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RECENSIONI

RIFKA

FUAD RIFKA, L’ULTIMA PAROLA SUL PANE – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2022

Fuad Rifka, nato nel 1930 in un piccolo villaggio della Siria ed emigrato in gioventù a Beirut, per anni ha insegnato filosofia alla Lebanese American University. Profondo conoscitore della poesia tedesca, ha tradotto in arabo Goethe, Novalis, Hölderlin, Rilke, Trakl. È morto a Beirut nel 2011.

Nel volume L’ultima parola sul pane, pubblicato recentemente dalle edizioni pugliesi AnimaMundi, viene suggerita con levità e dolcezza la necessità di camminare con il mondo e insieme oltre il mondo, lontano da ogni brama di possesso e di successo, nella contemplazione serenamente meditativa dell’essere. Sempre in attesa di una rivelazione che porti pace e salvezza, di un respiro capace di promettere, anche solo per un attimo, sospensione e sollievo da angoscia e paura (“Arriva all’improvviso, / quest’ospite divino e / poi va via dietro una curva ignota”), Rifka fa riferimento a un aldilà sovrasensibile che non sa e non può essere detto, ma solo intuito nella sua ineffabilità.

Ciò su cui insistono nei loro commenti il prefatore Tomaso Tiddia, i postfatori Paolo Ruffilli, Rossana Abis che l’ha incontrato e Ottavio Rossani che l’ha intervistato nel 2008, è l’intensità del suo sguardo contemplativo, l’assoluta trasparenza della sua scrittura, “depurata da ogni ideologia e cultura”: invito a dimenticare e a dimenticarsi, in un oblio del bene e del male che riesca a sanare qualsiasi ferita. Diario: “Che tu veda il giorno, o no, / comunque lo rimpiangerai. / Che tu ti faccia grande, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu conosca l’amore, oppure no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu possa invecchiare, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu giunga a morire, o no, comunque lo rimpiangerai. / Che tu rimpianga, o no, comunque lo rimpiangerai”.

Questa “poesia di raffinata povertà” ci avvicina alle dottrine spirituali dell’Oriente, non solo arabe, proprie della meditazione sufista fino a Rumi, ma anche dei maestri zen cinesi e giapponesi. Ritroviamo l’annullamento dell’io indicato da Li Po (“Sediamo insieme, la montagna e io, finché solo la montagna rimane”) nella descrizione fatta in La Capanna del Sufi: “Sta seduto immobile, / in un posto coperto tutto di muschio. / Mai stanco di stare lì seduto / resta in silenzio. // Due pietre: lui e la roccia”. La rinuncia, come strada maestra verso l’essenzialità e la purificazione, era già stata predicata da Plotino (Aphele panta, elimina tutto), poi da Marco Aurelio, dai mistici renani, dal monachesimo cristiano, fino a Nietzsche (“Divina è l’arte del dimenticare”). Niente permane, tutto finisce ed è destinato a sparire; persino la poesia (soffio di vento, ombra) non ha e non deve avere una vita duratura: solo l’eternità merita se stessa, nel silenzio. Il poeta, sacerdote dell’invisibile, diventa tale quando “i suoi occhi vedono la luce … dimenticando la poesia”, anch’essa serva della parola scritta ed enunciata, pertanto deperibile.

Fuad Rifka divide la vita dell’uomo in tre fasi: la fanciullezza, che è sogno, ingenuità, abbandono fiducioso all’accadere; la maturità, con le sue ansie di conoscenza, amore, avventura; la vecchiaia, nel rassegnato ripiegamento interiore, in attesa della fine liberatrice (Percorso: “Nella nostra infanzia / apriamo la porta e dormiamo / come riposa la preghiera / tra le foglie di Dio. // A mezzogiorno / chiudiamo la porta e poi partiamo / nei venti rossi di sabbia, dentro la bufera, / dietro alle tracce del diluvio e del miraggio. // La sera infine / l’ombra si accorcia e si cancella / come un giorno d’estate nel cuore dell’inverno”). Nella materialità delle giornate quotidiane, ci ritroviamo “le mani piene / di fumo e di paura, / e i visi spenti”, perché siamo “una ferita, / e siamo dei torrenti / senza letto e foce, / siamo campane al transito del tempo”. Rassegnati alla nostra finitezza fisica “Finiremo così, naturalmente, / come un fiore di campo, / come un fiore che dice: / “È già tempo di neve, amico mio, / e le stagioni prossime a finire”.

La parola poetica, semplice e sacra come il pane, nonostante la sua fragilità può agire come una liturgia rituale e profetica, lontana da qualsiasi confessionalismo, trasformando il nostro vissuto concreto in aspirazione all’assoluto, connettendoci con l’infinito, senza la presunzione di comprendere il mistero che ci fa esistere.

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 31 agosto 2022

 

 

RECENSIONI

RIGONI

MARIO ANDREA RIGONI, COLLOQUI CON IL MIO DEMONE – ELLIOT, ROMA 2021

Mario Andrea Rigoni (Asiago, 1948), Professore emerito di Letteratura italiana dell’Università di Padova, studioso di Leopardi, collaboratore del «Corriere della Sera», saggista, critico, autore di racconti e di aforismi, ha pubblicato presso Elliot il suo primo volume di versi, Colloqui con il mio demone, con prefazione di Francesco Zambon. Si tratta di un libro originale, nel panorama della nostra poesia, non solo dal punto di vista formale (utilizza infatti uno stile di impianto prosastico e colloquiale, ma intessuto di stratagemmi fonetici che lo rendono musicalmente ritmico e facilmente memorizzabile), ma anche nelle scelte tematiche, sospese tra autobiografia, memoria storica, meditazione metafisica, interesse scientifico e critica sociale.

Chiarezza, esibita semplicità, amara ironia, pungente risentimento etico, compiaciuto distacco dalle mode letterarie attuali, sono gli ingredienti distintivi di questa prova di Rigoni, che in essa fa tesoro della sua decennale e riconosciuta abilità aforistica, come della profonda conoscenza dei testi dilanianti di Emile Cioran, di cui è stato traduttore e amico. A queste non comuni caratteristiche si aggiunge la riflessione malinconicamente consapevole della transitorietà del vivere, della tragica inessenzialità umana nello scorrere dei millenni e negli sconfinati abissi del cosmo. Quindi sono molte le composizioni che si interrogano sugli aspetti materiali dell’esistenza, dalla meteorologia (il vento, la nebbia) alla mineralogia (il granello di sabbia, il ciottolo, il lapislazzulo) alla storia, con una rivisitazione di personaggi illustri, antichi e moderni (Ponzio Pilato, Giulio Cesare, Marco Aurelio, Giordano Bruno, Stalin).

Se non sono dimenticati luoghi e oggetti, piante e animali (il tarassaco, merli e avvoltoi), gli amici e gli affetti più cari, la cifra caratterizzante la raccolta sembra essere la valutazione caustica e sapienziale del senso dello stare al mondo. In queste composizioni si alternano infatti il sarcasmo come arma di difesa dalla paura del niente, e la pietosa e indulgente considerazione della propria vanità, nella lotta eterna tra cielo e terra, salvezza e perdizione, speranza e delusione. La morte, soprattutto, viene citata come cieca e implacabile giustiziera, che riduce ogni individualità alla sua insignificanza: “l’addio alla carne, per andare / in un luogo da dove non puoi / chiamare più nessuno, dove nessuno / può chiamarti più, dove forse balugina / ancora qualcosa, luce di polvere / o soffio di nebbia, ma non c’è altro / e, comunque, tu non sei più tu”, “E sempre torniamo al nostro niente / rivestito di carne ora gioiosa ora dolente”.

Il demone che ci possiede non va né temuto né combattuto, piuttosto deve essere corteggiato, ammansito con intelligenza, e sopportato con saggezza: solo così lo si piò disarmare. “Ho parlato poco al mio demone / e lui a me. Ma so troppo bene che c’è. / È un furfante silenzioso quanto pericoloso”, “Stamattina, mio demone, non ti sento / e non mi stai dettando niente”.

La vita è di per sé contraddittoria, e pare dipendere più dal caso che dalla necessità: l’autore ne accetta stoicamente le conseguenze, con un laicismo scettico e sconfortato, capace comunque di una strana e briosa serenità. Di questa svagata leggerezza, accentuata dalla facilità delle rime e dalla convenzionalità del lessico, troviamo nelle pagine numerosi esempi: “Il Diavolo mi ha detto: / non ti posso risparmiare, / in compenso ti lascio cantare”, “Mi sono convertito alla vita, / adesso che è finita”, “Vivendo in estenuanti languori / non conosco che isolati furori”, “All’improvviso, voglia di ballare. / C’è poco da fare: nel bel mezzo / della disperazione, la vita / ti riprende con la sua illusione”.

Nella sua affettuosa e penetrante postfazione, Francesco Zambon rileva come la filosofia sottesa alle poesie di Rigoni abbia un’impronta stoico-gnostica, e rispecchi “la visione di un mondo e di una storia dominati da un male irriducibile e senza via d’uscita, governati da un dio perverso o indifferente”: tale demone è affrontato nei colloqui poetici  dell’autore con la “la fermezza di uno sguardo che non teme di fissare coraggiosamente il male e il dolore”.

© Riproduzione riservata        2 novembre 2021

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RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, METAFORE DEL SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Questo volumetto pubblicato nella collana dell’Accademia del Silenzio dalla filosofa Francesca Rigotti, docente all’Università della Svizzera Italiana, è diviso in due parti, la prima delle quali indaga il senso delle metafore del silenzio, mentre la seconda si interroga sul rapporto che collega silenzio e parola allo spazio e al tempo. Entrambe le sezioni esplicitano le loro tesi basandosi su robuste argomentazioni teoriche, radicate in tutta la riflessione filosofica novecentesca. I nomi più citati – e talvolta contestati – sono quelli di Nietzsche,Wittgenstein, Heidegger, Levinas, Derrida, Foucault, Bachelard, Bauman. Vengono menzionate anche due pensatrici donne: Julia Kristeva e la nostra Rosi Braidotti; è risaputo che le donne, contrariamente a quello che si tramanda, parlano meno degli uomini, e scrivono meno. Proprio partendo da un assunto ideologico femminista, Francesca Rigotti espone la sua originale teoria sull’esistenza di due tipi diversi di silenzio: un silenzio di ghiaccio e di pietra (solido, massiccio, fermo e chiuso in se stesso) e un silenzio liquido-magmatico (marino, profondo, mobile, contenitore). Il primo è maschile, duro e razionale; il secondo è femminile, morbido e soffuso. La parola interviene su entrambi, spezzando il primo con la violenza di un’arma appuntita o pesante, emergendo dagli abissi del secondo come lava galleggiante. L’autrice corrobora questa sua intuizione con dotti riferimenti letterari e musicali (Händel, Bach, Boulez, Cicerone, Ovidio, Pirandello, Rabelais, Vercors, Byatt), ma anche rifacendosi ad acute osservazioni linguistiche ed etimologiche. La seconda parte del libro mette a confronto invece i due tanto discussi concetti di tempo e spazio, ancora sfruttando le categorie del maschile e del femminile: qui però quasi capovolgendoli, perché al maschile viene attribuita la mobilità fagocitante del tempo, mentre si riserva al femminile la statica resistenza dello spazio. Uno spazio silenzioso e un tempo parlante.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, DE SENECTUTE – EINAUDI, TORINO 2018

«La percezione e l’interpretazione della vecchiaia hanno un andamento ondivago e oscillante: talvolta prevale l’immagine negativa, talvolta quella positiva, talvolta esse convivono nello stesso lasso di tempo e di spazio». La filosofa Francesca Rigotti esplora in questo saggio, prendendo in prestito il titolo del famoso dialogo di Cicerone De Senectute, quali e quanti siano dall’antichità gli stereotipi con cui la cultura ha classificato l’età senile. Lo fa ripercorrendo in un rapido excursus storico-concettuale mitologia e letteratura, pregiudizi e ostracismi, tradizioni e comportamenti sedimentati negli usi, nei costumi e nelle ideologie universali riguardo all’invecchiamento. Quindi, se Platone e Cicerone nelle loro opere tramandarono un’idea di anzianità non del tutto negativa, rivalutando la saggezza, il bagaglio di esperienza, l’affrancamento dai desideri fisici e la conseguente maggiore disponibilità verso la meditazione delle persone attempate (riferendosi però quasi esclusivamente al genere maschile), in epoca posteriore la condanna della vecchiaia divenne più esplicita e generalizzata. Tra i contemporanei che ne hanno dato una rappresentazione negativa, Francesca Rigotti segnala Jean Améry, Simone de Beauvoir, Norberto Bobbio, che nelle loro opere hanno sottolineato soprattutto l’incapacità di adeguarsi ai ritmi veloci imposti dalla società tecnologica. Mentre altri intellettuali, quali James Hillman, Oliver Sacks e Marc Augé ne hanno promosso una visione edulcorata e consolatrice (i nonni! affettuosi e sempre disponibili…).

I tratti negativi che caratterizzano la senescenza sono ovviamente l’espulsione dal mercato del lavoro, il decadimento fisico e mentale, la minore elasticità di pensiero, la ridotta attività sessuale, la solitudine, la celebrazione del passato, il conservatorismo. Specialmente oggi, nell’«orgia di giovanilismo» che invade economia, medicina, pubblicità, tempo libero e spettacolo, diventare vecchi è considerato un problema, addirittura una colpa, qualcosa da nascondere: in particolare se si è donna. L’indagine dell’autrice si sofferma con attenzione sulla senescenza femminile, che paga lo scotto di una maledizione antica e superstiziosa, ribadita già dalle Sacre Scritture, e poi dalla mitologia greca, da Orazio, Ovidio, Erasmo da Rotterdam, fino a Montaigne, Schopenhauer e Nietzsche. La donna anziana (ci si congratula di fronte a un bel vecchio, mai davanti a una bella vecchia!) viene dileggiata, descritta come repellente, viziosa, maligna, poco pulita, sciatta: una sorta di strega, insomma, che rimanda all’immagine funerea e crudele della morte. Si salva solo quando viene circoscritta in un ruolo materno e protettivo, se accudisce i nipotini e racconta loro le fiabe: non a caso, dal decadimento fisico (caduta di denti, capelli e peli, secchezza della pelle, indebolimento degli arti, perdita della memoria) si recupera solamente la voce, deputata alla narrazione, al canto, alla parola consolatrice. La ghettizzazione della femmina in età menopausale deriva dall’eccessiva considerazione che si è sempre data alla maternità, unico valore universalmente riconosciuto alle donne: allorché vengono a mancare fecondità e capacità riproduttiva, la condizione sterile diventa sinonimo di indesiderabilità e inutilità sociale e sessuale. «La donna non più mestruata e quindi priva dello spurgo mensile, conserva dentro di sé tutti gli umori e i sentimenti cattivi e diventa naturalmente tossica, amara, maligna».

Persiste poi una sorta di derisione o fastidio, anche se non accentuato come in passato, per la donna agée che rivendichi il suo diritto all’amore e alla sessualità, cosa che invece non si nega al maschio, che mantiene intatte le sue doti procreative e il suo il diritto alla paternità anche in età molto avanzata. Come rifiutare, uomini e donne insieme, i pregiudizi e gli stereotipi culturali che condannano gli anziani a un isolamento mortificante, proprio quando la maggioranza della popolazione mondiale si avvia a un progressivo e inarrestabile invecchiamento? Francesca Rigotti invita a riscoprire la propria creatività e capacità di rapportarsi affettivamente agli altri, a progettare un futuro «basato non sul ricordare, ma sul dimenticare», rifiutando «lagne e piagnistei», inutili malinconie, ricatti ed egoismi parentali e sociali. Come ricordava Seneca «I frutti più gustosi sono quelli più maturi, che vanno fuori stagione; l’ultimo bicchiere quello che dà più gioia…».

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/De-senectute-Francesca-Rigotti.html     23 febbraio 2018

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RIGOTTI

FRANCESCA RIGOTTI, UNA VITA DA EXPAT – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2019

Migranti economici, migranti politici, migranti intellettuali, migranti turistici. O Migranti per caso, secondo l’ammiccante titolo dell’ultimo libro della filosofa Francesca Rigotti, che coniuga ‒ con leggerezza e sapienza ‒ riflessione teorica e autobiografia, definendo sé stessa “expat”, con un neologismo risultante dall’abbreviazione dell’inglese expatriate, derivato dal verbo latino ex-patriare: uscire, allontanarsi dalla patria. Il termine, utilizzato soprattutto nei paesi anglofoni, significava originariamente persona in esilio; oggi, persona che vive per scelta in un paese straniero.

Nata e cresciuta a Milano da genitori di origine pugliese, Francesca Rigotti si è laureata in Filosofia all’Università Statale di Milano, ha conseguito il dottorato in Scienze Sociali a all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole e la libera docenza in Scienze politiche a Göttingen, in Germania. Dal 1996 insegna alla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della Svizzera Italiana di Lugano. È, quindi, a tutti gli effetti una expat. Ma così si interroga: “Sono un’expat o sono una migrante? Sono europea, bianca e istruita. Ma sono anche evidentemente emigrata e immigrata”.

Utilizziamo diversi vocaboli per indicare chi lascia il paese nativo: “migranti, emigranti, emigrati, immigrati, profughi, rifugiati, esiliati/esuli, nomadi, transumanti, pendolari”. Tutta una varia umanità in movimento, di persone singole o famiglie intere: affamati e semianalfabeti, oppure qualificati e richiestissimi manager, tecnocrati, creativi. Rigotti osserva il fenomeno migratorio dall’esterno, con interesse scientifico e partecipazione di studiosa; ma lo esamina anche dall’interno, con la competenza che le viene dal suo stesso percorso esistenziale. Perciò intercala nel volume pagine descrittive e riflessive di analisi con brani narrativi di stampo diaristico, distinguendo le due diverse esposizioni anche nei caratteri tipografici, e alternando la prima alla terza persona.

Non è detto che espatriare partendo da una condizione privilegiata per arrivare a occupare un ruolo economicamente e professionalmente più redditizio non comporti anche sacrifici, rimorsi, rancori, malinconie o pentimenti. Mogli e figli di professionisti che si trasferiscono all’estero patiscono spesso un senso di esclusione e di disorientamento, costretti come sono a una “emigrazione da matrimonio” in cui il soggetto più debole è tenuto a adeguarsi alle esigenze o alle aspirazioni professionali del capofamiglia maschio, rinunciando a una realizzazione personale. Mogli-Penelope, allontanate dall’ambiente d’origine, dai parenti e dagli amici per un obbligo di fedeltà e dedizione al proprio marito. In parte così è stata la non sempre facile vita dell’autrice, che ha scelto di seguire il suo compagno tedesco a Göttingen, scontrandosi con difficoltà linguistiche e di adattamento locale, con fatiche domestiche e materne (quattro figli in pochi anni), con un’affermazione lavorativa e intellettuale tenacemente perseguita ma irta di ostacoli. Attuando una sorta di resistenza passiva, di “non rinuncia nella rinuncia” è riuscita comunque a conquistare una posizione di rilievo in ambito accademico, firmando numerose e importanti pubblicazioni, e ottenendo riconoscimenti e premi internazionali.

I sacrifici che il suo stato di expat ha comportato sono paragonabili alle sofferenze di un migrante che fugge la povertà o la guerra, che si imbarca su un gommone, che viene imprigionato in un campo profughi, picchiato o violentato, privato dei documenti e della dignità di essere umano? Chiaramente si tratta di condizioni non paragonabili: ma l’uguale destino di allontanamento dalla propria terra (forzato o volontario che sia), di dislocamento in un altrove estraneo, rende la testimonianza di Francesca Rigotti particolarmente preziosa.

“Ho deciso di aggiungere la mia voce al coro che parla di migrazione e anche di filosofia della migrazione, perché questo è un problema urgente, e io sento l’impellenza di farlo. E lo faccio mischiando la storia grande con la piccola, la mia migrazione e quella di tantissime altre persone, in realtà per cercare, più che soluzioni, conforto e senso, per me e per loro. Lo faccio anche applicando al fenomeno della migrazione e dell’espatrio le mie competenze metaforologiche, ovvero di studio delle immagini, delle analogie e delle metafore con le quali descriviamo tali fenomeni”.

Il volume collega infatti i ricordi e le considerazioni personali a riferimenti filosofici, sociologici, linguistici, documentati da opportune citazioni letterarie, che puntualmente avvalorano le intuizioni dell’autrice. Oltremodo interessante risulta per il lettore l’analisi delle metafore associate al fenomeno migratorio: l’acqua (inondazione, fiume, diluvio, corrente, flusso, tsunami, naufragio), il muro (argine, chiusa, diga, barriera), il confine (frontiera, difesa, controllo, sorveglianza, respingimento), le radici (identità, origine, terreno, rizoma). Termini che l’autrice riconduce all’indagine dell’inconscio, utilizzando l’interpretazione psicanalitica di Freud, Bachelard, Blumenberg, Deleuze, Guattari, Jullien. “Il concetto dell’acqua, elemento femminile per eccellenza, è carico di valori e simbologie affini alla valenza negativa della donna: la fluidità corrisponde allora a debolezza, inferiorità, disgregazione. L’elemento cui l’acqua si contrappone in questo schema interpretativo è ovviamente la terra: vediamo quindi nella correlazione solido/fluido, maschile/femminile una ripartizione di attributi e competenze che pone dalla parte del solido e del maschile sovranità, attività, forza, protezione, permanenza, stabilità, e dalla parte del fluido e del femminile debolezza, bisogno di protezione, passività, dipendenza e instabilità”.

A chi ritenga i migranti una minaccia (per cui “è meglio per loro e per tutti che se ne stiano sul loro suolo natìo”), Rigotti oppone il convincimento che “viviamo in una società pluralizzata, dalla quale non c’è via di ritorno al passato e alla sua reale o inventata purezza e omogeneità. Nella società pluralizzata… le migrazioni avvenute e in corso modificano, senza particolari intenzioni ma unicamente con la loro presenza, tutti quanti, anche gli aborigeni, i nostri”. Pertanto la contrapposizione noi/loro (“Prima i nostri!”), la discussione che da Cicerone a Kant tenta di dirimere la questione tra diritto di visita e di movimento e obbligo di ospitalità, finisce per non avere più alcun senso, alla luce di quanto sancisce la Carta di Lampedusa del 1° febbraio 2014, riconoscendo che noi tutti esseri umani abitiamo “la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata”.

Sia per i rifugiati sia per gli expat la migrazione è una situazione ambivalente, “dolorosa e creativa”, perdita e insieme guadagno di esperienza, se si ha il coraggio di mettere in discussione i concetti costrittivi e limitanti di identità nazionale, di appartenenza patriottica, di tradizione. L’arricchimento culturale e linguistico che deriva dall’uscire dal guscio protettivo del cerchio familiare e amicale, dall’istituire confronti, dal modificare abitudini e conformismi, può risultare un atto di libertà e di crescita: dando vita all’elaborazione di una terza cultura, diversa da quella originaria e da quella di accoglienza, più personale e senz’altro sofferta, ma orgogliosa di sé e delle proprie conquiste.

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 23 luglio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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RILKE

RAINER M. RILKE, LETTERE INTORNO A UN GIARDINO – ARCHINTO, MILANO 2014

In una ventina di lettere scritte tra il 1924 e il 1926 alla giovane ginevrina Antoinette de Boinstetten, Rainer Maria Rilke, che viveva solitario e malato nel Castello di Muzot (in realtà, poco più che un villino turrito nel Vallese), chiede consigli all’amica, istitutrice-infermiera-botanica, su come arredare le stanze e coltivare il giardino. Poco più che un pretesto, sembrano le informazioni pratiche scambiate tra i due, per giustificare un reciproco interesse umano, basato su una sensibilità comune e sull’amore per la natura, i libri, la poesia. La vegetazione esiste come sfondo e richiamo, in queste missive: anemoni, rose, tulipani, primule, glicine, lillà, erbe aromatiche diffondono i loro delicati profumi tra le righe, così come i voli di allodole, merli e cince si intrecciano allo scampanio della “chiesa maldesta” nella vallata. La “Signorina” – come viene chiamata dal suo corrispondente – ha scelto “il mestiere della carità attiva”, Rilke quello del poeta, dello studioso, dell’esteta. I due non si scambiano opinioni solo sui fiori “semplici e devoti”, ma anche sugli scritti di Valéry, di Gide, su volumi d’arte e di geografia. Cosa spinge il genio a confrontarsi con l’anima delicata di Antoinette? “E’ sicuro, d’altronde, che in fondo a ogni slancio verso gli altri urge una profonda inquietudine rispetto a noi stessi, se non addirittura una segreta disperazione di sopportarci… ci allontaniamo da noi stessi, per accostarci a un essere sconosciuto che, a suo modo, anch’egli si sfugge; e speriamo vagamente di capire l’altro… perché, forse, ci aiuterà a guadagnare una certa comprensione di noi stessi”. Per gratitudine e affetto, il grande poeta regala alla ragazza frasi come questa: “Piove maldestramente, e il cielo scrive quelle poche righe nell’aria, senza piacere, come uno scolaretto che avesse le dita gelate e irrigidite. E dopo qualche giorno, quando riappare, il sole ordina brutalmente dei fiori, e li tira fuori dalla terra per i capelli quasi senza accarezzarli!”

IBS, 10 maggio 2014

RECENSIONI

RILKE

RAINER MARIA RILKE, LA VITA COMINCIA OGNI GIORNO – L’ORMA, ROMA 2017

Nell’originale collana “I Pacchetti” delle edizioni romane L’Orma, che offrono assaggi di epistolari famosi, confezionati in una busta pronta da affrancare e spedire, è stato pubblicato un libriccino prezioso, che chiunque ami la poesia di Rainer Maria Rilke dovrebbe conservare nella sua biblioteca, o inviare per posta ad amici.  La vita comincia ogni giorno, ammoniva nelle sue lettere il poeta praghese (1875-1926), regalando ai molti corrispondenti (letterati, aspiranti scrittori, ammiratrici e amanti estasiate dalla sua delicata sensibilità e dalla finezza della sua poesia) perle «di saggezza e commozione», come recita il sottotitolo della raccolta.

Introdotte da una attenta prefazione di Marco Federici Solari, che ne ha curato anche il commento e la traduzione, i sedici brani qui proposti – quasi tutti inediti –  sono tratti da missive inviate tra il 1901 e il 1923 a tre uomini e a tredici donne; contengono esortazioni, riflessioni, immagini oniriche, e un richiamo insistito ad accogliere l’esistenza nel miracolo quotidiano del suo accadere. Il volumetto si apre con un vibrante appello del poeta ventiseienne al direttore del settimanale tedesco Die Zukunft perché venga considerato con maggiore clemenza e rispetto il caso giudiziario di un operaio colpevole di aver ucciso e occultato il cadavere del suo bambino: Rilke manifesta tutta la sua solidale empatia e pietà per il padre, rivelando come sempre il tratto più evidente della sua natura ricettiva e partecipe del dolore altrui. Anche in altre lettere si fa testimone complice ed emozionato di un’umanità sofferente per un lutto o una tragedia familiare: «Nell’istante in cui si stringono nel mondo visibile, i rapporti umani si rinsaldano con forza e intensità ancora maggiori in quello invisibile, nelle abissali profondità dove il nostro essere si conserva come oro nella roccia, e dura più delle stelle».

Numerosi sono gli incitamenti a cercare «la gioia anche lì dove non c’è», scoprendo la bellezza offerta per esempio da tre umilissimi fili d’erba che restituiscono l’odore della brughiera e il soffio del vento. Altrettanto frequenti le ammonizioni a mantenersi rigorosi nei propri comportamenti, nello studio e nella professione, nei sentimenti, nei rapporti con gli altri: «Ci si deve sempre attenere a ciò che è più difficile; perché quella è la parte che davvero ci appartiene… Dobbiamo sprofondare nella vita in modo che essa gravi su di noi e ci diventi un peso: non dobbiamo circondarci di piaceri, bensì di vita… Perché è nella difficoltà che risiedono le forze benevole, le mani capaci di lavorarci, di rifinire il nostro essere», «Credo nella vecchiaia, amico caro, nel lavorare e nell’invecchiare: è il compito che la vita ci assegna», «Nessuna felicità è più grande di quella che proviene dal lavoro, e l’amore, che è la più estrema delle felicità, non può essere altro che lavoro. Chi ama quindi deve cercare di comportarsi come se si apprestasse ad affrontare una grande impresa: deve passare molto tempo da solo e addentrarsi nel proprio intimo, contenersi, trattenersi; deve lavorare, deve divenire qualcosa!» Rilke ammette con onestà anche le sue mancanze, le disattenzioni, i rimpianti: «Ci si affaccia sul presente sempre incompiuti, incapaci, distratti», «Io non ho finestre che si affaccino sull’umanità e non le avrò mai. L’unico modo che conosco per accogliere gli altri è trasformarli in parole dentro di me». Inflessibile e severo verso se stesso e la sua missione di poeta, Rilke rivela tutta la sua dolcezza quando si genuflette davanti alla sofferenza del prossimo, o quando riconoscente per i doni della creazione, semplicemente e umilmente ringrazia.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/vita-comincia-ogni-giorno-Rilke.html      13 novembre 2017

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RILKE

RAINER MARIA RILKE, SILENZIO E TEMPESTA – MARCO SAYA EDIZIONI, MILANO 2019

 

Tra le innumerevoli pubblicazioni in italiano dell’opera di Rainer Maria Rilke (Praga 1875-Montreux 1926), l’ultima in ordine di apparizione è un’antologia che propone, con testo a fronte, un centinaio di poesie d’amore tratte da varie raccolte composte tra il 1897 e il 1908. Edito per i tipi milanesi di Marco Saya, il volume Silenzio e tempesta è stato curato e pregevolmente tradotto da Raffaela Fazio. In maniera pregevole, sottolineo, perché i versi di Rilke, già di per sé musicalmente irradianti, vengono resi qui con un’attenzione particolare al suono, e anche perché la traduttrice (poetessa, studiosa di iconografia e di storia delle religioni) riesce a completarne la fascinazione timbrica e semantica attraverso sensibili intuizioni trasformative.

Per fare subito un esempio di questa particolare abilità di Rafaela Fazio, nella prima poesia del libro, dove Rilke scriveva “Komm du mit mir. Es solls kein Morgen wissen” (Vieni con me. Nessun mattino lo deve sapere), la versione proposta suona: “Vieni. Il mattino non avrà sospetto alcuno”. Troppa libertà? Non mi pare. Semmai un’interpretazione emotivamente partecipe che mira a ricreare un’atmosfera di tacita e solidale alleanza tra i due amanti.

Tutte le poesie qui raccolte esalano appunto l’atmosfera di silenzioso, quasi segreto, accordo tra due attese, non comunicabile al resto del mondo, incapace di comprendere la delicata intensità del trasporto che le lega: la traduzione tende proprio ad accentuare il sentimento talvolta addirittura estenuato, tipico della poesia erotica rilkiana. Poeta ossessionato dall’amore, spesso elevato a una spiritualità disincarnata, priva di ogni ansia di possesso e dominio, ma trasfigurante il dato reale in favore dell’invisibile, dell’irraggiungibile, di un’armonia che si serve di indizi e formule terrene per arrivare all’ultraterreno: “La campagna è chiara, il pergolato scuro. / Tu parli piano e un miracolo è imminente. / La mia fede dispone ogni tua parola / come sacra icona sul viottolo silente. // Ti amo. Sulla sdraio del giardino sei distesa; /
dormono in grembo, bianche, le tue mani. / Spola d’argento, la mia vita riposa / in loro potere. Fa’ che il filo si dipani!”, “La mia anima come trattenerla / che la tua non sfiori? Come elevarla, / sopra di te, ad altro?”.

La passione, il tormento che sfibra le anime e i corpi di chi si desidera, sembra in realtà quasi per il poeta un pretesto letterario, nella sua classica e studiata solennità: “Solleviamo silenzio e tempesta / e questi ci formano entrambi. / Tu ‒ come seta il silenzio ci veste. / Io ‒ fatto torre dalle tempeste…”. Ci sono descrizioni fisiche, nelle liriche qui raccolte, ma rare, e talmente sublimate da risultare eteree, immateriali: “Così, se tu venissi, per placarmi / mi basterebbe sfiorare appena / la giovane curva della tua spalla / o il punto dove il seno preme”, “Alle tue labbra non lasciarmi bere: / sulle bocche è la rinuncia che ho bevuto. / Nelle tue braccia non farmi sprofondare: / dalle braccia io non sono trattenuto”, “Dalle tue ascelle ho scacciato grigi serpenti / d’amore. Ora, come su pietre cocenti, / su me riposano, intenti / a digerire grumi di piacere”, “O sorriso, primo sorriso, il nostro. / Era una sola cosa: respirare il profumo dei tigli, / ascoltare la quiete del parco, guardarsi / di colpo negli occhi, stupirsi fino al sorriso”.

Nella postfazione, Massimo Morasso commenta così i versi antologizzati: “una lettura amorosa dei testi d’amore del più amoroso fra i più significativi poeti lirici del ’900 tedesco”, ed esprimendo ammirazione per la versione “rivitalizzante… post-novecentesca” della Fazio, ne loda il tono “umile e concentrato” in grado di re-inventare il linguaggio rilkiano.

Allora, a proposito di questa intraprendenza traduttiva, è interessante segnalare almeno un’altra originale riscrittura della curatrice, audacemente intesa a preservare l’eco di rime e assonanze dell’originale: “Mir ist, als ob ich alles Licht verlöre. / Der Abend naht und heimlich wird das Haus; / ich breite einsam beide Arme aus, / und keiner sagt mir, wo ich hingehöre.” (alla lettera: “Per me è come se perdessi ogni luce. La sera si avvicina e nel segreto sta la casa; io solitario allargo le braccia, e nessuno mi dice a dove appartengo”). Trasposizione risolta in questo modo: “Mi sento come se perdessi ogni luce. / La casa si fa segreta. È quasi sera. / Apro le braccia, solo: dov’è la mia dimora? / Nessuno parla, nessuno me lo dice”. Senz’altro più vicina al gusto dei lettori di oggi.

 

© Riproduzione riservata             «Il Pickwick», 1 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

RIMBAUD

ARTHUR RIMBAUD, SIAMO NEI MESI DELL’AMORE – FELTRINELLI, MILANO 2014 (ebook)

Il più famoso dei “poeti maledetti” francesi, Arthur Rimbaud (Charleville, 1854-Marsiglia, 1891), genio precoce dalla vita sregolatissima, trascorsa girovagando per l’Europa e il Nord Africa, scrisse il Bateau ivre a diciassette anni. Seguirono nel giro di poco tempo altri due capolavori: Une saison en enfer e le Illuminations. Poco più che adolescente, lettore onnivoro e dissacrante di tutta la tradizione poetica francese, incrollabilmente sicuro del suo talento e deciso a conquistare il Parnaso della letteratura, scrisse molte lettere (sfrontate, scorbutiche, presuntuose, imploranti) a diversi poeti e scrittori a lui contemporanei, chiedendo con insistenza attenzione per i suoi versi, reclamando il diritto ad essere letto e pubblicato, dichiarandosi “veggente” della poesia.

“Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza, di pazzia; cerca egli stesso, esaurisce in sé tutti i veleni, per non conservarne che la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la forza sovrumana, nella quale diventa fra tutti il grande infermo, il grande criminale, il grande maledetto, – e il sommo Sapiente! – Egli giunge infatti all’ignoto!”

Questa sorta di invasamento totale, questa ubriacatura dei sensi attraverso la visione e la parola poetica viene ribadita in tutte le undici lettere, scritte tra il 1870 e il 1873, pubblicate nella collana digitale Zoom della Feltrinelli, con ricco apparato di note esplicative. Due di esse sono indirizzate all’amante Paul Verlaine, definito l’unico vero poeta tra “milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accatastato i prodotti del loro guercio intelletto” in pagine tronfie e inutili. A Verlaine – che lo manteneva e, pazzo di gelosia gli sparerà due colpi di pistola nel 1873, finendo per questo in carcere – il ragazzo Arthur, efebico e ossessivo, scriveva: “Merda per me! … Oh, non mi dimenticherai, vero?… Io, ti ho sempre qui … Tuo per tutta la vita … Se non devo più vederti, mi arruolerò nella marina o nell’esercito. Oh, ritorna, ad ogni ora mi rimetto a piangere”. Il grido disperato e rabbioso del giovane Rimbaud non riguardava tuttavia solamente l’esperienza amorosa: era diretto principalmente contro l’immobilismo culturale della società a lui contemporanea, verso la borghesia ottusa e convenzionale, i familiari meschini e ignoranti, e la sua cittadina nelle Ardenne da cui bramava fuggire a qualsiasi costo: “La mia città natale è superlativamente idiota fra tutte le cittadine di provincia”.

Sarcasticamente commentava la produzione letteraria di molti scrittori di successo, (“mestieranti più morti dei fossili”), disprezzati in quanto troppo integrati in un ambiente sociale ammorbato dall’apparenza e dalla falsità; rivendicava il ruolo illuminato di chi scrive versi (“il poeta è un ladro di fuoco”), con il dovere di dare forma all’informe, facendosi carico dell’umanità intera: dei reietti, delle donne, “degli animali addirittura”. E se per arrivare a farsi possedere dall’arte suprema avesse dovuto dissociarsi da se stesso (“Io è un altro”), ubriacarsi di assenzio, mendicare, bestemmiare Dio, fuggire da qualsiasi paese e rifiutare ogni occupazione, ebbene Arthur Rimbaud in queste lettere si dichiarava prontissimo a farlo, con l’arroganza esaltata dei suoi pochi anni: “Siamo nei mesi dell’amore; ho diciassette anni. L’età delle speranze e delle chimere, come suol dirsi. – ed ecco che mi sono messo, fanciullo sfiorato dal dito della Musa, a dire ciò che io credo buono, le speranze, le sensazioni, tutte le cose insomma dei poeti, – è questo che io chiamo primavera. Se dunque le spedisco qualche mio verso, è perché io amo tutti i poeti. Ecco il perché”.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/Siamo-mesi-amore-Arthur-Rimbaud.html         12 dicembre 2017

 

RECENSIONI

RIMI

MARGHERITA RIMI, NOMI DI COSA-NOMI DI PERSONA – MARSILIO, VENEZIA 2016

L’ ultimo volume di poesie di Margherita Rimi è caratterizzato, secondo il prefatore Amedeo Anelli, da «una dimensione indagante e soprattutto sapienziale, con un forte ancoraggio nei saperi della Medicina e della Neuropsichiatria». E, aggiungerei io, oltre che nell’esperienza professionale e nella vocazione esistenziale dell’autrice, che l’ha condotta a interessarsi dell’infanzia violata e sofferente, è un libro interrogante in diverse altre dimensioni culturali: quella linguistica, in primis (già presente nella scelta del titolo, in cui “nomi” animati e no esibiscono il loro protagonismo) e quella più genericamente sociale.

A partire da quest’ultimo aspetto, è indicativa nella copertina l’intensa e incisiva foto di Letizia Battaglia, che inquadra uno scorcio di miseria siciliana nello sguardo pacatamente accusatorio di una bambina indigente: e alcune sezioni del libro, più allusivamente autobiografiche, riflettono un passato di prepotenza privata e collettiva subita senza possibilità di ribellione e riscatto: «La corsa era intorno al tavolo. Mia madre se ci prendeva / ce le avrebbe suonate di santa ragione. // … Ma mia madre non era violenta. / Noi non sapevamo che cos’era quella infanzia / Non sapevamo che quella era l’infanzia», «E si faceva giorno di notte / e di notte giorno / E gli occhi non bastavano. // E si faceva freddo. Freddo oltre il freddo / senza limite la terra / e senza limite la parola».

Parola che viene interrogata, sviscerata nella sua non-innocenza e non-neutralità: parola sempre di parte e di dominio, che scava una trincea tra chi la sua usare e manipolare e chi la patisce senza mai possederla: «Provano a cancellare la lingua dentro le parole / Stanno chiamando // True self and false self // Come si fa a salvare: le parole dentro le parole», «Sulla verità dei fatti: / non si può commettere parola / nemmeno una parola / nemmeno sulla punta / della lingua», «C’è uno scarto / solo / uno scarto matematico / tra parola e oggetto // qui ne connaît pas son nom / qui ne connaît pas son nombre», «Nella testa si gonfiano le cose / non si trovano i concetti», «Quella parola / basta che lo chiami / che ogni tanto lo chiami // che così ogni tanto può esistere», «Chi conzanu sti paroli / ch’aggiustanu // Chi scrivinu / chi scancellanu // Passanu / e spassanu // Parlani e nun parlanu cchiù».

Margherita Rimi sa usare le parole, le viviseziona e le prende in giro (esemplare a questo proposito Il poemetto della punteggiatura, che in tonalità ereditate da un giocoso Rodari esibisce una rilettura grammaticale e ortografica della scrittura). Le utilizza in un plurilinguismo provocatorio o nostalgico, in terminologie specialistiche derivate dal vocabolario scientifico.  È il suo mestiere di poeta, a cui si affianca, altrettanto fagocitante e oblativo, quello di neuropsichiatra infantile.

All’infanzia difficile, abusata o malata, sono infatti dedicati i versi più abbaglianti e scolpiti del volume: ai bambini autistici, alle bambine violentate, ai minorenni che delinquono, agli sfruttati, agli analfabeti, ai senza presente e senza futuro. Con un’empatia tutta femminile e materna, e con un’indignazione civile che le deriva dalla frequentazione quotidiana dell’infelicità, Margherita Rumi propone un resoconto poetico dell’interazione tra terapeuta e piccoli pazienti, incapaci di esprimersi se non a monosillabi, disegnando, in giochi simulati, e sempre senza sfumature, in dicotomie severe che indicano il mondo privo di colori in cui sono cresciuti («Come si cresce per diventare grandi?»): «Raccontami una storia / dammi un altro foglio / dammi un altro tempo / Domani un altro posto:», «Io questo: / Sono. Il bambino. Scarabocchio. // Ormai c’è un bambino / si deve dare un nome / Non puoi più cancellare / proviamo a dargli un nome». Nell’offrire il suo sguardo e la sua voce a chi è stato amputato di sguardo e voce, Margherita Rumi trova nuove espressioni linguistiche, intessute di vigore fisico, carnale, e di un’oralità solare, mediterranea, risentita.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Nomi-cosa-persona-Rimi.html                   16 agosto 2016