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RECENSIONI

RUMI

JALÂL al-DIN RUMI, SETTECENTO SIPARI DEL CUORE – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2020

I trenta ghazal di Rumi che Ponte alle Grazie ha pubblicato con commento e traduzione di Stefano Pellò hanno il merito di correggere il radicato cliché con cui la cultura occidentale, soprattutto anglofona, continua a leggere il mistico sufi di lingua persiana, facendo di lui un edulcorato cantore dei buoni sentimenti, animato da una spiritualità annacquata e da ingenua mansuetudine, e trasformandolo così in un campione di incassi ai vertici delle classifiche letterarie mondiali.

Jalâl al-Din Mohammad nacque nel 1207 in Asia Centrale e morì nel 1273 in Asia Minore, a Konya o Iconio, dove aveva trascorso gran parte dell’esistenza. Proprio al nome della regione storica di Rum, ossia la Roma bizantina dei musulmani, si deve il toponimico Rumi con il quale è internazionalmente noto. Vissuto in un ambiente multireligioso e poliglotta, dove coesistevano e interagivano fra loro greco, turco, persiano e arabo, Rumi compose nel nativo persiano due opere principali: la grande raccolta di odi nota come Divân-e kabir (Grande canzoniere), che contiene più di cinquemila componimenti, e il lungo Poema interiore in distici rimati, di circa ventiseimila versi. Soprattutto il Divân fu ispirato dall’incontro con il derviscio itinerante e pensatore iconoclasta Shams-e Tabriz, il “Sole di Tabriz”, suo mentore spirituale e oggetto mistico d’amore e meditazione.

Al suo Maestro Rumi ha dedicato versi di grata e fervente dedizione, poiché proprio seguendo il suo insegnamento ha potuto attingere alle fondamenta della verità: “Tu sei sempre con me / tu sei i miei occhi e tu sei la mia luce: / se lo vuoi, tu conducimi all’ebbrezza, / se lo vuoi, trasfigurami nel nulla”, “Sei la vita del giorno / e della notte l’anima / e io sono l’attesa, giorno e notte”, “O splendido sole, tu squarcia un istante le nubi: / io voglio quel viso raggiante, quel chiaro bagliore”.

Il tema fondante intorno cui ruota la poesia di Rumi è l’unità dell’Essere inteso come amore, ‘eshq, forza cosmica che attira tutte le creature verso la luce, origine di ogni cosa esistente. La teologia estatica di cui è interprete e messaggero travalica qualsiasi studio, riflessione, preghiera: pura energia che inebria e innalza verso l’infinito, redime da ogni egoismo nella contemplazione della bellezza aldilà di ogni limite temporale e spaziale: “L’amore non è nel sapere e nei libri / non è nelle scienze e nei rotoli scritti / e la via degli amanti non è nei discorsi / del mondo”.

L’amore trasforma la gazzella in leone, l’aspro agrume in dolce susina, l’orzo in grano, l’agnello in lupo: lo si scopre attraverso il valore rigenerante del silenzio, che libera dalla parola vana, dalla calunnia, dalla facile distrazione, dalle scorie inutili che inquinano la coscienza: “Abbandona i discorsi, entra in casa, diventa silenzio”. Per sollevarsi dalla materialità, bisogna diradare il fumo che oscura ogni visione, aiutati dall’ammaestramento di una guida spirituale che sappia esortare con discorsi ed esempi incoraggianti: “Il tuo fango non lo devi rimestare: / soltanto così si schiarisce / quell’acqua e si monda il deposito / scuro e guarisce il tuo male”.

I versi del Divân rimarcano continuamente il desiderio di fusione con l’Assoluto, incarnato dalla perfezione del Maestro, in un ritmo ossessivo e incalzante, con la ripetizione del sintagma “Io voglio”: voglio il leone di Dio, la candida luce, l’oceano infinito, un giardino di rose, dolcezze infinite, quel viso raggiante, quell’oro, una mano capace, la luna di Canaan, montagne e deserti. E ancora ribadiscono con martellanti ritornelli la medesima dichiarazione amorosa, a metà tra la supplica e il ricatto affettivo. “Io senza te non so stare”: “Ero morto, ora vivo, / ero pianto, ora rido”. “Se sei testa, io sono i tuoi piedi, / se sei mano, io sono quel drappo / che stringi nel palmo, / se svanisci, non sono più niente: / no, io senza te non so stare. / M’hai portato via il sonno, / hai lasciato sbiadire i miei tratti, / hai voluto staccarmi da tutto: / no, io senza te non so stare”, “non so cos’è avvenuto, non so come: / nel senzacome ogni come è annegato”.

L’amato è una belva feroce, è tempesta che “strappa i settecento sipari del cuore”, incatena e travolge l’esistenza. Di fronte a tale impetuoso trasporto, tornano in mente i grandi mistici renani, Eckhart, Silesius, e san Juan de la Cruz, tutti i pazzi di Dio, gli eretici farneticanti di ebrezza. Persino i sermoni inferociti e le poesie violente di Ferdinando Tartaglia, di Padre Turoldo. Ma anche il tremore di Saffo davanti all’amata (“Sono immobile eppure / in me tutto quanto si muove”), i lirici greci che brindano alla luna, eccitati dal sapore inebriante del vino: “Vieni dunque a gioire alla taverna”.

Giustamente nella postfazione Stefano Pellò, traduttore e docente di lingua persiana all’ Università Ca’ Foscari di Venezia, definisce Rumi “autore eurasiatico e cosmopolita”. In lui troviamo echi delle Sacre Scritture, dei frammenti presocratici e dei classici latini e greci, le vibrazioni culturali dell’Oriente mediterraneo, dei dervisci islamici, dei brahmani persianizzati. In una sorta di panteismo mistico, Rumi vede nell’essere umano lo stesso respiro che anima la materia e l’infinito: “Una volta sei stato una pietra / una volta sei stato animale / e un umano vivente: tu adesso / diventa una vita”.

 

© Riproduzione riservata                   «La Poesia e lo Spirito», 15 maggio 2023

 

RECENSIONI

RUMIZ

PAOLO RUMIZ, ANNIBALE – FELTRINELLI, MILANO 2013

Paolo Rumiz non è solo un ottimo giornalista, indagatore di luoghi e di storie, e di storie che si intrecciano a luoghi: ma è anche un bravo, intrigante scrittore, e un abilissimo affabulatore. Con queste qualità ha saputo comporre un affresco descrittivo sul condottiero cartaginese Annibale, sfruttando fonti classiche (Polibio in primis) e profonde conoscenze geografiche, mitologiche, sociologiche, animato da un’indomabile passione per la ricerca e la ricostruzione di avvenimenti e personaggi pubblici e privati. Così è riuscito a seguire tutto il tragitto che nel 218 a.C. Annibale percorse, con novantamila uomini, dodicimila cavalli e decine di elefanti, per arrivare in Italia. “Cerco di immaginare questa massa in movimento, il polverone che solleva, l’odore che lascia, il rumore che fa. I bagagli, le scarpe, i vestiti, il foraggio”.

E noi lettori immaginiamo con l’autore, riflettendo sulle sue considerazioni, sui paralleli che suggerisce tra l’attualità e il passato remoto, reso infine più vicino e familiare. Nel maggio del 2007 Paolo Rumiz rimane folgorato da questo temerario e avventuroso progetto: cimentarsi con il mito di Annibale, ripercorrendo le stesse strade tortuose, attraverso montagne, corsi d’acqua e paludi; cercando di recuperare tracce ormai inesistenti, interrogando chiunque incontri (archeologi, contadini, osti, ricercatori dilettanti, professori universitari…).

Parte quindi da Cartagena, in Spagna, munito di uno zaino e qualche mappa. Attraversa la Francia meridionale, varca le Alpi, visita i luoghi delle battaglie più cruente e vittoriose del generale cartaginese, scopre che in duemila anni città e fiumi si sono spostati o sono stati cancellati, che la carneficina di Canne forse non è stata combattuta a Canne, che Annibale non è stato solo storia, ma mito, leggenda, epos, meteora incendiaria polverizzata dal suo stesso odio contro il potere imperialista e corrotto di Roma. Ci coinvolge e appassiona, insegnandoci molto.

 

© Riproduzione riservata           «sololibri», 22 settembre 2016

RECENSIONI

RUMIZ

PAOLO RUMIZ, ANNIBALE – FELTRINELLI, MILANO 2013

Paolo Rumiz non è solo un ottimo giornalista, indagatore di luoghi e di storie, e di storie che si intrecciano a luoghi: ma è anche un bravo, intrigante scrittore, e un abilissimo affabulatore. Con queste qualità ha saputo comporre un affresco descrittivo sul condottiero cartaginese Annibale, sfruttando fonti classiche (Polibio in primis) e profonde conoscenze geografiche, mitologiche, sociologiche, animato da un’indomabile passione per la ricerca e la ricostruzione di avvenimenti e personaggi pubblici e privati. Così è riuscito a seguire tutto il tragitto che nel 218 a.C. Annibale percorse, con novantamila uomini, dodicimila cavalli e decine di elefanti, per arrivare in Italia. “Cerco di immaginare questa massa in movimento, il polverone che solleva, l’odore che lascia, il rumore che fa. I bagagli, le scarpe, i vestiti, il foraggio”. E noi lettori immaginiamo con l’autore, riflettendo sulle sue considerazioni, sui paralleli che suggerisce tra l’attualità e il passato remoto, reso infine più vicino e familiare. Nel maggio del 2007 Rumiz rimane folgorato da questo temerario e avventuroso progetto: cimentarsi con il mito di Annibale, ripercorrendo le stesse strade tortuose, attraverso montagne, corsi d’acqua e paludi; cercando di recuperare tracce ormai inesistenti, interrogando chiunque incontri (archeologi, contadini, osti, ricercatori dilettanti, professori universitari…). Parte quindi da Cartagena, in Spagna, munito di uno zaino e qualche mappa. Attraversa la Francia meridionale, varca le Alpi, visita i luoghi delle battaglie più cruente e vittoriose del generale cartaginese, scopre che in duemila anni città e fiumi si sono spostati o sono stati cancellati, che la carneficina di Canne forse non è stata combattuta a Canne, che Annibale non è stato solo storia, ma mito, leggenda, epos, meteora incendiaria polverizzata dal suo stesso odio contro il potere imperialista e corrotto di Roma. Ci coinvolge e appassiona, insegnandoci tante cose.

IBS, 7 settembre 2014

RECENSIONI

RUMIZ

PAOLO RUMIZ, VERRANNO DI NOTTE – FELTRINELLI, MILANO 2024, p. 196

 

Con Verranno di notte, il più recente volume di una quadrilogia dedicata all’Europa, Paolo Rumiz (Trieste 1947), firma un pamphlet amaro e allarmante sulla situazione di stallo politico e morale in cui versa il nostro continente.

Nella sua casa di campagna sul confine giuliano, seduto accanto alla stufa in compagnia della sua gatta, Rumiz trascorre un’intera notte insonne a registrare le sue riflessioni su un’altra buia notte che minaccia di avvolgere il mondo. Ripassa mentalmente le memorie di una vita impegnata a raccogliere testimonianze, a mappare luoghi disagiati e dimenticati, paesaggi incantevoli deturpati dall’incuria e dall’abusivismo edilizio, esplorando vette e sottosuolo, descrivendo spiagge e vulcani, periferie e metropoli, incontrando segretari di stato, cardinali, magnati dell’industria e profughi accampati in scandalosi centri di raccolta.

Il suo rabbioso grido di rivolta è un richiamo forte alla mobilitazione democratica, in un’Europa che considera ormai eversivo difendere i principi fondanti della propria Costituzione, e si trova messa alle corde da indebitamento economico, spese militari, corruzione, disinformazione, privatizzazioni nel settore pubblico, muri reticolati e trincee a difesa degli egoismi nazionali: “Un’Europa gestita da antieuropei. Un’accozzaglia di sovranismi destinata a implodere e affondare l’Unione… una serra riscaldata”.

Le previsioni di Rumiz sul futuro del nostro continente sono fosche: “Temo che un’Europa disunita, e per di più senza figli, si ridurrà a casa di riposo, infernale gerontocomio, vascello fantasma alla deriva, di cui i poteri forti faranno un sol boccone”. Altrettanto feroce è il suo giudizio sul passato dei singoli Stati europei, con il colonialismo e le stragi perpetrate nei confronti dell’Africa.

Il parallelo che l’autore suggerisce con il 1914 e lo scoppio della prima guerra mondiale viene ribadito in maniera inquietante, già partendo dall’orgogliosa rivendicazione del ruolo rivestito dalla sua Trieste all’inizio del XX secolo, linea di demarcazione a ridosso dei Balcani, crocevia di culture, popoli e religioni diverse, fulcro dell’Impero Austro-Ungarico deputato a fare da cuscinetto a due mondi contrapposti, ambita testa di ponte per la penetrazione di potenze straniere nel Mediterraneo. Cittadino di frontiera, ripercorre la traumatica esperienza dello scoppio della guerra nei Balcani, vissuto in prima persona nell’aprile del ’92 a Sarajevo. Anche allora “ingenuità e candore” avevano impedito ai bosniaci di avvertire il subdolo avanzare del male, che sempre “trova il suo miglior nascondiglio proprio tra gli uomini di buona volontà”. Ugualmente oggi gli europei camminano sull’orlo di un abisso, sottovalutando colpevolmente l’inevitabile catastrofe futura.

Rumiz vede crescere una destra portatrice di un fascismo nuovo, che rumina “complottismo, negazionismo, vittimismo”, privo di ideologia ma affamato di supremazia, ben inserito nei meccanismi del potere pur parlando col linguaggio di chi è fuori dal potere. Una destra in grado di utilizzare la rete per amplificare e veicolare il malcontento popolare, indirizzandolo verso obiettivi antidemocratici e demonizzando il dissenso. L’autore considera la rete un “uragano mediatico eversivo… una macchina che rimbecillisce, divide la società, cavalca il peggio di noi e uccide il ragionamento col virus di un pensiero bipolare manicheo, partorito da algoritmi cinesi o americani”. Sarcastico è il ritratto che Rumiz fa di tre donne ai vertici della politica conservatrice europea: una Marine Le Pen moderatamente acrobatica, un’algida Ursula von der Leyen legata alle corporazioni agroindustriali e una Meloni-Lupa romana, che voracemente divora ministeri, musei, televisioni, parchi naturali.

Alla destra che avanza pericolosamente ovunque, si contrappone vanamente una sinistra curiale dalle idee confuse, bloccata nell’inerzia, incapace di proporre alternative credibili e di agire di conseguenza: soprattutto riguardo al problema urgente dell’immigrazione, completamente demandato ai metodi repressivi dei conservatori e dei reazionari, i quali soffiano sul fuoco del più facile razzismo. Così osserviamo impotenti, senza riuscire a regolamentare i sistemi di accoglienza, a un odio etnico diffuso, all’approvazione di leggi liberticide, alla costruzione di disumani campi di prigionia e all’occultamento di fosse comuni, mentre migliaia di migranti annegano nei nostri mari, e i richiedenti asilo vengono arrestati e deportati su voli charter verso destinazioni sconosciute.

Gran parte dei cittadini europei esprime ormai un evidente malessere nei confronti degli immigrati che vivono di sussidi statali, o non lavorano e delinquono, diventando terreno di conquista per le mafie in cerca di spacciatori o di manodopera a basso costo.

Esiste oggi un pericolo concreto di guerre combattute con armi atomiche, di nuovi tracolli finanziari, di persecuzioni contro gli oppositori politici, di perquisizioni e indagini lesive delle libertà individuali.

Eppure, in questo panorama sconfortante, in cui non si delinea nessuna univoca proposta nemmeno riguardo ai conflitti in corso, tra Russia e Ucraina, tra Israele e Palestina, appaiono qua e là i riflessi di incoraggianti punti luce, innestati da pacifisti, obiettori di coscienza, giovani che manifestano per la pace e l’ambiente: “segnali deboli” che anticipano un cambio di tendenza, da appoggiare con convinzione e passione in difesa delle democrazie europee.

Paolo Rumiz lo fa instancabilmente con l’impegno e gli strumenti che gli sono propri: “Quelli come me non hanno che parole da offrire. Ma le parole non sono poco, in questo sconfortante silenzio… Se la barbarie dilaga, quanto più importante è coltivare piccoli orti in cui le parole si salvano dalla distruzione”.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 26 maggio 2024

RECENSIONI

SACERDOTI

GILBERTO SACERDOTI, PELTRO E ARGENTO – MOLESINI, VENEZIA 2023

L’intensa postfazione di Bianca Tarozzi a Gilberto Sacerdoti (come lei anglista di fama, traduttore di Shakespeare, Thomas Hardy e Seamus Heaney) e al suo libro Peltro e argento, antologia poetica pubblicata quest’anno dall’editore veneziano Molesini, fornisce al lettore alcune chiavi di lettura importanti per penetrare i vari e stratificati caratteri della raccolta. Un’attenzione meditata alla natura (acqua e cielo, in primis), ai fenomeni meteorologici (pioggia), ai colori in tutte le loro sfumature, segna la “complessità espressiva e di pensiero” di questo autore dalla “vocazione metafisica” e dall’ “anima musicale”.

Gilberto Sacerdoti (Padova 1952), già docente di letteratura inglese a Roma Tre, ha pubblicato tra il 1978 e il 2001 tre importanti libri di versi, da cui sono tratte alcune poesie inserite nel volume di cui ci occupiamo, insieme ad altre composizioni inedite. La poesia che apre il libro (tratta da Fabbrica minima e minore) è assolutamente esemplificativa della tecnica compositrice del poeta, non solo per l’accuratezza descrittiva, ma proprio per l’accorta sensibilità al suono. Musicalità raggiunta metricamente sia con l’alternarsi armonioso di endecasillabi e decasillabi, sia con le insistite rime in -are (mare, pescare, respirare, tornare), sia attraverso la ripetizione avvicinata dello stesso verso (“mezzogiorno tiepido di marzo”) e con il reiterarsi di sostantivi (“acqua” quattro volte, “mare” cinque volte). L’immagine della laguna veneta colta nella sua placidità primaverile viene ribadita poi dalla scelta meditata degli aggettivi (lenta, chiusa, tiepido, calmo, liquido, fermo), con l’intenzione di suggerire al lettore il respiro rasserenante di una tarda mattinata veneziana, sebbene in contrasto con l’affermazione malinconica degli ultimi due versi: “ed io rimango fermo nei miei occhi / e sono senza mare a cui tornare”.

Mi sono soffermata sul commento di questa poesia di apertura perché mi sembra caratterizzante dell’atmosfera di molte altre composizioni contenute nella prima sezione. Come giustamente sottolinea Bianca Tarozzi nel suo intervento, l’io del poeta più che definirsi nell’esplorazione introspettiva, è un io che osserva e ascolta gli elementi ambientali, e nel rendere con gentilezza visioni e suoni rivela dichiaratamente l’eredità di due “numi tutelari”: Saba e Penna. Troviamo molta luce e molta Venezia in questa prima parte del libro, colori luminosi (azzurro, arancione, verde, bianco, oro) e fiori, gabbiani, cani addormentati, lucertole, insetti. Si mostra “dolce e docile la vita”, da celebrare con un’eccedenza di cantabilità volta a esprimere gratitudine per l’esistente: “Sono come fumo bianco le parole / che m’escono asciugandomi qui al sole”. I “momenti estatici” di cui scrive Tarozzi si susseguono nella contemplazione silenziosa del paesaggio, favoriti dal tepore delle giornate, dalla consolante bellezza del panorama.

Ma già nelle ultime composizioni la città amata mostra il suo aspetto negativo, addirittura nauseante: improvvisamente bizantina, corrotta e corruttrice, invasa da “popoli bastardi”, da “giovani lascivi ed indolenti”, bagnata da acqua resa rancida da “alghe voraci”. Sacerdoti cambia decisamente registro nei versi assunti da Il fuoco, la paglia (1988), che risultano severi e risentiti, quando l’esaurirsi dell’idillio incoraggia uno sguardo più critico sulla società, sulla storia e sulla natura. Si affacciano figure umane, non solo comparse sullo sfondo, ma veri e propri interlocutori ideali del poeta: Sant’Antonio, Amundsen, i pittori Claesz, Bellini e Guercino. Cancellata la tiepida brezza primaverile delle prime poesie, regna ora un luglio torrido e fradicio di sudore. Ai nuovi contenuti risponde uno stile franto e talvolta colloquiale, e accanto agli endecasillabi appaiono novenari e settenari, le rime si attenuano, la musicalità è meno distesa.

In tal modo ci si avvicina alla produzione del nuovo millennio, con le poesie di Vendo Vento (2001) e gli inediti, in un acuirsi di consapevolezza interpretativa che scava sotto la superficie per arrivare alle falde del vero, della realtà. Farfalle, api, mosconi sprofondano “nel cuore marcio del crisantemo”, il miele da biondo si tinge di nero, rondoni e gabbiani stridono, spuntano “fioracci” tra i detriti, la notte è infetta e la penna si trasforma in un bisturi a cui è demandato il compito di sezionare “l’ameba irrancidita” che divora corpo e mente. Non più marzo, e nemmeno luglio: sono adesso i mesi autunnali quelli più indagati, pioggia vento e nuvole sostituiscono il sole gentile delle poesie giovanili.

Una negatività prima sconosciuta adesso viene accettata perché rivelatrice del male da non tacere. Gilberto Sacerdoti prega quindi un san Giorgio vendicatore: “parti lancia in resta, / spurga, prosciuga, sana, cauterizza, / spalanca i vetri, lascia entrare il vento”. Nella maturità si affrontano dilemmi esistenziali, si cercano risposte negli altri poeti (Whitman, Hopkins), si interrogano le divinità rimaste a lungo sorde e mute: “tocca vivere, morire e non capire?”. E nei versi inediti si affaccia per la prima volta l’ironia, l’unghiata sarcastica, evidente anche nei disinvolti inserti linguistici (glu, glu e glu; c!; ha-ha-ha-ha). Con gli anni, “Gela, ispessisce il sangue”, e “l’argento si spegne nel peltro”, razionalmente, laicamente.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net           14 agosto 2023

 

RECENSIONI

SACHS

NELLY SACHS, POESIE – EINAUDI, TORINO 2006

L’editore Einaudi pubblicò nel 1971, riproponendole poi nel 2006, le Poesie di Nelly Sachs (1891-1970), nata a Berlino da una famiglia ebrea colta e benestante, che la crebbe con austera severità, educandola all’arte e alla musica, e proteggendola amorevolmente dalle intemperie storiche e da ogni frequentazione sociale che potesse turbarne la sensibilità e la salute cagionevole. Legatissima ai genitori, ebbe un unico grande amore, sostanzialmente platonico, per un giovane ucciso dai nazisti nel 1933 in quanto oppositore del regime. Nel 1940 riuscì ad evitare l’internamento in un campo di lavoro rifugiandosi con la madre a Stoccolma, dove rimase esiliata per tutta la vita, soffrendo sia per le crescenti difficoltà economiche sia per le gravi crisi psicotiche che la portarono a frequenti internamenti in clinica.

La sua produzione poetica, iniziata con pubblicazioni stampate in privato già negli anni ’20, si intensificarono soprattutto dopo la guerra, procurandole un crescente successo di pubblico e la stima della critica, culminanti nell’assegnazione del premio Nobel nel 1966. Nutritasi culturalmente del romanticismo tedesco (Hölderlin, Novalis) e della mistica medievale e chassidica, fu considerata appartenente all’alveo dell’espressionismo tedesco, ma lontana da esplicite influenze contemporanee. Da una riflessione iniziale legata alle sue vicende biografiche di scampata allo sterminio, e da una seconda fase di scrittura intessuta di riferimenti biblici, più astrattamente spirituale, passò infine a una poesia indirizzata verso l’ermetismo e la condensazione linguistica sulle orme dell’amico Paul Celan, con cui ebbe un ricco e tormentato rapporto epistolare. Entrambi fortemente segnati dalla stessa origine ebraica, dalla tragica persecuzione nazista, dall’uso comune della lingua tedesca e da uguali angosce psichiche, i due poeti influenzarono e alimentarono reciprocamente la loro opera, similmente drammatica e sofferta.

Il volume, introdotto e curato con puntuale intelligenza da Ida Porena, antologizza versi ricavati da otto raccolte, pubblicate nel trentennio 1940-1970. I temi fondamentali e ricorrenti sono inizialmente quelli dell’innocenza calpestata, in cui le vittime della storia e della crudeltà dei carnefici (bambini, vecchi, sopravvissuti, nascituri, «voci solitarie», «creature di nebbia») non hanno nessuna possibilità di ribellarsi o difendersi: «Oh, i camini / sulle ingegnose dimore della morte, / quando il corpo di Israele si disperse in fumo / per l’aria», «Ma chi vi tolse la sabbia dalle scarpe, / quando doveste alzarvi per morire? / La sabbia che Israele ha riportato, / la sabbia del suo esilio?», «Noi superstiti, / ancora divorati dai vermi dell’angoscia – / la nostra stella è sepolta nella polvere. / Noi superstiti / vi preghiamo: / mostrateci lentamente il vostro sole. / Guidateci piano di stella in stella. / Fateci di nuovo imparare la vita». In un secondo momento prevale la riscoperta delle voci antiche e sapienziali dei profeti dell’Antico Testamento, della cabbala e dello Žohar, con un’adesione viscerale all’alchimia segreta che si situa alla base della parola poetica: «Se la voce dei profeti / soffiasse / nei flauti-ossa dei bambini uccisi, / espirasse / l’aria bruciata da grida di martirio – / se costruisse un ponte / con gli spenti sospiri dei vecchi – // Orecchio degli uomini / attento alle piccolezze, / sapresti ascoltare?», «E allora scrisse l’autore del Žohar / e aprì le vene del linguaggio / e attinse sangue dalle stelle / che invisibili ruotavano, accese / solo dalla nostalgia».

Ovviamente il tema della morte e della dissoluzione fisica aleggia incombente e desolato in ogni pagina («Il dolore abita queste liriche», commenta Ida Porena), ma quasi addolcito da una sorta di rassegnazione, di fatalismo che accomuna ogni fibra vivente: «Ci esercitiamo già alla morte di domani / quando ancora appassisce in noi l’antica morte – / Oh, angoscia insostenibile dell’uomo», «Morti adorati / un capello fatto di tenebra / significa già lontananza / cresce lieve per il tempo dischiuso». Questa cappa plumbea di angoscia viene alla fine riassorbita nella consapevolezza dello scorrere inarrestabile del tempo, è inglobata nel sentimento cosmogonico di uno spazio stellare infinito, attraverso una visionarietà che travalica e supera i mali e le ingiustizie della storia umana.: «Mari e crateri / colmi di pianto / in viaggio per stazioni stellari / oltre la polvere», «Notte / notte / la veste corporea / tende il suo vuoto / mentre cresce lo spazio / via dalla polvere senza canto», »Terra, vecchio pianeta, ventosa al piede / che vuol volare», «l’aria racconta di una luce! / La terra ruota e ruotano le stelle». Stelle e galassie, cieli e spazi cosmici riflettono dall’alto gli elementi terrestri che Nelly Sachs cita con più frequenza: polvere e sabbia, quasi a voler confrontare la caducità dell’elemento umano, con tutta la sua inconsolabile sofferenza, all’eternità luminosa di ciò che lo trascende, e a cui pure deve saper prestare voce la poesia.

 

«Il Pickwick», 2 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SAFFO

SAFFO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

A dispetto di una malevola tradizione che voleva la poetessa di Lesbo scarsamente avvenente, se non addirittura deforme, a noi piace immaginare questa grandissima “decima musa” così come ce l’ha descritta il poeta Alceo, suo contemporaneo : «dolce, coronata di viole». E così infatti ce la consegna questa splendida, anche editorialmente, antologia pubblicata da Nomos e curata da Silvio Raffo, che ne traduce egregiamente, con elegante dedizione, trentatré poesie, delle centoquarantaquattro che ci sono rimaste. E ne mette in luce, nella breve e intensa prefazione, la classica e limpida perfezione, sottolineando in queste composizioni «gli archetipi e i fondamenti della poesia lirica di tutti i tempi»: la presenza dell’io, del paesaggio naturale e della forza del sentimento amoroso, avvertito con tutta la delirante forza che squassa i sensi, intenerisce e immalinconisce l’anima, avvolge nelle spire accecanti della gelosia, fa esplodere il cuore di felicità. «Amore che scioglie le membra / dolceamara invincibile fiera», «vento / che sulle querce d’alto monte piomba», «Sei giunta, hai fatto bene, ti bramavo», «Io amo l’eleganza, lo sapete, / lo splendore del sole e la bellezza / mi toccarono in sorte e ne son lieta». Proponendo il testo greco a fronte, Silvio Raffo fornisce al lettore una traduzione assolutamente fedele alla struttura metrica originale, rispettosa in particolare della strofa saffica (costituita da tre endecasillabi e un adonio), e sottolineando la limpida perfezione dei versi, che anche dopo ventisette secoli mantengono tutta la loro luminosa classicità, che li rende sempre vivi e moderni, alla stregua di molta lirica novecentesca: «Naufragata nel cielo con le Pleiadi / la luna. E’ mezza / notte, il tempo passa. / Io giaccio sola».

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

RECENSIONI

SAMONA’

CARMELO SAMONA’, FRATELLI – SELLERIO, PALERMO 2008

Carmelo Samonà, studioso di letteratura spagnola, ha scritto il suo primo romanzo, Fratelli, a più di cinquant’anni, incontrando subito il favore unanime della critica. Il suo è in effetti un bel libro, scritto in maniera elegante, senza pesantezze o lungaggini. Poco più di cento pagine dedicate a una vicenda che non ha trama né grossi avvenimenti, non ha inizio né fine, non è in alcun modo “esemplare”: il sociale, il politico, non vi entrano assolutamente. Il reale stesso sembra avere poco spazio. E’ una storia tutta privata, intima senza essere intimistica, senza sbavature o autocompiacimento. E’ l’analisi di un rapporto particolare; di coppia, certo: ma tra due fratelli. Uno, che scrive in prima persona, dedica il suo tempo alla cura dell’altro che è malato di mente. Non c’è molto di più, se non presenze misteriose che a volte hanno consistenza corporea (una donna alleata-nemica, incontrata al parco, che a un certo punto si inserisce tra i due e sembra dividerli; la folla delle vie cittadine), a volte sono invece soggetti infidi, che sembrano solo fingersi reali, e non esserlo veramente (l’appartamento enorme e tetro in cui i due fratelli si cercano, rincorrendosi e nascondendosi; i vestiti che si scambiano, gli alberi del parco), a volte sono viaggi fantastici, racconti fiabeschi che appartengono a un codice linguistico modellato sull’espressività del malato, oppure la malattia stessa. I due fratelli vivono l’uno in ragione dell’altro, ciascuno misurandosi sulla presenza o l’assenza dell’altro («ci scrutiamo»). Ma mentre il malato vive gestualmente, con l’istintività che è propria della malattia, il sano analizza con spietatezza cerebrale sia i fantasmi del fratello sia i suoi stessi sentimenti, che oscillano tra affetto e sadismo, stanchezza e possessività. Controlla se stesso, le proprie effusioni, scompone parole e pensieri nel tentativo di decifrare il mondo in cui vive il malato. Sembra ad un certo punto individuarne la follia, scrutarne silenzi ed espressioni per arrivare a percepire almeno qualcosa di un universo che gli rimane sconosciuto. Il fratello è l’ignoto, l’irrazionale, e insieme la spontaneità animale, la fisicità che non ha bisogno di razionalizzazioni. In questa sua ricerca e ansia (che è intellettuale, come volontà di conoscere l’ignoto; ma è religiosa in questo rispetto per il sacro), il sano finisce per caricare anche la pazzia del fratello di dimensioni troppo colte: e questo potrebbe essere l’unico neo del testo. Rimane, comunque, un libro inquieto e misterioso, che si potrebbe definire, anche se il termine è generico, “spirituale”. In questa dimensione si può leggere infatti tutto un capitolo, il settimo, in cui il malato mantiene una sua segreta inconoscibilità, o inconsistenza, diventando agli occhi del fratello carico di tanti aspetti e risposte: «Sono tre leggeri colpi di nocche alla porta a vetri della mia stanza, scanditi e trattenuti più con affanno, direi, che con forza; poi la sagoma di una figura giovanile ancora imprecisa si disegna nella smerigliatura dei vetri e resta per un poco così, immobile ed implorante, in attesa della mia voce… Cercami – è la sua strana risposta: la voce è tremula e sorda, le parole, sillabate staccate l’una dall’altra, ripropongono un vecchio invito. Cercami di nuovo – aggiunge – anche se mi hai trovato».

 

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www.sololibri.net/Fratelli-Carmelo-Samona.html             26 ottobre 2015

RECENSIONI

SANGUINETI

EDOARDO SANGUINETI, POSTKARTEN – FELTRINELLI, MILANO 1978

Il teorico che negli anni ’60 era partito dall’identificazione linguaggio=ideologia, si era costruito una poesia coerente, portando la provocazione al livello più alto, avvicinandosi (con un tecnicismo esasperato) all’incomprensibilità per evitare il recupero. Pensava che per scardinare l’ideologia borghese servisse in primo luogo scardinare il linguaggio borghese. Ora Edoardo Sanguineti nelle sue ultime poesie il linguaggio non lo disordina più; lo usa, anzi, per comunicare. Scopre la carica positiva della lingua d’uso, ne scopre e ne utilizza tutta la sua tradizione letteraria (c’è Gozzano, ma anche Montale). Scopre ritmi e orecchiabilità, rivaluta la funzione della memoria come scrigno. Dietro a questo ripensamento letterario-estetico sta una questione molto grossa. Sanguineti non provoca più, non crede più alla funzione graffiante dell’avanguardia: lo sperimentalismo letterario viene delimitato a strumento di indagine linguistica. C’è dietro – chiaramente – una mediazione politica. Sarebbe semplicistico rifarsi solo al compromesso storico. Politicamente, c’è stato il ’68 e il recupero del ’68. Letterariamente c’è stato il Gruppo ’63 e il recupero del Gruppo ’63. Sanguineti si è adeguato alla storia. La poesia gli serve come strumento: prima aveva come oggetto gli altri (li provocava); ora ha per oggetto l’autore stesso e il suo mondo. E’ uno strumento d’indagine. Queste Postkarten sono cartoline scritte da un intellettuale organico all’intellighentia occidentale borghese, che riflette sul suo ruolo. Testimonianze di viaggi, di conferenze e di dibattiti. Salottiere e disperate. Farcite di citazioni, di polemiche colte, di rimandi culturali, di frecciatine ad amici e nemici (Sciascia, Cacciari). Il pubblico è chiaramente limitatissimo: Sanguineti sa di scrivere per pochi e perlomeno non bara. Se una volta la discriminante era la comprensione del testo, ora direi che è del tutto “ambientale”. Certi accenni, c’è chi li coglie e chi no. Certa infelicità (tra un aereo e l’altro, tra un party e l’altro), c’è chi la comprende e chi no. L’adesione di Sanguineti al comunismo è tutta cerebrale, infatti non si definisce comunista, bensì materialista storico. La sua poesia è cerebrale, mediata da un filtro (enorme) di cultura borghese. Ma nonostante il fastidio che può derivare da questo che continua a essere snobismo culturale, io credo che una cerebralità lucida e infelice, che riconosce i suoi limiti, sia ancora meglio della troppa visceralità/emotività dei tanti predicatori rossi che ci sono in giro.

Poesia n. 50:

Ho fatto passi indietro da gigante, in questi mesi: / il mio cervello / trema come marmellata marcia, moglie mia, figli miei: / il mio cuore è nero, peso 51 chili: / ho messo la mia pelle / sopra i vostri bastoni: e già vi vedo agitarvi come vermi: adesso / vi lascio cinque parole, e addio: / non ho creduto in niente.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 21 giugno 1978

RECENSIONI

SANGUINETI

sanguineti

EDOARDO SANGUINETI: DALL’OPPOSIZIONE AL COMPROMESSO – 1985

 

ma qui ho scoperto che / non ho più età: che sono morto molte volte, almeno: // e che adesso, che potrei dire / tutto, proprio, non essendo più vivo davvero, non ho più niente da dire, ecco:

scriveva Sanguineti, nel ’77, a chiusura del suo Postkarten (PK 67), evidenziando (secondo la nota in copertina) «un’aspirazione al silenzio…che indica una pausa, forse la necessità…di fare il punto». Quel silenzio è rimasto un pio desiderio, durato poco più di due anni, se Sanguineti ha pubblicato già nell’80 Stracciafoglio (STR): un libro doppio, composto da una prima sezione di 47 poesie, che continuano idealmente il percorso di Postkarten e di Reisebilder (R), e da una seconda serie di testi d’occasione scritti tra il ’57 e il ’79. Quest’ultima parte (Fuori Catalogo) si presenta come una miscellanea di interventi tanto disarticolati da giustificarsi soprattutto per il loro valore documentario: si passa infatti dalle polemiche contro una certa cultura progressista ma non materialistica (i cui simboli sono Moravia e Pasolini), agli acrostici-omaggio ancorati a uno sperimentalismo ormai di maniera, per arrivare alle più recenti testimonianze civili elettoralistiche scritte nel nome del PCI (Primo Maggio, Federbraccianti, 16 giugno 1944, Vota comunista, Ballata per gli anni 80).
Il Sanguineti messo in luce da questi componimenti (sparsi, ricordiamolo, lungo un ventennio) è quello meno catalogabile stilisticamente, meno omogeneo nei contenuti, e che perciò più sfugge a una valutazione critica che voglia tentare un pedinamento del poeta nella sua ultima parabola, e una sovrapposizione dell’autore (che nello scorso decennio ci ha fornito indicazioni ibride e fuorvianti) con il politico invece sempre lucido nei piani e conseguente negli sbocchi. Pertanto rinuncio a soffermarmi anche sulle due poesie più emblematiche di questa seconda sezione, quelle dedicate a Pasolini (Una polemica in prosa, del ’57, e Le ceneri di Pasolini, del ’79), perché la lettura derivante da un puro e semplice accostamento dei due testi potrebbe solo riscontrare, in maniera anche riduttiva e ovvia, un interessato recupero e riadattamento di Pasolini in una prospettiva nostalgica e conservatrice. Mi importa invece discutere specificamente la prima parte del volume, che dà il titolo alla raccolta, per rilevare come essa si inserisca fedelmente nel solco già tracciato dagli ultimi due libri, ribadendo scelte linguistiche e ideologiche che segnano un confine netto dalle prime posizioni sanguinetiane, fino a fare della sua poesia odierna «un’arte da museo» (1), e del suo autore quello che egli desidera essere: «un professore, un deputato, un vetero» (STR. 47).
Dai primi testi poetici a oggi, Sanguineti è venuto man mano delimitando e circoscrivendo il ruolo e la funzione della ricerca e della sperimentazione linguistica a strumento di indagine letteraria, a tirocinio e banco di prova delle proprie capacità espressive (2). Era evidente che dopo Laborintus e Erotopaegnia, Sanguineti non potesse spingersi oltre sulla strada della disgregazione linguistica, della dissacrazione ironica, della desublimizzazione eversiva, pena l’arrivo al silenzio, all’autocensura. Quindi, s’imponevano una revisione, una sterzata, che effettivamente ci furono, in parte già nel Purgatorio de l’Inferno (1960-1963), ma poi soprattutto in Reisebilder e Postkarten: il linguaggio veniva rivalutato nella sua positività, come strumento di comunicazione, indipendentemente dagli inevitabili abusi interpretativi e dai fraintendimenti più o meno consci. Nell’impossibilità e inutilità della provocazione, esso poteva e doveva servire all’utente-soggetto come strumento di analisi interiore e ponte verso l’esterno, verso i lettori.
Di conseguenza, il nuovo linguaggio di questa nuova poesia sanguinetiana perde il suo connotato più direttamente ideologico (linguaggio come espressione e creazione di storia e ideologia, linguaggio riconosciuto come mistificazione e usato in quanto arma disgregatrice contro l’ordine borghese), in qualche modo si neutralizza, e, incaricandosi non tanto di scandalizzare quanto di far partecipare, non ha più come oggetto gli altri (=provocazione), bensì l’io del poeta (=indagine psicologica). Diventa coscientemente lingua letteraria, che parte dai crepuscolari, attraversa gli ermetici per approdare a un discorsivismo di impianto realistico. In questo ambito, anche la memoria è riscoperta con una sua specifica funzione, quella appunto letteraria: essa viene presa di nuovo in considerazione come forma di conoscenza (proprio nel senso “greco”); la poesia deve essere memorizzata (imparata a memoria) per assicurarsi una circolazione e quindi una fruizione più ampia (3). Poesia come parto di memoria, vaglio-travaglio di tradizioni concorrenti. E poesia come memorabilità. Da qui la scoperta “tecnica” del ritmo, della facilità e della cantabilità, delle rime, della narrazione. In una parola, del carattere orale della poesia.
Ma le più importanti indicazioni estetiche dell’ultimo Sanguineti sono state espresse in direzione del contenutismo e del realismo, e se in Stracciafoglio non troviamo le concrete indicazioni di stile e le esplicitazioni di poetica che avevano costituito la chiave di lettura di Postkarten, anche qui c’è però un costante adeguarsi alle scelte linguistiche inaugurate (e propugnate, difese ideologicamente)
nel libro precedente. Come si deve scrivere una poesia, Sanguineti l’aveva già spiegato in PK 49: alcuni versi possono offrirci un particolare orientamento su come decodificare la sua ultima produzione. Alla base del nuovo realismo sanguinetiano sta un’attenzione per il fatto minuto, quotidiano; non la storia, bensì la cronaca, il particolare, l’umile, tornano a essere argomenti eletti, ingredienti basilari per una poesia che si vuole domestica (ma che spesso finisce per risultare addomesticata):

PK 49
per preparare una poesia si prende “un piccolo fatto vero” (possibilmente / fresco di giornata):

La poesia va “preparata”, in spregio a qualsiasi mistificazione sull’ispirazione, sull’occasione poetica, sull’attitudine interna: scrivere versi è un’operazione intellettuale, un sapiente collage razionale (4).

conviene curare / spazio e tempo: una data precisa, un luogo scrupolosamente definito sono gli ingredienti / più desiderabili, nel caso: idem per i personaggi, da designarsi rispettando l’anagrafe; / da identificarsi mediante tratti obiettivamente riconoscibili):

Ritorniamo ai topoi aristotelici: spazio, tempo, azione, «precisi», «scrupolosamente definiti», che «conviene curare»: dati di prima mano, avvenimenti che presuppongono la partecipazione o almeno la presenza del poeta. Eventi autobiografici, amici o conoscenti da segnalare scopertamente, in modo tale che siano facilmente identificabili e collocabili nel loro ruolo. A questi suggerimenti, Sanguineti si attiene anche nei versi di Stracciafoglio, sottolineandoli in particolare in:

STR 46
comunico le coordinate necessarie: torno da Como, è il 26 / settembre, sono le 21,37, ho chiesto il conto al ristorante, prenderò il rapido / delle 21,50

E ovunque, nomi e cognomi di protagonisti della cultura nazionale e internazionale, interni ed esterni europei (5), mesi-giorni-ore precisamente segnalati. Ma bastano luoghi, date, personaggi, fatti oggettivati nel loro concreto “essere accaduti” per poter parlare di realismo? E secondo la nota distinzione lukacsiana, a quale realismo potrebbe far riferimento Sanguineti, a quello socialista o a quello critico (oppure si deve postulare l’esistenza di una terza via anche al realismo?)
Sembra infatti pretestuoso (e presuntuoso) definire realista una poesia in cui attori e ambienti non hanno altra funzione, altra connotazione (non parliamo di collocazione di classe!) se non quella di fare da scenario all’individuo poeta. Su sfondi evanescenti si agitano personaggi-larve, evocati come spettri da un buio in cui ripiombano nello spazio di due versi, in una poesia diaristica più vicina al diario di Montale che a quello di Gozzano, dove è più urgente l’angoscia che l’ironia.
L’oggetto di questa poetica è sempre l’io sanguinetiano, ma non tanto come ricerca o viaggio interiore, quanto proprio come esibizione di sé, tentativo di coinvolgere chi legge nel ruolo di confessore-assolutore. E’ legittimo allora parlare di autobiografismo per questi «monologhi esteriori» (STR 47) in cui l’intellettuale Sanguineti si esibisce, si sfodera, si osserva volteggiare (ironico e patetico, edulcorato e selvaggio) in ambienti eterogenei ma sempre accomunati da un’identica posizione medio/alta borghese, culturalmente à la page. Si potrebbe addirittura supporre nel poeta la volontà di ricostruirsi con i versi una biografia ideale, che non si limiti a un tradizionale e consolatorio “portrait of himself”, ma ambisca a una severità oggettiva e distaccata:

STR 5
il sugo, nel guardarsi, è sapersi guardare: (è l’oggettivazione: / che si ottiene): (è l’oggettivazione che si propone, ecc.):

STR 108, Cinque risposte
(e l’importante, sempre, è vivere in terza persona):

Ciò che si ricava da un’autorappresentazione del genere, che tende all’imparzialità nel ritrarre e all’impersonalità nei risultati, è l’immagine un po’ stereotipata (proprio perché voluta, costruita come un puzzle) dell’intellettuale che si dibatte tra angosce di degradazione fisica e incubi di tradimento o dispersione morale.

STR 26
eccomi qua, piazzato al caffè della stazione, ridotto così come mi vedo / (e come tu mi pensi, certo), a un involontario inventario di sbriciolate / gesticolazioni ossessionali, di male contenuti stralci di quotidiane psicopatologie / sublimali: ( e a un individuo): ( a un tipo):

STR 31
dove finisce il mio io, non lo so, io: ho coscienza, soltanto di un supplemento / di investimenti e di proiezioni nelle mie calze e cravatte, nelle mie chiavi / che ho in tasca, nelle mie valigie che ho in mano:

STR 14
nuoto nel vuoto, in stati d’ansia a strati, più o meno densi, fasciato / dal mio niente:

Come in Reisebilder e in Postkarten (6), anche in Stracciafoglio, se pure in misura inferiore, l’invecchiamento del corpo diventa ossessiva minaccia di dissoluzione, da cui Sanguineti si difende con un’ostentata scatologia liberatrice:

STR 45
di cerume / nelle mie orecchie, l’unghia incarnata, l’occhio di pernice, la cicatrice / nasale, e questo stesso ascesso dentario:

STR 9
per quel mio incubo di quelle mie corde, invece, che me le strappo via dalla mia gola, // vomitandomi laghetti di salive spesse (e diciamole, in breve, le mie corde vocali), / mi sono fatto le mie associazioni libere, alla mia prima siesta: // e il risultato / è che parlano in favore del marcio che mi morde dentro:

STR 10
e me lo sono poi sfogato, / tra schizzi e spruzzi, sopra un trono da lustrascarpe, un cesso da stazione, vero, da / antiquariato industriale, il mio intestino;// …mi pulivo il mio culo, finalmente:

Se a livello inconscio (si confrontino anche le STR 42 e 44) la fisicità rimane un nodo irrisolto, razionalmente e ideologicamente si vede in essa una possibile risposta positiva, un traguardo da raggiungere:

PK 35
(e ho concluso che il paradiso è chiavare nel sole, forse, pieni di Saint-Emilion):

STR 43
le più convinte benedizioni devono piovere sopra coloro, / certo, che legarono il proprio nome al piacere: gastronomi sottili che elaborarono / inaspettati intingoli succulenti, geniali suggeritori di estatiche posizioni erotiche / inedite:

Ma questa dissociazione tra ciò che la ragione sa (e vuole) e ciò che l’elemento irrazionale teme, esiste ed è difficilmente superabile, anche per quello che riguarda la sfera dell’etica e della politica. Anzi, proprio in questo campo Sanguineti patisce la divaricazione più sofferta tra speranza e conoscenza, utopia e compromesso o, in termini pasoliniani, cuore e viscere. Insomma, da una parte la coscienza che morde, dall’altra il cervello che finge.

STR 18
tra il pubblico e il privato, per capirci, patisco, ti confesso, di una gestibile / schizofrenia:

Infatti, se nel privato si trova a fare i conti con piccoli fallimenti quotidiani (come padre, come marito – cfr. STR 2, 83, 46, 47), con la noia di rapporti abitudinari o il tradimento di amicizie, nel pubblico l’infedeltà “all’idea” è vissuta con angoscia maggiore, proprio perché non investe solo la sfera affettiva. Perciò, se in alcune poesie Sanguineti sembra voler convincere se stesso della propria coerenza politica attraverso un rigido richiamo all’obbedienza e alla tradizione, e la sua posizione risulta essere quella – datata – dell’engagé organico e sentenziante (cfr. STR 20, 30, 34, 47), più spesso questa sicurezza adamantina si sfalda, rivelando il patetico simulacro di un “io” improbabile:

STR 41
sospetto che una falla possa aprirsi / sotto i miei piedi, nel mio tempo pieno: // mi sorveglio e mi invigilo (e mi / punisco, è chiaro), cercando nei miei giorni, vecchi e nuovi, l’indizio che mi svela:

STR 15
quello che credo, io lo vorrei volere:

STR 27
mi vivo sotto falso corpo, per potermi vivere ancora: e con un’idea di me / che a me nascondo: (e che nascondo a te, specialmente):

L’idea di un se stesso da nascondere potrebbe essere proprio la consapevolezza di un cedimento che non si vuole ammettere, la nostalgia per la durata e l’incrollabile fiducia negativa del passato: nostalgia di un’aggressiva disperazione che ha ceduto il posto a una composta attesa, e di una vivacità/vitalità cui è subentrato il tranquillo pessimismo odierno. C’era già in Postkarten una poesia che segnava in maniera illuminante questo passaggio dalla ribellione alla resa:

PK 26
c’ero una volta io, disperato e vivo: / e ho piegato / per sempre la mia testa sopra il tuo grembo, dentro la tua matrice: / mi basterebbero un paio di testimoni, per salvarmi, adesso: per garantirmi / secco e sgradevole come mi speravo, intrattabile come forse sono stato: (7)

Questo movimento involutivo, di arretramento dall’esterno verso l’interno, dalla proiezione nel futuro all’equilibrio nel presente, trova in Stracciafoglio una sua pseudo-giustificazione politica, di realistico adeguamento alla concretezza dell’ora storica, di matura accettazione del compromesso:

STR 7
e che se un poeta ci sta a fare un qualche cavolo di cose, per caso, di questi tempi / oscuri e vuoti, sarà un poeta spretato, in borghese: (e un borghese): (va bene, ma uno, / intanto, che ci dice che così stanno le cose come stanno):

STR 34
e tuttavia, liquidata l’utopia, / mi allontano a velocità fantastica, se non altro, da sirene, da mostri, da chimere:

STR 36
all’utopia ho rinunciato senza pena: / penso, semplicemente, oggi, con tanto sobrio realismo, che sopravvivere / in comune, con casa, cibo, abito, scuola, lavoro, pensione, ecc., qui, ormai, / sarà un’impresa disperata, per gente civile: (e che non c’è da chiedere di più, / molto, al mondo: e che questo, forse, sarà già tutta un’utopia, per noi):

Sembra un po’ un programma da poetica dei sacrifici, in accordo con Lama e Berlinguer: per cui la felicità sta tutta nell’accettare il presente, pur nella sua meschinità, e nell’accantonare l’illusione utopica:

STR 37
ho incominciato a capire il presente: (parlo per me, parlo di me): (ho incominciato / a goderne, a goderlo)…// ho incominciato a conoscere la felicità, davvero, la vera:

Politicamente, se tentiamo un traslato, è proprio un caso che il presente, adesso, in Italia, si identifichi con la DC, e l’utopia con il non-potere dell’opposizione che è rimasta? Probabilmente no, se Sanguineti, oltre a essere il poeta che scrive queste cose, è anche Deputato PCI.

STR 36
credo nel compromesso storico, nella via italiana / al socialismo, nella dittatura del proletariato (con le sue varie, e se vuoi anche / infinite incarnazioni storiche possibili, d’accordo): // e in Antonio Gramsci:

Eppure, in Stracciafoglio, non è tanto questo messaggio politico – lineare nello sviluppo e nelle finalità “pubbliche”, ma lacerante e schizoide nel privato – a creare sconcerto (tra l’altro, questo perpetuo interrogarsi, e fingersi risposte convincenti, e ancora non rassegnarsi alla finzione, e di nuovo cederle, può costituire la base per una preziosa autocritica), quanto il fatto che tale contrastato messaggio si affida a una poetica che invece non fa i conti con se stessa, e da circa un decennio si offre immutata e ripetitiva.
Da Reisebilder a Postkarten fino a Stracciafoglio, infatti, la poesia sanguinetiana si struttura non solo a livello sintattico e formale (ossessive insistenze sui pronomi, ripetizioni, incisi e inversioni; moduli discorsivi, plurilinguismo, citazioni, formule proverbiali o gnomiche), ma addirittura graficamente (stesura orizzontale sulla pagina, parentesi nelle parentesi, due punti), secondo schemi pressoché invariati. A questo «intollerabile tardo stile cacofonico» (STR 12), Sanguineti assegna il compito di rifondare il neo-contenutismo (8), recuperando la funzione comunicativa della poesia ma perdendo nello stesso tempo il suo carattere “critico”. Perché questo suo “far poesia”, lungi dal mettere e dal mettersi in crisi, appare ormai codificato, ritualizzato e, in quanto tale, prevedibile. Sanguineti si è bloccato in un impasse non tanto politico (abbiamo visto come la sua posizione coincida con quella del Partito Comunista, e proprio per questo non sia isolata e minoritaria), ma estetico.
Mentre in Laborintus la disgregazione e la nevroticità del testo rivelavano un indubbio progetto di eversione ideologica attraverso l’eversione linguistica, negli ultimi tre volumi una poesia carica di tradizioni letterarie torna a proporsi come divertissement, consolazione, confessione. E lo fa servendosi dei contenuti che abbiamo analizzato (qua un po’ di tenerezza maritale o paterna, là una spolveratina di cupio dissolvi, molte citazioni, qualche interno e qualche esterno europeo) e di una forma prosaico-saggistica sostanzialmente sempre uguale a se stessa. Con Stracciafoglio Sanguineti ha ribadito la sua conciliazione col mondo e con il linguaggio, si è riconfermato poeta morbido (cfr. PK 26) pronto all’indulgenza e all’auto-indulgenza, abissalmente distante dalla secchezza e sgradevolezza dei tempi del Gruppo 63. La scelta di non scandalizzare più la borghesia è stata giocata sui due fronti, quello politico e quello poetico: un patto stretto con gli uomini e con le parole:

STR 17
but men are men, l’ho imparato a mie spese: (in inglese): (come ho imparato / a rovesciarlo in positivo): (a mie spese, anche questo: questo rovesciamento: / l’umano rovesciarsi nell’umano): //…e ho scoperto la battuta / parallela: (ho scoperto che posso rovesciarmela, anche quella): / (se lavori con le parole); (se lavoro): adesso: but words are words: // (che è l’unica mia mossa):

Per cui, se gli uomini sono uomini – e ad essi bisogna adattare, costringendole, teorie e idee -, le parole sono parole, e anche in omaggio a esse Sanguineti ha accettato il compromesso.

 

 

NOTE

1) La definizione è dello stesso Sanguineti, riferita all’avanguardia: cfr. Ideologia e linguaggio. Milano 1978, pp. 65-66, e Una polemica in prosa, STR 63: «io spiegavo, a suo tempo, /…come io / tentassi di fare dell’avanguardia, / in quel libretto, un’arte da museo». È chiaro che qui non viene usata, tuttavia, nell’accezione sanguinetiana.
2) Questo uso strumentale dello sperimentalismo viene ammesso in Cinque Risposte (STR 108): «quando mi allontanai dal labirinto, ne compresi la forma: (quella forma, / così, l’ho compresa due volte: costruendo il labirinto, e allontanandomi: //…(e voglio dire, anche, che bisogna prendere e lasciare, nel tempo):»
3) Cfr. PK 49: «concludo che la poesia consiste, insomma, in questa specie di lavoro: mettere le parole come / in corsivo, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante battute argute / e brevi: che si stampino in testa, così, con qualche contorno di adeguati segnali / socializzati): (come sono gli a capo, le allitterazioni, e poniamo, le solite metafore): / (che vengono a significare, poi nell’insieme: / attento, o tu che leggi, e manda a mente):». Dove la raccomandazione “dantesca” implica un prioritario fine didattico della poesia: essa si deve far ricordare perché insegna qualcosa, il lettore deve memorizzarla per imparare, e il poeta torna a essere “maestro”. L’aveva già scritto Montale, Nel nostro tempo, Milano 1972, p.51: «Un’arte che distrugga la forma pretendendo di affinarla si preclude la sua seconda e maggior vita: quella della memoria e della circolazione spicciola».
4) La polemica di Sanguineti ha come obiettivo la poesia aristocratica, intrisa di se stessa, poesia “d’atmosfera” che oggi sembra tornare di moda tra i poeti “innamorati” della parola. PK 60: «raccomando ai miei posteri un giudizio distratto, per i poeti del mio tempo: / (perché fu il tempo, dicono, della distratta percezione): // è inutile pensare, adesso, / ai neostrutturalisti dannunziani (e a tutti gli “orecchini” che verranno, se verranno): / (come è inutile diagnosticarli, rigidi, questi sciamani di Lucifero, e le loro squisite / disperazioni, tra le fedi e le speranze dell’ultima spiaggia borghese, tra i lampi / ardenti dell’apologetica indiretta apocalittica):»
5) Il viaggio costituisce uno dei fili conduttori dalle poesie di Reisebilder in poi: viaggio inteso anche in senso metaforico come scoperta e rinuncia, come distrazione dall’impegno e ampliamento di confini, come stordimento e alternativa all’analisi cerebrale severa (viaggio come consolazione?).
6) PK 8: «perdere / la faccia ( e perdere la testa) è facile dunque; (ma è poi niente, / se pensi che mi porto ancora addosso i pollici, i capezzoli, i coglioni):»; PK 50: «il mio cervello / trema come marmellata marcia, moglie mia, figli miei: / (il mio cuore è nero, peso 51 chili: // ho messo la mia pelle / sopra i vostri bastoni:»; PK 51: «io ho deciso di ingrassarmi, ormai: / che mi sono visto il mio teschio nudo, dietro lo specchio del bagno:»; R 39: «questi cuscini che si spappolano, formicolano mostruosamente / dei miei capelli perduti: / ritornerò mezzo calvo, all’ombra dei limoni in fiore:»; e ancora R 40, R 45, PK 53, PK 38.
7) È forse il caso di ipotizzare, nei due attributi iniziali, un’eco della “disperata vitalità” pasoliniana, dove anche per Pasolini si trattava di una lotta utopica e perdente contro l’inerzia del buon senso comune.
8) Cfr. Purgatorio de l’ Inferno 5: «o quando dissi (all’altro): (al Cristallo, credo) che bisognava / (quel pomeriggio) fondarlo: (il neo-contenutismo): (viri duplices): ( e fu cosa / fatta):».

 

I libri di Sanguineti citati in questo studio sono:
Laborintus, Magenta, Varese 1956; Opus metricum, Rusconi e Paolanni, Milano 1960 (contiene Laborintus ed Erotopaegnia); Triperuno, Feltrinelli, Milano 1964 (contiene Opus metricum e Purgatorio de l’Inferno); Wirrwarr, Feltrinelli, Milano 1972 (contiene T.A.T. e Reisebilder); Postkarten, Feltrinelli, Milano 1978; Stracciafoglio, Feltrinelli, Milano 1980 (in appendice Fuori Catalogo, che raccoglie poesie d’occasione scritte tra il 1957 e il 1979).

 

«Testuale» n. 4, dicembre 1985