allucinata e aggressiva, con la «figura scarna» di Sibilla Aleramo, «incandescente e impura», che risponde all’amore malato del poeta toscano: «Milioni di volte ho atteso / che tu vuotassi la mia sacca gonfia, / placassi il mio tremore cervicale»; e ancora «Sapessi che voglia di ucciderti avrei». Tuttavia, nelle due sezioni successive (Tre quadri e Tre ladri) la tensione febbrile dei versi sembra diluirsi in una classicità più blanda, meno incisiva, meno rabbiosa; quasi che il male non venisse più riconosciuto come invincibile, assoluto dominatore dei destini umani. E invece risorge imperioso nell’ultimo capitolo del volume, L’ortolano di Balzac, ritratto impietoso e impressionante della malevola figura di un negoziante di frutta e verdura, lercio nel corpo e nell’anima («Zoppo o storpio chiamalo / macilento», «la palpebra di un occhio pendula», «narrano che abbia commesso / un efferato crimine»), padre padrone di una famiglia tarata, infetta dalla volgarità e dalla bruttura, che con la sua bassezza inquina l’atmosfera di un intero rione. Non sempre la poesia consola, l’aveva già insegnato Baudelaire: ma a volte sa sollevarsi anche nella descrizione della negatività.

«L’immaginazione» n. 261, marzo 2011

RECENSIONI

RECALCATI

MASSIMO RECALCATI, IL GESTO DI CAINO – EINAUDI, TORINO 2020

Caino, uccidendo suo fratello, compie un gesto crudele, privo di pietà, dettato da invidia e risentimento. La Bibbia lo racconta in Genesi 4,9: “Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise”. Massimo Recalcati riflette su Il gesto di Caino, lo ripercorre nel suo minuto accadere, e ancor prima, nel suo progettarsi, per poi interpretarlo psicanaliticamente, e offrirci una disamina dei suoi effetti nella storia della cultura ebraico-cristiana.

La tesi postulata in questa indagine è che “nella narrazione biblica l’amore per il prossimo viene dopo l’esperienza originaria dell’odio”, e che tale odio è motivato dal desiderio di distruggere l’Altro –vissuto come limitazione insopportabile –, per raggiungere “un ideale assoluto di autonomia e indipendenza”.

Il fratricidio di Caino è la seconda trasgressione agli ordini divini dopo quella attuata da Adamo ed Eva (il primo peccato è un furto, il secondo un assassinio). Ma appare forse ancora più grave ed eversiva della prima perché esercitata contro il parente più prossimo, contro il proprio sangue. In entrambe le storie narrate da Genesi, quella dei progenitori e quella dei due fratelli, il sentimento prevalente e condizionante è l’invidia: della coppia di sposi per la sapienza e il potere di Dio, di Caino per il fratello colpevole di avergli sottratto il prestigio presso la madre e presso il Signore.

L’invidia è un sentimento rivolto “a chi è come noi, ma ha o è più di noi; è sempre invidia per il simile e non per il diverso. In altre parole, l’invidiato incarna l’ideale inconfessato dell’invidioso… quello che vorremmo essere senza riuscirvi, il nostro ideale irraggiungibile, colui che incarna l’immagine narcisistica di noi stessi”. Ciò che Caino non tollera di Abele è l’intrusione minacciosa nel rapporto edipico e fusionale vissuto con la madre Eva, il fatto di essere stato spodestato dal ruolo di figlio unico e prediletto, non solo dei suoi genitori, ma dell’umanità intera. Il gesto che compie è assolutamente narcisistico, in quanto teso a “coltivare un’immagine grandiosamente ideale di se stesso… La matrice dell’odio invidioso è, infatti, al suo fondo, una passione narcisistica per se stessi, per la propria identità, per il proprio Io”. Ad accrescere il suo risentimento è il fatto che Dio ha riconosciuto nel fratello, e nelle sue offerte sacrificali (carne anziché prodotti della terra, caccia piuttosto che agricoltura), un valore superiore al suo. Deluso dal rifiuto divino, umiliato nella sua esigenza di riconoscimento, Caino trova nel ricorso alla violenza un possibile risarcimento alla propria mortificazione. “La scelta di Dio gli appare un sopruso, un capriccio, un atto prevaricatore. Ma Caino, in realtà, non tollera l’esistenza dell’Altro – la sua alterità – che la scelta di Dio intende invece evocare e portare alla presenza. Tuttavia, anziché cogliere l’atto di Dio come un’occasione di crescita, Caino resta fissato nella rivendicazione dei suoi diritti assoluti, resta prigioniero della sua passione narcisistica”.

Da dove deriva questa volontà di sopprimere ciò che è altro da sé? In fondo Dio, all’atto della creazione, aveva esaltato la molteplicità, la differenziazione peculiare di ogni vivente, affermandone la libertà: a ogni creatura era stato dato un nome, sottolineandone l’identità esclusiva, la distinzione rispetto alla totalità indifferenziata.

Ponendo trasgressione e brutalità all’inizio della narrazione, dopo la generosa bellezza offerta dai primi sette giorni del creato, la Bibbia afferma che è stato l’uomo a portare il male nella storia; la propensione all’odio, alla disubbidienza, all’oltraggio sembra essere una spinta pulsionale primaria e ineliminabile: “La tendenza trasgressiva non è solamente una possibilità della vita umana, ma una sua inclinazione fondamentale”. Essa indica il desiderio di violare il limite imposto dalla Legge per proclamare la propria incondizionata autosufficienza, distruggendo ogni alterità.

La scelta della violenza è determinata dalla volontà di raggiungere il proprio scopo direttamente, “per via breve”, senza passare attraverso una faticosa mediazione con l’Altro: “colpire il prossimo viene prima dell’amore per il prossimo… all’origine della vita, dunque, non è il sentimento di fratellanza, ma la sua distruzione, la sua negazione feroce”. Secondo Freud, “La storia primordiale dell’umanità è piena di assassinii. Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come storia universale non è in realtà altro che una lunga serie di uccisioni fra i popoli… Anche noi, considerati in base ai nostri moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini”.

Colpendo il fratello, Caino ha finito per colpire se stesso, poiché non essendo in grado di esperire l’alterità e di accettarne l’esistenza, ammette la propria incompiutezza e inferiorità. Nell’odio verso Abele, rende l’immagine di lui ulteriormente ideale e irraggiungibile: solo uccidendolo può tentare di ridurre lo scarto tra ciò che sa di essere e ciò che aspirerebbe a essere.

Solamente dopo l’omicidio Caino potrà intraprendere un percorso di recupero e salvezza. Quando Dio gli chiede conto del suo delitto, dapprima lo nega (“Non lo so. Sono forse il custode di mio fratello?”), quindi lo riconosce come crimine inscusabile (“Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono!”). La maledizione divina lo costringerà a vagare “ramingo e fuggiasco”, a lavorare con fatica una terra arida e infruttuosa, marchiato con un segno che pur rendendolo eternamente riconoscibile in quanto assassino, ne impedirà l’uccisione vendicatrice, spezzando così la spirale della violenza e proteggendolo dall’automatismo di una Legge puramente sanzionatoria.

Nel confessarsi colpevole, Caino può espiare il suo peccato e iniziare una nuova vita, lontana dall’Eden, in un lento e difficile processo riabilitativo che lo condurrà alla costruzione della prima città umana e della propria paternità, atti generativi aperti al futuro. Il fratricida si assume così una responsabilità etica nei confronti del prossimo, persino dello sconosciuto o del nemico, e può recuperare in sé un sentimento di fraternità non esclusivamente biologica, ma compiutamente umana.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 13 settembre 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RECALCATI

MASSIMO RECALCATI, AMEN – EINAUDI, TORINO 2022

Amen, atto unico di Massimo Recalcati, dopo la dedica all’amico e poeta Francesco Scarabicchi scomparso lo scorso anno, reca come epigrafe questa frase tratta da Finale di partita di Samuel Beckett: “Hamm: Intorno a te ci sarà il vuoto infinito, tutti i morti di tutti i tempi non basterebbero, risuscitando, a colmarlo, e sarai come un sassolino in mezzo alla steppa”, a indicare come sia la morte la protagonista assoluta di questo testo teatrale.

Sul palcoscenico, all’interno di una scenografia dimessa, si muovono tre personaggi: un uomo maturo (Enne 2), un soldato e una madre. Al protagonista, alla sua riflessione sconsolata e a tratti rabbiosa, spetta il compito di coordinare ieri oggi e domani, a partire dalla propria nascita tribolata, così come viene raccontata dalla madre, poi da un passato che assume la voce di chi ha combattuto in guerra, per immaginare un futuro di decadenza fisica e mentale, fino all’inevitabile esito della scomparsa dal mondo dei vivi.
Enne 2 esprime il suo tormento filosofico nei riguardi del significato dell’esistenza, e soprattutto della sua conclusione: “dopo” risulta il termine più carico di spessore emotivo, nell’inquieto interrogarsi metafisico sul niente e sul buio che attende ogni essere vivente: “Ma si potrà «dopo» ancora bere? mangiare? respirare? camminare? Avremo ancora «dopo» occhi, gambe, mani, orecchie, capelli, piedi? Potremo ancora «dopo» ridere? respirare? parlare? O saremo solo degli spettri freddi, fradici, separati per sempre dalla vita, inghiottiti dalla notte, morti per sempre, perduti, vinti, senza luce, caduti nel buio più buio della notte…”, “«Dopo» dove sarebbe? In cielo, sotto terra, in un altro mondo?”

Il destino ingiusto e crudele di essere destinati a sparire in quanto creature, viene stigmatizzato in un elenco rabbrividente di sostantivi e attributi che descrivono i corpi quando perdono ogni funzione vitale: “spettri freddi, fradici, separati per sempre dalla vita, inghiottiti dalla notte, morti per sempre, perduti, vinti, senza luce, caduti nel buio più buio della notte…”, “finiti, sfiniti, spenti, scomparsi, ridotti a marmi freddi, al silenzio totale”, “segatura, sabbia, cenere, polvere…”, “resti putridi, avanzi, scarti, sabbia, detriti…”

L’amplificazione del concetto nel reiterato susseguirsi di sinonimi serve a Recalcati per indicare quello che la morte toglie, con cieca ferocia, a chi vorrebbe poter continuare a godere della bellezza, dell’amore, degli affetti familiari: “Voglio vedere ancora le cose, i corpi, i volti, gli odori, il sole, le stelle, i mari, le città, i ruscelli, la montagna, il bosco, le case, le strade…”, “bere, mangiare, respirare, baciare, toccare, vedere, leggere, scrivere, amare…”, “Troppo bello nuotare, correre, amare, respirare, camminare, vedere la luce…”

Al lamento funebre dell’uomo risponde la madre, rievocando il suo parto difficile, da cui lui è nato prematuro, sofferente, “gattino indifeso”, lottando con forza per rimanere aggrappato alla vita, per non essere risucchiato nel silenzio e nel vuoto del niente. E gli fa eco il ricordo del giovane alpino, coperto da un logoro pastrano, che ricorda le marce nelle notti gelide, il ritmo cadenzato dei passi di soldati in colonna sulla neve, il sacrificio di tanti ventenni caduti senza poter godere della loro giovinezza: “C’è solo la vita che resiste. Il ghiaccio attorno e la vita che resiste. Il passo e il cuore. Nient’altro. Tutto attorno morte e poi c’è la vita del passo e del cuore. Il passo e il cuore, amico. È tutto lì”.

È lo stesso cuore che batte, implacabile e mai arreso, nel neonato chiuso nella scatola trasparente di un’incubatrice e nel soldato sfinito che vorrebbe lasciarsi andare; ciascuno combatte furiosamente la sua battaglia per non arrendersi alla fine che tutto cancella: il partigiano come il terrorista, il toro portato al macello come i conigli scuoiati, i giovani amanti avvinghiati nel desiderio sessuale e gli anziani ormai inebetiti.

Alle voci dei protagonisti, stentoree nei loro disperati monologhi, fanno da sottofondo nella resa teatrale preghiere, canzoni popolari, versetti dei Salmi, i battiti amplificati di un cuore, lo scalpiccio di scarponi militari sulla neve, slogan di lotta armata, voci di bambini, pioggia e tuoni, e le parole dell’ultima lettera di Aldo Moro (“Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”).

Dal battesimo all’estrema unzione, dal vagito del neonato all’Amen che accompagna la sepoltura, (“Amen! Ma io non voglio che finisca!”), tutto il testo di Massimo Recalcati risulta un drammatico de profundis che implora salvezza e pietà, ma grida anche la sua ribellione per la caducità dell’esistenza, che non merita di dissolversi nel nero della morte. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro Franco Parenti di Milano, ha debuttato al Festival di Spoleto l’8 luglio del 2021 con Marco Foschi, Federica Fracassi e Danilo Nigrelli, per la regia di Valter Malosti.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Amen-Recalcati         27 aprile 2022

RECENSIONI

REMUZZI

GIUSEPPE REMUZZI, LA SALUTE (NON) È IN VENDITA – LATERZA, BARI-ROMA 2018

Da tempo assegno il 5 per mille della mia dichiarazione dei redditi all’Istituto Mario Negri, che sostengo anche con una donazione annuale, non solo per la stima che provo per la profonda competenza scientifica e l’impegno umano del suo fondatore, Prof. Silvio Garattini, ma anche per l’esperienza diretta che un mio conoscente ha avuto affidando ai ricercatori del Negri la diagnosi di una sua rara malattia genetica, male interpretata da centri medici europei di eccellenza.

L’attuale direttore dell’Istituto, Prof. Giuseppe Remuzzi, che abbiamo imparato a conoscere nei suoi frequenti interventi televisivi sulla pandemia, aveva pubblicato da Laterza nel 2018 un pamphlet appassionato sulla situazione della medicina nel nostro paese, che oggi suona amaramente profetico: La salute (non) è in vendita. Con fervore e autorevolezza, Remuzzi difende l’essenziale e insostituibile importanza del nostro Servizio Sanitario Nazionale, istituito nel 1978 e riformato nel 1992. Prima della sua creazione, in Italia esistevano le mutue, pubbliche e private, che non garantivano pari livelli di omogeneità sul territorio. Invece il SSN risponde a tre principi fondamentali: universalità, solidarietà e uniformità, confermando così il diritto civile enunciato dall’articolo 32 della nostra Costituzione: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure agli indigenti”. Si sancisce in tal modo il principio (che a tutt’oggi non viene riconosciuto nella maggior parte del mondo) che la salute non è un bene da lasciare alle dinamiche del mercato, ma va assicurata a tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche e dallo stato sociale dei cittadini. Una grande conquista democratica del nostro paese, che anche oggi va assolutamente difesa e rafforzata.

Il Servizio Sanitario Nazionale implica per lo stato costi di finanziamento molto elevati (per quanto ancora ridotti rispetto a quelli di altre nazioni), e destinati a crescere in futuro, con l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle malattie croniche, il prezzo delle nuove terapie e degli strumenti diagnostici. Ma si possono già ideare e programmare soluzioni atte a contenere le spese. Il Prof. Remuzzi ne indica alcune:

1) La ricognizione delle esigenze dei territori per eliminare attività inutili o ridondanti, promuovendo solo le cure di provata efficacia, chiudendo i piccoli ospedali che disperdono risorse e accreditando gli istituti privati solo laddove l’intervento pubblico sia carente. 2) L’abolizione dell’intramoenia, l’attività privata dei medici dipendenti in ospedale, per mettere fine a corsie preferenziali tra chi può permettersi di pagare e chi no. 3) La creazione di strutture di lunga degenza, che consentano agli ospedali una migliore organizzazione e ricoveri più brevi e meno dispendiosi. 4) L’assunzione dei medici di medicina generale alle dipendenze del SSN, con uguali diritti-doveri-retribuzione degli ospedalieri. 5) L’investimento nella ricerca e nella formazione dei giovani da inserire a tempo pieno nella sanità pubblica.

L’OMS prevede che nel mondo tra dieci anni sarà necessario reclutare 40 milioni di addetti nel settore della salute: l’impiego di ognuno di loro genererà possibilità di lavoro per almeno altre due persone nel campo dell’amministrazione, delle assicurazioni, dell’informatica, dei trasporti e dei servizi. Una reale rivoluzione del mercato del lavoro a livello globale, che produrrà anche un notevole cambiamento nelle abitudini e nella mentalità delle persone. Ci sarà una presenza rilevante della robotizzazione di alcune funzioni all’interno dei laboratori di ricerca e degli ospedali, un massiccio incremento degli studi sulla genetica, sulla prevenzione delle malattie, sulla scoperta di nuovi vaccini. Ciò comporterà anche un’inevitabile modificazione ideologica e comportamentale rispetto a temi fondamentali quali la durata della vita, l’accanimento terapeutico, l’utilizzo di strumenti di informazione informatici, una consapevolezza scientifica sempre più diffusa tra gli utenti. Indispensabile è comunque preservare il mantenimento di un Servizio Sanitario Nazionale efficiente e democratico, che garantisca le stesse possibilità di cura al Nord come al Sud, evitando le differenziazioni economiche, gli sprechi di investimento, le lunghe liste d’attesa e la disorganizzazione cui oggi assistiamo ancora troppo spesso.

 

© Riproduzione riservata         SoloLibri.net › Salute-non-e-in-vendita-Remuzzi    21 aprile 2021

 

 

 

RECENSIONI

RENAN

ERNEST RENAN, VITA DI GESU’ – NEWTON COMPTON, ROMA 2012

Papa Wojtyla sospese dall’insegnamento nell’università di Tubinga il teologo Hans Küng che, con il grande successo di pubblico ottenuto dal suo libro Dio esiste?, si era reso portavoce di una forte critica alle teorie ufficiali vaticane. Un destino analogo, e di ben più ampia rilevanza, ebbe Ernest Renan, che nel 1863 venne revocato dalla Cattedra al Collège de France per il clamore suscitato da un suo libro considerato eretico Vita di Gesù. Renan nacque a Treguier nel 1823, e molto giovane si indirizzò verso studi religiosi al Seminario di San Sulpicio, a Parigi. Non prese però la veste talare, già tormentato da dubbi circa la veridicità della lettura canonica dei testi sacri. Filologo, studioso di lingue semitiche, mantenne per quindici anni la cattedra universitaria di lingua ebraica, viaggiando in Palestina e dedicandosi a pubblicazioni specialistiche. Quando ormai la sua fama era consolidata, pubblicò questa Vita di Gesù, che doveva far parte di una più vasta storia del cristianesimo. La curiosità, lo scandalo che l’opera sollevò furono superiori a quello provocato dalla Madame Bovary di Flaubert, anch’essa messa all’indice. Quello che la gerarchia ecclesiale e la cultura ortodossa francese non perdonavano a Renan, era di aver applicato rigorosi metodi scientifici (confronti filologici, studio delle incongruenze tra i Sinottici e il Vangelo di S.Giovanni) a verità rivelate e indiscutibili. Di avere cioè sottoposto a indagine critica e razionale ciò che si doveva accettare per fede e ubbidienza. Per Renan, convinto della giustezza del suo metodo, fu soprattutto una questione di coerenza intellettuale condurre l’esame dei testi alle estreme conseguenze: «Io vedo queste contraddizioni con un’evidenza così assoluta, che ci scommetterei sopra la mia vita, e anche la mia eterna salvezza».

La Vita di Gesù, che Oscar Wilde definì «un incantevole Vangelo secondo San Tommaso», ripercorre l’esistenza del personaggio storico di Cristo, rivelando l’humus culturale in cui si era formato, riscrivendo quale tipo di rapporti lo legava al suo ambiente, alla famiglia, ai discepoli. Senz’altro inaccettabile parve ai denigratori di Renan la sufficienza con cui egli sottovalutava il miracolistico e il soprannaturale in genere nella vicenda umana di Gesù, definendo Cristo «taumaturgo per forza», rifiutando anche la resurrezione come prodotto «della passione di un’allucinata». Renan fu un biografo laico innamorato del disegno umano, sociale del suo eroe, e si lasciò affascinare dalla follia mistica, dalla sete di giustizia e di luce di Gesù, al punto di riscriverne la vita tenendo conto solo della sua utopia terrena.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Vita-di-Gesu-Ernest-Renan.html      16 ottobre 2015