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RECENSIONI

RIPA DI MEANA

LUDOVICA RIPA DI MEANA, LA MORTE DI GADDA –  NOTTETEMPO, ROMA 2013

Per un anno e mezzo, dall’autunno 1971 al maggio del 73, Ludovica Ripa di Meana si recò nella casa romana di Carlo Emilio Gadda per preparare una trasmissione televisiva sulla sua opera e sulla sua vita. Man mano che cresceva la confidenza e l’empatia tra i due, il grande scrittore chiedeva alla “signora Meana” (così le si rivolgeva) di leggergli brani dei suoi stessi capolavori, o di classici, dando segni di approvazione, o addirittura commuovendosi fino alle lacrime quando ascoltava i Promessi Sposi. Le poche pagine ora riproposte da Nottetempo sono le conclusive di un diario tenuto dall’autrice in quegli anni, la testimonianza ««di natura rigorosamente privata» di incontri che lei proponeva a Gadda «per consolarlo e rassicurarlo di fronte all’imminenza del buio», come scrive
Andrea Càsoli nella postfazione. Descrizioni quasi devote di un interno domestico, e soprattutto del «processo di mortificazione» di un «remoto prigioniero» a cui l’amica vuole trasmettere «infinito amore» per «staccarlo, con furia, dalla sua desolazione». E con affetto quasi filiale, con pietas rispettosa racconta le umiliazioni di quel grande corpo malato, le sue furie, le sue decadenze e i suoi pudori. Manifestando una sorridente partecipazione, Ludovica Ripa di Meana narra delle schermaglie del genio con la sua vecchia domestica Giuseppina, che lo tratta come «un infante di pochi mesi», lo lava e disinfetta con alcol e acqua di colonia, gli prepara cibi appetitosi e ci litiga furiosamente perché lo considera la sua «criatura». E infine si sofferma sul momento tremendo del trapasso di Gadda, sul respiro faticoso che diventa «un terribile nitrito», e poi la spogliazione, il lavaggio, e il gesto rituale e riconoscente con cui lei gli annoda la cravatta per l’ultima volta: «Finalmente giace l’hidalgo…E’ vestito da prima comunione e ha scarpe nere lucide spropositate»; «Clown desolato, inondato di luce».

 

«Leggendaria» n.103, gennaio 2014

RECENSIONI

RISI

NELO RISI, TUTTE LE POESIE – MONDADORI, MILANO 2020

 

Nelo Risi (Milano 1920-Roma 2015), oltre che poeta fu regista, come il fratello Dino e i nipoti Claudio e Marco. Laureato in medicina, si dedicò alla poesia a partire dal 1941, anno in cui pubblicò la sua prima raccolta, Le opere e i giorni.

All’attività letteraria affiancò presto quella cinematografica, realizzando otto film, vari telefilm e  cortometraggi, inchieste televisive e documentari, tra i quali l’ultimo, uscito nel 2008 col titolo Possibili rapporti, proponeva una conversazione tra lo stesso Risi e Andrea Zanzotto, allora entrambi ultraottantenni. L’operatività pratica con la macchina da presa fu determinante nel dare ai suoi versi un’incidenza visiva più che uditiva, nella ricerca di inquadrature marcate e penetranti. Cimentatosi spesso con la traduzione poetica,  Risi ebbe a occuparsi di molti autori francesi: Pierre Jean Jouve, Jules Laforgue, Guillaume ApollinaireGérard de Nerval Max JacobAndré FrénaudRaymond QueneauHenri Michaux, con testi antologizzati in Compito di francese e altre lingue 1943-1993. L’interesse per la letteratura d’oltralpe va fatto probabilmente risalire al periodo trascorso a Parigi nel dopoguerra (1948-1953).

Il recente volume pubblicato da Mondadori, Tutte le poesie, non solo traccia l’evoluzione dello stile del poeta e l’eclettico arricchimento dei suoi contenuti, ma rappresenta anche una preziosa testimonianza dei cambiamenti (sociali, etici, ideologici) che hanno segnato la storia del nostro paese dagli anni bellici fino al primo decennio del Duemila. “Un documentario sull’epoca acuto e puntuale, ricco e tempestivo”, suggerisce Maurizio Cucchi nell’introduzione, sottolineando la fondamentale caratteristica di questo autore: “Risi ha sempre preferito muovere il proprio sguardo in direzione dell’esterno, catturando così un’infinita serie di immagini utili a leggere il mondo, e praticamente azzerando la presenza di un io lirico”.

Con una scrittura discorsiva e prosastica, ironica ed elegante, nitidamente asciutta, Risi ha affrontato nelle sue raccolte temi civili ed etici, con tonalità che rifuggivano dalla retorica e dal compiaciuto estetismo, dall’evasione, dall’ermetismo o dallo sperimentalismo linguistico, optando invece per un linguaggio appassionato e radicale, a volte addirittura risentito, quando si misurava con argomenti di rilevanza morale e politica (il razzismo, il conformismo culturale, la superficialità dei rapporti umani), limpido e delicato quando trattava di ricordi familiari, amici, donne e città amate.

Già dagli anni Cinquanta i maggiori critici italiani si interessarono alla sua produzione in versi. In un articolo del 1957 sul Corriere della SeraEugenio Montale scrisse che “Risi deve aver imparato, più che dalla poesia, da certa recente pittura francese”. Cesare Garboli, in un intervento del 1958, parlava di “una poesia essenzialmente non metaforica”, definizione ripresa e ampliata da Giovanni Raboni che, nell’introduzione a Poesie scelte 1943-1975 (Oscar Mondadori), sottolineava come nella poesia risiana “il detto prevale sempre e comunque sul non detto, il nero sul bianco, la chiarezza sull’ambiguità, il piano sullo spessore, l’univocità sulla polivalenza”.

Nelo Risi vedeva nella scrittura uno strumento di impegno, soprattutto nelle raccolte degli anni Sessanta-Settanta. “Scrivere è un atto politico” affermava in Dentro la sostanza (1965), convinto che la prima intenzionalità del poeta dovesse essere la chiarezza comunicativa, nella denuncia delle ingiustizie, dei soprusi, dello sfruttamento capitalistico, della malignità gratuita nelle relazioni interpersonali.

Ne sono un esempio queste poesie: Una sola famiglia: “L’operaio ingrassa la macchina / la macchina ingrassa il padrone / entrambi si affacciano a sera / a un balcone che dà sulla fabbrica / la nostra fabbrica dice il padrone / l’operaio preferisce tacere”, Telegiornale: “Stando nel cerchio d’ombra / come selvaggi intorno al fuoco / bonariamente entra in famiglia / qualche immagine di sterminio. // Così ogni sera si teorizza / la violenza della storia”, Sotto i colpi: “C’è gente che ci passa la vita / che smania di ferire: / dov’è il tallone gridano dov’è il tallone, / quasi con metodo / sordi applicati caparbi. // Sapessero / che disarmato è il cuore / dove più la corazza è alta / tutta borchie e lastre, e come sotto / è tenero l’istrice”.

La partecipazione emotiva, lo sdegno nei riguardi della sopraffazione e dei pregiudizi razziali, rimase costante anche nelle ultime raccolte. Ad esempio, in Neri: “Impediti di esprimersi al meglio / li vorremmo a sudare per noi / in lavori di accatto // E che delimitino i loro spazi / tanti spruzzi di orina / sul territorio // Soffocati sul nascere / un nido coperto da un panno”.

“Il poeta deve muovere coi piedi ben saldi nella realtà… La poesia è un grido che appartiene all’artista come alle vittime, in questo senso è sociale e appartiene a tutti”, scriveva dando una definizione del suo ruolo, perseguito con severa e integra semplicità, nella scia dell’illuminismo lombardo di Parini, di Porta, del Manzoni della Storia della colonna infame, citata in una sezione di Dentro la sostanza (1965). Amava pertanto utilizzare materiali linguistici presi in prestito dalla terminologia tecnica, burocratica, giornalistica, proprio nella volontà di mantenere saldo il rapporto con l’esistenza quotidiana, domestica e lavorativa, di tutti.

Nei primi trent’anni della sua produzione si alternavano modalità espressive cantilenanti e popolari (come nella famosa I meli i meli i meli: “Quell’albero che mi sorprese / con i suoi rami gonfi / quanti corvi sul ramo più alto // Quel toro che si accese / per una macchia scura al mercato / quanto sangue versato alle frontiere // Quella ragazza in tuta che s’intese // prima con i francesi e i polacchi // quanti vantaggi il suo corpo tra le braccia // Quel soldato che mi chiese // la via breve oltre Sempione // quanta ansia in uno sguardo”), a una sentenziosità epigrafica, ammonitrice, spesso sarcastica (esemplarmente caustiche e beffarde sono le poesie di Sviluppo psicomotorio della primissima infanzia di un capo).

Nella maturità furono invece i temi e gli argomenti privati a prevalere, attraverso accenti più inteneriti e malinconici, e lo scandaglio dell’analisi psicanalitica. Tutta la sezione Suite a ritroso ripercorre episodi, dolorosi o divertenti, vissuti nell’infanzia. Particolari sono poi i versi, commossi e grati, dedicati alla moglie Edith Bruck, scrittrice ungherese di origine ebraica, reduce dai campi di concentramento. Vali più tu: “Vali più tu / coi tuoi piedini piatti d’orsacchiotta / coi tuoi occhi asimmetrici / col tuo codino d’anatroccola che alzo / quando bacio la tua nuca / vali più tu con tutti i tuoi malanni / i tuoi veri spaventi immaginari / con la tua contezza appresa dalla vita / (e non ti fu mai tenera!) / vali più tu indifesa di me che mi difendo / vale più un tuo sfogo del mio stare zitto / vale più un tuo sogno di una mia conquista / vale più un tuo sabath di una mia domenica / vale più la tua fame del mio appetito / vale più un tuo detto di un mio verso / vale più un tuo accento sghembo di una mia rima / vale più la tua mente fresca della mia mente libresca / vali più tu che canti la tua Tosca / vali anche più tu con me vicino”.

E ancora, in Madrigale, l’amore tra un uomo e una donna viene considerato consolazione e medicamento per le ferite della vita: Ho fatto un pieno di versi / per la traversata dei deserti / dell’amore, là dove il viaggiare / più comporta dei rischi, dove / occorre tenere gli occhi bene aperti / perché non sempre regge il cuore. // A malapena si conserva un viso / se il tempo ingoia il resto; / con un ritratto appeso non si va / molto lontano, a meno che un sorriso / una figura non venga a divorarti / con dolcezza, un modo ancora / per stare con la vita”.

Dagli anni ’90 in poi, lo stile poetico di Nelo Risi conobbe un’accelerazione formale verso stilemi più condensati e frementi, con frequenti inserti prosastici e un gergo più decisamente colloquiale, anche nell’affrontare argomenti di rilevanza culturale o scientifica, a cui dava (da “stilista dell’universale”, secondo la definizione di Giovanna Ioli) il rilievo poeticamente adeguato: “In questa fine di millennio, nel caos dei linguaggi telematici e dei manierismi tardosperimentali, nella vacuità delle pratiche individuali e dei progetti neoavanguardistici dove sta la poesia? La poesia sta dove la lingua vive”.

Così in Alea: “una serie d’eventi sfortunati (per es. / l’uso del latino o della storia senza / apprendistato) uno sbaglio di opinioni? / lo si dovrà pur rimediare, l’oggi / non è più un domani / La strada è polverosa la luce vaga / anche il tramonto è in fuga e la notte / una pietra levigata che non sia il momento / dell’antico fiume il nostro rubicone? / un ruscello e sembra un mare puro azzardo / che una volta sola è dato attraversare / un VADO O RESTO un tagliar corto / senza un amico cui consultarsi / solo con te stesso tu conosci / alternative un esito diverso?”, e in Origine vertigine: “Voce delle cose / delle onde delle piante brusii sommessi / frammenti in quel silenzio / così la musica tra due silenzi / un primo fondamento ha il seme / che dall’origine ci appartiene / è LA PAROLA un corpo fatto / della stessa carne dell’uomo / e del mondo capogiro in movimento / una vertigine dall’invisibile / al visibile che affiora”.

Alfredo Giuliani definì Risi poeta “discontinuo e ricco di sfumature”, dotato di “perentorietà tagliente anche nel contraddirsi”. La sua mai diluita bruschezza, la sua manifesta petrosità, ne hanno fatto “un impareggiabile testimone critico del secondo Novecento”, come scrive Maurizio Cucchi presentando questa fondamentale antologia.

 

© Riproduzione riservata                     «Il Pickwick», 2 giugno 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

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RECENSIONI

RITSOS

GHIANNIS RITSOS, PIETRE RIPETIZIONI SBARRE – CROCETTI, MILANO 2020

Di Ghiannis Ritsos è stato ristampato dall’editore Nicola Crocetti (suo traduttore, grande estimatore e amico), il volume di versi Pietre ripetizioni sbarre, che raccoglie un centinaio di composizioni scritte tra il 1968 e il ’69, anni in cui il poeta viveva confinato dal regime dei colonnelli nei campi di concentramento di Ghiaros e Leros, e poi agli arresti domiciliari a Karlòvasi, sull’isola di Samo. Edite per la prima volta a Parigi nel 1969 con una commossa prefazione di Louis Aragon, furono introdotte clandestinamente in Grecia solo due anni dopo, censurate dal potere militare perché ritenute pericolose e sovversive. Anche quando non esplicitamente, quei versi alludono tuttavia (nell’ossessività di visioni plumbee e angosciose), al peso della dittatura, invitando alla ribellione e al coraggioso recupero del mito classico nel suo richiamo alla resistenza e alla libertà.

Ghiannis Ritsos (1909-1990) è considerato uno dei più grandi poeti greci del ventesimo secolo, insieme a Konstantinos KavafisGiorgos SeferisOdysseas Elytīs. Scrittore particolarmente prolifico, fu autore di circa 150 raccolte poetiche, oggi ristampate in quattordici volumi dall’editore ateniese Kedros. Proposto per nove volte, senza successo, al Premio Nobel per la Letteratura, vinse invece il Premio Lenin per la pace nel 1976, onorificenza da lui ritenuta più gratificante perché riconosceva la sua dichiarata e convinta adesione all’ideale marxista e al partito comunista greco (KKE).

Nato nel Peloponneso da una famiglia di proprietari terrieri, Ritsos ebbe un’infanzia e una giovinezza segnata da lutti e malattie: il fratello e la madre morirono di tubercolosi, mentre la sorella e il padre (affetto da una grave forma di ludopatia, che costò alla famiglia la rovina economica) finirono ricoverati in un istituto psichiatrico. Costretto ad abbandonare gli studi universitari ad Atene, svolse diversi lavori per mantenersi (dattilografo, copista, comparsa teatrale, ballerino), continuando negli anni ad alimentare la sua passione per la poesia e l’impegno politico.

Pietre ripetizioni sbarre è un volume diviso in tre parti corrispondenti alle tre scansioni del titolo. Pietre, nel suo rimandare alla dura scabrosità delle rocce di Leros, metafora della realtà aspramente ostile di un ambiente degradato, restituisce un’atmosfera da incubo, piombata in un silenzio lacerato da urla di ribellione, e abitata da figure minacciose. Questa sezione è quella in cui più concretamente si avverte l’incombere del potere tirannico da un lato e l’impotenza dell’individuo esiliato dal mondo circostante (Con queste pietre: “Non restarono che le pietre. Dobbiamo arrangiarci con queste, adesso; / con queste, con queste, – ripete. Quando la notte scende / dall’alto sul monte livido e getta nel pozzo le nostre chiavi, / mie pietre, mie pietre, – dice – potessi scolpire uno per uno i miei volti sconosciuti e il mio corpo”).

Ripetizioni consiste in un sofferto ritorno al mito e alla tradizione dell’antica cultura greca, in una rilettura del passato fattosi strumento di interpretazione e comprensione della contemporaneità: Achille Ercole Penelope Apollo parlano attraverso Ritsos parole ribattezzate dalla sofferenza patita nel presente (Talo: “Ripetizioni – dice, – ripetizioni senza fine; – che stanchezza mio Dio; / tutto il mutamento è solo nelle sfumature – Giasone, Odisseo, Colchide, Troia, / Minotauro, Talo, – e proprio in queste sfumature / tutto l’inganno e la bellezza a un tempo – opera nostra”).

Infine la sezione conclusiva, Sbarre, raccoglie le poesie più pregne della realtà da cui nascono; poesie di prigione, che narrano perquisizioni, isolamento, celle, torture, morti, evasioni senza ricorrere a simbologie o a metafore, (L’ultimo obolo: “Ore difficili, difficili per il nostro Paese. E lui, fiero, / nudo, indifeso, debole, lasciò che lo aiutassero; / hanno fatto ipoteche su di lui; accampano diritti, esigono; / parlano in sua vece; gli impongono il respiro, il passo; / gli fanno l’elemosina; lo rivestono con altri abiti troppo larghi e cadenti, gli legano una cima ai fianchi”; Necessariamente: “Caduto lì, bocconi; il mento nella terra; il collo / serrato tra i ginocchi dell’altro; – quasi cianotico; le vene gonfie sulle tempie. Immobile. / Un movimento; – l’estremo spasmo? Chiudi gli occhi. No, no”).

Il destino del prigioniero, la sua nostalgia di un esterno negato, lo stupore per la persecuzione ingiusta e crudele animano i versi di una delle composizioni più intense del volume, Il crocevia: “Molte volte devia, ingannato di nuovo / da lunghe colonne al sole e dalle loro ombre lunghe il doppio, / da vele triangolari sul mare, ingrandite / nell’infinita trasparenza. E, d’improvviso, il botto / di una briciola che cade sul pavimento o lo spago / appeso alle sbarre d’una finestra, / che stride impercettibilmente,  ̶  un fraterno preavviso / perché rientri per tempo. Guarda intorno stupito, / si guarda le unghie, sbatte le ciglia, tenta di ricordare, / di capire se era stato ingannato allora o adesso”.

Rimane comunque, inalterata e immutabile, la speranza di un futuro luminoso, in cui torni a trionfare “Immensa, estatica orfanezza – libertà”, nel recupero di una tranquillità quotidiana fatta di piccoli gesti familiari, e di una rifioritura augurale dell’habitat intorno. Rinascita: “Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure / quest’anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo, / è divampato tutto fino all’inferriata, – mille rose, / mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi – / viola, arancione, verde, rosso e giallo, / colori – colori-ali; – tanto che la donna uscì di nuovo / a dare l’acqua col suo vecchio innaffiatoio – di nuovo bella, / serena, con una convinzione indefinibile”.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 9 OTTOBRE 2020

 

 

RECENSIONI

RITSOS

LE PIÙ BELLE POESIE DI GHIANNIS RITSOS – CROCETTI, MILANO 2024

A cura di Nicola Crocetti sono uscite, presso le edizioni omonime, Le più belle poesie di Ghiannis Ritsos. Ritsos (Monemvasìa 1909 – Atene 1990) ebbe una vita segnata da lutti, malattie e miseria, ma animata da un’incrollabile fede negli ideali marxisti e nelle virtù catartiche della poesia, centrata su temi quali la memoria, la bellezza della natura, l’importanza delle opere umane, la rivoluzione etica e sociale. Per aver partecipato alla lotta di resistenza contro i nazisti e poi alla guerra civile, subì le persecuzioni dei governi dittatoriali e reazionari succedutisi in Grecia tra il 1936 e il 1970, trascorrendo dieci anni in carcere, al confino o nei campi di prigionia delle isole-lager di Makrònissos, Ghiaros, Aghios-Efstratios, Ikarià, Leros.

Oltre alla pubblicazione di 150 raccolte di poesie (l’opera completa in 10 volumi è stata pubblicata tra il 1961 e il 1989), compose testi drammatici e romanzi, traducendo in greco molti poeti stranieri.

Il volume di cui ci occupiamo, accompagnato da una minuziosa introduzione biobibliografia curata da Crocetti (massimo ed entusiasta diffusore dell’opera di Ritsos, nel duplice ruolo di traduttore ed editore), consta di una cinquantina di liriche scelte tra le sue più note e meritatamente celebrate. A partire da Epitaffio, del 1936, compianto di una madre per il figlio ucciso dalla polizia durante uno sciopero, scritto in decapentasillabi rimati (“Chi è che me l’ha preso? Chi me lo può strappare? / Le labbra, gli occhi chiusi cominciano a sbiancare. // Datemi artigli e ali, aquile, ch’io li insegua, / quei cuori, e come mandorle li roda senza tregua”). Numerosi furono i testi sulla resistenza, che celebravano l’eroismo dei combattenti per la libertà: “Poi fecero ritorno feriti e congelati, / nascosero i fucili tra le rocce innevate, nelle cavità degli alberi, / nella paglia, fra il tetto e il soffitto, nel buio ripostiglio / che dà sul retro della notte con una piccola lucerna di pazienza” (1942).

Ritsos nutriva un’attenzione partecipe verso il mondo rurale, in cui era nato e cresciuto, per la natura e per il lavoro agricolo e artigianale, come dimostrano questi versi: “Dietro cose semplici mi nascondo, perché mi troviate; / se non mi trovate, troverete le cose, / toccherete ciò che ha toccato la mia mano, / s’incontreranno le impronte delle nostre mani” (Il senso della semplicità,1946); “Le galline piluccavano ancora per la strada. / La vecchia moglie del capitano sedeva sulla soglia / tenendo il nipotino sulle ginocchia aperte. / Un ragazzo trasportava un paniere” (Pomeridiano,1963).

Sono tuttavia presenti anche composizioni dedicate alle molte città visitate, tra cui Milano e Venezia, e altre destinate a figure femminili: per una giovane donna francese scrisse la raccolta Erotica, pubblicata nel 1981 in prima mondiale in Italia. Questa disposizione sentimentale, e il fascino attribuito alle presenze femminili, erano stati testimoniati da molta produzione precedente, come nel famoso poemetto di impianto simbolista Sonata al chiaro di luna del 1956, lungo monologo in cui una donna canta il suo dolore e il suo amore in toni elegiaci intensamente sensuali: “Lasciami venire con te. // Lo so che ormai si è fatto tardi. Lasciami, / poiché per tanti anni, giorni e notti / e meriggi purpurei, sono rimasta sola, / irriducibile, immacolata e sola”.

Sempre nella misura del monologo, il poeta aveva scritto numerosi poemetti dedicati a personaggi mitologici o della storia classica, assunti a prototipo dell’umanità sofferente: Orfeo, Oreste, Elena, Penelope, Ercole, narrando orgogliosamente episodi eroici del glorioso passato ellenico.

Nicola Crocetti, amico personale e grande estimatore di Ghiannis Ritsos, così conclude il proprio commento introduttivo: “La sua smisurata produzione, essenzialmente di natura lirica, è un’appassionata affermazione di speranza, un ardente atto di fede nel potere di riscatto e di immortalità della poesia”.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                  14 maggio 2024

RECENSIONI

RITZER

GEORGE RITZER, LA McDONALDIZZAZIONE DELLA PRODUZIONE

CASTELVECCHI, ROMA 2017

 

George Ritzer (New York 1940) è un sociologo statunitense di fama, autore di numerosi saggi sulla nuova economia capitalistica, sui modelli di consumo, sul postmodernismo. A lui dobbiamo il concetto di McDonaldizzazione, termine utilizzato spesso come sinonimo di globalizzazione. La sua teoria prende spunto dalla politica del lavoro messa in atto dalla società di fast food McDonald’s in ben 120 nazioni, con 35.000 ristoranti sparsi nel mondo: strategia che punta a realizzare ristoranti economici concepiti come catene di montaggio, facilmente esportabili in luoghi diversi e lontani. La McDonaldizzazione si è rivelata un processo profondo di cambiamento globale, basato su un modello che sostituisce tecnologia non-umana a quella umana, per ridurre l’intervento del personale al minimo, favorendo così un monitoraggio costante dell’attività dei dipendenti e una riduzione dei costi.

In questo pamphlet pubblicato da Castelvecchi, George Ritzer fa rientrare la McDonaldizzazione in un processo più vasto di “americanizzazione”, inteso come diffusione planetaria di idee, comportamenti, modelli sociali, industrie e capitali americani. Americanizzazione e McDonaldizzazione appaiono allora come tattiche capitalistiche, finalizzate a conseguire sia una crescente redditività per le aziende, sia l’espansione ideologica e l’egemonia politica per lo stato. Il McDonald’s (come i grandi centri commerciali, i villaggi turistici, i parchi di divertimento) diventa luogo di aggregazione fittizia per migliaia di consumatori, indotti a spendere e ad acquistare prodotti spesso nocivi o inutili, privandoli della possibilità di socializzare concretamente con gli altri, o di usare in modo più creativo il loro tempo libero. Efficienza, calcolabilità, prevedibilità, controllo e razionalità sono le cinque regole fondamentali che Ritzer attribuisce alla strategia produttiva dei McDonald’s, esemplificandole in concetti-chiave che mettono in luce gli effetti negativi di questo sistema industrializzato dell’alimentazione. Esso comporta la produzione di cibo poco controllato e di scarsa qualità, altamente calorico; una omologazione del gusto nell’arredamento e nell’abbigliamento del personale, volgarmente spersonalizzante; l’impoverimento dell’interazione verbale con i clienti e tra i clienti stessi; l’automazione del processo di cottura e la velocità del servizio per incrementare il profitto; l’allevamento in batteria di polli e mucche per soddisfare la richiesta di materie prime; l’inquinamento ambientale; la sparizione delle piccole imprese locali.

«In conclusione, l’intero sistema è disumanizzante. Lo è lavorare in un fast food, perché si è costretti a seguire un copione stabilito da altri e non ci si può esprimere liberamente, e lo è mangiarvi, perché non ci si può godere in pace il proprio pasto, ma bisogna ingurgitare il cibo in pochi minuti o, peggio ancora, farlo nella propria automobile».

In questa programmata omogeneizzazione globale, diventiamo tutti, secondo George Ritzer, “prosumers”, cioè insieme produttori e consumatori, poiché sia pranzando da Mc Donald’s, sia acquistando da Amazon, sia prelevando da un bancomat ci rendiamo agenti attivi e passivi del processo economico: «svolgiamo infatti a titolo gratuito un lavoro di cui prima era incaricato un dipendente» (cameriere, commesso, bancario). Sfruttiamo e siamo sfruttati in un mondo post-umano, post-sociale, prono ai grandi interessi delle multinazionali.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/McDonalizzazione-produzione-Ritzer.html      12 settembre 2017

 

 

 

 

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RIVA

FRANCO RIVA, LA COLLANA SPEZZATA – CITTADELLA, ASSISI 2012

Franco Riva, docente di Etica Sociale e Filosofia del Dialogo all’Università Cattolica di Milano, attento indagatore del «pensiero dell’altro», dedica questo suo ultimo libro alla riflessione sui concetti interdipendenti di testimonianza e accoglienza, responsabilità e partecipazione, speranza e profezia: letti in un’ottica di rigorosa concentrazione sul significato etico e sociale dell’impegno comunitario e della solidarietà umana. «La disarticolazione o il frantumarsi impercettibile» di questi valori fondamentali comporta la dispersione e il fallimento di qualsiasi progettualità costruttiva, «proprio come una collana di perle che diventa irriconoscibile, e che spesso non è nemmeno riparabile, quando il filo o il fermaglio si rompe…  e i suoi grani, impazziti, saltellano a terra ciascuno per conto suo…».

Come ricomporre, quindi, la collana spezzata, riannodando quanti fili, recuperando quali perle trascurate, non riconosciute? Con la rimeditazione dei testi fondamentali del pensiero spirituale novecentesco, dall’esistenzialismo cristiano di Marcel e Mounier, attraverso Rosenzweig e Jonas, fino ai più amati e citati Ricoeur e Lévinas, Franco Riva esplora inizialmente il concetto di testimonianza come «forma di conoscenza… che riapre uno spazio inedito per la verità dove avanza, deciso, il rapporto con gli altri». Testimoniare significa quindi «uscire dall’angolo… immergersi nel quotidiano…», ma soprattutto «rapportarsi con la verità»: «La testimonianza interrompe la fedeltà a se stessi e inaugura una responsabilità per la verità e per gli altri», «come avviene nei racconti biblici di vocazione… testimoniare non significa dire ‘io’, bensì ‘Eccomi!’». Essere testimoni vuol dire perciò non pretendere da se stessi un’improbabile purezza e intangibile trasparenza, ma farsi responsabili per la verità, per l’altro, e per il bene universale che ci è comune. Quindi, in prima istanza, accogliere, ospitare, essere-verso. Accoglienza e ospitalità intese come «rivoluzione permanente… un trascendere rispetto a sé e alla propria falsa centratura: … l’abitare dell’uomo non è dunque un rinchiudersi, un recintare luoghi, un prendere possesso, un estromettere … invece un’apertura inevitabile, essenziale, positiva al rischio dell’incontro con l’altro».

Ecco allora che testimoniare significa anche partecipare e farsi responsabili, porre il problema di cosa sia, oggi, nelle nostre società e nelle nostre città, la democrazia: non solo efficientismo e decisionismo nelle mani di pochi, esperti o tecnici che siano. Ma coinvolgimento, interesse, solidarietà aperta a un futuro di speranza: una speranza coniugata al plurale, che riguarda un “noi”, l’edificazione di una città degli uomini «diversa, meno violenta e meno diseguale, meno indifferente e meno difficile». Con questo richiamo generosamente utopistico, di impegno prometeico a una nuova organizzazione della convivenza, e a più coraggiosi e innovatori disegni urbanistici, si chiudono le pagine di Franco Riva, che invitano a superare le logiche privatistiche e a scardinare gli egoismi individuali, nella responsabilità profetica e testimoniale per il bene di tutti. Recuperando i grani dispersi della collana, rinsaldandoli insieme con un filo tenace, e duraturo.

 

«Conquiste del lavoro» n.149/150 , 23 giugno 2012

RECENSIONI

RIVA

FRANCO RIVA, COME IL FUOCO. UOMO E DENARO – CITTADELLA, ASSISI 2011

Quando si parla del denaro, o si tenta di definirne la natura, ci si scontra inevitabilmente con la sua ambivalenza strutturale. Coppie di sostantivi contrapposti possono alludere alla sua essenza (fine/mezzo, credito/debito, libertà/necessità, trascendenza/immanenza, sogno/incubo), attributi incompatibili ne indicano l’enigmatica ambiguità: sporco/pulito, giusto/ingiusto, condannato/ idolatrato, relativo/assoluto, materiale/immateriale.
San Francesco chiamava il denaro  «sterco del demonio», per Calvino esso esprimeva la benevolenza di Dio, per Sartre aveva un carattere «magico». Il filosofo Franco Riva gli dedica uno stimolante e approfondito studio, derivando da Eraclito la considerazione che l’oro, come il fuoco, è «mutamento scambievole di tutte le cose». Quindi, «il denaro brucia». Distrugge ed edifica, salva e danna: ma non va assolutamente demonizzato, né fanaticamente adorato o difeso.
Il denaro è diventato un feticcio universale, una sorta di religione globale, che – come tale – «ha i suoi sacerdoti, il suo popolo, i suoi templi, le sue liturgie, i suoi riti». Qui l’aculeus dell’autore si fa particolarmente sarcastico e feroce, nel descrivere quelle austere chiese moderne che sono le nostre banche, con le aree riservate per i clienti bisognosi di conforto e indicazioni e con i competenti consiglieri finanziari : una simbologia tutta debitrice ai confessionali e alle guide spirituali oggi tanto disertati. E ricorda che tuttora sul dollaro è stampata la frase «confidiamo in Dio».
Una nuova divinità, quindi, il denaro, che permea e invade la nostra quotidianità, si insinua negli ambienti domestici e lavorativi, prolifera e domina qualsiasi attività del nostro tempo libero: dallo sport al turismo, dalla contemplazione di opere d’arte all’utilizzo dei servizi igienici nelle stazioni.
Ormai paghiamo un ticket per qualsiasi espressione della nostra volontà: «La contraddizione totalitaria della liberissima società dei consumi non consiste nel ridurre tutto a consumo, ma nell’imporre senza che nessuno protesti sul serio… dei ticket per accedere al diritto stesso di consumare».

Se Fromm aveva potuto distinguere tra essere e avere come condizioni in contrasto nell’esercizio della propria umanità, oggi «il denaro ha assorbito anche l’essere… perché senza denaro non si esiste», e ancora: «Usciti dalla civiltà umanistica dell’essere e piombati nella civiltà moderna dell’avere, gli uomini si riconoscono soltanto in ciò che hanno e in ciò che consumano… e il possesso diventa l’unico criterio di valore». È proprio tutto così assolutamente sconfortante? L’homo oeconomicus ha assorbito totalmente ogni altra caratteristica dell’essere umano? Niente e nessuno si sottrae al dominio schiavizzante del capitale? L’accoglienza, l’ospitalità, l’uso della parola, la libertà di pensiero, la democrazia stessa finiscono per subire passivamente e quasi ingenuamente il diktat della pecunia. Che è diventata lingua universale, come la musica e la matematica. Sembra allora di sentire il grido di ribellione di chi rifiuta un’omologazione assoluta nel prostrarsi al disumanizzante nuovo credo: quali valori si sottraggono ad esso? La verità, la fede, i diritti umani, la giustizia, la difesa dell’ambiente, la gratuità del dono, la solidarietà… Ma ne siamo certi, o fingiamo un candore da anime belle che preferiscono la cecità all’ efferatezza del realismo? Siamo forse «tutti economisti spietati nei traffici quotidiani con il denaro, e tutti moralisti solleciti nelle intenzioni?» Anche l’etica del lavoro, la celebrazione del sudore della fronte deve ormai inchinarsi di fronte a un’incontrovertibile evidenza: «Non è più il denaro che dipende dal lavoro, ma il lavoro che dipende dal denaro», soprattutto dopo la finanziarizzazione speculativa dell’economia.
Cosa ci può salvare, a questo punto? Franco Riva richiama tutti a una «resistenza silenziosa ed eroica», a una dignità dell’impegno della vita comune, a un ripensamento dei propri valori: allora anche il denaro può essere di aiuto nel soccorrere chi si trova in difficoltà, nel promuovere la cultura, nel riequilibrare la giustizia attraverso il risarcimento piuttosto che con la vendetta, nel recuperare l’idea della propria professione come pienezza e soddisfazione di vita.

 

«Mosaico di pace», 19 marzo 2012

RECENSIONI

RIVA

FRANCO RIVA, FILOSOFIA DEL VIAGGIO – CASTELVECCHI, ROMA 2013

Todorov scriveva nel 1995: «Il viaggio coincide con la vita, né più né meno: essa è forse altra cosa che un passaggio dalla nascita alla morte?”. Per il filosofo Franco Riva, docente di Etica Sociale all’Università Cattolica di Milano, il viaggio – a cui è dedicato questo volume densissimo di spunti e provocazioni – non indica solamente e puramente il nostro esistere, bensì è senso e metafora di un’infinità di altri concetti, temi, sentimenti. Quindi viaggio – responsabilità, apertura, accoglienza, violenza, pensiero, racconto. Piacere e stupore, consumo e denaro, lavoro e distrazione, libertà e distacco. Su ciascuno di questi aspetti, Franco Riva medita con acuta sensibilità e tensione, spesso addirittura con risentita ironia, sfrondando la tanta retorica che accompagna oggi l’atto del viaggiare, dell’uscire da sé, dello scoprire altri luoghi, con una sapida antiretorica, capace di interrogarsi lucidamente sui compromessi e sulle sopraffazioni che comporta l’invadere per divertimento o curiosità culturale spazi e abitudini altrui. Viaggiare non è quindi, e non deve essere, gratuito ed egocentrico arricchimento interiore, esperenziale od economico, ma soprattutto possibilità di incontro ed apertura all’altro, crescita spirituale e dono. Considerazioni amare e sarcastiche vengono dedicate a un certo turismo confezionato, consumistico e standardizzato: «Non è possibile smarrirsi perché adesso sappiamo sempre, finalmente, dove siamo. Siamo perennemente nell’intervallo tra una proposta e un acquisto. Siamo sempre in coda a una cassa».

Carte di credito, commerci, trasgressioni, inventari e tariffe. A questo sembra ridursi oggi il viaggiare contemporaneo; e alle foto da esibire su facebook, agli orari di treni e aerei. Lo stile stesso della narrazione di Franco Riva assume, nella prima parte del libro, la frammentarietà incalzante e veloce, quasi imitativa e tautologica, del fenomeno che stigmatizza: «La memoria dei luoghi è lo spazio che si fa tempo. E il luogo del tempo è il tempo che si fa spazio. Fuori e dentro. Interno ed esterno…Vita. Sempre partita , sempre già andata, prima ancora di averne deciso la partenza. Vita partita e mai arrivata, nonostante tutti gli sforzi per arrivare. Mai raggiunta. Viaggio e vita. La partenza della vita, che non si può decidere. Irripetibile. La vita non è mai dov’è, mai quello che è. Sempre in partenza. Non torna. Irripetibile».

La scrittura ponderata della filosofia sembra qui proporsi liricamente in simil-versi dall’impronta ansiosa, quasi derivata da certa poesia contemporanea: «Affidarsi, rischiare. Partire finalmente. Trovare se stessi come un essere trovati. Lasciarsi andare. Ri-trovarsi. Trovare se stessi, perché in quell’identità quotidiana con sé ci si era smarriti. Chiusi. Neppure smarriti: il sé non c’era; da solo con se stesso, non c’è mai stato». Più distesa e meditata risulta al lettore la seconda parte del volume, che si interroga sui temi tipici della riflessione di Franco Riva, ereditati e approfonditi attraverso gli amati “filosofi del dialogo”: Buber, Rosenzweig, Lévinas, Marcel, Tischner. In queste pagine si concentrano considerazioni ispirate a quella che dovrebbe essere la natura etica del viaggio: conquista di uno spazio accresciuto dell’anima, meraviglia, pensiero nuovo, accettazione della complessità e della diversità, scoperta di una prossimità agli altri, responsabilità verso la natura. E passaggio. Da uno stato mentale di chiusura e sospetto ad uno di fiduciosa solidarietà. Franco Riva propone esempi antichi e illustri di viaggiatori che nei loro percorsi hanno modificato la storia dell’umanità: Ulisse e il suo viaggio nostalgico, circolare, di ritorno e ripiegamento; Abramo proiettato in un generoso esodo verso una promessa futura; Gilgamesh e la sua eroica aspirazione alla fama; Adamo ed Eva e la cacciata colpevole; Marco Polo con la curiosità per l’ignoto; Zarathustra nella sua sfida a Dio. E proprio con una frase di Nietzsche (Solo come totalità possiamo conservarci) Franco Riva chiude il suo libro: una totalità complessa, non sigillata, ma capace di trasformazione e di tragitti illuminanti.

 

«succedeoggi», 15 aprile 2015

RECENSIONI

RIVA

FRANCO RIVA, LA DOMANDA DI CAINO – CASTELVECCHI, ROMA 2016

Il volume La domanda di Caino del filosofo Franco Riva ha come sottotitolo “Male, Perdono, Fraternità”: tre concetti che coesistono (stridendo, cozzando tra di loro, attraendosi e respingendosi insieme) nella risposta interrogativa, spavalda e spaventata come un’alzata di spalle, che Caino dà al Signore dopo aver ucciso Abele: «Sono forse il custode di mio fratello?»

Tre termini che corrispondono alle tre sezioni in cui si ripartisce la riflessione dell’autore, docente di Etica all’Università Cattolica di Milano, che qui approfondisce l’argomento valendosi di contributi letterari (Cervantes, Dostoevskij e la Bibbia) e filosofici (Arendt, Buber, Derrida, Jankélévitch, Jonas, Kierkegaard, Lévinas, Marcel, Ricoeur, Schmitt). Il Male, quindi, con la M maiuscola, con le questioni all’apparenza irrisolvibili che si porta dietro da millenni: cos’è, perché esiste, da dove viene, se può essere giustificato, come vincerlo. Franco Riva, cercando di darne una definizione, confessa l’impossibilità di comprenderne in maniera definitiva l’essenza e i confini, sia che esso sia un accidente fisico o una mancanza spirituale, sia che dipenda dal caso o da volontà umana. Il male fatto e il male subito, indicano solamente una fragilità della creatura? («La fragilità è tipica, connaturale all’esistenza. Non si pensa davvero alla vita senza pensare a ciò che la smentisce, alla presenza del male: a una minaccia che intesse la vita come il rovescio della stessa medaglia»). Oppure, secondo quanto riteneva Socrate, è solo ignoranza, difetto di conoscenza, omissione, inconsapevolezza? Come spiegare il male assoluto, la morte, la malattia, la sofferenza dell’innocente, lo sterminio bellico, le catastrofi naturali, il terrorismo? Fatalità, destino, crudeltà umana, indifferenza divina? «Al male manca sempre una risposta». Eppure, esso non ci appare mai come definitivo: rimane comunque in chi lo subisce uno scampolo di speranza, di non resa, di resistenza. Va oltrepassato, provando a parteciparlo con gli altri, esigendo solidarietà, facendo fronte comune con chi soffre: soprattutto rifiutandogli qualsiasi giustificazione finale.

Nella seconda parte del volume, l’autore affronta il tema, altrettanto spinoso e paradossale, del perdono, il cui valore «è tanto più forte quanto più sembra imperdonabile o non scusabile il male ricevuto, il torto fatto». Perdonare gli altri, perdonare se stessi. Perdonare (che non significa dimenticare, cancellare la memoria!) a livello individuale e collettivo, emotivo e razionale. Riva si chiede se sia possibile e se si debba: perché ci sono crimini irrimediabili e irreversibili (Auschwitz, la Shoah, Hiroshima, le torture, le guerre…) che sono legalmente imperscrittibili, che vanno perseguiti penalmente e condannati. E ci sono torti più personali (il tradimento di un amore o di un’amicizia, una non mantenuta) che rimane difficile superare; farlo con facilità o immediatezza rivelerebbe compiacenza e narcisismo (“vedi come sono buono…”) e ridurrebbe l’offesa «a un semplice punto di vista sempre relativo, sempre aggirabile, sempre correggibile in un’ottica superiore». Ma nella parola “perdono” riecheggia la parola “dono”: qualcosa di gratuito ed eccedente, di asimmetrico e radicale, che solo la vittima può offrire, senza reciprocità. Nella sua mitezza risulta implacabile a chi ha usato violenza, in qualche modo inchiodandolo alla sua colpa.

La terza parte del libro di Franco Riva esplora il significato della fraternità. Se «il perdono come il male si fanno nella comunità degli uomini», è ad essa che si deve guardare per meglio definirli e comprenderli: e forse ancora di più a quella comunità strettissima e particolare rappresentata dalla familiarità, dalla fratellanza. «Le fraternità della storia sono spesso intrise di rivalità, di violenza, di esclusione, di preferenza, di fratricidio, non sono mai del tutto ciò cui aspirano e ciò che dicono di essere». Caino e Abele, Romolo e Remo: omicidi fraterni all’origine della fondazione di una città sembrano voler significare che non esiste convivenza senza violenza, o che la fraternità di sangue non è vera fraternità. Fratelli-coltelli, come suggerisce il proverbio, fratelli nemici. «Il nemico è chi mi mette in discussione», l’altro che mi si oppone. Allora la domanda di Caino al Signore: «Sono forse il custode di mio fratello?» diventa la domanda delle domande, se per “custode” si intende “responsabile”. Siamo tutti responsabili dell’altro, come afferma Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: «Ciascuno di noi è colpevole di tutto e per tutti sulla Terra». Nella frase di Caino non c’è solo insolenza: il suo dire “io” rivela la responsabilità di una fraternità, riconosciuta anche se rinnegata, e affidata a un chiedere che rimane aperto e rimanda a un “fuori” di sé, a una tensione in cui si affrontano male e perdono, colpa e giustizia.

 

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www.sololibri.net/La-domanda-di-Caino-Franco-Riva.html            26 dicembre 2016

 

 

 

RECENSIONI

RIZZANTE

MASSIMO RIZZANTE, SCUOLA DI CALORE – EFFIGIE, MILANO 2013

Massimo Rizzante conclude il suo libro con un vibrante post-scriptum, «un monumento alla fragilità», quale si esprime, o dovrebbe esprimersi, nel carattere femminile: «non è solo dolcezza, generosità, tenerezza…ma una virtù più sottile…(che) cede, cede sempre, ma mentre cede assimila e assimilando rigenera». Pervicacemente ostile al «veleno della virilità», afferma infatti: «ogni volta che una donna soccombe alla monolitica virilità dell’uomo è un pezzo di civiltà che se ne va», perché «l’uomo non è riuscito ad accogliere la femminilità come valore e…perciò continuerà a mutilare e a rendere inferma la donna, oltre che se stesso». Il libro è quindi un omaggio alle donne, protagoniste assolute dei versi; e in particolare la dedica cita la madre, la moglie, e un’amica marocchina dell’autore. Sono voci femminili quelle che parlano nella prima sezione del volume: ventidue donne nord-africane che in sei quartine raccontano la loro storia di povertà e sfruttamento, analfabetismo e ricatti, malattia e sporcizia. I loro nomi sono arabi («l’arabo possiede / tanti gemiti quante mosche la testa di un agnello macellata»): Naima, Zohra, Kawthar, Fouzia… I luoghi citati appartengono tutti alla miseria del Marocco, sfruttata turisticamente e sessualmente dall’Occidente ricco e intellettuale: Ourika, Essaouira, Casablanca, Marrakech, «dove non c’è resurrezione». Inframmezzato dalla lettera di un amico di origine maghrebina e dal diario estivo di una giovane prostituta di colore, il volume si conclude con altre due sezioni, sempre al femminile. Ma qui le protagoniste sono donne occidentali, talvolta castranti quando imitano la protervia aggressività degli uomini: comunque vittime. Versi rabbiosi di denuncia (certo non fragili!), e che sempre ruotano intorno al tema della sessualità imposta o subita come violenza; versi provocatoriamente indifferenti alle invenzioni linguistiche e alla resa estetica, visceralmente polemici.

 

«L’Immaginazione» n.284, novembre 2014