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RECENSIONI

RENSI

GIUSEPPE RENSI, APOLOGIA DELLO SCETTICISMO – LA VITA FELICE, MILANO 2011

Giuseppe Rensi, filosofo sui generis tra i pensatori italiani, fu antiidealista e anticrociano; sotto il fascismo perse la cattedra all’Università di Genova e passò alcuni anni in esilio. Ebbe interessi molteplici, che spaziavano dalla filosofia antica allo studio di Spinoza e Nietzsche, e assunse una posizione critica nei riguardi di tutte le retoriche dei suoi anni: dall’esaltazione del Risorgimento alle teorie estetiche e politiche del futurismo e del dannunzianesimo. A partire da questa sua posizione isolata e forse elitaria nella cultura del nostro primo 900, propose una rilettura meditata e insieme polemica dello scetticismo, scrivendo un manuale che fu pubblicato nel 1926, e viene oggi riproposto in un’elegante edizione, con un’acuta introduzione di Armando Torno. Partendo dai filosofi greci dichiaratamente scettici (Pirrone,e poi Sesto Empirico, che ne fu il diffusore nell’antichità), ma risalendo addirittura a Eraclito e Parmenide, per poi recuperare tracce del pensiero scettico nel corso di tutta la storia della filosofia, Rensi offre un’appassionata difesa dello scetticismo contro tutti i pregiudizi e le banalità che ne danno un’idea falsa e riduttiva. “Scettico vuol dire per i più, uomo indifferente a ogni convinzione, pronto se occorre ad assumerne senza scrupoli una qualsiasi e a cambiarla quando fa d’uopo, irrisore di tutte le fedi”. In realtà “lo scetticismo stabilisce la sua tesi in contrapposizione al dogmatismo nazionalista e idealista”; esso nega che il reale sia deducibile dalla ragione, ma afferma che deve essere constatato a partire dall’osservazione dei fatti,concludendo che non esistono verità assolute. A partire da questa convinta e perentoria affermazione, Rensi esamina i presupposti dello scetticismo nei vari aspetti della ricerca filosofica:nella metafisica (confutando sia l’essere sia il divenire), nella logica, nell’estetica e -con toni decisamente infiammati- nel campo dell’etica e della politica. Un libro da leggere, per chi non crede o crede troppo…

IBS, 20 aprile 2011

 

RECENSIONI

REVELLI

MARCO REVELLI, UMANO INUMANO POSTUMANO – EINAUDI, TORINO 2020

Tra un Prologo inquietante (Il virus del disumano) e un Epilogo sgomentato (Finis terrae), Marco Revelli racchiude i nove densi capitoli del suo saggio Umano Inumano Postumano, costernata riflessione sulla nostra contemporaneità, così come si è andata trasformando dalle ceneri di un tragico passato novecentesco, e un futuro che si prospetta complesso e allarmante.

Revelli (Cuneo 1947), storico, accademico, attivista politico, ha al suo attivo molti importanti volumi di analisi e denuncia dello stato attuale della società italiana. In questo ultimo lavoro prende le mosse da alcune considerazioni relative al concetto di umanità, termine introdotto a Roma nel I secolo a.C. sul modello della philantropia greca, atteggiamento di benevola e rispettosa attenzione verso i propri simili, e strumento essenziale nella costruzione della convivenza civile. Ideali sostenuti e diffusi negli scritti di Terenzio, Plauto, Cicerone, che penetrarono nelle coscienze delle popolazioni europee insieme a una nuova idea di umanesimo, inteso come valore specifico, indipendente sia dal divino sia dal naturale, condiviso già dal primo Cristianesimo, e poi dal Rinascimento e dall’ Illuminismo. Secondo Revelli, questa fede nell’umanesimo si è infranta meno di un secolo fa, con il nazismo e lo scandalo di Auschwitz: “Il luogo in cui la lunga vicenda del pensiero occidentale ha subito la propria catastrofica lacerazione con l’irruzione massificata del disumano nell’umano”, quando l’uomo ha potuto essere considerato nulla per l’altro uomo. Tale dis-umanità è la stessa espressa dal feroce spettacolo, protratto quotidianamente da anni, della morte in massa dei migranti nei nostri mari, “osservato dapprima con pena poi sempre più con disattenzione, assuefazione, fastidio infine, e persino odio”.

In alcune figure emblematiche della cultura europea tra la fine del 1400 e il 1600 (Hieronymus Bosch, Amleto, Don Chisciotte, Giordano Bruno), Marco Revelli ravvisa i sintomi della prima grave rottura dell’armonia classica, con l’avvento di una crisi spirituale determinata dalle nuove istanze religiose della Riforma, dalle rivoluzionarie scoperte scientifiche, dal dilatarsi dei confini terrestri.

La modernità si affaccia in un mondo non più interpretabile secondo i parametri culturali del passato, e sempre più sconvolto dallo sgretolarsi di certezze rassicuranti sul ruolo dell’individuo nella società, nella storia e nell’universo. Tra ’600 e ’700 si impone un nuovo principio d’ordine, dettato dal concetto di Sovranità inteso come potere assoluto, a cui il suddito si assoggetta volontariamente, e con timore, per pura necessità di sopravvivenza. Il potere si giustifica da solo nella sua dimensione statuale, secondo il fondamento teologico-politico che assume il male e la violenza come instrumentum regni per mantenere l’unità, utilizzando la paura dei cittadini per assicurarsene la fedeltà.

In questa sua particolare e talvolta discutibile ricostruzione storica, Revelli pone molta attenzione alle espressioni artistiche che hanno accompagnato evoluzioni e involuzioni sociali, adeguandosi non solo agli umori popolari, ma soprattutto alle esigenze delle classi dominanti.

Se per due secoli e mezzo la vita quotidiana si è svolta ubbidientemente “sotto l’ombrello della Spada e della Legge” (ma come non considerare il principio libertario dell’Illuminismo, della rivoluzione Francese, delle lotte risorgimentali?), con il passaggio dalla Monarchia assoluta a quella costituzionale e poi allo Stato liberale rappresentativo, secondo l’autore torna a prevalere la difesa del vantaggio individuale rispetto a quello della collettività. Dopo il crollo delle fedi religiose, dopo la morte di Dio, anche la morte del prossimo sottolinea la fondamentale solitudine, verticale e orizzontale, dell’uomo.

Nel Novecento, con la strage industrializzata della Grande Guerra, e poi con i lager nazisti, l’inumano riprende a dominare lo spirito del tempo, dilagando senza freni spirituali. Le guerre mondiali e il nazismo certificano “la progressiva desertificazione del paesaggio interiore, l’abbattimento inarrestabile degli strati di civilizzazione sedimentati nei secoli fino a raggiungere l’osso di un’elementarità crudele, da branco predatore”. L’umano si fa disumano nell’esibita indifferenza per l’altro da sé, negli ultimi decenni divenuta ancora più manifesta soprattutto verso gli strati poveri e fragili della popolazione. Un’insensibilità nemmeno più giustificata da ragioni ideologiche, ma solo dalla corsa competitiva verso l’utile, per cui la persona viene considerata puro soggetto economico. Verità divenuta tanto più evidente con lo scoppio della pandemia, quando molti governi hanno cercato di salvaguardare più che la salute dei cittadini, gli interessi finanziari e industriali delle nazioni.

Nelle pagine dedicate alla tragedia del Covid, al Revelli storico si sovrappone l’attivista politico, il giornalista impegnato nella denuncia. Sono i capitoli più convincenti del volume, quelli in cui l’autore si interroga sull’attualità, confrontando dati, citando testimonianze, elencando statistiche e riferimenti bibliografici, offrendo un ricco apparato di note. La sua indignazione si fa palpabile nel constatare che esiste una parte dell’umanità esclusa dal trattamento sanitario sulla base dell’età, dello stato sociale, delle condizioni fisiche: la terapia intensiva garantita dai macchinari dimostra quanto la civiltà contemporanea sia più dipendente dal denaro e dalla tecnologia che dall’etica.

Ecco allora che il passaggio dall’Umano all’Inumano si estremizza ulteriormente nell’approdare al Postumano, lungo un percorso che ha declassato l’uomo dalla posizione di centralità, unicità e autosufficienza occupata nell’Umanesimo, rendendolo quasi l’appendice di sofisticate strumentazioni meccaniche. Assediata da biotecnologie, neuroscienze, machine learning, nanobionica, ingegneria genetica, cyborg, nel futuro prossimo l’umanità sarà destinata a compiere un doppio salto di specie: verso l’alto (in una posizione simil-divina, creatrice di vita in laboratorio) e verso il basso, diventando un manufatto artificiale: costruito, riparato, sostituito anche nelle mansioni intellettuali.

Come genere umano, stiamo forse pagando un peccato di superbia, avendo preteso di ergerci a dominatori trionfanti dell’universo intero, e l’attuale crisi del soggetto ci riduce all’insignificanza che meritiamo, laddove “le cose si personalizzano mentre le persone si reificano”, oggetti tra gli oggetti. In conclusione di un quadro tanto pessimistico, Marco Revelli indica l’unica possibile via di salvezza nell’esortazione suggerita da papa Francesco nella sua rivoluzionaria enciclica Laudato si’, ad abitare responsabilmente la terra di cui ci siamo ritenuti padroni assoluti, sfruttandola e violentandola, e a ritrovare una pacifica collaborazione non solo tra individui, ma con tutte le altre specie viventi e con l’ambiente che per millenni ha sopportato i nostri soprusi.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 14 dicembre 2020

 

 

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REYNOSO

OSWALDO REYNOSO, GLI INNOCENTI – SUR, ROMA 2016

Lo scrittore peruviano Oswaldo Reynoso (1931-2016) ebbe vita letteraria non facile nel suo paese: accusato di estremismo politico e di amoralità provocatoria nella sua scrittura, si trovò spesso isolato e preso di mira dalla censura, al punto di scegliere un volontario esilio in Cina. Le edizioni romane SUR, che già avevano proposto ai lettori italiani il suo romanzo “Niente miracoli a ottobre”, pubblicano ora il suo primo libro di racconti, Gli innocenti, uscito in Perù nel 1961, e qui presentato nella traduzione di Federica Niola e con la prefazione di Matteo Nucci.

Si tratta di cinque racconti brevi che hanno come protagonisti alcuni adolescenti inquieti o disperati, rabbiosi e privi di prospettive, che trascinano le loro giornate nelle strade assolate e sporche di Lima, sotto “un cielo pesante e ardente”, oppure nei bordelli dei quartieri più malfamati, o nei bar a giocare a dadi e a biliardo.
Si chiamano Faccia d’Angelo, Principe, Carambola, Rossetto, Ciambella, Corsaro, Cinese: nemmeno proprietari dei loro veri nomi, innocenti come tutti i ragazzi che si affacciano alla vita senza alcuna possibilità di riscatto, colpevoli di affrontare l’esistenza in maniera quasi animalesca, istintiva, spinti da una fame atavica di cibo, alcol, sesso, trasgressione.

La «prosa poetica» di Reynoso, come viene definita da Nucci, in bilico tra realismo e ispirazione meditativa, oggi non scandalizza più nessuno, anche se cinquant’anni fa aveva turbato le coscienze dei benpensanti; le avventure e le scazzottate dei protagonisti, le loro ribellioni verso gli adulti, i furti e gli scippi, gli accoppiamenti annaspanti non bruciano più nelle pagine che ormai ci paiono quasi innocue.
Il credo dei questi ragazzi (“Devi saper fumare, bere, giocare, rubare, marinare la scuola, cavar soldi ai froci e andare a puttane”) risulta quasi patetico rispetto alle violenze esibite oggi da qualsiasi cronaca giornalistica.
Rimane, quindi, in questa scrittura, il fascino delle descrizioni, ricche di odori, colori, sapori: fisicità, insomma. “Il vento, opaco e caldo, sollevava fogli di giornale ingialliti e sporchi. Il pomeriggio – lento, sudaticcio, pieno di suoni sordi e lontani – si svegliava bambino. La città reggeva il peso, selvaggio e violento, del sole”; “Sembra che i corpi siano coperti di miele e le camicie si appiccicano addosso, tiepide. L’odore acre e bruciante delle ascelle si mescola, con violenza, al vapore umido e dolce del prato. Furia. Voglia di mandare il papa a farsi fottere”; “Sono andato subito sotto casa di Alicia. Le ho fatto un fischio. È scesa. Ed era fantastica: con le occhiaie e quell’odore di letto sporco che mi fa infoiare”.

Un Sudamerica lontano, chiuso in un’eternità immobile e astorica.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Gli-innocenti-Oswaldo-Reynoso.html     22 luglio 2016

 

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REZA

YASMINA REZA, DA NESSUNA PARTE – ARCHINTO, MILANO 2012

Cinque brevi racconti della scrittrice “iraniana, russa, ebrea, ungherese”, naturalizzata francese, Yasmina Reza, nota a livello internazionale soprattutto per la sua produzione teatrale: scritti con levità e sospesa malinconia, quasi con pudore e timore di approfondire sentimenti e situazioni, evitando descrizioni accurate di luoghi e figure. Non si tratta nemmeno di ricordi: immagini, piuttosto, sensazioni che hanno qualcosa di impressionistico. Acquerelli dai colori tenui. «I luoghi mi ispirano quando li vedo da una strada o da un treno per esempio». Mai da molto vicino, piuttosto dall’alto, o di lato. Come quando racconta il rito del saluto ai suoi bambini che vanno a scuola, il timore di seguirli troppo con gli occhi, o troppo poco. La paura di penetrare con eccessiva partecipazione nelle vicende altrui, nelle anime degli altri: che così vengono colti in un solo gesto, e in esso immortalati (il tuffo in piscina, un maglione nero con le frange, il cocker nero inquietante dei genitori, la camera troppo ordinata dell’adolescenza…). Tutto viene come mediato, filtrato, attraverso lo spettro impersonale della letteratura; i sentimenti rivivono soprattutto nelle parole degli scrittori più amati. Questa quasi estraneità alla vita reale («occorre astrarsene o considerarla l’unica salvezza, con la sua banalità, le sue inerzie i suoi continui ricominciamenti?») viene motivata nel racconto finale, che dà il titolo al libro. L’autrice non ha origini, è una déraciné: «Io non ho radici, a nessun luogo è mai importato di me….Non conosco le lingue, nessuna lingua, dei miei padre, madre, antenati, non riconosco né terra né albero, nessun suolo è stato il mio… non so di quale linfa mi sono nutrita…» Troppi luoghi e troppe lingue l’hanno resa lontana ed esclusa, incapace di riconoscersi in ricordi e tradizioni, incapace di rimpianti. E così la sua scrittura elegante e leggera dà al lettore l’impressione di uno smarrimento soffocato a lungo, di un disagio mai vinto, di una tristezza quasi rassegnata.

 

«Leggere Donna» n.97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

REZZA

ANTONIO REZZA, CREDO IN UN SOLO OBLIO – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2023

La Nave di Teseo ripubblica un romanzo di Antonio Rezza (Novara 1965), uscito in prima edizione da Bompiani nel 2007 e vincitore del Premio Feronia: Credo in un solo oblio. Si tratta di una sorta di poema in prosa, provocatorio, angoscioso, ossessivamente autoreferenziale. In uno stile che sperimenta lo stream of consciousness, viene eliminata ogni barriera tra la percezione effettiva delle cose e la rielaborazione mentale. Ne risulta una narrazione surreale, scandita in frasi brevi e assiomatiche, separate nei primi capitoli da continui a capo, come nei versi di una poesia. Che della poesia, e della recita ad alta voce (Rezza è celebrato attore teatrale) mantengono il ritmo e le pause, la forza della declamazione stentorea. Già evidente nelle righe di apertura: “Era una giornata iniziata da poco. / Comincia così la giornata, da poco. / E a poco a poco si fa lunga, insopportabile, fino a sfinire. / E così i mesi. / E così gli anni. / E i secoli che non vedremo”. Più sotto, ancora, una definizione drammatica dell’esistenza: “Nasciamo morti e moriamo vivi. Questo è il problema”. Il gusto dello spiazzamento, dell’iperbole polemica che talvolta si fa ingiuria, istigazione, è già evidente dalla dedica in esergo: “A tutti coloro”, che potrebbe significare a tutti e a nessuno, a quelli come me e a quelli diversi da me.

La voce narrante è un alter ego ovviamente chiamato Antonio, la cui caratteristica principale è l’odio impaurito verso il mondo circostante e l’odio-amore verso sé stesso: “Da circa sette anni vivo in un inferno interiore. Brucio dentro. / Sono la mia ulcera. Sono il mio tormento. / Senza me vivrei meglio, ma mi occupo quel tanto da non darmi scampo”. Antonio ha un amico che lo fa ridere, ma si frequentano poco. Ha avuto una moglie morta di parto, e una bambina di nome Maria che nessuno ha mai visto, e lui rinchiude nei suoi pensieri compulsivi per non contagiarla del suo male oscuro.

Caducità del tempo, caducità degli avvenimenti e dei sentimenti sono il leitmotiv della riflessione filosofica e morale dell’autore: vanità del Qoèlet, indifferenza sartriana, finzione borgesiana, Cioran e Houellebecq rivisitati. Ripetizione, inutilità di ogni sofferenza, noia. “Non c’è noia che non sia eterna. / La noia è immortale. / La noia è come Dio. E in più esiste. / Tutto riesce ad annoiare”.

La miseria in cui ci dibattiamo non è colpa del Cielo, dello Stato, del destino: è colpa nostra. “Siamo quel che meritiamo, non siamo quel che siamo. / Fossimo ciò che siamo saremmo felici. / Ma non siamo felici. / Forse neanche siamo. / Siamo a sprazzi”. Siamo tutti “Sfottuti. Sfittati. Sfiniti. Finiti. Finiti per sempre. / Finiti in vita. / E pronti a ricominciare”.

Come vive, cosa fa Antonio? L’elenco delle sue banali azioni quotidiane (dormo mangio fumo parlo esco) viene subito contraddetto dal loro contrario (non dormo non mangio non fumo non parlo non esco). “Non lavoro, non ho rapporti sociali, mi sveglio ogni giorno e cado in balia di una deriva implacabile che mi condurrà all’infermità mentale”.

Ma improvvisamente gli capita qualcosa di incredibile e dirompente, che rivoluziona la sua intera esistenza e il suo modo di rapportarsi col mondo: decide di andare a farsi una foto per “vedersi chiaro”, per dare sostanza alla sua faccia, alla sua fisicità, e avere un riscontro concreto di sé in un documento ufficiale. La foto esce mossa perché Antonio si distrae e scompone: “Scatto durante lo scatto. / E vengo mosso. Mosso nella foto. Nella foto mosso come vorrei nella vita”. Il ritratto non corrisponde realmente al suo viso, non gli assomiglia. Quindi, al primo controllo della carta d’identità da parte della polizia stradale, lo straniato e incolpevole protagonista viene arrestato per detenzione di documenti falsi.

Alla narrazione cadenzata dalle pause e dagli a-capo si alternano brani pseudo-normalizzati tipograficamente, ma ancora febbrili nello stile e deliranti nei contenuti. Inizia infatti un vorticoso accavallarsi di avvenimenti paradossali, privi di logica, che conducono Antonio a uno sdoppiamento della personalità, a uno schizofrenico incarnarsi nei corpi di tutti coloro che incontra, e sulle cui facce si sovrappone la fotografia della sua carta d’identità. “Chiunque mi è di fronte io sono. Ma pur essendo in tutti continuo a non essere nessuno. Muovendomi nello studio del fotografo al momento dello scatto sono entrato nelle foto dell’umanità”. L’unico modo di uscire dal suo bloccato, atonico egotismo è il movimento subitaneo e involontario che, squarciando i confini rigidi e incasellanti del ritratto, lo mette in comunicazione con un esterno perturbante e maniacale, ma comunque concreto. L’ossessione per la fotografia prende di mira l’esibizione di sé oggi imperante sui social e nei media (“se un giorno m’impicco lo faccio in autoscatto”) e nello stesso tempo esprime la convinzione che noi siamo “l’immagine del nulla”.

Antonio evade dalla prigione e scopre il suo viso su tutti i cartelloni pubblicitari, nel casellario della polizia, nelle riviste, nei bar, sui tram, nei ritratti dei defunti al cimitero. “Entrando e uscendo dalla carta d’identità posso vivere due vite. Nessuna come vorrei. Ma almeno due”. Gira per la città a volte deserta a volte affollata, sentendosi privato della propria personalità e dei connotati fisici ora trasformati in una tragica maschera fittizia, diffusa ovunque. Il cimitero è l’habitat abituale del protagonista, a significare che la vita dei morti equivale o supera in autenticità quella dei vivi. Prova a recuperare il passato riesumando i corpi sepolti di madre padre e nonna, anch’essi incorniciati in un’inespressiva fotografia, e con loro si ritrova protagonista in un film pornografico e in diverse trasmissioni televisive. Come un becchino impazzito continua a disseppellire salme di parenti e sconosciuti, per poi interrarli di nuovo, sostituendo i ritratti sulle lapidi nel tentativo di ripristinare un ordine che lui stesso ha sconvolto. L’incubo da tragico si trasforma in comico, creando situazioni farsesche di agnizioni e sconfessioni continue, omicidi e resurrezioni, fughe e ricomposizioni. I defunti si aggirano come ectoplasmi, ombre di un Ade ciclicamente svuotato e ripopolato da proiezioni allucinate di anime inconsistenti. Antonio si innamora del cadavere di una donna, la sposa e la rende madre di un bambino nato morto. Poi ne sposa un’altra, da cui nascerà un esserino con l’unico carattere distintivo di una voce urlante. Infine appare luminosa tra le tombe Maria, “bimba riemersa…figlia del buio”, tenuta nascosta per preservarla dal male paterno e universale. È la sua bambina, ma è anche sua moglie, le loro foto si sovrappongono in un delirante incubo incestuoso. Infine, mentre la follia si impossessa della mente ferita del protagonista, il suo corpo si sgretola e si spande nell’universo.

Antonio Rezza, che da sempre si muove sui nostri palcoscenici in un teatro dell’assurdo e della crudeltà sulle tracce di Artaud, Ionesco, Genet, può ben affermare, in conclusione di questo volume spietato, geniale e disturbante nel suo ostentato narcisismo, che “la realtà senza recita è la più tragica recita della realtà”.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 24 luglio 2023

 

RECENSIONI

RICCA

PAOLO RICCA, EVANGELO DI GIOVANNI – MORCELLIANA, BRESCIA 2005

Questo volume propone ai lettori la trascrizione di una serie di conversazioni del Pastore Valdese Paolo Ricca dedicate al Vangelo giovanneo nella trasmissione di Radio 3 Rai “Uomini e profeti” (inverno 2001). L’autore approfondisce la sua interpretazione del testo, scandendolo in tre nuclei principali: i dialoghi di Gesù, i suoi segni e le sue auto-rivelazioni. Nella prima parte, Paolo Ricca riesce egregiamente a dare nuovo spessore a figure che abbiamo imparato a conoscere in maniera abbastanza scontata e superficiale: ecco invece che Nicodemo, Maria Maddalena, la Samaritana, Pilato assumono un rilievo fondamentale di testimonianza, talvolta profetica. I segni del Messia, come preferisce definirli Giovanni (piuttosto che con il termine abusato e fuorviante di “miracoli”), manifestano nella lettura che ne dà Ricca la portata rivelatrice, più che prodigiosa, dell’evento narrato, additandone la realtà nascosta che lo trascende. Quindi Cana, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la risurrezione di Lazzaro indicano l’universalizzazione del messaggio cristiano con il suo invito alla condivisione, e alla rinascita dall’incredulità alla fede. Infine, la ribadita affermazione “Io sono” che Giovanni pone in bocca a Gesù sta a sottolineare questa sua volontà di manifestarsi come figlio di Dio, rivendicando a sé stesso sia l’umanità che la divinità. Nello storicizzare il Vangelo di Giovanni, e incardinandolo nel suo concreto comporsi alla fine del I secolo, segnato già dal primo formarsi della Chiesa come istituzione, Paolo Ricca ne esplicita con meditata sapienza soprattutto l’estrema originalità rispetto ai sinottici, evidenziandone le caratteristiche principali: l’insistenza sul presente come reale tempo di Dio; l’incontro attraverso la parola; la polemica contro il potere e la gerarchia; il dovere di de-clericalizzare Dio; il richiamo deciso all’amore, alla fede, al servizio umile e al dono di sé; l’importanza della luce, della gioia, dell’intimità amicale.

IBS, 7 settembre 2013

RECENSIONI

RICCA

PAOLO RICCA, IL CRISTIANO DAVANTI ALLA MORTE – CLAUDIANA, TORINO 2005

I tre capitoli che compongono questo volumetto (pubblicato per la prima volta nel 1978) indagano la relazione tra la morte e la società, Dio, la fede. Se la riflessione filosofica e sociologica degli ultimi decenni si è spesso soffermata sugli aspetti sociali della morte (quindi sulla sua definizione scientifica e medica, sulla sua laicizzazione e privatizzazione, sulla sua rimozione culturale), il Pastore Valdese e teologo Paolo Ricca ne propone qui un’ottica attenta soprattutto alla dimensione religiosa. La morte come problema teologico viene affrontata alla luce di quanto se ne afferma nell’Antico e nel Nuovo Testamento; nel primo la risurrezione è del tutto marginale, mentre è centrale nel secondo. Ma è certo che “la Bibbia, nel suo insieme, pensa più a Dio al di qua della linea della vita che al di là del confine della morte… Insomma, nella Bibbia il discorso su Dio non è collegato alla paura di morire ma alla responsabilità di vivere”. Risurrezione per il cristiano significa “l’apparire della nuova creazione”, quindi vivere una nuova esistenza, più giusta, più buona, più pura, più generosa. Il messaggio di Gesù, per Ricca, ha capovolto ogni prospettiva, invitando a superare la morte in nome della vita: “non più la vita alle spalle e la morte davanti, ma la morte alla spalle e la vita davanti”. Il compito del cristiano è quindi quello di lottare contro la morte intesa come violenza, ingiustizia, disuguaglianza, “in modo che ridiventi epilogo e non distruzione della vita”: la morte si combatte intessendo un’esistenza relazionale, e umanizzando il momento del trapasso (coraggiosamente l’autore afferma che l’eutanasia, “intesa non come diritto di uccidere ma come diritto di morire” dovrebbe essere resa legalmente possibile). Allora la risurrezione non va pensata in funzione di se stessi o dei propri cari, ma in termini collettivi: non con la speranza di rimanere eterni individualmente, ma con la volontà di una salvezza che riguardi tutta l’umanità.

IBS, 23 agosto 2013

RECENSIONI

RICCARDI

ANTONIO RICCARDI, IL PROFITTO DOMESTICO – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

Il Saggiatore ripropone, in una versione riveduta dall’autore, il primo libro di versi di Antonio Riccardi, Il profitto domestico, pubblicato da Mondadori nel 1996: opera che già vent’anni fa aveva riscosso positivi commenti da parte dei critici. A ribadire nei lettori l’impressione di allora, sono ancora gli stessi versi radicati in una geografia e in una storia assolutamente personali (anzi, familiari), che ambiscono però a farsi portavoce di una sensibilità collettiva.
Scandito in dieci sezioni, a loro volta suddivise in sottosezioni, il volume abbraccia un orizzonte del tutto naturalistico, immerso in un paesaggio padano profondamente vegetale: bosco, erba, foglie sono i termini più presenti, nella loro lussureggiante e umida frescura, insieme all’acqua di fiumiciattoli, a sentieri che si inerpicano, a sassi e improvvise radure. La stagione che domina è quella estiva, non bruciante, ma viva di «luce aperta», di «ore calme».
E in questa campagna dell’Appennino parmense, da cui Riccardi proviene, l’economia è stabilmente domestica, rurale, concretizzata in abitudini contadine («i soldi nella latta dei dolci», le veglie, il risparmio, le raccomandazioni dei vecchi: «Se succede qualcosa restate / e non vendete», le giaculatorie: «Me ne vado a letto / Con Domine perfetto / con Domine maggiore / con Cristo Salvatore»).
Il compito del poeta è quello di un recupero archeologico e di una testimonianza morale; giustamente Alberto Casadei, nella sua approfondita postfazione, parla di «componente etica» della raccolta: «Il dovere può essere accostato alla «conoscenza domestica», all’intima pietas del custodire-salvare le vicende biografiche e le reliquie, per costruire un profitto più autentico, per dare un ordine al vuoto».

E la ricerca delle radici si attua in una ricomposizione di ritratti-medaglioni familiari, come quelli che si appendevano nelle vecchie cascine di campagna, fotografie in biancoenero in cornici ovali di legno: sono gli avi, i parenti nati tutti nell’800, e tutti destinati a una sorte fallimentare di perdenti, di esclusi, di vinti. Il sacerdote Antonio Riccardi, la cui vita è stata segnata da una colpa forse inconfessabile: ma condanna e salvezza, peccato e perdono si rincorrono sempre («Una colpa ci trapassa per salvarci»). L’epilettico Dositeo Riccardi, che «Ha tenuto una chiave sotto la lingua / per guarigione». Il soldato Antonio Riccardi, combattente in trincea nella I guerra mondiale, e il possidente Odet Riccardi che inseguiva «facoltà, bene, felicità». Generazioni che si sono succedute nella conquista, nel mantenimento e poi nel lento decadere del podere di famiglia a Cattabiano, in perenni rincorse di un «profitto domestico»: «Avevamo fiducia e abitudini dolci. / Ora, qui sulla terra / che non è più nostra / la rovina orla la nostra vita».

Non è un caso, forse, che gli aggettivi più ricorrenti nei versi di Riccardi siano «questo» e «ogni», quasi a voler continuamente ribadire una radicalizzazione nella concretezza della storia personale dell’autore, un «qui e ora» che rimangono pur nel susseguirsi degli anni, in un passato che permane e si vivifica nel presente. Così come anche il lontano più immaginifico (la terrificante spedizione artica di Greely nel 1881, l’esplorazione africana di Bottego) dei sogni o degli incubi adolescenziali del poeta si confondono con la sua realtà attuale dell’abitare nei grigi confini industrializzati di Sesto San Giovanni. D ove riesce comunque a recuperare il filo della poesia: «Abbiamo visto nell’aria Milano / un chiarore salire curvato / oltre il piano degli alberi sul fiume. / Saremo felici della nostra fortuna».

 

«Poesia» n. 311, gennaio 2016

RECENSIONI

RICO

EUGENIA RICO, STORIA DEL SILENZIO – ELLIOT, ROMA 2020 (ebook)

Eugenia Rico, nata a Oviedo nel 1972, vive oggi a Venezia col marito e la figlia. Definita da Luis Sepúlveda una delle voci più originali della narrativa spagnola, ha ricevuto numerosi riconoscimenti
internazionali e la sua opera è stata tradotta in molte lingue. In Italia i suoi romanzi, pubblicati da Elliot, narrano soprattutto di relazioni familiari e sentimentali tormentate, con un’attenzione particolare anche all’ambientazione sociale e storica.

In questa Storia del silenzio, finora uscito solo in formato digitale, Eugenia Rico si confronta con il doloroso incubo che stiamo vivendo in tutto il mondo, assediati dal virus del Covid. Incubo che, per la città in cui l’autrice abita attualmente, Venezia, è iniziato il 23 febbraio manifestandosi in una San Marco dapprima festosa e affollata, poi improvvisamente ammutolita: “Di colpo la piazza si è fermata, la folla in silenzio ha cominciato a guardare i cellulari, come la scena di un film in cui tutti eravamo comparse: il Carnevale di Venezia è stato cancellato, che è un po’ come chiudere la vita”.

Da quella data Eugenia Rico registra quotidianamente, scandendo l’implacabile e lento trascorrere di giornate tutte uguali, il diario malinconico della quarantena, nel suo imporsi a macchia d’olio dalla Cina all’Italia del Nord, alla Spagna e a tutta l’Europa, e infine a livello planetario. Uno scenario di guerra, con isolamento e coprifuoco, maschere protettive e tende ospedaliere, terrore e povertà, allarmismi e sfide provocatorie. La paura ha immobilizzato tutti, pietrificato i rapporti sociali, alzato muri di diffidenza e litigiosità: “Prima hanno chiuso le scuole, poi hanno chiuso i negozi, i bar aprivano fino alle sei di pomeriggio, i bar non aprivano, fino a quando è stato chiuso tutto. E anche noi ci siamo chiusi. La società si è trasformata in una rete sociale”. E, in questo scenario di silenzio e solitudine coatta, “Sappiamo come siamo entrati, non sappiamo quando usciremo né come”. Certo diversi, come è successo all’umanità dopo ogni cataclisma, ogni evento bellico, ogni epidemia. Migliori o peggiori, è comunque da vedersi. Senz’altro il Coronavirus ha minato dalle fondamenta i rapporti di convivenza, la fiducia negli altri, l’economia e la salute mentale, oltre ad aver ucciso persone e seminato dolore e spavento.

Le considerazioni dell’autrice sono quelle che leggiamo da mesi sui giornali, che ascoltiamo alla radio e alla televisione, che ci scambiamo in famiglia, tra amici o sui social. Diciamo e pensiamo tutti le stesse cose: anche l’originalità, la fantasia, l’ironia hanno ceduto il passo alla stanchezza, al pessimismo, all’intolleranza, ai pregiudizi.

Venezia resiste, è quasi più felice, senza turisti e trolley cigolanti: l’acqua dei canali è cristallina e si vedono saltare i pesci, nuotare anatre e cigni, i pochi residenti fissi sono diventati più amabili e solidali tra di loro… Fino a quando, però? Cosa succederà se alberghi, ristoranti, bar, le varie attività commerciali non riusciranno più a riaprire, dovranno licenziare il personale, dichiarare fallimento?

Eugenia Rico nella sua analisi alterna ottimismo e scoraggiamento, esaltazioni improvvise e prolungate depressioni, barcamenandosi nella quotidianità tra i propri impegni di moglie-madre-cittadina, e le proprie riflessioni di scrittrice intellettuale. Con l’ansia comune a tutti noi, di riprendere al più presto l’esistenza attiva del pre-virus, e la speranza in una rinascita personale e collettiva, conclude ogni pagina di diario sempre con le stesse parole: “Vi voglio bene”.

© Riproduzione riservata              26 maggio 2020

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RECENSIONI

RICOEUR

PAUL RICOEUR, KIERKEGAARD – MORCELLIANA, BRESIA 1995

In queste due conferenze tenute nel 1963, Paul Ricoeur si confronta con uno dei suoi filosofi di riferimento, da lui definito “un’eccezione… fuori dalla filosofia e dalla teologia… coincidenza inaudita di ironia, malinconia, purezza del cuore, retorica corrosiva…”. A questo inedito ritratto di Kierkegaard ritiene di dover aggiungere “una punta di buffoneria, ed infine coronare il tutto con l’identità di estetismo religioso e di martirio”. Nessuna sottovalutazione, ovviamente, del pensatore danese: semmai una rivendicazione ammirata della sua originalità assolutamente lontana dagli schemi e dalla tradizione filosofica classica. Assurdo definire quella kierkegaardiana una non-filosofia, semmai – suggerisce Ricoeur – una “iper-filosofia”, di cui si devono accettare anche “gli aspetti propriamente irrazionali”, al punto che ci si dovrebbe interrogare su “come sia possibile filosofare dopo Kierkegaard”. I due saggi esaminati da Ricoeur sono Il concetto dell’angoscia e La malattia mortale, del 1844 e del 1849: di entrambi viene analizzato il confrontarsi del filosofo danese con il problema del male, inteso come questione centrale (“assurda, scandalosa, senza diritto e senza ragione”) del rapporto tra l’uomo e Dio. Il cristianesimo di Kierkegaard era più un cristianesimo della croce che della Pasqua, della sofferenza e della colpa più che del perdono e della gloria: in esso il peso del peccato, dell’angoscia e della disperazione assunse sempre un rilievo fondamentale. E in questi due scritti lo affrontò non tanto “da metafisico, o da moralista, o da predicatore”: quanto invece, secondo Ricoeur, da un punto di vista psicologico. “Il peccato non è il contrario della virtù, ma della fede… è il nostro modo ordinario di essere davanti a Dio”, e si esprime nella sua forma estrema come disperazione, imperdonabile malattia mortale che rispecchia “la mancanza d’infinito, la ristrettezza di una vita mediocre, la perdita d’orizzonte”.

IBS, 5 aprile 2014