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RECENSIONI

RODRIGUEZ

CLAUDIO RODRIGUEZ, DONO DELL’EBBREZZA – PASSIGLI, FIRENZE 2015

Claudio Rodríguez (1934-1999) è forse, tra i grandi poeti spagnoli del ’900, quello meno conosciuto e letto in Italia. Quindi bene ha fatto l’editore fiorentino Passigli a proporre la sua straordinaria raccolta d’esordio, Don de la ebriedad, pubblicata nel 1953, quando l’autore aveva appena diciannove anni. Salutato dal suo maestro Vicente Aleixandre come “pieno di purezza e umanità. Così sano nell’anima così pieno di cuore”.

il giovane Rodríguez si impose subito all’attenzione della critica e del pubblico per la sua prepotente ed energica originalità, che si rifaceva a Rimbaud e ai mistici spagnoli piuttosto che ai poeti europei contemporanei. Scarsamente interessato all’auscultazione del suo io e alla celebrazione autobiografica, il poeta poco più che adolescente esprimeva una forte esigenza etica e spirituale verso l’immersione panica e vertiginosa nella bellezza della natura, verso la nobiltà dell’eros e il dovere testimoniale della poesia. Il Dono dell’ebbrezza decantato nei suoi versi non è tanto quello dei sensi, quanto il tumulto dell’anima, l’emozione non controllabile del pensiero che contempla il mistero della pura esistenza, e si interroga su di esso, quasi sopraffatto dalla gratitudine e dallo stupore. Maestri a cui rifarsi sono allora tutti i grandi interpreti dello spirito, dagli evangelisti ai filosofi greci, da Teresa d’Avila a John Donne a Rilke.
“Siempre la claridad viene del cielo”: con questo luminoso endecasillabo si apre la prima sezione del libro, che così continua: “è un dono: non si trova tra le cose / ma molto sopra ad esse, e le pervade / di ciò facendo vita e opere proprie // … Oh, chiarità assetata di una forma, / di una materia atta a disvelarla / pronta a bruciarsi nel compiere l’opera”.

L’assillante interrogarsi sulla creazione, sul desiderio di essere che anima uomini, animali e piante, facendoli nascere e morire, crescere e trasformarsi anche nella pura incoscienza materiale, rende il poeta quasi un veggente, scorporandolo da se stesso, portavoce di quanto non sa esprimersi e si limita a vegetare, a ruotare nel cosmo, a vibrare nel pulviscolo della luce: “La quercia, sì, cosa saprebbe mai / senza me della morte? Esiste forse / l’intimità, il suo istinto, il vero / della sua ombra più di ogni altro fida? / E la mia vita è certa in quelle foglie / sempre a svelare in parte primavera?”

Punti di domanda e punti esclamativi si rincorrono nei versi di Claudio Rodríguez a indicare entusiasmo, curiosità, rapimento, in una tensione lirica che non ha nulla di studiato o artefatto, ma sembra precipitare continuamente nell’assillo del dover dire, del dover comunicare al lettore la propria emozione, scandita da una musicalità incline al canto spiegato.
Con una partecipe e approfondita prefazione di Pietro Taravacci, questo volume sa restituirci la voce della poesia più limpida, quando si innalza oltre la sua stessa finitudine e materialità: “Neanche il mitico ovile delle sere / sa invadermi così. Temo il tuo amore, / ampia navata del dolore, e campo. / Ma ora sono lontano, così tanto / che se anche muoio nessuno mi piange. / Mi appare certo ormai che il nostro regno / non è di questo mondo. Che montagna / potrebbe elevarmi? Che preghiera?”, “Ci sono troppe cose infinite. / Per incolparmi ci son troppe cose”, “Come il terriccio sopra i campi, basta, / basta al mio cuore una semina lieve / per darsi all’estremo. Così basta / non so perché, alla nube. Che efficacia / ha l’amore”, “Sarà dentro il tempo. Non la mia / e non la più importante: ma la prima. / Sarà l’unica volta del creato. / Semplicità di fare che non sia / questa la prima e l’ultima! Alba, fonte, / mare, colle alfiere in primavera, / siate essenziali!”.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Dono-dell-ebbrezza-Rodriguez.html       30 settembre 2016

 

RECENSIONI

ROMAGNOLI

FERNANDA ROMAGNOLI, IL TREDICESIMO INVITATO – GARZANTI, MILANO 1980

Cosa sappiamo, e cosa sanno oggi i giovani lettori di poesia, di Fernanda Romagnoli? Quasi niente, ovvero le poche notizie che ci tramanda Wikipedia. Autrice di un unico libro importante (Il tredicesimo invitato, pubblicato da Garzanti nel 1980, e riedito da Scheiwiller nel 2003), nata a Roma nel 1916 e morta sempre a Roma nel 1986, diplomata in pianoforte e all’istituto magistrale, moglie di un militare che seguì nei frequenti trasferimenti in diverse città italiane, madre di una figlia. Aveva pubblicato quattro plaquette di versi nel 1943, nel 1965, nel 1973 e nel 1979, ignorate dalla critica (fatta eccezione per la lunga fedeltà dimostratale da Donatella Bisutti, e la stima che le riservò Attilio Bertolucci) e rimaste in pratica senza diffusione. Poche, scarne notizie biografiche. Riservata come persona, trascurata come poeta. Però grande poeta. Dal dettato classico e composto, animato da una malinconia pensierosa e da un’ironia (e autoironia) intelligente e mai sarcastica, attenta alla quotidianità senza diventare noiosamente e minuziosamente prosastica. Si leggano per esempio i versi dedicati agli oggetti minimi e inessenziali di cui ci serviamo nelle nostre abitazioni, di cui non abbiamo bisogno ma da cui temiamo il distacco:

«I piccoli oggetti, i piccoli / amici-schiavi, che tirano / troppo in lungo la vita! Miei cari, / vi licenzio in tronco. È più dura / forse per me: ma chi monco, / chi gobbo, chi spelato da lebbra; / e il mazzo di chiavi risputato / da ogni serratura. // Gli ipocriti inermi! Bisbigliano / Aiuto, pietà. / E s’uncinano a tutti gli appigli, / a tutti i ricordi come labbra / s’attaccano, come vermi. // Giù nel sacco – un tonfo – coraggio! / Non sarà un lungo viaggio. / In cantina, il bel dormitorio. / Col teatrino dei topi, il tanfo / del vino, la grata / (tarlata) del parlatorio / per la piuma, per la foglia di passo. / Tra vecchi fratelli… Diciamo / che a noi padroni va peggio, / quand’è l’ora nostra… ma adesso / muoviamoci, andiamo». (Oggetti)

Il distacco, da persone e cose, è un tema costante nella poesia di Fernanda Romagnoli: “L’arte di perdere” di cui parlava Elizabeth Bishop, diventa in lei quasi un dovere morale, un’abitudine da assumere per evitare l’ansia del possesso, e per imparare ad accettare la rinuncia, e l’addio ‒ più o meno definitivo ‒ da chi si ama. La morte, quindi, come mistero impenetrabile e inaccettabile, conclusione crudele di un ciclo vitale negli esseri animati e inanimati. Nel bruco sbucato fuori da un frutto e finito nel piatto, e qui ucciso con noncuranza; nel ricordo dei gesti della madre, adorata e perduta:

«Tagliato in due col suo frutto / il bruco si torce, precipita / nel piatto, ove un attimo orrendo / sopravvive al suo lutto. / Coperto di bucce, sepolto / fra le dolcezze e gli aromi / che amava in vita, gli accendo / sulla catasta l’incenso / della mia sigaretta. / Morte pulita – ed in fretta. / Ma che ne so della via / che il bruco ha percorso in quell’unico / istante di agonia» (Bruco); «Mia madre celebrava la mattina / con un caffè solitario. / Filtravano dalla cucina / neri aromi in un chiaro di gesso. / Toccavano rumori la parete / per farsi indovinare / da me, che silenziosa / sorridevo nel buio «vi conosco!». / Mia madre la mattina / stava sola di là, come Dio / sta sulla terra e sul mare. / Prendeva il giorno nelle sue mani rosse, / assegnava alle cose il loro posto. / Come farà, che adesso / sola fatica delle sue mani è stare / incrociate sul petto» (Rito); «Morte, se vieni per condurmi via, / lascia che ombra su ombra / io ripercorra la gente. / In quest’incrocio di rotte / casuali, ci siamo incontrati / – fra vivi – così inutilmente. / Per migliaia di giorni, / ogni giorno: / all’andata, al ritorno. / Per migliaia di notti, / ogni notte, coi ginocchi, coi fiati. / Non ci siamo scambiati / niente» (Niente).

Un altro fil rouge che attraversa le poesie della Romagnoli è quello dell’inappartenenza, dell’esclusione, addirittura della doppia identità: quasi che l’autrice di questi splendidi versi non sapesse riconoscersi, non solo nella propria scrittura, ma soprattutto nel teatrino dei rapporti sociali, sul palcoscenico delle relazioni fasulle, della finzione imposta per compiacere il mondo:

«Grazie – ma qui che aspetto? / Io qui non mi trovo. Io fra voi / sto come il tredicesimo invitato,per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato. / e fra tutti che parlano – lui ascolta. / Fra tante risa – cerca di sorridere. / Inetto, benché arda, / a sostenere quel peso di splendori, / si sente grato se qualcuno casualmente / lo guarda. Quando in cuore / si smarrisce atterrito «Sto per piangere!» / e all’improvviso capisce / che siede un’ombra al suo posto: /che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori» (Il tredicesimo invitato); «Prima o poi qualcuno lo scopre: / io sono già morta / da viva. È di donna straniera / la faccia tra i capelli in giù sporta / che subito si ritira, / l’ombra che dietro le tende / s’aggira di sera, / il passo che viene alla porta / e non apre. Suo il canto / che intriga i vicini coprendo / i miei gridi sepolti. / Qualcuno / prima o dopo lo scopre. Ma intanto…// Lei a proclamarsi non esita, / lei mostra il mio biglietto da visita. / Io nel buio, in catene, a un palmo / da voi di distanza, sul muro / graffio questa riga contorta: / testimonianza che mio / era il nome alla porta, ma il corpo / non ero io» (Falsa identità).

Una voce forte e assolutamente moderna, quella di Fernanda Romagnoli. Forse troppo intensamente significativa nei contenuti, e originalmente personale nella forma, rispetto al conformismo appiattito di molta produzione poetica attuale, per poter attrarre attenzione e interesse, nei nostri giorni disattenti e disinteressati.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 5 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ROMAGNOLI

FERNANDA ROMAGNOLI, LA FOLLE TENTAZIONE DELL’ETERNO – INTERNO POESIA,  2022

Quanti anni devono passare, in Italia, perché una grande poeta venga recuperata dall’oblio, e possa ottenere la considerazione e l’ammirazione che merita, e che già le erano state negate in vita? Di Fernanda Romagnoli (Roma, 1916-1986) le piccole e raffinate edizioni pugliesi di Interno Poesia pubblicano ora la più ampia scelta di poesie finora mai edita, con una esaustiva prefazione di Paolo Lagazzi: La folle tentazione dell’eterno. Finora, di lei erano uscite solo quattro raccolte, ormai introvabili (Capriccio, Berretto rosso, Confiteor e Il tredicesimo invitato), che avevano suscitato l’interesse di affermati poeti come Carlo Betocchi, Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni, ma non erano riuscite a imporsi all’attenzione di un pubblico più vasto. Infine Donatella Bisutti aveva curato nel 1997 una silloge di testi inediti, Mar Rosso.

Nata in una famiglia piccoloborghese, Fernanda si era diplomata alle magistrali e poi in pianoforte all’Accademia di Santa Cecilia. Sposata con un militare di carriera, da cui ebbe l’unica figlia Caterina, per alcuni anni aveva insegnato in diverse scuole elementari, dedicandosi poi completamente alla famiglia, seguendo il marito nei trasferimenti di servizio, e tenendosi sempre ai margini del mondo letterario, in una sorta di esilio e auto-esilio determinato sia dalla sua indole riservata, sia dall’indifferenza con cui i suoi libri venivano accolti. L’inappartenenza, l’esclusione, la doppia identità sono in lei temi costanti, quasi a rimarcare la sua volontà di non aderire al teatrino dei rapporti sociali, delle relazioni fasulle, della finzione imposta per compiacere il mondo: “Grazie – ma qui che aspetto? / Io qui non mi trovo. Io fra voi / sto come il tredicesimo invitato, per cui viene aggiunto un panchetto / e mangia nel piatto scompagnato. / E fra tutti che parlano – lui ascolta. / Fra tante risa – cerca di sorridere. / Inetto, benché arda, / a sostenere quel peso di splendori, / si sente grato se qualcuno casualmente / lo guarda. Quando in cuore / si smarrisce atterrito «Sto per piangere!» / e all’improvviso capisce / che siede un’ombra al suo posto: / che – entrando – lui è rimasto chiuso fuori”.

Nelle cinquantacinque pagine del denso e coltissimo saggio introduttivo di Paolo Lagazzi, Fernanda Romagnoli viene definita “tragica e struggente, ferita e sublime poetessa” che ha saputo trarre dai suoi versi “brucianti di amarezza, strazio e ribellione… le radici della parola sino a farne una musica misteriosamente capace di coniugare laceranti dissonanze e imprevedibili armonie, duri strappi al cuore e onde d’immensa forza espansiva”.

Se nella raccolta d’esordio, ancora modellata sull’eredità dei classici protonovecenteschi, (D’Annunzio, Pascoli, Carducci), prevalevano arcaismi e preziosismi lessicali, descrizioni naturali idilliache e una religiosità di stampo devozionale, già in Berretto rosso (1965) e in Confiteor (1973) diventano evidenti sia lo stile più personale e maturo, sia i temi che hanno reso la produzione della poeta così riconoscibile ed esclusiva. In primo luogo l’aspirazione a una spiritualità libera dai canoni della cattolicità ufficiale, con il nascere di dubbi e domande relative alla giustizia divina e alla sua riconoscibilità (“Con Lui non abbiamo contatti”, “S’Egli non vuole scendere per me, / per pietà faccia dire al custode / che non darò più fastidio,/ che soltanto mi lasci abitare / – qui – seduta sul primo gradino”, “Lui / sempre più in alto si cela”, “Voi fate gran compianto per Abele, / per lo scaltro innocente, così certo / del consenso divino. / Ad un buio sudore io   penso, al fiele / d’un cuore nella polvere respinto. / Io piango l’altro: Caino”, “Io sono stanca d’essere tutta pura […] // E bianca come una monaca che abiura / mi svesto di te, libertà”). Pur mantenendo un’ansia di ascesi e assoluto (“la folle tentazione dell’eterno”), altrettanto angoscianti e fondamentali si fanno gli interrogativi sulla propria esistenza, sul suo destino di moglie e madre. Costretta nei limiti della realtà quotidiana (“confitta dal limo terrestre / come uno spino”), scissa tra la fedeltà al ruolo domestico, con le abitudini imposte dalla routine casalinga – che la riduceva a vivere come una “massaia dal dito bruciacchiato”, tra “i robot smaltati di cucina”, “in una scolorita veste rossa” –, e un’insopprimibile sete di libertà e indipendenza, confessa il desiderio di evasione per saziare l’ “inappagata sete beduina”: “all’improvviso, / ecco, rinasci intatta una mattina / d’alberi e odori sopravvento […] // Ah, la tua fuga libera, a perdifiato, sotto i piedi”.

Tale profonda inquietudine non era riconducibile solo a fattori contingenti e limitanti della propria quotidianità: il timore di non saper assolvere con pienezza i doveri di moglie e madre, le pulsioni contraddittorie che la inducevano a sognare un altrove più appagante, la nostalgia di relazioni umane autentiche, la non sempre facile comunicazione con il marito (si legga l’amaro bilancio di Tirate le somme), creava in lei laceranti sensi di colpa e di fallimento: “la stigmata che in me sfolgora e dura”.

Nessuna leggerezza nei suoi versi, nessuna addolcente retorica: ma spesso sferzate ironiche e autoironiche, paradossali, sprezzanti, marcate da frequenti incisi, interpunzioni, trattini e parentesi: il rispetto attento della metrica e soprattutto l’uso sapiente delle rime, rendevano comunque la sua scrittura ricca di una composta e cadenzata musicalità. Giustamente Paolo Lagazzi nella prefazione fa riferimento ad autori che possono averne influenzato l’assetto strutturale: in primis Emily Dickinson, ma anche i nostri Betocchi, Penna e Caproni, oltre alla densità concettuale dei testi sacri e dei mistici. Ma le atmosfere e gli esiti stilistici dei suoi versi rimangono assolutamente originali, soprattutto nello splendido libro-testamento Il tredicesimo invitato, del 1980.

Qui, la dissociazione dalla propria figura viene dolorosamente ribadita: “Prima o poi qualcuno lo scopre: / io sono già morta / da viva. È di donna straniera / la faccia tra i capelli in giù sporta / che subito si ritira, / l’ombra che dietro le tende / s’aggira di sera, / il passo che viene alla porta / e non apre. Suo il canto / che intriga i vicini coprendo / i miei gridi sepolti. / Qualcuno / prima o dopo lo scopre. Ma intanto…// Lei a proclamarsi non esita, / lei mostra il mio biglietto da visita. / Io nel buio, in catene, a un palmo / da voi di distanza, sul muro / graffio questa riga contorta: / testimonianza che mio / era il nome alla porta, ma il corpo / non ero io” (Falsa identità).

L’idea della morte, sua personale a causa della malattia al fegato che l’aveva debilitata per anni, e dei propri cari, come di tutti gli esseri animati e inanimati, si fa via via assidua e angosciosa, nel suo mistero inaccettabile e crudele. Mi sembra giusto dare ampio spazio ad alcune tra le poesie più belle del nostro secondo Novecento, in cui l’idea del distacco, della rinuncia al possesso e all’imposizione del proprio simulacro vivente, diventa un imperativo etico, malinconica e rassegnata accettazione della fugace transitorietà dell’esistenza.

“Morte, se vieni per condurmi via, / lascia che ombra su ombra / io ripercorra la gente. / In quest’incrocio di rotte / casuali, ci siamo incontrati / – fra vivi – così inutilmente. / Per migliaia di giorni, / ogni giorno: / all’andata, al ritorno. / Per migliaia di notti, / ogni notte, coi ginocchi, coi fiati. / Non ci siamo scambiati / niente” (Niente); “Mia madre celebrava la mattina / con un caffè solitario. / Filtravano dalla cucina / neri aromi in un chiaro di gesso. / Toccavano rumori la parete / per farsi indovinare / da me, che silenziosa / sorridevo nel buio «vi conosco!». / Mia madre la mattina / stava sola di là, come Dio / sta sulla terra e sul mare. / Prendeva il giorno nelle sue mani rosse, / assegnava alle cose il loro posto. / Come farà, che adesso / sola fatica delle sue mani è stare / incrociate sul petto” (Rito); “Tagliato in due col suo frutto / il bruco si torce, precipita / nel piatto, ove un attimo orrendo / sopravvive al suo lutto. / Coperto di bucce, sepolto / fra le dolcezze e gli aromi / che amava in vita, gli accendo / sulla catasta l’incenso / della mia sigaretta. / Morte pulita – ed in fretta. / Ma che ne so della via / che il bruco ha percorso in quell’unico / istante di agonia” (Bruco); “I piccoli oggetti, i piccoli / amici-schiavi, che tirano / troppo in lungo la vita! Miei cari, / vi licenzio in tronco. È più dura / forse per me: ma chi monco, / chi gobbo, chi spelato da lebbra; / e il mazzo di chiavi risputato / da ogni serratura. // Gli ipocriti inermi! Bisbigliano / Aiuto, pietà. / E s’uncinano a tutti gli appigli, / a tutti i ricordi come labbra / s’attaccano, come vermi. // Giù nel sacco – un tonfo – coraggio! / Non sarà un lungo viaggio. / In cantina, il bel dormitorio. / Col teatrino dei topi, il tanfo / del vino, la grata / (tarlata) del parlatorio / per la piuma, per la foglia di passo. / Tra vecchi fratelli… Diciamo / che a noi padroni va peggio, / quand’è l’ora nostra… ma adesso / muoviamoci, andiamo” (Oggetti).

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 7 marzo 2022

 

RECENSIONI

ROMANO

LALLA ROMANO, LE LUNE DI HVAR, EINAUDI, TORINO 1991

E’ uscito in questi giorni Le lune di Hvar, ultimo libro di Lalla Romano, a pochi mesi dalla consacrazione letteraria dell’autrice come uno dei classici del nostro 900 avvenuta attraverso la pubblicazione delle Opere vol.1 nei Meridiani Mondadori.

«Questo libro è nato dalla volontà del libro stesso. Io l’ho trovato scritto: da me, ovviamente, ma senza che l’avessi voluto. Non era nemmeno propriamente “scritto”: erano annotate soltanto frasi, parole. E’ un libro privo di testo».

È davvero difficile da definire e da recensire: ne dà prova la quantità di articoli risoltisi poi in interviste all’autrice, un po’ a scansare l’impegno critico di un giudizio letterario, un po’ a mascherare l’imbarazzo derivato da ragioni extra-letterarie. Narra di quattro viaggi fatti dalla Romano in estati diverse, in Jugoslavia, dall’Istria a Spalato (con una particolare predilezione per l’isola di Hvar e i suoi notturni) insieme con un giovane amico, Antonio, e rivissuti in squarci di visioni, in lampi della memoria, con la parzialità assoluta e desiderosa di alibi di ogni rivisitazione affettiva. Protagonista è ovviamente questa coppia fuori dalla norma, lei con il doppio dell’età di lui, ma «questo non ha importanza. Devo aver scritto da qualche parte che per me i numeri sono magia, non cronologia…»: con i capelli e la pelle bianca sotto il cappello di paglia, l’anziana scrittrice; abbronzato, con un berretto da mare e un borsone da fotografo a tracolla, il giovane studioso. Antonio è innamorato del mare, della gente, degli imprevisti: paziente fino a rasentare l’incoscienza di fronte ai molti disagi del viaggio, capace di entusiasmi infantili e di altrettanto estemporanei scoramenti, animato da una dedizione fedele e quasi compiaciuta di sé ai voleri dell’amica, si lascia bistrattare, ammette di essere debole, anche se è il più forte dei due, ma scisso in un continuo «pareggiarsi di mistero e limpidezza». Lei deve fare i conti con la sua età, con i mal di schiena, con il fastidio a volte soffocante che le procurano gli spostamenti, o anche gli involontari atteggiamenti giovani di lui. Lo aspetta, lo aspetta sempre, in macchina, nei bar, nelle hall degli alberghi, sulla spiaggia, mentre lui gira, traffica, incontra: spaventata quasi dalla sua “festosità”, dell’ingenuità delle sue letture e dalle sue esaltazioni. E’ una storia tenera, sofferta, quella che si dipana tra i due: di una sofferenza oggettiva (gli sguardi maliziosi degli altri; la richiesta di spiegazioni del cameriere: («-La mamma?- A.:-Sì-. Cameriere contento») e soggettiva (analisi e autoanalisi, lacrime, ricatti, notti in bianco, gelosie come in qualsiasi altra storia). Evidente appare un certo sottile sadismo di lei, una non camuffata volontà di ferire Antonio con frasi che hanno la spietata durezza della verità: «Non provo piacere: sono una mummia», «A me piacciono i vecchi asciutti, tu sei giovane e umido (sudato)», «Non si può amare la madre», «Non temo di essere abbandonata, ma di essere ingannata». I due escono da questa cattiveria esibita – delle cose, delle circostanze, di loro stessi – più grandi, più drammatici e vivi della miriade di volti e figure inconsistenti che nel libro passano e vengono riassorbiti subito nel loro ruolo di comparse, inchiodati solo allo scampo di una definizione che li accomuna a personaggi famosi (Paolo Stoppa, Fernanda Pivano, Nicola Abbagnano, Ezra Pound, ecc.), osservati dalla narratrice con occhio severo e talvolta stizzito verso le loro debolezze fisiche o intellettuali, specialmente se femminili. Secondo le indicazioni date dalla Romano stessa nel risvolto di copertina, la verità del racconto corrisponde alla sua limpidezza, non alla sua logica. E illogico parrà forse questo rapporto ai più che lo leggeranno con la pruderie o la morbosità di chi ama tenere i conti anche nei sentimenti; ad altri sembrerà una storia grata nella gratuità del suo accadere, insolita nel suo sgomitolarsi imprevedibile e necessario.

 

«Agorà» (Svizzera), 11 dicembre 1991

RECENSIONI

ROMANO

LALLA ROMANO, MARIA – EINAUDI, TORINO 2021

Presentando nella famosa collana einaudiana de I gettoni la seconda prova narrativa di Lalla Romano (1906-2001), Elio Vittorini nel 1953 scriveva: “Una storia di rapporti umani che si realizzano, pagina su pagina, come rapporti ritmici, e che tuttavia tendono a mostrare, malgrado il loro ripetersi, quanto di unico e insostituibile, di dato una volta per tutte, vi sia in ogni individuo”.

L’individuo in questione è Maria, protagonista del racconto, una donna mite, di origini contadine, che lavora come domestica presso una raffinata famiglia borghese, nell’arco dei vent’anni che precedono la seconda guerra mondiale. La voce narrante è invece quella della giovane signora, sposata con Pietro, che l’ha assunta prima di partire per il viaggio di nozze, e al ritorno la osserva attraverso la porta socchiusa: “Stava seduta sull’orlo della sedia, con i piedi incrociati e le mani raccolte nel grembo; era magra e minuta, vestita di nero: con un colletto, rotondo, di pizzo. Teneva la testa reclinata su una spalla; i suoi occhi azzurri e fermi, dalle palpebre piegate all’ingiù, avevano un’aria rassegnata e un po’ triste”. In quello stare appena appoggiata alla sedia è già delineata la ritrosa timidezza, la composta e intimorita discrezione della governante. Più avanti ne viene descritta anche la dedizione attenta al lavoro: “Essa si aggirava per le stanze senza far rumore, era sempre occupata e non faceva domande”, “Maria conferiva, a tutte le cose che faceva, una certa solennità; senza imporle per niente all’attenzione, anzi sbrigandole con discrezione e silenzio”.

Quando la signora partorisce un bambino, la domestica ne diventa la balia, affettuosa e trepidante: le due donne se ne occupano senza reciproche gelosie, senza ansie di possesso, rinsaldando tra loro una complice ma sempre rispettosa solidarietà.

Maria riceve talvolta i parenti in visita dalla campagna, oppure invita l’intera famigliola dei datori di lavoro nelle vecchie case abitate da fratelli, cognati, nipoti: nelle rare e pudiche confidenze che si permette con la padrona racconta con nostalgia del padre severo, della povertà patita, delle figure più suggestive della sua infanzia e dei rapporti nutriti da maggiore tenerezza: con il nipote Fredo, sacerdote salesiano morto di tisi, con lo zio Barba e il fratello Giovanni, con le tante mogli e madri consanguinee usurate dai lavori domestici e nei campi. Si confrontano così a livello di microcosmo due diverse società: quella urbana e borghese, laica e intellettuale, e quella rurale, culturalmente arretrata ma salda nei principi morali e nei vincoli familiari, austera e ancora priva di rivendicazioni di classe.

Maria, scissa tra modelli di vita tanto differenti, rimane fedele a entrambi, con la dedizione che le è propria. Segue i padroni quando si trasferiscono a Torino, nonostante la diffidenza provata per la grande città, soprattutto per non dover abbandonare il bambino che le è stato affidato. Li accompagna obbediente nelle vacanze in Versilia o in montagna, partecipando a tutte le loro vicissitudini quotidiane, godendo e soffrendo di ogni loro gioia e dolore. “Maria non si era mai risparmiata; aveva sempre lavorato, per i suoi, ma anche per gli altri, quando ce n’era stato bisogno; lei voleva bene ai suoi, ma anche ai dolori degli estranei, compativa; e si sa che anche voler bene, stanca”. Infatti, si ammala di cuore: viene sostituita da altre governanti, e poi riassunta perché insostituibile. Fino all’inevitabile e malinconica conclusione del rapporto di reciproca dipendenza.

In uno stile asciutto e sorvegliato, mai retorico, Lalla Romano ha saputo rendere settant’anni fa atmosfere private e ambientazioni sociali, attraverso la descrizione attenta e intenerita di una donna poco consapevole, nella sua gracilità, della propria forza. Incapace di lusinghe e scaltrezze, docilmente rassegnata al suo ruolo di servizio privo di prospettive o speranze di riscatto, a Maria ci sembra debbano spettare le beatitudini promesse dal Vangelo.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 13 dicembre 2021

 

 

 

RECENSIONI

ROMEO

ENZO ROMEO, LE MIMOSE DEL PICCOLO PRINCIPE – ANCORA, MILANO 2018

Enzo Romeo ha pubblicato per le edizioni Ancora Le mimose del Piccolo Principe, un breve saggio illustrato su Antoine de Saint- Exupèry, di cui ha riletto la vita attraverso le figure femminili che su di essa hanno lasciato importanti tracce, commentandole con i brani più suggestivi del suo famosissimo libro.  Saint-Exupéry (1900-1944), scrittore e aviatore francese, scomparve con il suo aereo – abbattuto da un caccia tedesco durante una missione ricognitiva nel Mediterraneo: nel 1943 aveva pubblicato il suo capolavoro, tradotto in 253 lingue. Nella sua breve e intensa vita ebbe molte esperienze, non solo professionali e di guerra, ma anche sentimentali. Il matrimonio con la salvadoregna Consuelo fu tormentato dai frequenti tradimenti di lui; Enzo Romeo cita solo due delle sue numerose relazioni: nel 1943, in Algeria, con una crocerossina francese (“Il roseto mi ha trafitto mentre coglievo la rosa”), e poi con l’americana Silvia. Ammetteva le sue infedeltà, confessando umilmente la propria fragilità a sé stesso e alla moglie, cui continuava a proclamare il suo infinito ed eterno amore (“Consuelo cara, siate la mia protezione… Fatemi un mantello col vostro amore”), e utilizzando sempre la metafora della rosa, così spesso ribadita nella favola del Piccolo Principe: “Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo… È lei che ho innaffiato, che ho messo sotto la campana di vetro, che ho difeso col paravento… Perché è la mia rosa… Perché l’ho resa mia amica, e adesso è unica al mondo”.

Romeo così commenta il ménage tra i due: “Pur facendo una vita da celibe, senza di lei il pilota-scrittore si sentiva perso… Vivevano separati, ma li univa egualmente un sentimento profondo, simile a un fiume carsico”. E quando Consuelo, rifugiatasi nei Pirenei per sfuggire ai bombardamenti su Parigi, credendosi definitivamente abbandonata dal marito, stava per cedere alla corte di un ufficiale francese, lui la raggiunse, convincendola ad accompagnarlo al santuario di Lourdes, e addirittura componendo una preghiera per la moglie, da recitare con rinnovata fede di cristiana e di sposa: “Sono felice soltanto nella purezza. Signore, rendetemi somigliante sempre a quello che mio marito vede in me. Signore, Signore, salvate mio marito perché lui mi ama veramente. Senza di lui mi sentirei totalmente orfana. Ma fate, Signore, che lui muoia prima di me, perché lui sembra molto forte ma si angoscia terribilmente quando non mi sente fare rumore per casa”. La madre di Antoine Saint-Exupéry, Marie, fu l’altro suo grande amore, ed era convinta “dell’intimo sentimento cristiano del figlio”, che fondamentalmente in ogni sua esperienza cercava Dio, una rosa, una stella, l’infinito: “Se tu vuoi bene a un fiore che si trova su una stella, è dolce, la notte, guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite”.

 

© Riproduzione riservata   

https://www.sololibri.net/mimose-piccolo-principe-Romeo.html           24 febbraio 2018

 

 

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RONCHI

ERMES RONCHI, L’INFINITA PAZIENZA DI RICOMINCIARE – ROMENA, AREZZO 2016

Padre Ermes Ronchi è stato invitato dalla Fraternità di Romena a tenere un incontro sull’importanza del rinnovamento spirituale, e dal dialogo con la comunità è nato questo libriccino, intitolato L’infinita pazienza di ricominciare.
Due parole iniziali su cos’è Romena. Si tratta di una comunità ispirata dall’utopia del monaco Giovanni Vannucci e fondata nel 1991 da don Luigi Verdi, con l’intento di offrire uno spazio di relazione e meditazione a chiunque fosse alla ricerca di se stesso e di un rapporto più profondo con l’Altro e con gli altri.
È situata in un’antica pieve romanica in provincia di Arezzo, mette a disposizione degli ospiti una foresteria, una mensa e una sala convegni; organizza conferenze e dibattiti, e ha una propria casa editrice che pubblica testimonianze di vita e pensiero di credenti e non credenti interessati allo scavo interiore e alla ricerca di spiritualità.

Due parole anche su Padre Ermes Ronchi. Nato nel 1947 nella campagna friulana, in una terra contadina semplice e di intatta fede religiosa, sacerdote nel 1973, frate dei Servi di Maria, ha percorso fin da giovane strade di studio e lavoro non tradizionali, laureandosi alla Sorbona in Teologia e specializzandosi in antropologia e scienze religiose. Autore di numerose pubblicazioni, per cinque anni ha condotto la trasmissione Le ragioni della speranza su Rai Uno, e attualmente è priore del Convento di San Carlo e direttore del centro culturale Corsia dei Servi a Milano. In marzo è stato incaricato da Papa Francesco di condurre gli esercizi spirituali in Vaticano.
Nell’introduzione a questo volumetto viene definito dai prefatori “poeta della fede e della vita (…) tessitore di futuro”, e in effetti in queste poche pagine riesce a indurre il lettore a una riflessione positiva e carica di speranza sulle sue potenzialità inesplorate o soffocate dalle abitudini e dalle pigrizie quotidiane: “Vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. E quando sbagli strada, ripartire da capo. E là dove ti eri seduto, rialzarti. Salpare a ogni alba verso isole intatte. Ma non per giorni che siano fotocopie di altri giorni, bensì per giorni risorti”

Non accontentarsi di essere, quindi, fotocopie sbiadite di se stessi o di ciò che ci impongono mode e ideologie, ma recuperare la propria unicità, costruendo il vivere giornaliero pazientemente, senza affrettata superficialità. Tre sono le parole d’ordine suggerite da Ermes Ronchi ai suoi lettori per ricominciare: vedere, fermarsi, toccare. Aprire gli occhi per guardarsi attorno, meravigliandosi di tutto; fermarsi a riflettere e a contemplare; toccare chi ci sta vicino, anche l’intoccabile. E abbracciare l’infinito, sentendosi parte creaturale dell’universo, e alimentando cuore e cervello quando li sentiamo disidratati, rinsecchiti. Non ridursi ad accettare la realtà per quello che è, ma sognare ciò che essa può diventare. Con questa importante raccomandazione: “Le cose esterne fanno rumore e danno fastidio, ma sono fuori, e soltanto io posso aprire la porta e dire a uno: sì, tu entra e occupa spazio in me, e a un altro invece: no, tu resta fuori, so che mi farai un po’ di male e graffierai sulla mia vita, ma tu non siederai sul trono del mio cuore”.

 

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www.sololibri.net/pazienza-ricominciare-Ronchi.html    5 agosto 2016

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RONCHI

ERMES RONCHI, IL CANTO DEL PANE – SAN PAOLO EDIZIONI – MILANO 2010

Otto brevi capitoli che Padre Ermes Ronchi dedica al Padre Nostro: la più antica delle preghiere cristiane, tramandata da Matteo e Luca; certo la più conosciuta e recitata, la più amata, celebrata e cantata nelle assemblee liturgiche, o nell’intimità dei cuori credenti. “Una preghiera espropriata, in cui mai si dice -io-, mai -mio-. Ma attraverso la quale impariamo a pronunciare il -tu-, e i l-noi-, il -nostro-“. Una preghiera di relazione, che apre all’altro. E questo libro scandisce con meditazioni profonde, innamorate della Parola, e con nuove preghiere, con personali e struggenti componimenti poetici, ogni singola frase del Padre Nostro: dall’incipit, che tanto insiste sulla paternità amorevole e protettiva di Dio, alla supplica finale di liberare l’umanità dal male, con una poderosa riflessione sulla tentazione. Le esortazioni all’abbandono fiducioso nelle mani della divinità sono continue, con puntuali rimandi al Vecchio e Nuovo Testamento, ai Padri della Chiesa, ma anche alla cultura contemporanea: “Affidarsi, perché il vero centro dell’uomo non è l’io, ma il tu divino: un amore mite, umile e tenacissimo… Dio è il maestro del desiderio… Quando sentiremo Dio come spinta assolutamente necessaria per la crescita della nostra natura umana, allora crederemo veramente, e non avremo più paura, e la sua volontà sarà desiderio”. Il pane, quindi, cui è dedicato il libro di Padre Ronchi, non è solo quello di cui ci nutriamo materialmente: “L’uomo non vive di cose, anzi ne muore…  Dio è il nostro affamatore, che impedisce all’uomo di rimpicciolire nella misura delle sue piccole cose, Dio è il nostro affamatore che placa la fame e la suscita ancora, che accende la vera fame”. Un piccolo volume prezioso, abissalmente lontano dall’esegesi critica e filologica del Padre Nostro di Marc Philonenko, o di altri dottissimi studi sull’argomento, ma ispirato da una grazia particolare: chissà, forse, dalla Grazia.

IBS, 19 novembre 2010

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RONCHI

VALENTINO RONCHI, BUONGIORNO RAGAZZI – FAZI, ROMA 2019

Forse l’erede più interessante e originale (quindi, non solo un epigono) della lezione poetica di Elio Pagliarani è il milanese Valentino Ronchi, che con il suo Buongiorno ragazzi riprende atmosfere, scelte formali ed echi contenutistici dell’indimenticabile La ragazza Carla. Se quel poemetto pubblicato nel 1962, all’alba del boom economico e della nascente industrializzazione, era animato da un risentito sentimento di denuncia civile, e insieme da una indulgente pietas nei confronti dei protagonisti, proletari stretti tra lavoro inappagante e affetti striminziti, la narrazione in versi di Ronchi è invece priva di rivendicazioni politiche o sociali, circoscritta a un vissuto individuale, e più teneramente intimistica.

Il poeta rievoca con toni di affettuosa malinconia il periodo magico del liceo (libri letti e dischi ascoltati, amori esibiti o taciuti, compiti in classe e gite scolastiche, mattine “eterne e brevi”), vagando col ricordo tra edifici scolastici e zaini stracolmi, primi e ultimi della classe, professori detestati o amati. Proprio la morte di un insegnante diventa il pretesto per recuperare i rapporti tra ex compagni, e il ricordo del passato diventa subito pressante nostalgia, rimpianto per un tempo in cui l’attesa vaga del futuro non si tingeva ancora di amarezza o delusione: “Siamo troppo giovani, pensavi, per perdere / il professore di greco. Sono cose che dovrebbero / capitare più in là con gli anni quando / tanti intorno sono già partiti, e fa normale / che anche altri se ne partano”. Dal giorno dei funerali del docente, l’io narrante accoglie l’imperativo di recuperare voci e profili dimenticati, dando loro spazio nella memoria e sulla pagina: “E nel tempo / che resta invece ho deciso: andrò in cerca / di voi, vecchie immagini, vecchie realtà, / fantasmini da fotografia, belle creature / di un tempo, passeggere ancora e sempre / per le vie di questo mondo”.

La Milano di Giudici, di Raboni, Erba, Sereni (ma anche delle canzoni dei Gufi, di Gaber e Jannacci, e dei primi film urbani di Ermanno Olmi), la Milano dei tram, delle nebbie e dei Navigli, dei bar e dello stadio, di cantine e librerie antiquarie, riaffiora con tutta la sua struggente malinconia, nei quartieri periferici e nei personaggi che la abitano, segretarie e camerieri, pendolari e poliziotti: “Le sedie accatastate al muro, poggiate / a Mac Mahon deserta, il pizzaiolo nel cappotto / fuma, guarda dalla soglia i resti di Milano, / città che aspetta la fine di febbraio dietro / gli abbaini mezzi chiusi”.

Nomi di strade e piazze, nomi di tutte le ragazze baciate, scorrono nei versi con la stessa rapida e rapita successione del catalogo delle navi omerico (“l’impiegatina” dagli occhi azzurri, un avventore del bar cui confidare le proprie pene, l’amico fornaio con addosso sempre la stessa frusta giacca), nell’attenta premura riservata ai gesti e ai dialoghi di ogni figura raccontata, e nella ricostruzione del suo destino esistenziale, riassunto negli snodi fondamentali (matrimonio, figli, professione). E se uno degli interlocutori ritrovati dopo anni accusa il poeta “Hai fatto della nostalgia un oggetto”, ecco che la rivendicazione fiera e umile della propria scrittura arriva puntuale: “alla fine si sta bene scrivendo, / lo ammetto dev’essere per questo / che mi ostino, continuo. Dà una certa / pace, e passano così le epoche / e ancora mi piace”.

L’applicazione al contenuto, nei versi di Valentino Ronchi, prevale e mette in secondo piano quella rivolta alla forma, che assume decisamente un andamento narrativo e colloquiale, con frequenti inserti del parlato quotidiano (“Così, già che ci sono, en passant”, “E rido, sì che rido”, “Sia detto, mi è chiaro”, “pensaci bene”, “oh, ma guardati, sei tu”!). Chi legge rivive questo fascino di una giovinezza trascorsa, inutilmente rincorsa e ricomposta, più tipica degli anni ’60 che del ventennio successivo vissuto dall’autore. Sarà forse che si è ragazzi tutti allo stesso modo, con gli stessi turbamenti e aspettative, in ogni piega della storia: “le giovinezze nostre, di tutti, che belle / si somigliano”.

 

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https://www.sololibri.net/Buongiorno-ragazzi-Ronchi.html       15 novembre 2019

 

 

 

 

 

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RONDI-GAY DES COMBES

ELENA RONDI-GAY DES COMBES, DISSOLVENZE – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2014

Questo libro, secondo la prefatrice Maria Rosa Valentini, «non vanta una trama ossuta, ma piuttosto si avvale di un gioco di specchi, di giustapposizioni che pongono in evidenza ritratti e profili di molte donne risucchiate dalle ragnatele della quotidianità». Ambientato in una provinciale cittadina della Svizzera Italiana (l’autrice è ticinese), il romanzo intreccia le storie di cinque protagoniste femminili, diverse per età, carattere e condizione sociale, ma accomunate tutte dalla stessa attenzione verso lo sguardo: soggettivo od oggettivo, interiore o esterno. Quindi l’interesse è focalizzato su quegli oggetti che maggiormente si fanno interpreti dell’atto visivo: la macchina fotografica e lo specchio. La vicenda si apre nella boutique in cui Anna, commessa, offre i suoi competenti consigli alla signora Kramer, cliente assidua ed esitante. La prima, attenta ad interpretare la psicologia delle acquirenti, è una giovane donna appassionata di fiction televisive, pratica e senza particolari esigenze esistenziali: la seconda è una signora della buona borghesia, mediamente infelice e ingessata nel suo ruolo di moglie-madre incapace di ribellioni. Entrambe usano lo specchio, una in modo professionale e distaccato, l’altra come scrutatore dell’anima.
Anna ha una sorella più giovane, Chiara, in grado di muoversi con naturalezza solo nel suo giardino e nei rapporti umani che sa indagare con profonda sensibilità, ma privata della vista per una malattia infantile: cieca quindi verso l’esterno ma attenta osservatrice dell’interiorità.
Le altre due protagoniste sono Lucia e Eileen, legate da un misterioso rapporto di complicità iniziato casualmente da uno scatto fotografico rubato. Ognuna di loro vede nel ritratto fotografico ciò che desidera vedere: la felicità o l’angoscia dell’altra, le proprie proiezioni e aspettative di riconoscimento. Dunque le dissolvenze cui si allude nel titolo del romanzo sembrano soprattutto indicare una difesa dall’aggressione troppo esplicita dell’esistenza.
La fotografia non riproduce la realtà, ma tende a ricostruirla: «Di autentico c’è solo il nostro sguardo iniziale… se l’immagine non corrisponde alla realtà, tanto peggio per la realtà».
Lo stile con cui Elena Rondi-Gay del Combes racconta le vicende intrecciate delle sue protagoniste è curato ed elegante, i dialoghi credibili e funzionali.

 

«Leggendaria» n.105, maggio 2014