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RECENSIONI

ROSSANDA

ROSSANA ROSSANDA, UN VIAGGIO INUTILE – EINAUDI, TORINO 2008

Einaudi ha ripubblicato nel 2008 un volume che Rossana Rossanda aveva dato alle stampe con Bompiani nel 1981, rievocando un viaggio compiuto in Spagna diciannove anni prima, nel 1962: Un viaggio inutile. O della politica come educazione sentimentale.

A Rossanda interessava documentare allora come la Spagna stesse vivendo il suo “desencanto”, adagiata in un’illusione che non si era mai travestita da azione, e tanto meno da rivoluzione – come invece molti comunisti dell’epoca avevano sperato. Soprattutto si trattava di testimoniare l’inizio di una crisi, quando, in quel 1962, a Rossanda membro del Comitato Centrale del PCI, per la prima volta “i conti non tornarono”. Quella missione, progettata per raccogliere adesioni a una manifestazione per la libertà spagnola, diventò “la misura della propria incapacità ed errore”, in un momento in cui “l’impossibilità di capire in forme vecchie e l’inafferrabilità d’una qualsiasi forma nuova” si manifestava non solo in Spagna, ma anche nel PCI.

Il paese che la giornalista si trovava ad attraversare per sondare gli umori del franchismo e dell’antifranchismo, non corrispondeva alle logore categorie di una comunista militante formatasi sui dogmi della III Internazionale. Non si trattava già più, nel ’62, di constatare la fine del fascismo, bensì di immaginare le infinite possibilità di resistenza del capitalismo. La Spagna di quel viaggio “finiva di essere qualcosa e non era ancora qualcos’altro, una crisalide”, “non era una società politicamente azzittita, ma apparentemente una società non politica; non imbavagliata, ma vuota”. Viaggio, quindi, della disillusione o della delusione crescente, che la scrittrice comunicava al lettore, immobilizzandolo in una sospensione del giudizio prolungata fino alla fine del libro.

Chi legge ora quel resoconto si aspetta qualcosa che non succede: “un amore o una storia gialla”, ironizzava Rossanda. Invece si trova a contare spostamenti e appostamenti, incontri ambigui, tracce di un’opposizione impalpabile anche se concretissima, che “lavora tenace su margini stretti… come il rumore…  di talpe pazienti”. Intorno e sopra a questo muoversi a passettini dell’antifranchismo pesava come una cappa di piombo l’immobilità del regime, “perfettamente assente in tesi, idee, atti politici e perfettamente presente come controllo”. Non smargiasso e rozzo come il fascismo mussoliniano, più furbo nel mimetizzarsi, più sottile nel concedere spiragli apparentemente inutilizzabili, più feroce nella repressione: “Mi muovevo e i miei interlocutori si muovevano con maggiore o minore audacia come fra le zampe di una tigre sonnacchiosa: la tigre era presente, ma dormiva. E se fosse invece morta? O in mutazione, già diventata un grosso gatto rabbioso ma senza artigli?”.

L’incombere di tale “Cosa, il mostro”, la presenza silenziosa della tigre, non concedeva nessuno spazio agli avvenimenti, che dunque non avvenivano: il libro si nutre di luoghi e di persone, pretesti narrativi che costituiscono il vero viaggio di maturazione politica all’interno della coscienza. Primo ed essenziale spunto narrativo sono i luoghi, la Spagna che nemmeno fisicamente corrisponde a quella immaginata dall’autrice, “aspra all’interno, sanguigna come la terracotta”: Barcellona è grigia e impenetrabile, Madrid burocratica e stracca, Siviglia stucchevole. Sono città-specchio per le allodole, non servono a inquadrare né a capire di più chi le vive. “È che Barcellona mi doleva, Madrid mi doleva. Le ricordo attraverso il mio disagio; la mia testimonianza va tarata, respinta, cancellata con la matita blu”.

Anche i personaggi dolgono, sono fatti della stessa pasta delle città, esasperanti nella loro pazienza, imprevedibili nella loro straziante abilità di far rivivere le atrocità della guerra civile. Tutti, o quasi, intenti a contarsi le ferite di un fallimento passato e di un futuro fallimentare, dal misterioso Federico in impermeabile che dall’esilio controlla la situazione e sembra prevederne con onniscienza ogni sbocco (ma finirà espulso dal PCE), all’avvocato socialista Amàt che spera nell’Internazionale, ai tre operai anarchici che non sperano più in niente.

Ma soprattutto c’è lei, Rossana Rossanda, impaziente e imprudente, mai rassegnata, così in disaccordo sempre con tutto da costituire l’unica nota sopra le righe nel monotono spartito di quell’ opposizione. Era lei, con la sua memoria risentita, che scopriva una Spagna deludente e ce la restituiva calda e tesa. Se si potesse parlare di immediatezza della memoria, questo libro ce ne offrirebbe l’occasione, perché nel recupero degli avvenimenti c’è la stessa agitazione, la stessa “faziosità” che li avevano permeati nel ’62.

Le cinque pagine finali potrebbero valere, da sole, tutto il libro. Sferzanti come i migliori articoli scritti per Il Manifesto, esplicite nella loro durezza, indignate nel rigore logico, partono dalla constatazione che non si può vivere senza idee, e che una società che ha cessato di pensarsi (sia in termini di conservazione, sia in termini di mutamento) è una società incapace di vivere, che tuttavia non sa permettersi di morire. “Una società siamo noi proiettati in eterno, prima e dopo, e la malattia che la dissolve non può cessare nell’inesistente morte”.

Se la Spagna del ’62 “non si sapeva più pensare perché non poteva più pensare di cambiare”, l’Italia dell’81 non si analizzava perché non sapeva più progettare alcun cambiamento: depressa, noiosa, malata di “una appena addomesticata peste”. I responsabili? Quelli di sempre. Ma anche “gli araldi della rivoluzione subito e oggi”, gli stessi “che domandano la fine delle certezze, anzi la loro destrutturazione”. Una vera collera viene espressa verso i teorici della politica che impudicamente “si compiacciono nella contemplazione dell’errore”, in un processo al ’68 e alla povertà del suo pensato, dimostrando tra l’altro scarsa originalità, perché è risaputo che “ogni sconfitta ridimensiona i valori; chi vince sembra più intelligente, chi perde non ha scampo”.

Rossanda trovava presuntuoso e futile il parlare da sola, da fuori; si immergeva, recuperava, interpretava. E faceva in modo che i viaggi inutili (in Spagna, nel PCI…) fossero utilissimi a qualcuno, almeno, per il presente e nel futuro di tutti.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 21 settembre 2020

 

 

 

 

 

 

 

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ROTH

JOSEPH ROTH, LA TELA DEL RAGNO – PASSIGLI, FIRENZE 2020

Alla sua prima prova narrativa di grande respiro, rimasta incompiuta, Joseph Roth (1894-1939) seppe imprimere una forza descrittiva e insieme profetica, con stile asciutto e incisivo, di assoluto rilievo. La tela del ragno, apparso a puntate nel 1923 sull’ “Arbeiter-Zeitung“, è stato pubblicato per la prima volta in Italia nel 1975 da Bompiani, e ora viene riproposto dall’editore Passigli, insieme ad altri volumi dello scrittore austriaco. Si è parlato di quest’opera in termini di profezia, perché sembra preconizzare gli orrori e il fanatismo del nazismo, nella descrizione dell’atmosfera violenta e ottusa della Repubblica di Weimar, in cui si muovono personaggi ambiziosi e crudeli, pronti a qualsiasi abiezione pur di raggiungere e mantenere il potere.

Il protagonista è Theodor Lhose, giovane sottotenente dell’esercito tedesco durante la Prima Guerra Mondiale. Di origine modesta, umiliato sia nell’ambiente familiare sia in quello lavorativo, si prefigge di ottenere successo, ricchezza e gloria con ogni mezzo possibile, anche abdicando alla propria dignità di uomo. Lasciato l’esercito, che gli garantiva riconoscibilità e considerazione, Theodor si riduce a fare il precettore in una ricca famiglia ebrea, covando in sé sentimenti di rancorosa invidia nei confronti del padrone di casa, e di morbosa attrazione per la raffinata moglie di lui. Animato da “un’ambizione eternamente viva e tormentosa”, arriva a concedersi sessualmente alle personalità più in vista dell’esercito e del regno, entra a far parte di un’organizzazione segreta, cambia nome, ruba, uccide, tradisce amicizie e ideali, assecondando il suo delirio di onnipotenza: “Io infrango il tempo in cui sono prigioniero, il carcere buio di quest’esistenza, scuoto via l’opprimente giogo dei miei giorni e salgo, sfondo porte che sono state chiuse, io, Theodor Lohse, uomo in pericolo, ma un pericolo io stesso, ben più di un sottotenente, più di un vincitore sul cavallo che trotta in mezzo alla folla acclamante, io, forse il salvatore della patria. Di questi tempi solo chi osa vince”.

I personaggi di cui si circonda, (il Principe Heinrich, il detective Klitsche, il dottor Trebitsch, la spia russa Benjamin Lenz) sono, se possibile, ancora più abietti di lui: ma abilmente Theodor se ne serve, annodando fili invisibili, e costruendo la sua tela di ragno per irretire vittime predestinate. Comunisti ed ebrei, soprattutto, verso cui nutre un odio viscerale. Finge di partecipare a complotti e attentati per poi denunciare i congiurati, stringe false amicizie per introdursi in ambienti politicamente eversivi, scrive articoli e organizza conferenze vagheggiando di guidare un potente partito nazionalista e antisemita, piccolo e misero emulo del Führer. Messosi a capo di un gruppo armato di giovani fanatici, li guida in una strage di braccianti polacchi in sciopero, sempre con l’obiettivo esplicito di rendersi gradito al nascente regime nazista. Nel giro di pochi mesi riesce a diventare uomo di spicco del Reich, guida l’assalto al quartiere ebreo di Berlino, viene nominato capo della sicurezza nazionale. Si sposa con un matrimonio sfarzoso, si arricchisce, viene celebrato dalla folla e dalla stampa. Tuttavia, poiché il male alla lunga si condanna da solo, Theodor Lohse finisce preda della propria paranoia, circondato da nemici concreti e immaginari.

Il giudizio di Joseph Roth sul suo protagonista è severo e definitivo: “La via che seguiva scendeva pendii e traversava bassure… Theodor: l’essere vile e crudele, ottuso e insidioso, ambizioso e inadeguato, avido di denaro e volubile, l’uomo medio, empio, superbo e servile, il calpestato, l’inappagato…senza fede, senza fedeltà, assetato di sangue e limitato d’ingegno”, mediocre rappresentante della follia che stava invadendo l’Europa. L’ultima puntata del romanzo, rimasto incompiuto, fu pubblicata proprio due giorni prima del putsch di Monaco di Hitler, di cui profeticamente aveva raccontato la minacciosa preparazione.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › La-tela-del-ragno-Roth      17 marzo 2021

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ROTH

JOSEPH ROTH, HOTEL SAVOY – PASSIGLI, FIRENZE 2020

Ho voluto riprendere in questi giorni la lettura dei romanzi di Joseph Roth, che mi avevano incuriosito e coinvolto più di trent’anni fa, con il proposito di dedicarmici fino all’estate, proprio per verificare se l’impressione positiva di allora permaneva anche dopo tanto tempo, successivi approfondimenti letterari, e l’inevitabile affinamento o, al contrario, inaridimento emotivo. Prendendo spunto dalla recente riproposta delle edizioni Passigli, ho iniziato il mio percorso rothiano da un romanzo che mi aveva colpito per il suo disegno caleidoscopico, un vero e proprio microcosmo di caratteri particolari: Hotel Savoy. Di un altro libro di poco successivo, Fuga senza fine, si stagliava ancora nella mia memoria la sagoma del protagonista, il tenente dell’esercito austriaco Franz Tunda, uomo futile e inane, che la lapidaria frase conclusiva condannava a un inesorabile fallimento: “Superfluo come lui non c’era nessuno al mondo”.

Di Hotel Savoy, invece, non ricordavo tanto la figura del personaggio principale, quanto la struttura rutilante dell’affresco. Apparso per la prima volta nel 1924, è la seconda prova narrativa di Roth e segna già il suo approdo a una piena maturità stilistica. Narra le vicende del giovane reduce Gabriel Dan, che dopo essere stato prigioniero e aver vagato nella Russia rivoluzionaria per tre anni, arriva in una cittadina dell’Impero asburgico, Lodz – oggi polacca – dove vivono alcuni membri della sua famiglia di origine ebraica. Si presenta, sporco e denutrito, alla reception del raffinato e austero Hotel Savoy, un edificio di sette piani, chiedendo di occupare una stanza, “Sono contento di togliermi di dosso una vecchia vita, come ho già fatto tante volte in questi anni. Vedo il soldato, l’omicida, il quasi ucciso, il risorto, l’incatenato, il viandante”.

Gli assegnano una stanza al sesto piano, e da subito comprende che il livello dei piani corrisponde al ruolo sociale ed economico degli ospiti. In basso la clientela più ricca e rispettabile, in alto i più poveri e screditati. Il proprietario dell’albergo è Kaleguropulos, un misterioso signore greco che sorveglia dal suo ufficio gli affari e il comportamento di tutti, senza mai farsi vedere, circondato da una fama di terribile severità. Factotum e addetto all’ascensore è il vecchio Ignatz, individuo losco e ambiguo, che ricatta gli ospiti debitori spogliandoli dei loro miseri averi in cambio di prestiti e dilazioni sul conto mensile. Intorno tutto un brulicare di esistenze e figuranti incredibili: ballerine, clown, ipnotizzatori, caricaturisti, ma anche medici, notai e affaristi, tutti “trattenuti da qualche sfortuna”, accomunati da un destino di sofferenza e umiliazione, con vite spezzate dalla guerra, fallimenti economici, malattie e voglia rabbiosa di riscatto.

Tra loro, Phöbus Böhlaug, lo zio di Gabriel ricco e avaro che gli rifiuta qualsiasi appoggio, con atteggiamenti di farisaico paternalismo, e il figlio di lui Alexander, vanesio e libertino, pago di umiliare gli altri vantando le sue conquiste sentimentali e finanziarie. Poi alcuni equivoci industriali e commercianti che la sera si riuniscono in una saletta sotterranea dell’albergo a bere e a godersi le esibizioni di spogliarelliste. E il plutocrate Bloomfield, tornato dall’America per rivedere la città natale e visitare la tomba del padre, ormai del tutto indifferente alle sorti politiche dell’Europa.

Esiste infine il sostanzioso gruppo dei falliti infelici, tra cui spicca la giovane e delicata Stasia, artista in varietà di terz’ordine, di cui il protagonista si innamora senza trovare mai il coraggio di dichiararsi. Il vecchio e mite pagliaccio Vladimir Sancin, che muore di tisi e viene sepolto in una fossa comune, accompagnato dal fedele asino con cui si esibiva negli avanspettacoli. Hirsch Fisch, che avendo perso il suo patrimonio, vende i numeri del lotto sognati di notte, e gira nei corridoi in mutande con il pitale in mano in cerca del gabinetto. L’amico croato Zvonimir, compagno d’armi di Gabriel Dan e come lui reduce dalla Russia, coraggioso fomentatore di scioperi e ribellioni sindacali. Intorno a questa variopinta umanità di senza Dio e senza patria, gravitante nell’albergo, cresce lo scontento e il rancore degli esclusi, dei disoccupati, degli emigrati dall’est, degli ex-combattenti, che infine esplode in una rivolta sanguinosa, culminata nell’incendio e nel successivo saccheggio del Savoy, simbolo di un mondo in disfacimento.

Joseph Roth (Brody 1894 – Parigi 1939) non è certo Thomas Mann, non è Schnitzler o Musil o Broch: non eccelle quanto i maestri novecenteschi della narrativa germanica, pur respirando la stessa atmosfera malinconica della finis Austriae. Forte della sua sofferta esperienza esistenziale (esule dalla nativa Galizia a Leopoli, da Vienna a Berlino, da Francoforte a Parigi; volontario nella prima guerra mondiale e prigioniero in Russia; affascinato sia dall’ideale monarchico sia da quello rivoluzionario; fiero delle radici ebraiche eppure fedele al messaggio evangelico), il mondo che amava ritrarre non è quello intellettuale e alto-borghese celebrato dai massimi letterati di lingua tedesca. Giornalista curioso e polemico, inquieto viaggiatore, incostante negli amori e nelle amicizie, tormentato dalle malattie mentali dei parenti, irrecuperabile alcolista, finì i suoi giorni a Parigi nell’ospizio dei poveri, in preda a una crisi di delirium tremens. Quello era il suo mondo, descritto con onestà e pudore in tutti i romanzi maggiori (La marcia di Radetzky, La cripta dei cappuccini, Giobbe, La leggenda del santo bevitore): le periferie delle grandi città europee e i villaggi orientali ebraici, le basiliche gotiche e le sinagoghe, le bettole e palazzi imperiali. I suoi affreschi narrativi hanno tratti corali e fiabeschi, sarcastici e disperati; i suoi personaggi sono criminali e santi, gran dame e prostitute, usurai e banchieri: tutti umanamente dolenti, sopraffatti da un destino di morte e sofferenza. Come scrive in un’appassionata pagina di Hotel Savoy: “Stanno male gli uomini, il dolore si erge di fronte e loro come una grande muraglia. Se ne stanno avviluppati nel grigiore polveroso dei loro affanni e si dibattono come mosche prigioniere”.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 7 aprile 2021

 

 

RECENSIONI

ROTH

JOSEPH ROTH, LA CRIPTA DEI CAPPUCCINI – GARZANTI, MILANO 2022

La cripta dei cappuccini, uno dei romanzi più (giustamente) famosi di Joseph Roth (1894-1939), fu pubblicato nel 1938, anno dell’Anschluss dell’Austria alla Germania. Insieme all’altrettanto noto La marcia di Radetzky, appartiene al filone “imperiale” della narrativa rothiana, che dalla metà Ottocento attraversa tutta la fin de siècle e la prima guerra mondiale, arrivando all’invasione hitleriana. Ottant’anni di storia europea descritti attraverso i destini individuali dei membri di una nobile e ricca famiglia, i Von Trotta. Uno dei suoi avi, sottotenente di fanteria di origine slovena, aveva ricevuto il titolo di barone e la promozione a capitano durante la battaglia di Solferino (1859), in cui era rimasto ferito facendo scudo col suo corpo al giovane imperatore Francesco Giuseppe. Il titolo nobiliare era rimasto ai Trotta come segno distintivo di prestigio, eccellenza e dignità, di cui si fregiava anche il protagonista e voce narrante del romanzo, il ventitreenne Franz Ferdinand. Figlio unico di madre vedova, il rampollo dei Trotta godeva della sua privilegiata esistenza in un sontuoso palazzo del centro di Vienna: “Ero giovane e sciocco, per non dire sconsiderato. Frivolo, in ogni caso. Vivevo allora per così dire alla giornata. No! Non è esatto: io vivevo alla nottata; di giorno dormivo”. Frequentava il bel mondo della capitale, caffè, teatri, gallerie, dame eleganti e avventuriere, accompagnandosi a una cerchia di coetanei aristocratici: “Ne condividevo la scettica leggerezza, la malinconica presunzione, la colpevole ignavia, l’arrogante dissipazione, tutti sintomi della rovina, di cui non intuivamo l’approssimarsi”.

L’inaspettato incontro con il cugino sloveno Joseph Branco, contadino e caldarrostaio, produce in lui una svolta improvvisa: attratto dal comportamento genuino, grezzo ma esuberante del parente appena ritrovato, Franz Ferdinand mette in discussione il proprio stile di vita artificioso e improduttivo: deciso a sperimentare un’esistenza più autentica, lascia la capitale per trasferirsi in Galizia, ospite di un semplice vetturino ebreo, Manes Reisiger. Lo scoppio della guerra lo sorprende in uno sperduto villaggio orientale, convincendolo a lasciare il reparto del Ventunesimo Dragoni presso cui era alfiere della riserva, insieme ai raffinati amici dell’aristocrazia viennese, per arruolarsi nel più ordinario e plebeo reggimento della milizia territoriale in cui militano i nuovi compagni: “Volevo morire insieme con mio cugino Joseph Branco, il caldarrostaio, e con Manes Reisiger, il vetturino di Zlotogrod, e non con dei ballerini di valzer”, convinto che “una morte assurda era preferibile a una vita assurda”. Prende quindi congedo dall’alta società viennese e dalla severa madre, redige il testamento e decide senza alcun indugio di sposare la fidanzata Elizabeth, con cui tuttavia per una serie di contrattempi non riesce a trascorrere nemmeno la prima notte di nozze. Subito spedito al fronte, nel corso di una sanguinosa battaglia contro l’esercito russo viene fatto prigioniero, portato in Siberia insieme agli altri due commilitoni, e lì rimane per quattro anni.

Definisce la guerra “mondiale non già perché l’ha combattuta tutto il mondo, ma perché tutti noi, in seguito ad essa, abbiamo perduto un mondo, il nostro mondo”. Distrutto nel morale e nella voglia di tornare a vivere, quando finalmente torna a casa trova la giovane sposa completamente trasformata, in totale dipendenza sentimentale, sessuale e culturale da un’artista ungherese che l’ha convinta ad aderire a iniziative sperimentali di artigianato applicato. L’incontro commovente con la vecchia madre, ormai sorda e malata, visibilmente estranea alla storia collettiva e però esperta di cose umane, lo aiuta a riscoprirsi figlio, più che marito e in seguito involontario padre.

La generazione di Franz Ferdinand, votata alla morte ma sdegnata dalla morte, assuefatta alla disperazione, era stata capace di sopportare meglio la sciagura devastatrice del conflitto rispetto agli affanni e alle disgrazie particolari. Risucchiato nell’abisso dei debiti creati dall’attività della moglie e della sua amica, il barone Von Trotta è costretto a trasformare il suo palazzo in una pensione per una decina di pigionanti impoveriti e rancorosi. La sua disfatta umana è racchiusa tutta tra l’incipit e la frase conclusiva del romanzo, tra l’altera asserzione iniziale e la sconfortata ammissione finale: “Il nostro nome è Trotta”, “Dove devo andare, ora, io, un Trotta?”

La  sensibilità cristiano-ebraica attenta alla situazione degli umili e degli sconfitti di Joseph Roth, così perspicace ne cogliere la psicologia dei personaggi e profonda nelle intuizioni etiche e sociali, il suo stile conciso e puntuale, originalmente creativo nelle metafore (il solitario lampione diventa un orfano lacrimevole, l’abete una vedova livida, la piccola stazione un gatto pigro sdraiato sulla neve…) e poetico nella descrizione intenerita della natura e degli sfondi urbani, fanno di questo romanzo non solo una fondamentale testimonianza storica della dissoluzione dell’Impero austroungarico, ma soprattutto un gioiello della narrativa europea del ’900.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 16 maggio 2022

 

 

 

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ROVELLI

CARLO ROVELLI, SETTE BREVI LEZIONI DI FISICA – ADELPHI, 2015

Sette lezioni scritte con eleganza e chiarezza, che il fisico Carlo Rovelli propone ai lettori come introduzione ai più dibattuti problemi scientifici della nostra contemporaneità. Pagine che spaziano dalla relatività einsteiniana (“la più bella delle teorie… una gemma compatta”) allo “strano profumo di incomprensibilità e di mistero” della meccanica quantistica, dalla descrizione dell’architettura cosmica al pullulare effimero delle particelle elementari. Caso e necessità, tempo e spazio, libero arbitrio e determinismo, Big Bang e Big Bounce: ipotesi e conclusioni che si contraddicono, analisi di laboratorio e osservazioni astronomiche che si sconfessano a vicenda. Quasi volessero ribadire che in quello che vediamo e crediamo di sapere non c’è nulla di certo e definitivo, ma dobbiamo “cambiare gradualmente la nostra struttura concettuale, e adattarla a ciò che impariamo”. Perché “siamo fatti degli stessi atomi e degli stessi segnali di luce che si scambiano i pini sulle montagne e le stelle nelle galassie… nasciamo e moriamo come nascono e muoiono le stelle, sia individualmente che collettivamente”: siamo una specie tra miliardi di altre specie, ma forse l’unica consapevole dell’inevitabilità della propria fine. Questa certezza ci umilia e ci esalta. La grandezza del pensiero scientifico sta proprio nella sua irriducibile capacità di esplorarsi, di sviluppare idee, mettendole a confronto tra di loro, provandole o negandole continuamente. Cosa che le religioni non sanno fare, arroccate su dogmi indimostrabili, obsoleti o addirittura ridicoli. Einstein non lanciava anatemi, non innalzava roghi, non metteva all’indice: “Il genio esita… Fino all’ultimo, il dubbio”.

IBS, 24 febbraio 2015

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ROVELLI

MARCO ROVELLI, L’ASSEDIO – FELTRINELLI, MILANO 2012 (e-book)

La storia raccontata da Marco Rovelli nell’e-book L’assedio si svolge a Pianura, Napoli, nel 2008, ed è “una storia normale di razzismo e cemento”. A Pianura, un losco intreccio di interessi politici, imprenditoriali e camorristici, ha trasformato il paese in un agglomerato di edifici abusivi, alveari in cui vivono stipati in stanze prive di servizi rifugiati, richiedenti asilo e clandestini, provenienti per lo più dall’Africa centrale.

Il protagonista del racconto è originario del Burkina Faso, e abita in uno dei quarantotto appartamenti di un casermone che il Comune aveva destinato ai terremotati dell’80, in una strada che per tragica ironia si chiama Via dell’Avvenire.
I terreni intorno sono adibiti a discariche dei rifiuti industriali e dei fanghi tossici trasportati dal Nord, che hanno contaminato le falde acquifere, producendo radioattività e odori infernali; le corti rurali abbandonate della zona ospitano masserizie marcite, elettrodomestici vecchi e inutilizzabili, rovi, siringhe, rifiuti di ogni genere.
Qui si accampano immigrati irregolari, spesso sfuggiti ai pogrom razzisti che hanno incendiato le loro baracche nelle regioni limitrofe, e a uno scriteriato sfruttamento di lavoro bestiale nelle campagne.
La manovalanza stagionale dei neri lavora nei cantieri edilizi, o alla raccolta di frutta e ortaggi, con i trasferimenti obbligati in Calabria per le arance e in Puglia per i pomodori.

Marco Rovelli cita coraggiosamente nomi e cognomi di famiglie camorriste che si spartiscono i guadagni ricavati sia dagli affitti sia dai traffici di droga, trasporti e bracciantato; nomina anche i consiglieri comunali di Forza Nuova che in continuazione minacciano rappresaglie, alludendo a loro oscure collusioni con le forze dell’ordine. Ricostruisce inoltre la politica migratoria all’interno del Burkina Faso e della Costa d’Avorio, che ha costretto migliaia di africani a valicare confini in cerca di un futuro migliore, spingendoli poi verso l’Europa, sempre e comunque destinati a un’esistenza ai margini, priva di qualsiasi possibilità di riscatto.
Disperazione, violenza, immobilismo politico, pregiudizi, disagio sociale, interessi finanziari delinquenziali: un circolo vizioso che da decenni costringe il sud del mondo a un impoverimento culturale ed economico cui l’occidente evoluto non sa o non vuole porre rimedio. Con i molti milioni promessi per la riqualificazione edilizia, Via dell’Avvenire diventa oggetto del desiderio di costruttori campani senza scrupoli, per cui il problema maggiore sembra essere lo sgombero immediato degli appartamenti occupati dai neri. La soluzione più sbrigativa potrebbe ovviamente essere quella dell’incendio, scoppiato ufficialmente per motivi casuali, in realtà programmato e doloso, come era avvenuto in molte altre località.
Le ultime pagine dell’e-book descrivono la strumentalizzazione politica della destra che cavalca il malcontento e le paure della popolazione locale, il disprezzo sfociante in violenze continue, in danneggiamenti di oggetti, in barricate, pestaggi, ingiurie e addirittura tentativi di linciaggio verso gli immigrati: che a loro volta reagiscono con ribellione e proteste, pretendendo protezione da parte della polizia, circondati dall’odio e dalla manifestazioni di ostilità che travalicano il lecito. La situazione degenera, si aprono inchieste, un assessore di Pianura si suicida, altri vengono arrestati, in un clima di intolleranza e faziosità sempre più pesante. La scrittura di Marco Rovelli, passando dalla narrazione letteraria al resoconto di cronaca, si fa più concitata e impressionistica, rivolta a un “tu” diretto personalmente al protagonista vittima dell’assedio, che alla fine del racconto cede alla pressione, abbandonando il paese senza nessuna garanzia di salvezza.

© Riproduzione riservata    

https://www.sololibri.net/L-assedio-Rovelli.html                  31 agosto 2018

RECENSIONI

ROVERSI

ROBERTO ROVERSI, TRENTA MISERIE D’ITALIA – SIGISMUNDUS, ASCOLI PICENO 2011

Ci ritroviamo spesso coinvolti in miti e riti letterari celebranti soprattutto l’effimero, la leggerezza, il gioco linguistico: per questo una personalità di intellettuale militante quale è stato Roberto Roversi (Bologna, 1923-2012) può risultare ai più anacronistica, quando non addirittura pedantescamente didascalica.
Roversi è rimasto fedele, nella sua lunga e coerente esistenza, a un ideale di impegno etico e culturale che lo ha reso pressoché unico nel panorama delle nostre lettere.
Partigiano a vent’anni sulle montagne piemontesi, poi libraio antiquario nella sua città emiliana per più di mezzo secolo, fondatore e animatore di riviste importanti quali Officina e Rendiconti, Roversi fu poeta, critico, politico, giornalista, autore di testi di canzoni per Lucio Dalla e per gli Stadio (sue le notissime Nuvolari e Chiedi chi erano i Beatles). Pubblicò una serie notevole di libri e plaquette, schierandosi coraggiosamente contro i colossi dell’industria editoriale, con la scelta anticonformista di stampare le sue poesie in fotocopie e ciclostilati da distribuire gratuitamente, oppure attraverso i canali dell’editoria alternativa.

Il 2 giugno 2011, in occasione della Festa della Repubblica, presso la piccola casa editrice marchigiana Sigimundus è uscita la quarta parte del suo poema L’Italia sepolta sotto la neve, intitolata Trenta miserie d’Italia.
Si tratta di un poemetto in versi liberi, suddiviso in trenta sezioni, in cui l’autore esprime indignazione e dolore per lo stato attuale in cui versa l’Italia, sia in ambito politico sia in quello civile. Partendo ironicamente dallo stereotipo che decanta il nostro paese come sede di bellezze naturali e artistiche inestimabili, subito arriva alla constatazione malinconica di un presente miserevole e stigmatizzabile: «Oggi Italia è al fioco bagliore di disperse candele / piagnucolosa statua di marmo scapotizzato. /… L’Italia non esiste più l’Italia si è perduta / mucchio di carbone appena spento fra due pietre / verza strappata dal becco dei passeri vaganti / mare con ossa di delfini disseccati / certosa di vecchi scheletri cappuccini / frana scrollata dalle cime acuite di monti vicini / dentro al mare Tirreno solcato da velieri fantasmi».

A questa visione umiliante di un paese corrotto e incapace di risorgere, Roberto Roversi oppone il ricordo nostalgico della lotta partigiana e dell’impegno postbellico che lo vide protagonista entusiasta e ribelle: «Italia numero uno Italia numero trenta io c’ero. / Su montagne ferite dalla violenza del mondo / su piazze inzeppate di pietre / urlanti vendetta e canzoni / io c’ero».

Quale può essere, allora, il dovere di un intellettuale, davanti agli scandali quotidiani, alle ruberie e ai trasformismi, agli attentati, alla mafia che nemmeno eroi come Falcone e Borsellino riuscirono a vincere, al colpevole disinteresse di chi favorisce l’incuria, la cementificazione, l’inquinamento che ammorba le nostre terre? Quale il dovere del cittadino comune, oscillante tra indignazione e attesa? «Parlare continuare a parlare senza sapere come parlare / scrivere continuare a scrivere senza sapere come scrivere / pensare continuare a pensare non sapendo cosa pensare e / continuare a voler sapere senza sapere che cosa sapere».

Paralizzati dentro muri di paura e indifferenza, di incertezza e viltà, l’unica strada percorribile sembra essere il rifluire nel privato, o il rituffarsi nel «mare del ricordo» che «non ha confine mai». Nello stile quasi declamatorio tipico della poesia civile, punteggiando il tono epico e risentito dei suoi versi con inserzioni prosastiche tratte dalla stampa giornalistica o con affermazioni proverbiali e luoghi comuni, utilizzando metafore rapinose, Roberto Roversi a quasi novant’anni («ho / Italia ottantotto vipere fra i capelli») incitava ancora alla ribellione, alla non rassegnazione: «Fuoco di parole / e guerra sia». Pur consapevole che il nostro è un «Giardino dei ciliegi / diventato foresta frequentata da nani», senza più il conforto di lucidi e coraggiosi intermediari (quali Sciascia, Calvino, Pasolini, Fortini, Volponi, Vittorini), Roversi si è addormentato cinque anni fa con una flebile speranza, e una domanda rivolta all’Italia ormai orfana di illusioni: «Chi vincerà le tue battaglie? / Ancora una volta per te? / Il futuro ti aspetta…».

 

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www.sololibri.net/Trenta-miserie-Italia-Roversi.html        21 giugno 2016

RECENSIONI

RUCHAT

ANNA RUCHAT, IL MALINTESO – IBIS, COMO 2012

Anna Ruchat, traduttrice dal tedesco e scrittrice, in questo libriccino di intensa partecipazione civile, scritto tuttavia con uno stile secco e lontano da qualsiasi sbavatura emotiva, narra le vicende di un gruppo di persone rom e rumene ammassate nella fabbrica dismessa della Snia Viscosa a Pavia. Accostatasi a questa realtà di degrado e umiliazione all’inizio del 2007, insieme a qualche volontario della Caritas per portare cibo e vestiti a donne e uomini dimenticati da Dio e dal mondo, si ritrova da subito coinvolta nelle loro esistenze, partecipe con indignazione alle loro sofferenze, e testimone impotente dell’indifferenza «della classe politica affarista e provinciale che governa la città». Frequenta le famiglie disperate e abbrutite dei rom, parla soprattutto con le donne, umiliate da aborti, gravidanze precoci, violenze e prostituzione; con i bambini e i giovani, costretti a rubare o a elemosinare, a difendersi dalle persecuzioni razziste esterne e dalle rivalità familiari nel campo, e a lottare per cercare vanamente un’integrazione scolastica o lavorativa sempre rifiutata. Testimonia sgomenta la condizione di assoluto degrado in cui queste persone trascorrono le loro giornate, tormentate da freddo, assalite da torme di topi voraci, continuamente in balia di sporcizia, alcol, infezioni e malattie. Alla fine la sconfitta arriva per tutti, quando la Snia viene sgomberata e abbattuta, e il popolo dei rom disperso: «Li portano in giro di notte, sugli autobus, come scorie radioattive…». Ad Anna Ruchat resta il rimpianto di non essere riuscita a opporsi alla cecità egoista dello stesso suo mondo borghese e intellettuale: «La verità è però che non reggo più a tutto quel mare di sofferenza, la mia impotenza mi mortifica…». Riesce tuttavia a fare qualcosa di fondamentale, traducendo e facendo pubblicare le poesie della regina degli zingari Mariella Mehr, organizzando per lei una serata di successo nel teatro di Pavia, e riproducendone alcuni versi sofferti anche in questo libro: «Ride male la donna degli incubi. / E io sono ancora selvaggina di un’ipocrisia qualunque / e di una qualunque rabbia. // Allora sperate con me / tutti voi soccombenti. / Spera anche tu / mio cuore / un’ultima volta».

 

«Leggendaria» n. 104, marzo 2014

RECENSIONI

RUFFILLI

PAOLO RUFFILLI, AFFARI DI CUORE – EINAUDI, TORINO 2011

Un canzoniere d’amore, che nell’amore (nei suoi molteplici aspetti e personificazioni, nei sogni e nei desideri, negli atti concreti e nelle finzioni, nelle blandizie e negli inganni) si esaurisce del tutto, affondandovi, immergendosi forma e contenuti. Senza mai fare un nome di donna, raramente tratteggiando un carattere o raccontando un viso, una voce, un passato rimpianto o un futuro accarezzato. E si presume che le donne siano più di una: la giovane incuriosita dall’uomo maturo, la maritata stanca e delusa, la donna in carriera, la trasgressiva e l’indifferente,«un’arrivista / un po’ borghese». O forse è la stessa, ma abbozzata, mai scolpita nella sua interezza, mai offerta al lettore in un gesto che la individui per sempre. E il poeta-amante è a volte possessivo e ossessionato («Tenuta alla catena / ti voglio mia, / fedele a me / in assoluta dipendenza»), a volte traditore («E ti tradisco / per amarti, /vengo a cercarti / dentro un altro corpo / non per farti torto / e non è cosa vana»), spesso scontento, sperso, deluso («Sono stato per te / il cuscino e una coperta / la sedia e la poltrona / il freno da tirare»). In un rapporto che racconta il sesso quasi con distacco e analitica attenzione («insaziati e in preda / a una furia pura / nell’ardore / di incroci e posizioni, / tutto di tutto / tra di noi addosso / il più proibito / come il più ortodosso», «siamo squartati / l’uno nell’altra / e, nello squartamento, / più beati»), in un’approssimazione all’erotismo che parla del corpo quasi vivendolo scorporato. L’impressione che se ne ricava è quindi quella di una musicalità leggera, «da canzonetta o di aria dapontiana», come suggerisce la quarta di copertina: con un gusto spesso eccessivo del ritmo sincopato e della rima ossessiva. E nuocciono alla consistenza vera di alcune poesie (“Ardente”,”Rosaspina”) le conclusioni un po’ troppo facili e banali di altre («Ti voglio e /non mi stanco /di volerti, /e non mi /basta mai /di averti», «Non avevo mai provato/in vita mia/così tanta tenerezza/dentro la passione»).

IBS, 24 settembre 2011

RECENSIONI

RUGGIERI

ADELELMO RUGGIERI, SEMPREVIVI – PEQUOD, ANCONA 2010

Le due sezioni in cui si suddivide questo librino di versi di Adelelmo Ruggieri (1954), sembrano trascorrere l’una nell’altra senza soluzione di continuità, all’insegna di una quasi diafana lievità, che pare voler sfuggire qualsiasi materiale pesantezza: non solo gli oggetti scompaiono, in queste poesie, ma anche le persone concrete, sfumate in uno sfondo occupato quasi interamente dal paesaggio naturale. I corpi umani esistono, in realtà, ma mai caratterizzati nella loro individualità: sono gli spazzini che bevono il caffè nel bar del paese, il fornaio che pesa il pane, un “fratello che cammina incorporeo / lungo la linea passeggera delle conchiglie”. Lentissimi i movimenti della gente, come ripresi da una stanca moviola; rassegnati i gesti di chi sa di non poter incidere nella storia (e forse neppure nella cronaca); affetti familiari appena tiepidi e timorosi di eccedere (“Ti osservo di passaggio, la porta aperta / le coperte a posto, l’imposta socchiusa”; “La madre all’angolo che lava le stoviglie / Lui seduto alla finestra che guarda fuori / le rondini”; “Osservo i tuoi capelli fatti da poco / Ti dico sempre di tenerli così / Ti stanno bene in volto così / Hai fatto bene a tagliarli così”). Vietandosi anche la concisa stabilità dei punti fermi, Ruggieri offre al lettore un’immagine di sé e della sua realtà animata da sentimenti intimiditi: gentilezza e mitezza, rifiuto di qualsiasi sopraffazione (anche il trasporto amoroso soffre di un’ incertezza adolescenziale), e ricerca di una rispondenza emotiva nelle cose e nei luoghi circostanti (foglie che cadono, rubinetti che perdono, ospedali e cimiteri, camminate e nevicate). Ma in modo che qualsiasi suono arrivi attutito, ogni luce non si presenti con troppa violenza. Le soluzioni stilistiche adottate rispondono quindi a questa precisa disposizione caratteriale, di delicata cantabilità, di a volte esibita facilità: “Sei solo quando sei solo? / ora mi chiederai / Bella domanda questa / Resto immobile / Penso”.

IBS, 23 giugno 2014