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RECENSIONI

BANDINI

FERNANDO BANDINI, TUTTE LE POESIE – MONDADORI, MILANO 2018

Fernando Bandini (Vicenza, 1931-2013) poeta, scrittore e docente di stilistica e metrica all’Università di Padova, compose versi in italiano, latino e dialetto vicentino, e fu egregio traduttore di classici. Mondadori giustamente pubblica ora Tutte le poesie, a cura di Rodolfo Zucco, con introduzione di Gian Luigi Beccaria e un saggio biografico di Lorenzo Renzi. Il volume ripropone, nelle sue 700 pagine, non solo le raccolte minori (a partire da Memoria del futuro del 1969 fino a Un altro inverno del 2012), ma anche poesie disperse, una scelta di traduzioni e di testi in latino, con un ricchissimo apparato di note e una dettagliata bibliografia.

Partendo proprio dall’affettuoso contributo di Lorenzo Renzi sulla vita dell’autore, veniamo a sapere della sua nascita – primogenito di quattro figli – in una famiglia modesta, della perdita precoce del padre, degli studi prima in un collegio religioso, quindi all’università patavina, allievo di Gianfranco Folena. Maestro per sedici anni in varie sedi della provincia vicentina, nel 1972 iniziò la carriera universitaria. Non lasciò mai Vicenza, pur vivendo con la città un rapporto ambivalente, «di odio verso l’ambiente provinciale e retrivo», e insieme di affetto e identificazione. Ad Aznèciv (come la chiamava spesso nelle sue composizioni, trasfigurandola ironicamente con un palindromo) frequentava intellettuali famosi come Piovene, Parise e l’editore Neri Pozza, che fu il primo a pubblicarlo nel 1962, animando in loro compagnia circoli culturali e associazioni politiche. Da un’iniziale vicinanza al cattolicesimo progressista, passò con la maturità a un impegno laico e socialista, nel costante richiamo di integrità e resistenza rispetto a una contemporaneità imbarbarita e disumanizzante. Renzi si sofferma anche sul carattere dell’uomo, semplice e signorile, dotato di humor, rasserenante nel suo eloquio dolcemente segnato dalla cadenza veneta.

La poesia di Fernando Bandini, sebbene non abbia goduto del riconoscimento e del successo pubblico che meritava, sia a causa della sua atipicità e del severo virtuosismo formale, sia per il profilo discreto e riservato della persona, ebbe molti estimatori tra letterati e critici: Zanzotto e Raboni, in primis, e poi i più giovani allievi e seguaci Paolo Lanaro e Rodolfo Zucco. Andrea Zanzotto lo definì: «poeta eccezionale tra pacatezza e meditazione», e Giovanni Raboni commentò con ammirazione la sua «poesia percorsa da una sottile mobilità e inquietudine», e il suo «parlare sommesso e ragionativo». Dello stile di Bandini si occupa specificamente l’introduzione di Gian Luigi Beccaria, che evidenzia «la limpidità della lingua… la sensibilità e la perizia metrica… la piena sostanza sintattica… una medietà e colloquialità simulata» praticate da questo poeta che si muoveva «fuori da scuole o gruppi», consapevole però del valore di tutta la tradizione letteraria italiana, e contiguo agli esiti di Giudici e Raboni, piuttosto che alle dissacrazioni, agli ermetismi e ai tecnicismi delle avanguardie. In relazione ai contenuti della sua scrittura, Beccaria sottolinea l’«appartata / tenerezza», affettuosamente complice, con cui Bandini guardava agli affetti familiari e alla quotidianità domestica, alle presenze animali e vegetali della natura, alla «farragine di tetti» della sua piccola Aznèciv («questa città dove all’alba / riconosco alla voce ogni campana», «questa città / indotta e bigotta»). Un mondo che amava raccontare anche in dialetto ‒ lingua “subliminale”, che scava nei meandri mentali ‒, rievocando e ricostruendo una storia personale e collettiva, piena di sogni e di incubi: «Dove le càtito, ciò! le parole / che ghi n’è sempre manco? / Le cato te le spassaúre / che i descarga de sfròso in meso ai prà». Dal microcosmo locale, Bandini riusciva poi ad innalzarsi fino alle quote eccelse di un’osservazione stupefatta dell’universo: «oltre i confini dei miei occhi verso / regioni dove non arriverò mai».

La cifra più evidente della sua poesia rimane comunque quella della memoria, della nostalgia per l’infanzia e la giovinezza, soprattutto a partire dalle ultime raccolte di versi, là dove impegno e indignazione civile, pur rimanendo intuibili in una sorta di risentimento ideologico, cedono il passo alla consolazione del ricordo, allo struggimento per il perduto: «Voi dove siete andate, / care voci alloglotte / che una volta sentivo / parlare dalla cavità dei muri?», «O primavera celeste / dei miei quattordici anni, / fughe, proiettili, fiori», «A vent’anni sognavo allori. / Dio, che sciocchezza! / Ebbro del fumo della mia sigaretta / andavo incontro ai galli / che cantavano sulla collina, / vedendomi famoso», «I gatti che ho amato / adesso dove sono, in che tranquillo Eliso / o miagolante Averno?», «I miei compagni morti, franati nell’Eterno / sotto le bombe come / ora evocarne il nome, come piangerli?». Orgogliosamente il poeta difendeva la sua scelta di far rivivere nei versi il tempo trascorso: «Non si tratta di ritrovare il passato né di guardare il passato con lo sguardo degli eruditi o con l’atteggiamento dei conservatori. Ma solo di ricordare che il futuro è anche memoria».

Vorrei infine accennare, per quello che può essere consentito nell’ambito di una semplice recensione, all’attività di traduttore e di autore in latino di Bandini, che così si esprimeva al riguardo: «Dialetto e latino sono lingue-rifugio, camminamenti di talpa scavati sotto la terra per vedere le parole dalla parte della radice». Riferendosi alla prima delle due specifiche competenze, con fierezza ribadiva: «Tradurre una poesia è scrivere una poesia». Si cimentò con i testi di Virgilio, Orazio, Arnaut Daniel, Rimbaud e Baudelaire, arrivando addirittura a trasporre in latino alcune composizioni di Montale («Anguilla borealium / syrenen marium //… quidni credideris paene sororculam?»). Relativamente alla sua straordinaria capacità di utilizzare una lingua morta per esprimere contenuti e sentimenti del tutto moderni, affermava che ricorrendo ad essa intendeva recuperare «sensi perduti, la capacità di evocare una qualche immagine paradigmatica dell’uomo nel frammentato panorama della poesia d’oggi»: pertanto rigettava con fastidio l’accusa di sentimentalismo e di un conservatorismo “pascolizzante”.  Se tali pubblicazioni si segnalarono a livello internazionale per quantità e qualità a partire dagli anni ’70, fu soprattutto la produzione in «un limpido, saldo italiano» quella a cui demandava l’interesse e la volontà di essere ricordato come poeta, convinto che movente fondamentale della sua scrittura dovesse essere la «volontà di dire», la capacità di comunicare con nitida eleganza, come giustamente sottolinea Rodolfo Zucco, attento e appassionato curatore di questo volume.

© Riproduzione riservata         «Nazione Indiana», 14 marzo 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

BANTI

ALBERTO MARIA BANTI, IL BALCONE DI EDOUARD MANET  – LATERZA, ROMA-BARI 2013

Alberto Mario Banti (Pisa,1957), professore ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Pisa, ha pubblicato nel 2017 da Laterza un coinvolgente, polemico e voluminoso saggio sull’industria culturale del ’900 – Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd – , che spazia dal cinema e dal fumetto degli anni ’30 (con la loro idea consolatoria e buonista dell’intrattenimento, e l’imperativo del lieto fine) alla controcultura di massa degli anni Sessanta, (attraversata dai nuovi fenomeni del rock, del cinema e del teatro alternativo, dei movimenti per i diritti civili, del femminismo, della protesta afroamericana), fino agli ultimi decenni rifluiti in una produzione più addomesticata, e omogenea agli interessi del capitalismo internazionale. Ma non è di questo volume che qui mi interessa scrivere, bensì di un libro un po’ più datato, dalla prosa elegante e sfumata, acquistabile in un economico e-book.

Il balcone di Edouard Manet propone un percorso interpretativo snodantesi tra l’iconografia, la storia di genere e la storia sociale dell’Ottocento, a partire dal commento di un dipinto-capolavoro del 1868, esposto al Musée d’Orsay di Parigi. Già dal sottotitolo (Sguardi maschili e corpi femminili nell’Ottocento borghese) possiamo tuttavia intuire che non si tratta solamente di un libro di critica d’arte, ma di una vera e propria decodificazione filosofica delle “differenti strategie dell’apparire”, così come si identificano nella descrizione dei diversi ruoli sessuali e sociali. Il quadro di Edouard Manet, definito da Banti “magnifico ed enigmatico”, ritrae in primo piano due donne e un uomo affacciati al terrazzo di una casa, avvolti da “un velo di astratta tristezza”. Le signore indossano abiti candidi, vaporosi, ornati di ricami e di trine; l’uomo, invece, è vestito in modo austero: camicia bianca sotto un completo nero, cravatta blu scuro. I tre personaggi indicano nel loro abbigliamento e nella capigliatura una “sintassi dell’apparenza” profondamente diversificata.

Da questa divaricazione strategica del costume si diparte la riflessione dell’autore sui differenti ruoli sociali tra i sessi imposti all’interno delle famiglie alto-borghesi nel XIX secolo. Uomini e donne erano chiamati a impegni diversi, che richiedevano atteggiamenti interiori ed esteriori antitetici: i vestiti maschili – abbastanza simili a quelli odierni – dovevano assicurare praticità, serietà, comodità, per permettere a chi li indossava di svolgere le proprie mansioni pubbliche. Le fanciulle, mogli e madri, chiuse nello spazio ristretto della domesticità, o tutt’al più limitate alla frequentazione di salotti, caffè eleganti, raffinati negozi (Émile Zola descrisse, nel romanzo Al paradiso delle signore del 1883, le distrazioni alla moda delle dame francesi), erano obbligate a vestirsi e a pettinarsi in modo consono, ricercato e vistoso insieme, decorato da fronzoli e nastri, accessoriato pesantemente, poiché da loro non si pretendeva lo svolgimento di alcuna attività produttiva, ma una funzione puramente di accompagnamento e di esibizione. Ecco quindi lo sfoggio di gonne ampissime, cappellini, parasole, scarpette, boccoli, gioielli che avevano l’unico scopo di mettere in risalto la ricchezza e lo stato sociale dei padri o mariti da cui figlie e spose dipendevano.

Le donne dell’800 erano “marginalizzate non solo dalle pratiche sociali in uso, ma anche dalle leggi”. A loro si chiedeva solo di rispondere al requisito essenziale della rispettabilità, coerente con “l’onore, la castità, la virtù, la costruzione di un matrimonio equilibrato, finalizzato alla riproduzione e all’educazione dei figli”. Alberto Mario Banti mette in luce come i concetti di amore, matrimonio, fedeltà si siano modificati tra il ’700 e l’800, secolo in cui alla leggerezza e volubilità dei costumi precedenti si sostituì una morigeratezza di facciata e una sostanziale misoginia che impediva alle donne qualsiasi indipendenza non solo sessuale, ma anche intellettuale. Tale rigido moralismo regolava anche la visibilità dei corpi femminili, che andavano coperti e addirittura nascosti nelle occasioni pubbliche diurne, e potevano invece mostrarsi nella loro ammiccante sensualità nei ricevimenti e nei balli riservati tra persone dello stesso ambiente sociale, in cui scollature e nudità si prestavano come oggetto al desiderio maschile. Il corpo della donna per l’occhio dell’uomo diventa un attributo fondamentale della pittura ottocentesca: mentre il nudo maschile nei quadri dell’800 sparisce del tutto, trionfa quello femminile, purché senza riferimenti alla contemporaneità. Dominano “il nudo esotico, di prevalente ambientazione orientale; il nudo mitologico; il nudo di ambientazione storica, possibilmente collocato in una indefinita antichità classica. Questa regola serve a creare un effetto di straniamento, che allontana ogni eventuale senso di colpa dalla mente di chi guarda” (cfr. L’Odalisca o Il Bagno Turco di Ingres).

“Mani maschili che dipingono corpi nudi di donne giovani e belle, a esclusivo beneficio di occhi maschili”: la volontà di dominio e possesso virile sull’universo femminile è reso esplicito, secondo l’autore, proprio dall’arte figurativa, che ama ritrarre donzelle in pericolo salvate da eroici cavalieri, o mercati di schiave. Fu proprio Edouard Manet a compiere due clamorosi gesti di ribellione, infrangendo la morale maschilista dei suoi colleghi pittori in due quadri: Colazione sull’erba e Olympia, entrambi del 1863; entrambi criticatissimi perché collocavano una donna senza veli in un contesto contemporaneo, violando così una delle regole fondamentali del nudo pittorico ottocentesco. La provocazione di Monet era decisamente politica, e rivolta agli spettatori uomini, accusati di un voyeurismo farisaico che ammetteva la fisicità di Veneri classiche e odalische arabe, ma rifiutava scandalizzato ogni riferimento alle disinvolture sessuali maschili dell’800.

Se il clamore suscitato dai due dipinti convinse il pittore francese a evitare per il futuro temi suscettibili di critica morale, il suo insegnamento venne invece riprodotto e sfruttato dai meccanismi pubblicitari dell’epoca, per convincere il pubblico ad acquistare prodotti voluttuari. E le nascenti associazioni femministe fecero proprie la sfida polemica di Monet ai benpensanti servendosi di dimostrazioni eclatanti: come quella dell’attivista venticinquenne Mary Richardson che il 10 marzo del 1914 alla National Gallery di Londra distrusse a colpi di mannaia la Venere allo specchio di Velázquez, perché disturbata da come gli uomini guardavano il corpo di donna lì raffigurato.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 15 luglio 2019

RECENSIONI

BARBARINO

LINDA BARBARINO, LA DRAGUNERA – IL SAGGIATORE, MILANO 2020

Sulla scia della più consolidata narrativa siciliana (che va da Camilleri a Silvana Grasso, da Simonetta Agnello Hornby a Silvana La Spina e a Emma Dante, risalendo fino a Bufalino, Sciascia, Pirandello e Verga), Linda Barbarino – insegnante di lettere a Enna – propone in questo suo primo romanzo, La Dragunera, uno spaccato ambientale fitto e irto di personaggi, paesaggi e termini siculi, in cui si muovono protagonisti molto carnali e passionali, animati da gelosie, ossessioni, credenze e fobie ancestrali.

Cominciando dall’analisi del lessico, possiamo offrire al lettore uno stringato esempio dei tanti vocaboli presenti in ogni pagina del libro, che se non sono sempre facilmente interpretabili nel significato, risultano comunque molto espressivi dal punto di vista fonetico. Aggettivi come annirbato, immiruta, ntrusciato; sostantivi quali babbasunazzo, vanedda, catoio bummuli, cuticchie; e i verbi, sempre allusivi a moti fisici e dell’animo frastornanti, agitati: sciaurare, cupunare, azziccare, acchianare, spatuliare…

La vicenda si annoda intorno a un triangolo passionale e familiare intricato e primitivo, raccontato con tonalità che sfumano dalla visionarietà alla visceralità incontrollata. Il primo personaggio a comparire nella narrazione è la più procace e ricercata prostituta del paese di Suriano, Rosa Sciandra: “Rosa Sciandra avrebbe dato qualunque cosa per tornare nella casa di quand’era carusa… Osserva le cose che si è guadagnata col suo mestiere di buttana, una per una: la credenza, le sedie, la poltrona sfondata”.  La casa poverissima dell’infanzia è stata sostituita da un alloggio altrettanto squallido, dove riceve i molti clienti che la cercano, giorno e notte, e che soddisfa con rapida indifferenza e malcelato disprezzo. “Solo con Paolo è diverso”; di lui, che lavora le vigne di famiglia, è innamorata in maniera cieca e possessiva, non limitandosi ad appagarlo sessualmente, con ritualità fantasiose e avvincenti, ma coinvolgendolo in confidenze sui problemi familiari e lavorativi: “Marito e moglie che si muovono e scangiano parole casa casa, così parevano”.

In realtà Paolo non può e non vuole aderire completamente ai desideri di Rosa, pur soffrendo di “quella gelosia di mascolo che la considerava cosa sua, la faceva creta e cosa liquida”: perché è innamorato della cognata, moglie di suo fratello Biagio: “Una che si capiva subito era meglio starci lontano, una strega, coi capelli rizzi e niuri come scursuna nturciuniati. Al paese si diceva che era magara, ntisa la Dragunera, così la chiamavano, come la tempesta di vento e acqua”. “Magara”, cioè maga, fattucchiera: come sua madre e sua nonna, entrambe capaci di sortilegi che portavano sciagura e morte. Ma sensuale, occhi verdi come un ramarro, “una statua di marmo pareva, la femmina del diavolo: le cosce scolpite, i fianchi, le minne disegnate perfette…”. Era riuscita a farsi sposare dal fratello di Paolo, flaccido timido inetto, pur di entrare nella famiglia avvantaggiandosene economicamente. La scena di seduzione in cui la Dragunera pigia l’uva nel tino, di notte, stordendo ed eccitando Paolo con beffarda provocazione, è descritta da Linda Barbarino con la pregnanza visiva di inquadrature filmiche che rammentano l’arte ammaliatrice di una Mangano, di una Loren nel cinema neorealista. Una Lupa verghiana, felina e satanica, una circe rurale, questa Dragunera, a cui si oppone, altrettanto famelica e rabbiosa, la buttana Rosa: tutt’e due artigliate, brancicanti il corpo scultoreo dello stesso uomo. Che non riesce ad allontanarsi da loro, nonostante i genitori gli apprestino un matrimonio con Nunziatina, una donna brutta dentro e fuori, ma rispettata e di solide rendite. Pur sposato, e perché infelice, Paolo torna a cercare la prostituta, a patire il fascino della cognata magara, che quando lavorava i campi “sapeva di rosmarino e terra”: lui, travolto dalla passione, tarantolato da chissà che sortilegio, non diventa tuttavia la vittima sacrificale della storia. Perché a immolarsi sarà la figura più fragile.

In questa cavalleria rusticana moderna, le pagine dedicate all’infanzia orfana di Rosa, alla vendemmia in paese, al matrimonio grasso e triste di Paolo, all’esistenza grama dei vecchi, sono rutilanti di colori, visioni, invenzioni linguistiche tali da rendere il romanzo di Linda Barbarino tra i più originali apparsi negli ultimi anni.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/La-Dragunera-Barbarino.html       18 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BARBERA

GIUSEPPE BARBERA, ABBRACCIARE GLI ALBERI – IL SAGGIATORE, MILANO 2017

Abbracciare gli alberi: si può, si deve, è utile? Secondo Giuseppe Barbera – agronomo siciliano impegnato nella tutela del paesaggio – non solo è benefico e rivitalizzante, ma testimonia un’abitudine antica, diffusa tra molte popolazioni primitive e oggi di nuovo incoraggiata nelle terapie di supporto psicologico, che individuano nel contatto fisico tra uomo e ambiente naturale uno scambio energetico in grado di dilatare la coscienza, procurando benessere fisico e spirituale. In questo volume edito da Il Saggiatore, il professor Barbera esplora l’attrazione che gli alberi esercitano sulla letteratura dall’inizio dei tempi: dall’epopea di Gilgamesh (primo uomo ad aver abbattuto un grande cedro cresciuto nei pressi dell’Eufrate), ai personaggi biblici, da Omero ai tragici greci, attraverso tutti i capolavori della scrittura universale, fino ai contemporanei – Borges, Conrad, Barthes, Calvino, Eliot, Gadda, Vonnegut, Zanzotto, McCarthy, tra decine di altri nomi.

Abbracciare gli alberi non è solo un’indicazione materiale, ma possiede anche un significato metaforico. Indica la riconoscenza che dobbiamo a questi nostri fratelli radicati nel terreno e svettanti verso il cielo, che per millenni hanno «reso fertile il suolo e respirabile l’aria, mitigato gli eccessi del clima, fornito legna, frutti, ombra, bellezza per mille usi indispensabili e piacevoli».  Ci dimentichiamo troppo spesso che gli alberi rivestono un ruolo decisivo nel contenimento dell’effetto serra, nella lotta alla desertificazione, nel mitigare il clima, nel consolidare il terreno e nel preservare l’armonia paesaggistica. Hanno inoltre un fondamentale rilievo simbolico in senso psicanalitico (secondo quanto scriveva Carl Gustav Jung, indicandone l’aspetto materno, protettivo e nutritivo), o addirittura alchemico (morte e rinascita, fioritura e caducità, salvezza e pericolo). Giuseppe Barbera ripercorre la storia del mondo da quando era ricoperto da foreste primordiali, inviolate e lussureggianti, in una varietà incredibile di specie arboree, e ci fornisce una serie di informazioni curiose sull’età, la grandezza, la velocità di crescita dei vari esemplari di piante  (il più vecchio albero italiano si trova sul Pollino, è un pino loricato nato nel 1026; nell’area mediterranea lo batte un suo omonimo nato nel Nord della Grecia nel 941, mentre il più vecchio del mondo è un abete rosso che vive in Svezia e che dovrebbe aver compiuto 9560 anni).

I diversi capitoli del volume affrontano la storia degli alberi nei frutteti (quello tentatore di Eva non era un melo, ma probabilmente un melograno, o un cedro…), nei giardini, nei boschi, nelle nostre città strozzate dal traffico e dagli scempi edilizi, nel paesaggio deturpato dall’incuria dei cittadini e dagli interessi economici delle grandi industrie e del malaffare politico. L’indignazione dell’autore davanti all’indifferenza ambientale del potere economico, e all’egoismo vandalico di chi abbatte foreste, incendia boschi e radure, inquina con discariche abusive, costruisce indiscriminatamente badando solo al profitto, è pari alla passione con cui difende ed esalta la bellezza della natura che abbiamo il dovere di proteggere e conservare: «L’antico paesaggio mediterraneo è un mosaico di campi coltivati e di boschi, collegato da siepi e filari, punteggiato da alberi. È un paesaggio disegnato dal lavoro dell’uomo che, raccogliendo le opportunità della natura e le necessità della storia, ha tagliato boschi, bonificato paludi, ridotto montagne e colline attraverso ciglioni e terrazze, in superfici pianeggianti dove l’acqua non scorre pericolosamente (facendo franare il suolo e annegando le pianure), ma si infiltra alimentando a valle pozzi e sorgenti». Parole convincenti e appassionate, quanto quelle dolcissime dei versi shakespeariani: «Chi vuole sdraiarsi con me / sotto l’albero del bosco verde / e intonare note allegre al canto degli uccelli / venga qui venga qui venga qui», e oraziani: «È bello sotto un leccio antico, / stendersi sull’erba compatta, / mentre fra gli argini scorre un torrente, / stridono nel bosco gli uccelli / zampillano e bisbigliano le fonti, / invitando a un placido sonno».

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Abbracciare-gli-alberi-Barbera.html      26 agosto 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BARBERIS

WALTER BARBERIS, STORIA SENZA PERDONO – EINAUDI, TORINO 2019

Gli evangelisti Matteo e Luca raccomandavano il perdono: “perdonare fino a settanta volte sette”, “perdonate e sarete perdonati”. Ma si può perdonare la malvagità gratuita, la crudeltà senza scopo, l’efferatezza di un delitto, o (in termini collettivi e non solo privati), la disumanità di una guerra, la ferocia di una strage, l’ingiustificabile e assurda spietatezza della persecuzione e dello sterminio degli ebrei avvenuto nella II guerra mondiale?

Nel 1971 il filosofo e musicologo francese di origini russo-ebraiche Vladimir Jankélévitch aveva commentato la pagina più agghiacciante della storia novecentesca in un volume provocatoriamente intitolato “Perdonare?”. La sua vibrante e appassionata risposta negativa a quel doloroso quesito era stata urlata con la rabbiosa indignazione di tutte le vittime innocenti: “Il nostro risentimento, la nostra incapacità di liquidare il passato… non si chiama rancore, ma orrore”. Negando ai colpevoli qualsiasi possibilità di venire amnistiati, assolti, dimenticati, concludeva: “Il perdono! Ma ci hanno mai chiesto perdono?”

Walter Barberis (Torino, 1950), storico, editore e docente universitario, nel suo saggio Storia senza perdono riprende le tesi di Jankélévitch in maniera meno viscerale e più teoricamente meditata, interrogandosi nello specifico sul ruolo dei testimoni diretti della Shoah, sul loro imprescindibile coinvolgimento nella tragica vicenda dell’olocausto, e sugli inevitabili episodi di censura, autocensura, rimozione che possono aver influito nelle loro deposizioni. Già Primo Levi, a cui l’autore riconosce il merito e il coraggio di avere squarciato il silenzio sui “sommersi e salvati” nei lager, aveva avuto l’onestà di ammettere che non sempre i ricordi dei sopravvissuti a un massacro sono affidabili. “La memoria è uno strumento meraviglioso, ma fallace”, aveva scritto.

Barberis sottolinea quanto le ricostruzioni di un passato angoscioso possano risultare instabili, deviate da vergogna, pudore, sensi di colpa, versioni consolatorie, romanzesche o addirittura autocelebrative: proprio perché individuali e soggettive. Elenca una serie di volumi scritti da impostori che millantavano false biografie, impossessandosi di uno “statuto vittimario che non era il loro”, e rischiando così di inficiare la legittima ricerca della verità e di inquinare il valore stesso delle testimonianze acquisite.

Se il processo di Norimberga era rimasto imbrigliato in un esame burocratico di documenti impersonali di scarsa risonanza emotiva, quello di Gerusalemme a Adolf Eichmann del 1961 riuscì a dare voce all’orrore dei campi di sterminio, esibendo pubblicamente sia le sofferte dichiarazioni degli scampati sia le spietate immagini fotografiche dell’abominio nazista.

Da allora moltissimi romanzi, film, opere teatrali e programmi televisivi hanno avuto il merito non solo di informare il grande pubblico, ma anche di turbarlo, di farlo indignare e di proporgli interrogativi ineludibili. Ma “oltre una palpitante emozione, c’è bisogno di tanta ragione”, ed è quindi compito della storia operare una ricerca e un’analisi puntuale, asciutta, non retorica sui sintomi, le manifestazioni e le cause dell’antisemitismo e del razzismo che hanno portato alla persecuzione contro gli ebrei, in modo da creare una memoria collettiva capace di evitare il ripetersi in futuro di eccidi ed efferatezze simili.

Un’indagine storica che voglia essere accurata e incisiva non deve occuparsi solo delle vittime, ma deve riguardare anche i persecutori, i carnefici, gli aguzzini; senza tralasciare i neutrali, gli indifferenti, gli “ubbidienti per tradizione, per conformismo o per paura”, che con la loro tacita e vile acquiescenza hanno permesso che accadesse l’irreparabile. Altrimenti si potrebbe correre il rischio, insistendo esclusivamente sul sacrificio degli innocenti, di una sacralizzazione della vittima, di una sua rappresentazione come modello cristologico di agnello sacrificale, con una sovraesposizione mediatica fuorviante e controproducente.

Sarebbe invece opportuno esaminare senza indulgenze e remore il perché di un silenzio sulla Shoah durato circa dieci anni dopo la fine della guerra, partendo dall’incredulità iniziale dei contemporanei ignari, per passare alla loro volontà di occultare e dimenticare un passato compromettente, e concludere poi con il reale disinteresse per un dramma che non li coinvolgeva direttamente.

Poiché i testimoni oculari dell’Olocausto stanno progressivamente scomparendo, potremmo rischiare oggi l’oblio di un esiziale crimine storico, “flagello europeo più pericoloso e mortale della peste”, che deve invece essere continuamente rievocato e fatto conoscere alle nuove generazioni, in modo che nessuno possa permettersi di negare, relativizzare o assolvere. Walter Barberis è perentorio nel declinare ogni proposta di assoluzione o conciliazione con il regime nazista. Storia senza perdono è il titolo del suo libro.

 

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https://www.sololibri.net/Storia-senza-perdono-Barberis.html     31 ottobre 2019

 

 

 

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BARCA

FABRIZIO BARCA, CAMBIARE ROTTA. Più giustizia sociale per il rilancio dell’Italia – LATERZA, BARI-ROMA 2019

L’editore Laterza ha messo a disposizione dei lettori, qualche mese fa, l’ebook a costo zero Cambiare rotta. Più giustizia sociale per il rilancio dell’Italia, che raccoglie la relazione introduttiva di Fabrizio Barca al Seminario “Tutta un’altra storia. Gli anni 20 del 2000”, insieme ad altri contributi. Il Seminario, organizzato dal Partito Democratico a Bologna nel novembre 2019, si poneva l’obiettivo di mettere a confronto analisi, esperienze e proposte delle Organizzazioni di Cittadinanza Attiva sui temi della giustizia socio-ambientale e dello sviluppo economico.

Cosa sono le Organizzazioni di Cittadinanza Attiva? Si tratta di aggregazioni di persone che compiono “azioni collettive volte a mettere in opera diritti, prendendosi cura di beni comuni o sostenendo soggetti in condizioni di debolezza attraverso l’esercizio di poteri e responsabilità nelle politiche pubbliche”, secondo la definizione di Giovanni Moro. Esse comprendono diverse associazioni (ActionAid, Caritas Italiana, Cittadinanzattiva, Dedalus Cooperativa Sociale, Fondazione Basso, Fondazione Comunità di Messina, Legambiente, Uisp…) e singoli ricercatori e intellettuali impegnati nel sociale.

Fabrizio Barca (Torino, 1954), statistico ed economista iscritto al Partito Democratico, docente universitario, ex-ministro nel governo Monti, coordina il Forum Disuguaglianze e Diversità (www.forumdisuguaglianzediversita.org), che persegue l’obiettivo di promuovere un progresso più giusto e solidale, invertendo la unidirezionalità di crescita economica imboccata negli ultimi decenni. Il suo intervento si apre con la citazione dell’articolo 3 della Costituzione, che raccomanda il “pieno sviluppo della persona umana” attraverso “la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale”, e fa riferimento alla giustizia e all’eguaglianza tra i cittadini. Per raggiungere quest’ultimo obiettivo non basta però ridurre i dislivelli di reddito esistenti nella popolazione ridistribuendo la ricchezza, in quanto la vera questione da affrontare riguarda le modalità con cui la ricchezza si crea.

L’analisi dell’economista è puntale e severa, nell’elencare quali sono i fattori che producono disparità, e quindi ingiustizia: l’irrigidimento della mobilità sociale, le forti migrazioni interne ed esterne, un mercato del lavoro precario e non protetto, il divario nell’accesso e nella qualità dei servizi fondamentali, lo scarso riconoscimento delle diverse abilità professionali, l’indebolimento delle organizzazioni sindacali, la liberalizzazione incontrollata dei movimenti di capitale, la privatizzazione massiccia di imprese pubbliche, l’elargizione sregolata di sussidi pubblici.

“Le disuguaglianze sono una scelta”, ribadisce Barca, frutto della svolta neoliberale effettuata dalla politica italiana dagli anni ’70 in poi (anche con il concorso della sinistra…), che ha favorito un processo di concentrazione della conoscenza, del potere e della ricchezza nelle mani di una minoranza privilegiata. Negli ultimi decenni molte istanze di partecipazione civile sono rimaste inevase (diritti delle varie minoranze, tutela dell’ecosistema, autonomia del lavoro…), provocando nella gente risentimenti e paure che la destra sta cercando di convogliare politicamente in suo favore.

“Il disegno strategico avanzato dal Forum affronta tre processi di formazione della ricchezza: il cambiamento tecnologico; il rapporto di potere fra chi controlla solo il proprio lavoro e chi controlla anche il capitale; la transizione generazionale. Si tratta di usare in modo diverso risorse pubbliche già a disposizione, riallocando potere decisionale. Prima di tutto, va tutelata la dignità di chi lavora, in maniera stabile o precaria, con tre mosse simultanee: efficacia dei contratti firmati dalle organizzazioni sindacali e datoriali “rappresentative”; soglia minima legale per il salario orario di ogni lavoratore; rafforzamento e unificazione delle capacità ispettive”.

Così Fabrizio Barca delinea la sua diagnosi, spingendosi oltre nel suggerire proposte operative concrete in modo che l’Italia riesca a invertire il processo involutivo che ha contrassegnato negativamente questo primo ventennio del 2000. La più concreta delle sue indicazioni è certamente quella di trasferire a ogni giovane, al compimento dei 18 anni, un’eredità pari a 15mila euro, permettendogli di intraprendere uno studio o una professione senza pesare sulla famiglia.

Altre proposte molto dettagliate sono fornite da sette ricercatori, docenti ed esperti attivi nel Forum Disuguaglianze e Diversità riguardo ai necessari cambiamenti da attuare nella Pubblica Amministrazione, nell’Istruzione, nelle Politiche Industriali, nella Sanità, nella Ricerca e nel Terzo Settore: in modo da rendere possibile un effettivo rilancio sociale ed economico nel nostro paese, garantendo maggiore uguaglianza e giustizia per tutti attraverso la redistribuzione del redditi e della ricchezza.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 6 maggio 2020

 

 

 

RECENSIONI

BARICCO

ALESSANDRO BARICCO, LA VIA DELLA NARRAZIONE, FELTRINELLI, MILANO 2022

Il saggio che Alessandro Baricco ha recentemente pubblicato da Feltrinelli, La Via della Narrazione, consiste nella trascrizione, opportunamente rielaborata, di una lezione tenuta alla Scuola Holden nel novembre del 2021, per l’inaugurazione di un seminario dedicato all’arte dell’insegnamento. Di arte, infatti si deve parlare, per ciò che riguarda la funzione maieutica dell’educare, cioè di sviluppare e trasmettere competenze e facoltà intellettuali e culturali, guidando e “tirando fuori” (dal latino e-ducere, estrarre) le potenzialità di un allievo.

Come fondatore nel 1994 della Scuola Holden, deputata appunto a insegnare storytelling e creative writing, Baricco in questo pamphlet si assume il compito di sostenere e difendere obiettivi e programmi, ormai diffusi a livello mondiale, mirati a indirizzare e addestrare i giovani aspiranti scrittori alla tecnica narrativa. Lo fa, nei primi tredici icastici capitoletti iniziali, suggerendo al lettore cosa siano “le storie”, quelle che meritano di essere condivise e raccontate, “tessere del reale… campi di energia” che vibrano “di intensità particolare, anomala”, muovendosi intorno a un’illuminazione iniziale, a uno choc di partenza. Le storie fondamentali della letteratura mondiale ruotano tutte su quattro perni fondamentali: il mistero, la riparazione, il gorgo, la diserzione. Creano, in chi legge o ascolta, interesse, emozione, turbamento, partecipazione. Il magnetismo da cui prendono avvio è più importante dei personaggi in cui successivamente si articolano, traduzione antropomorfa della corrente che le anima.

La storia, per arrivare al lettore, deve essere raccontata, trasformandosi da sfera a linea, da spazio a sequenza temporale: “C’è dunque una riduzione da fare”, che si ottiene attraverso l’espediente tecnico dell’invenzione di una trama. La trama si dispone non solo come successione di eventi, ma anche come rappresentazione di ambienti complessi.

Si può insegnare a narrare? Numerosi affermati romanzieri e poeti insorgono di fronte a quest’ipotesi considerata utopistica se non addirittura truffaldina. Baricco afferma invece, con consapevolezza priva di presunzione: “Sappiamo esattamente dove possiamo intervenire e dove no. Possiamo insegnare a costruire una trama, perché sia mappa completa e geroglifico leggibile. Non possiamo insegnare lo stile, ma possiamo rassicurarlo, difenderlo, farlo crescere. E se non possiamo insegnare ad avere una voce, possiamo insegnare a cantare a quelli che ce l’hanno”.

Tre elementi sono indispensabili alla costruzione di un racconto: storia, trama e stile, per non scadere in una narrazione di puro intrattenimento (senza stile), o in un’esibizione narcisistica (senza trama), o ancora nella saggistica (senza storia). Illusorio aderire alla teoria ingenua e riduttiva esposta dallo sceneggiatore americano Christopher Vogler nel famoso manuale di scrittura Il viaggio dell’eroe del 1992, in cui si indicavano regole e schemi precisi da seguire per ottenere un sicuro successo nel mercato editoriale. “Chi racconta diventa. Non si limita a organizzare il passato ma suscita il futuro”, e scrivendo trasforma la propria esistenza insieme a quella degli altri.

Una scuola di scrittura avvia in maniera professionale alla prassi di un mestiere, ma non solo. “Chi insegna a narrare è chiamato a condividere una clandestinità e a difendere un’insubordinazione, rigenerando quote di libertà, rimuovendo blocchi e paure”, disvelando insomma zone d’ombra della realtà e di sé stesso. Il saggio di Alessandro Baricco si intitola “La Via della Narrazione” echeggiando altri percorsi di conoscenza dell’io, praticati nella maggior parte delle filosofie analitiche e di meditazione trascendentale: “La cura della tecnica, l’attenzione per i dettagli, la fatica della correzione sarebbero allora quel protocollo di cura che è presente in tutte le Vie, dove il più alto traguardo spirituale passa sempre attraverso la riuscita di un gesto della mano, dell’occhio, del corpo”.

Come ci si educa a essere migliori, si può essere educati a scrivere bene, imparando con pazienza, umiltà e costante applicazione le strategie che rendono un testo più efficace.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 19 settembre 2022

 

RECENSIONI

BARILE

LAURA BARILE, AMELIA ROSSELLI – NOTTETEMPO, ROMA 2014

Laura Barile propone ai lettori una lettura ravvicinata e partecipe di alcuni testi di Amelia Rosselli, poeta tra i più essenziali e difficili del nostro novecento, artefice di una «lingua terremotata», di uno «sperimentalismo linguistico e metrico, audace e rigoroso al tempo stesso». Nell’introduzione, Barile offre una rispettosa e non invasiva ricostruzione della biografia rosselliana, dalla nascita a Parigi nel 1930 agli esili londinesi e newyorkesi (in fuga dalla persecuzione fascista che l’aveva brutalmente resa orfana di padre e zio), per soffermarsi sugli studi linguistici e musicali, e sull’approdo italiano – prima a Firenze, in seguito a Roma. Una formazione tormentata e dolorosa, che incise profondamente su Amelia, «dotata di un carattere estremo e di un fragile sistema nervoso, inquieta e inquietante adolescente», fino a minarne per sempre la salute psichica, costringendola negli anni ’50 ai primi ricoveri e a una serie di elettroschock. Fedele alla riservatezza nel privato del poeta («Tendo all’eliminazione dell’io»), Barile si concentra soprattutto sulla sua produzione in versi, a partire dal poemetto  La Libellula del 1958, che viene commentato nelle sue fonti ispiratrici – musicali e filosofiche – e nella sua originalissima struttura lessicale, che si serviva dell’onomatopeia come di frequenti calembours etimologici, di derivazioni e contrazioni e «parole fermentate». La metrica particolare di questa composizione comportava la chiusura del verso con un’interruzione secca, e frequentissimi enjambements, dettati dalla costrizione in 11-13 centimetri fissata dal suono del campanello «che nelle vecchie macchine da scrivere segnalava la fine del rigo». Questo monologo interiore, «fluido snodarsi di suoni e immagini in movimento, che si generano sulla base di processi associativi e musicali», vide la luce solo nel 1969, in un’edizione anomala di fogli A4, con caratteri tipografici che riproducevano quelli della macchina da scrivere. Le edizioni Nottetempo hanno scelto di impaginare i testi rosselliani ruotati orizzontalmente rispetto all’orientamento consueto, proprio per non spezzare i versi, aderendo così all’invenzione metrica del poeta, «che partecipa dell’immagine visiva e della partitura musicale». «E io / lo so ma l’avanguardia è ancora cavalcioni su / de le mie spalle e ride e sputa come una vecchia / fattucchiera, e nemmeno io so dove è che debbo / prendere il tram per arricchire i tuoi sogni, / e le mie stelle».

Altri testi fondamentali presi in considerazione e commentati da Laura Barile sono tratti da Variazioni belliche del 1964, e da Documento del 1976. Del primo libro si sottolineano sia la struttura musicale della lingua «rotta e scorretta», sia la «forma-cubo», lo spazio quadrato in cui Amelia Rosselli comprimeva «la tensione fra l’impulso corporeo e quello logico della scrittura», in un intreccio di serie e variazioni derivate dalla tecnica dodecafonica e dalle produzioni post-weberniane. Testi che intrecciano «passione amorosa, passione musicale e passione civile», dall’esaltazione femminile della sessualità alla tragedia collettiva della storia e della lotta di classe («Caduta sulla linea di battaglia. La bontà / era un ritornello / che non mi fregava ma ero fregata da essa! / La linea / della / demarcazione tra poveri e ricchi»): poesie spesso di difficile decifrazione, ma da seguire «col corpo», aderendo fisicamente ad esse, e «abbandonando la pretesa di capire tutto». Dell’ultimo volume pubblicato in vita da Amelia, vent’anni prima della sua scelta di morte volontaria, «tormentata dalla malattia nervosa, da allucinazioni uditive e da una forma di mania di persecuzione di tipo politico», Laura Barile commenta pochi versi programmatici, che è qui giusto e commovente riportare: «Conto di farla finita con le forme, i loro / bisbigliamenti, i loro contenuti contenenti / tutta la urgente scatola della mia anima la / quale indifferente al problema farebbe meglio/ a contenersi. Giocattoli sono le strade e / infermiere sono le abitudini distrutte da / un malessere generale. / La gola nella montagna si offrì pulita al / mio desiderio di continuare la menzogna indecifrabile / come le sigarette che fumo».

 

«succedeoggi», 20 marzo 2015   e  «Leggendaria» n.111, maggio 2015

RECENSIONI

BARSOTTI

DIVO BARSOTTI, SOLO L’AMORE CONOSCE – NERBINI, FIRENZE 2016

Del sacerdote Don Divo Barsotti (1914-2006) sono state pubblicate in anni passati diverse plaquette di poesie, che ora l’editore fiorentino Nerbini riunisce in un’unica raccolta, Solo l’amore conosce, introdotta dall’affettuosa prefazione che Geno Pampaloni scrisse nel 1982. Il famoso critico, legato da ammirata amicizia al religioso toscano, si confessava affascinato dal suo riserbo, dalla discrezione e dalla fermezza che trapelavano dalla sua persona, dalla sua “parola sobria” (coltivata nella meditazione e nel colloquio interiore) che tanto sapeva consolare e arricchire chi ricorreva a lui. E della poesia di Barsotti, intessuta di assoluto, trasparente nella semplicità, Pampaloni scrisse: “sgorga senza mediazione apparente dal momento meditativo. È una parola racchiusa entro un margine di silenzio”.

Davvero alcuni di questi versi raggiungono l’altezza vertiginosa, la pregnanza espressiva dell’ispirazione mistica di un Meister Eckhart, di San Juan de la Cruz, avvicinandosi inebriati anche all’esaltazione verbale del nostro Ferdinando Tartaglia: senza tuttavia rasentare mai l’eresia di quest’ultimo, ma mantenendosi fedeli all’ortodossia cattolica e al magistero ecclesiale. “Accoglimi nel tuo cuore / Tu che solo sei eterno”, “Ma Tu più intimo di tutti / e di tutti più inaccessibile Dio”, “Nel mio nulla io ti guardo: Tu sei. / Non so più nulla, non conosco che Te”, “Se non sono in Te, dove io sono? / Come, senza perderti, ti cerco?”, “In me ti dici, o Dio”.

Quello di Divo Barsotti è un dialogo continuo con il Creatore: non una ricerca, perché ha già trovato. Ma una lode, un ringraziamento e una incessante interrogazione personale sul rapporto che l’uomo deve instaurare con l’Assoluto. I suoi versi sono costellati, infatti, da punti di domanda, che non riguardano l’esistenza di Dio, di cui si ha certezza, quanto piuttosto il modo di conciliare la finitezza umana con l’infinito, il mistero con la rivelazione, la parola con il silenzio: “Chi sono io cui fa bisogno / l’infinita tua perfezione, o Signore?”, “vivere è perdersi o Dio?”, “Sei la Presenza: come ti sei nascosto?”.

L’eco dei Salmi, addirittura il loro calco stilistico è evidente, come risulta palese la progressiva maturazione letteraria dalle prime prove degli anni ´30 – più didascaliche – a quelle più recenti. Sempre rimane inalterata, comunque, la fede nel colloquio con l’Altro e con gli altri, il confronto con i Santi e con i poeti, il dovere di non dimenticare, nello scavo silenzioso della propria interiorità,
la vita concreta e quotidiana: “Se il mondo è più grande di te, sei perduto; / ma in te il mondo deve divenire ogni giorno più grande”.

Un forte e ancora attuale richiamo alla spiritualità, all’autenticità dell’esistenza, all’incontro “Cor ad cor” traspare da questi versi, e ci emoziona, ci interroga.

 

© Riproduzione riservata          

www.sololibri.net/Solo-l-amore-conosce-Barsotti.html      31 ottobre 2016

«Poesia» n.323, febbraio 2017

 

 

RECENSIONI

BASAGLIA

ALBERTA BASAGLIA, LE NUVOLE DI PICASSO – FELTRINELLI, MILANO 2014

«…quel personaggio che mi era capitato come padre, all’epoca, fine anni settanta, era nell’occhio di tutti i cicloni possibili: quello scientifico, quello mediatico, quello politico-legislativo, quello culturale…». Alberta Basaglia, psicologa a Venezia, tratteggia un affettuoso, ammirato, ma anche intelligentemente ironico ritratto di suo padre Franco, psichiatra di fama internazionale, autore nel 1968 del fondamentale saggio  L’istituzione negata, e soprattutto coraggioso iniziatore della rivoluzione scientifica e ideologica che condusse alla chiusura dei manicomi con la legge 180 del 1978, legge che porta il suo nome. Ma Alberta in questo volume scrive principalmente della sua particolarissima infanzia, di se stessa bambina-adolescente-studentessa universitaria, segnata da un doloroso deficit visivo congenito, che dalla nascita l’ha resa “diversa”, accomunata solidalmente nella sofferenza ai pazienti in cura nell’ospedale psichiatrico di Gorizia. «Strana», con la testa piegata sulla spalla per cercare di vederci meglio, con tante baby sitter inglesi che si occupavano di lei e del fratello per ovviare alle assenze e ai fagocitanti impegni di lavoro e di studio dei loro importanti genitori, Franca e Franco Basaglia. Di famiglia veneziana altoborghese, antifascista, anticonformista, il giovane Franco, partigiano («non ha mai smesso di esserlo») imprigionato negli ultimi anni di guerra, conobbe forse proprio in carcere la degradazione umiliante dell’isolamento, facendosi da subito paladino degli ultimi, degli esclusi per eccellenza dalla comunità: i malati di mente. Erano anni di grandi utopie, che sognavano riscatto sociale e liberazione, e «il suo era un lavoro di studioso che intrecciava in modo sacrilego la filosofia alla psichiatria». Con la moglie e molti amici intellettuali, le serate passavano discutendo i lavori di Marcuse, Heidegger, Sartre: progettando silenziose rivoluzioni in medicina e in politica. I due bambini, Enrico e Alberta, venivano educati spartanamente, con vacanze alternative, senza televisione, senza concessioni alle mode, tra molte letture e musica classica. Vivevano a Gorizia nel Palazzo della Provincia, poco accogliente come casa, ma aperto alla frequentazione di ospiti da tutto il mondo, e di matti. Desolina, Carletto, Velio, la puzzolente signora Pierina, malati «ripuliti a festa» nelle domeniche danzanti nel parco dell’ospedale: «Queste diverse presenze erano il mio quotidiano. Questa è stata per me la rivoluzione più normale del mondo… Basta solo riconoscere il diverso da te e non farti fagocitare dall’ansia che costringe a incasellare tutti e tutto in regole e categorie precise che pretendono di dare un ordine tranquillizzante al mondo».

Accettare tutti, era la parola d’ordine della famiglia Basaglia, dando dignità a ciascuno.
E Alberta, con le sue minime disubbidienze infantili (le canzoni di Caterina Caselli, il desiderio di vestiti alla moda, le fughe alla Standa per ascoltare i Beatles o in portineria per sbirciare Carosello, il dipingere nuvole così belle da far invidia a Picasso) assorbe l’atmosfera intellettuale di famiglia, fa sua l’istanza di ribellione contro la violenza e il conformismo, e decide di dedicarsi professionalmente alla cura di chi soffre. Si laurea in psicologia dell’età evolutiva, saccheggiando l’archivio del manicomio di Gorizia, e studiando gli impietosi faldoni che testimoniano le torture inflitte a bambini malati, le diagnosi superficiali e crudeli dei medici, gli inevitabili decessi precoci colpevolmente censurati dalla burocrazia psichiatrica.
Scritto con la collaborazione della giornalista Giulietta Raccanelli, questo libro di agevole e stimolante lettura ci accompagna alla scoperta di una famiglia eccezionale, di idee in costante fermento in anni vivaci, molto lontani dall’apatia e dall’acquiescenza attuali. E soprattutto ci fa conoscere il coraggio e la dolce, simpatica fermezza della sua autrice, la sua fedeltà a un sogno di libertà e uguaglianza.

 

«Leggere Donna» n. 163, 2014