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RECENSIONI

SANT’ELIA

EDOARDO SANT’ELIA, PULCINELLA A DONDOLO– GRIMALDI, NAPOLI 1998

Edoardo Sant’Elia è nato e vive a Napoli, città di contrasti stridenti, in bilico sempre tra pensiero speculativo ed effusione sentimentale, e tra canto e filosofia, tradizione e trasgressione. Della cultura partenopea Sant’Elia ha nutrito la sua produzione letteraria che spazia dalla saggistica alla poesia, ma soprattutto la sua visionarietà interiore, e un particolare gusto musicale, melodico, che permea – prima ancora di farsi voce – il flusso dei suoi pensieri, e li dirige.
Attivo da vent’anni nel panorama letterario italiano, fondatore e direttore del semestrale Il rosso e il nero, Sant’Elia ha pubblicato molto su riviste e in edizioni raffinate, a tiratura limitata, consapevole che la poesia è un’arte elitaria e di difficile accesso, ma insieme popolare e antica. Godono, infatti, i suoi versi di questa peculiarità che li rende atipici e affascinanti; usando termini bassi, di uso comune, e affrontando temi, situazioni e personaggi molto noti (dal cinema al fumetto alla fiaba), riescono tuttavia a creare un’atmosfera rarefatta ed elegante, percepibile nella sua raffinata ambivalenza solo da un pubblico ristretto.
Lo stridio appena avvertibile, ma concreto che consegue da questo gioco mimetico di aristocraticismo e tradizione popolare, offre alla produzione poetica di Sant’Elia uno straniamento ironico, e fa assumere alla sua figura di poeta-menestrello-cantore la maschera stupefatta di un Buster Keaton, dall’ininterpretabile, e insieme espressivissima, immobilità.
Appunto tra movimento e stasi, fiaba e cronaca, divertissement e tragedia, si situa la voce recitante di questo Pulcinella postmoderno perché disincantato, che sogna Posillipo avendo a che fare con Bagnoli, e suona delicato in un traffico assordante e indifferente un mandolino felice se a qualcuno arrivi almeno l’eco delle sue note.
Alla più tipica delle maschere napoletane, Sant’Elia ha dedicato il suo ultimo lavoro, Pulcinella a dondolo, un’elegante pubblicazione edita nel ’98 da Grimaldi, in 350 esemplari con tre disegni di Lello Esposito. In questo poemetto, Sant’Elia diventa narratore e regista di una favola che ha tutti gli ingredienti della tradizione folklorica: l’Angelo, il Demonio, la Morte. E ancora: lacrime e comete, luna e serenate, raccontate in una lingua che è mescolanza di dialetto da filastrocca popolare e italiano da girotondo infantile. Il protagonista, un assonnato e neghittoso (o forse consapevolmente recalcitrante?) Pulcinella, aggrappato a un cavalluccio di legno, in una corsa metafisica attraverso il firmamento, spronato da forze misteriose e da una voce (incalzante, assillante, imperiosa), viene spinto a correre dalla sera alla mattina verso un approdo non detto, ma facilmente intuibile e spaventoso.
«Corri, corri; chi t’aspetta / non c’è tempo, non c’è fretta». La corsa del cavalluccio appare disperata perché fuori del tempo e senza meta, una corsa dondolante e infinita, che si identifica con la stessa vita e ne segna il tempo, scandendola nella sua oscillazione: «Suonno, puortame luntano / ma con garbo, chiano chiano…». Pulcinella, stanco, incredulo, oppone resistenza passiva a chi lo incita senza sosta: e lo fa con i suoi modi miti, con il garbo che lo contraddistingue. Il sonno è il suo modo di dire no alla morte e alla vita, la sospensione del tempo e della sofferenza, l’unica possibilità di sognare uscendo dalla banalità del quotidiano. E il dondolio del cavalluccio è lo stesso della culla, del rollio della barca, del ninnare di braccia femminili: un Pulcinella che sente potente il richiamo alla regressione, alla scomparsa, all’innocenza della neonatalità. Ed è il ritorno alla voce materna, quella del canto e del dialetto, delle parole buone e semplici dell’infanzia, che Sant’Elia cerca di recuperare con una resistenza feroce nei riguardi di ciò che ci angoscia e ci sporca, turbandoci e spaventandoci: «Il Demonio adesso tace. / Il forcone è senza denti, / le sue corna due frammenti, / puoi contargli anche le ossa / mentre salta nella fossa». Chi sia che vince in questa lotta impari, se le tenebre o la luce, se la tenerezza del ricordo o la curiosità per l’ignoto, se la fiaba o il fumetto, è difficile dire. Ma i poeti hanno il dovere di credere più alla resistenza che alla resa.

«L’Immaginazione» n. 163, dicembre 1999

RECENSIONI

SANTAGATA

MARCO SANTAGATA, IL COPISTA – GUANDA, MILANO 2020

 Di Marco Santagata (Zocca 1947), illustre e versatile accademico (insegna Letteratura Italiana all’Università di Pisa), l’editore Guanda ha ripubblicato un romanzo, Il copista, già uscito in forma meno ampia da Sellerio nel 2000 e nel 2007. L’attività di studioso di Santagata, che lo ha reso nome noto a livello internazionale, è rivolta soprattutto alla poesia di Dante e Petrarca (delle cui opere ha curato il commento nei Meridiani Mondadori), di Leopardi e dell’800-900. A questa sua principale occupazione, ha affiancato nel corso degli ultimi vent’anni quella, altrettanto rilevante, di narratore (Premio Campiello nel 2003, Premio Stresa nel 2006), cimentandosi in ricostruzioni narrative di ambienti letterari, in rielaborazioni di materiale scientifico, nella giallistica.

Proprio nella nota finale al romanzo di cui parliamo, Santagata afferma di aver intuito, a partire da quando lo ha iniziato nell’estate del 1999, la possibilità di ricomporre le sue due anime di scrittore, indagando in particolare “i nessi profondi, e perciò nascosti, che legano ispirazione e biografia”, e l’investimento emozionale da cui nasce un’opera creativa.

Ne Il copista viene raccontata una giornata autunnale di Francesco Petrarca: autunnale non solo perché si svolge in un nebbioso venerdì ottobrino del 1368, nella Padova (“Città schifosa!”) che ospitava i suoi ultimi malinconici anni di vita, ma perché l’intera atmosfera che avvolge il racconto è permeata di una sottile e grigia angoscia, di abbattuta rassegnazione e di disillusa inquietudine intellettuale. L’illustre poeta sessantaquattrenne si alza, dunque, prima dell’alba, pressato da una serie di malanni fisici (ulcera, artrosi, disturbi intestinali e urinari), ma soprattutto afflitto da “neghittosità e accidia” che lo inducono allo sconforto e a frequenti, immotivati scoppi d’ira. Colpito negli ultimi anni da dolorosi lutti (il figlio Giovanni morto di peste, come l’adorato nipotino Francesco in cui aveva riposto la speranza di una discendenza), e dalla fuga improvvisa del suo fedele copista, Giovanni Malpaghini (“Giovanni aveva assorbito il suo pensiero fin quasi al punto da identificarsi con lui stesso… copiava e nello stesso tempo mentalmente analizzava le pieghe più riposte del testo”), Francesco Petrarca si rifugia ora nei ricordi gloriosi della sua carriera letteraria e diplomatica, conscio di aver rappresentato per la cultura europea e per la Chiesa un luminoso esempio e un vanto ineguagliabile. Ma è tormentato dalla consapevolezza di non riuscire più a scrivere con l’entusiasmo e la grazia ispirata degli anni giovanili (si ripete “tu petrarcheggi, sei la scimmia di te stesso”), e di godere nel presente solo dell’eco di una fama leggendaria acquisita in passato. Rimpiange i viaggi e la frequentazione delle corti, le molte donne avute e la virilità perduta, la meditazione raccolta che gli offriva lo studio dei classici a Valchiusa, la privazione dell’affetto di una famiglia, impostagli dal voto di celibato ecclesiastico e dalla sua missione culturale. Con rimorso, ma sempre assolvendosi, rilegge i tormentosi rapporti con i due figli Giovanni e Francesca, nutrendo tacitamente il dubbio che anche il giovane e dotatissimo copista sia nato da una sua fugace relazione. Nella solitudine in cui è immerso, fedele compagnia è quella dell’anziana servetta analfabeta e deforme, che si muove nelle stanze ronzando leggera come un insetto, e poi quella offertagli da rari visitatori: l’amico Boccaccio, che lo implora di ricordarlo nelle opere che scrive, e il Signore di Padova, il colto Francesco da Carrara, suo fervido ammiratore e protettore.

Marco Santagata, in una scrittura elegante e forbita, si rivela molto attento alla ricostruzione dell’ambiente medievale (dalle suppellettili all’abbigliamento), e puntuale nelle citazioni dei versi del poeta aretino. Il suo romanzo assume un ritmo più coinvolgente quando affronta la crisi intellettuale attraversata dal protagonista, nel momento in cui decide di riprendere una canzone in sei quadri, in precedenza solo abbozzata e poi dimenticata, per raccontare la morte di Laura, musa ispiratrice di tutto il Canzoniere.

Nel corso della rielaborazione, Petrarca non solo prende coscienza della falsità della raffigurazione mitica della donna angelicata (“la nostra matrona sfiancata dalle gravidanze? … quel culone ballonzolante e quella pancia gonfia che neppure si distingue dalle tette?”), e quindi della propria passione illusoria e artificiosa, ma si scopre tormentato da ben più angosciosi rovelli spirituali, che lo inducono a interrogarsi sull’immortalità dell’anima e persino a rinnegare la fede cristiana.

Santagata ripercorre la composizione della canzone per Laura (la 323 dei Rerum vulgarium fragmenta) nelle varianti, commentandone le figure retoriche e intrecciandola con episodi e personaggi, spesso di fantasia, dell’infanzia e della maturità del poeta. Arrivato alle soglie della morte, Petrarca scopre, in una disperazione fredda ma serena, “che l’anima non esiste, che la vita non avrà né premio né castigo”. Nemmeno il riconoscimento di una fama dichiarata universalmente riesce a riscattare la sua intera esistenza dall’insignificanza: la stessa poesia è “labile consolazione”, favola, inganno che allontana dal vero, e l’amore è una costruzione della mente, un abbaglio della fantasia. L’ultimo verso vergato a conclusione della canzone per Laura suona dunque sconfortato e disilluso: “o mondo rio, nulla in te dura!”

Ma sarebbe opportuno sconfessare la propria opera, sacrificare la celebrità raggiunta per proclamare al mondo con assoluta sincerità quel suo nuovo orientamento intellettuale, scettico e irreligioso? “Sessant’anni di fatica, di lavoro, di sopportazione, una vita passata a sgusciare tra cardinali, signorotti, papi e imperatori, essere diventato Francesco Petrarca, conte Palatino per merito dell’ingegno, e poi distruggere tutto così, stupidamente, per quattro versi nati dalla fantasia di un ubriaco”.

La decisione del poeta è umanamente comprensibile, anche se non eticamente giustificabile: “Salviamo la gloria, che è l’unica via per sopravvivere”. I versi finali della canzone a Laura vanno modificati, in ossequio all’onore del mondo e alla fede cristiana.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SANTAYANA

GEORGE SANTAYANA, CHE COS’È L’ESTETICA? ‒ MIMESIS, MILANO 2019

Le cinquanta paginette di questo piccolo volume di George Santayana comprendono un’introduzione e una postfazione di Giuseppe Patella, una esaustiva bibliografia, le indispensabili informazioni biografiche e il testo di un breve e singolare saggio, Che cos’è l’estetica?
“Santayana chi?”, ironizza il curatore nel titolo della prefazione: perché di questo prolifico e raffinato filosofo-scrittore (nato a Madrid nel 1863, trasferitosi bambino negli Stati Uniti, stimato professore a Harvard per decenni, poi rientrato in Europa e stabilitosi a Roma, dove morì nel 1952 in un convento di suore, pressoché dimenticato da tutti), non è rimasta che una vaga eco di gravità teorica e morale.
La sua poderosa ed eclettica produzione letteraria (comprendente interventi critici su vari aspetti dello scibile umano, epistolari, poesie, articoli militanti, una biografia, il romanzo bestseller L’ultimo puritano) in Italia è stata tradotta e commentata in misura molto limitata. Secondo Patella, questa indifferenza a uno dei maggiori scrittori americani del XX secolo è dovuta in parte alla difficoltà di inquadrare la sua figura intellettuale in uno schema ben definito: estraneo a ogni scuola, cattolico poco tradizionale, rivoluzionario e conservatore insieme, solitario e bohémien, serenamente rigoroso negli atteggiamenti, era insofferente di ogni mondanità e accademismo.

Anche il saggio ora pubblicato da Mimesis, scritto nel 1904, non è facilmente classificabile come dissertazione filosofica. Infatti, Santayana nega all’estetica la definizione di categoria scientifica, separata da altri specifici rami del sapere. Essa può essere ritenuta un ramo particolare della psicologia, dell’etica, della storia dell’arte, della critica letteraria: eppure travalica tutte queste discipline, pur essendo apparentata a ciascuna di esse. “L’esperienza estetica è così estesa, multiforme e così sottilmente diffusa in ogni aspetto della vita che, come la vita stessa, estende la riflessione in diverse prospettive”.

Poiché riguarda la bellezza, appartiene sia al mondo reale che a quello ideale, agli oggetti concreti come alle loro immagini e al loro valore astratto. Musica e poesia non si possono toccare, un dipinto si può solo guardare: eppure i nostri sensi vengono sollecitati, l’immaginazione è stimolata, la ragione viene coinvolta in un giudizio quando ci rapportiamo ad essi. “I regno del bello non è un recinto scientifico; al pari della religione è un campo di esperienze sublimate che diverse scienze possono parzialmente attraversare, ma nessuna può interamente ricoprire”. Il piacere estetico, sia che nasca dall’ osservazione o invece dalla creazione, perfeziona e nobilita qualsiasi altro valore, anche quello utilitaristico, perché si basa sempre su qualcosa di sostanziale e razionale, e integra ogni attività umana, affermandone con pienezza la vitalità e la spontaneità immaginativa. Pertanto, l’estetica per George Santayana non ha validità e spessore come disciplina autonoma, bensì come esperienza che coinvolge ogni aspetto della vita, rendendola più armoniosa, più giusta, bella e buona, in sintonia con la felicità a cui deve tendere il moto perpetuo dell’esistenza universale.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Che-cos-e-estetica-Santayana.html        20 settembre 2019

RECENSIONI

SANTI

FLAVIO SANTI, MAPPE DEL GENERE UMANO – SCHEIWILLER, MILANO 2012

Il titolo di questo volume di Flavio Santi (1973) è senz’altro accattivante: «al confine tra la cartografia che uccide l’incanto dei mondi sconosciuti, e la genetica, che chissà cosa uccide», scrive nella sua generosa e ammirata prefazione Emanuele Trevi. Che definisce Santi «un pantografo in versi della nostra condizione di folli ridotti in cattività… stimolato da una dolente e sarcastica musa civile». Lo stesso autore poi esplicita la sua idea di poesia come «potenziale possibilità di mappare il genere umano, in un movimento dall’interno sempre più verso l’esterno, dall’Io all’Altro, in cerchi vorticosamente più concentrici». Con queste premesse, il lettore si avvicina alle pagine di Santi con trepidazione e grandi aspettative, sperando di venire folgorato da qualche metafora, soluzione stilistica, idea illuminante e rivelatrice che ci salvi dalle tenebre che ci sommergono. Ecco quindi il poemetto iniziale, dedicato a due icone nazionali di una generazione inquieta e travolta dalle sue stesse aspirazioni (Marco Simoncelli e Pietro Taricone) in cui il poeta si finge ironicamente clone di un grandissimo di due secoli fa: «mi sono ritrovato anch’io, / per chissà quale oscuro evento, / a nascere Giacomo Leopardi oggi, / che responsabilità, a culo scoperto in pratica». Quindi il dialogo-rispecchiamento-sbeffeggiamento con le figure, i temi, il mondo e la filosofia leopardiana diventa un irriverente e polemico scontro con la tradizione, la storia passata, i maestri celebrati che più nulla sembrano avere da insegnare alla disperazione attuale: «vaghe stelle e solitarie notti da masturbare, / e tu luna che fai tu luna? / Abbandonato, occulto / tutta la notte con in mano il rasoio / del proprio cazzo e con l’altra a cercare / buchi di talpa nella rete / quando davanti non passa / un concilio, un papa, un Pio benedicente, / nemmeno un’etica erotica o pornografica / ma solo il proprio stare qua, in questo / natio sito selvaggio, investito / dalla luce del video, / le mani umide / di chi si è appena fatto, / non mi sono ancora pulito ,/ qualche goccia sulle dita / naufragare il corpo…».

E ancora: «O Nerina, Nerina mia. / La prima della serie: gambe aperte. / Le braccia conserte sui seni, / niente ostensione ascellare. / Nerina, hai la figa slabbrata / ma io ti chiaverò di solo pensiero». Il percorso che il poeta traccia dall’Io all’Altro è quindi scandito nelle varie tappe della sua crescita fisica, culturale, professionale e sociale: dai primi turbamenti sessuali dell’adolescenza, (con un’ esibita ossessione onanistica), agli scontri con l’ambiente familiare ottuso e asfissiante («Odio questo / Papà / fatto di dialisi e di fernet / che ha un inferno nel ventre. / Papà, cacca.»), alla satira rabbiosa contro il sistema universitario, le sue umilianti trafile burocratiche, i compromessi accettati o subiti per arrivare alla cattedra. E il cerchio della denuncia civile si allarga via via fino a comprendere l’ufficialità culturale («borghesi illustri / pieni di letame, morite o vivete / siete sassi, tanto è uguale»), il sindacato («Il sindacato poi è stato / un imbarazzante equivoco, / visto che si sono comportati / come i peggiori fascisti ai ministeri / più inetti. Mandarini dallo stomaco / ostruito, gerarchi bavosi, / pieni di rogna e piegati / sul proprio piccolo cazzetto o / a grattarsi l’ano e soffiare scoregge / che divulgano per lotte di classe»), il mondo intero, corrotto e mefitico. A cui Flavio Santi propone qualche sua ricetta di filosofica analiticità, qualche suggerimento di riscatto: «la storia è fatta di strati / di merda e gemme d’onice», «Il cazzo è condiloma dell’anima, / sua antenna, escrescenza / e mucosa. Dialogare col cazzo / è dialogare con l’anima».
E impietoso è anche il giudizio su se stesso e i suoi imbelli coetanei: «Siamo la generazione perlana / offuscata dagli strapiombi, / dalle risse per vedere Moana», «scopro che ci siamo laureati, / ma non cresciuti, siamo uguali / ai nostri padri», «tuo figlio, guarda, ha il cuore spezzato / e il latte ai testicoli e tanto pantano / ma intanto -piccola normalità- / caga dall’ano».

Emulo probabilmente di un Pasolini ben più temprato di lui nella versificazione e nell’indignazione civile, Flavio Santi ci lascia con due versi che sono davvero e finalmente, i più riusciti del volume , in una poesia dedicata a un misero Bertolt Brecht (e non «Bertold»!) che non ha più niente da dire all’umanità: «vita assassina come farò / a chiamarti bellissima?». Da riflettere, allora, sulle parole del prefatore Emanuele Trevi: «Non credo di esagerare affermando che queste  ‘Mappe’  sono un’opera di altissima ispirazione, un risultato poetico che non assomiglia a nessun altro». Forse (forse) esagera.

 

«criticaletteraria», 2 aprile 14

RECENSIONI

SANTONI

VANNI SANTONI, TUTTI I RAGNI – DUE PUNTI, PALERMO 2012

La casa editrice palermitana :duepunti ha in catalogo un’originale collana dedicata a scritture “zoologiche”, in cui vengono pubblicati racconti che hanno come protagonisti gli animali.
Si tratta di libriccini stampati con inchiostri ecologici su carta riciclata al 100%: una proposta, quindi, rispettosa dell’ambiente, in linea con i contenuti narrativi che presenta. Nel caso di cui occupiamo, lo scrittore toscano Vanni Santoni (Montevarchi, 1978) ha dedicato una sessantina di paginette, simpatiche e veloci, a Tutti i ragni.

Se l’aracnofobia sembra essere la paranoia più diffusa tra gli italiani, secondo approfondite indagini statistiche, Santoni confessa di esserne rimasto vittima solo in età adulta. Perché da bambino i ragni lui li amava: li cacciava e catturava con i suoi amichetti (Federico, Tommaso, Francesca… ), nella casa di campagna, nelle cantine, nei boschi. E poi li torturava, staccando loro le zampette, soffocandoli nel miele, asfissiandoli in barattoli. Li trovava ovunque: in bagno, sotto le lenzuola, addirittura nel brodo preparato dalla nonna; ne studiava le caratteristiche e le abitudini sui libri, o li sceglieva come protagonisti dei videogiochi. Piccoli, grossi, pelosi, neri-gialli-marroni-rossi-rosa, filiformi o tozzi, spaventati o aggressivi, solitari o in colonie, velenosi come la vedova nera e il ragno eremita, giganti come la tarantola e la migale. Al liceo e all’università il futuro scrittore scopre i ragni nel cinema, nei fumetti, nei giochi di ruolo: e poi se li ritrova ovunque durante i viaggi in Nord Europa, in Texas, in India, nei campeggi o nelle camere d’albergo con le fidanzate.
Finché avviene la tragedia che trasforma negativamente il suo rapporto con la specie degli aracnidi: viene punto al mignolo da un ragno velenoso, al pronto soccorso lo anestetizzano e gli asportano la parte necrotizzata, ricucendola poi con cinque punti. Amore e interesse si convertono allora in diffidenza, paura, rabbia, odio cieco, sentimenti che possono essere riconosciuti e neutralizzati magari con l’esercizio di una scrittura ironica.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Tutti-i-ragni-Vanni-Santoni.html       30 maggio 2016

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SAPIENZA

GOLIARDA SAPIENZA, L’UNIVERSITA’ DI REBIBBIA – EINAUDI, TORINO 2012

Einaudi ristampa dopo trent’anni il romanzo che Goliarda Sapienza (intellettuale, attrice, femminista siciliana: donna libera e anticonformista) scrisse dopo la sua detenzione a Rebibbia per furto. Si tratta di pagine dense e veloci, dettate da un’ansia di resoconto e confessione che sopraffa anche la riflessione su ciò che significano colpa e castigo, pena e riscatto. «A sirene spiegate» l’autrice viene introdotta nel carcere, dapprima in una cella isolata, costretta in un silenzio e in un’immobilità innaturali che debilitano da subito anima e corpo e annullano qualsiasi fantasia o progettualità di futuro. Quindi trasferita in una cella comune, costretta a una promiscuità fisica e di pensiero che dapprima la sconcerta e spaventa, ma lentamente finisce per conquistarla a una consapevole, riconoscente solidarietà. Le sue compagne di prigionia appartengono in genere al popolo, si esprimono in romanesco, con un gergo colorito e iniziatico: sono condannate per spaccio di droga, furto, rissa, prostituzione, omicidio. Ma ci sono anche le detenute politiche, con una loro rabbiosa coscienza critica e utopistica. Hanno soprannomi di fantasia: Marilyn, Mamma Roma, James Dean, Annunciazione, Suzie Wong… Si amano e si odiano tra di loro, si picchiano e si denunciano alle guardiane, si invitano vicendevolmente nelle celle a prendere il tè, organizzano un loro mercatino interno, scrivono leggono cantano e imprecano, o vivono in una sorta di immobile catatonia. Ma le differenze di classe e di cultura rimangono inalterate come nel mondo di fuori: «Qui dentro noi privilegiati dalle famiglie, protetti fin da bambini dal bisogno vero, restiamo larve anemiche, né buoni né cattivi, né onesti né disonesti, a confronto di questa masnada di bucanieri che in un modo o nell’altro non s’è piegata ad accettare le leggi ingiuste del privilegio».

Una scuola di vita, anzi un’ università da cui si esce marchiati per sempre, diversi, e convinti che non si esiste se non nella collettività.

 

«Leggendaria» n.93, maggio 2012

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SARAJLIC’

IZET SARAJLIC’, CHI HA FATTO IL TURNO DI NOTTE – EINAUDI, TORINO  2012

Izet Sarajlic’, nato nel 1930 e morto nel 2002, è stato forse il più noto poeta bosniaco del 900, grazie anche all’immediatezza della sua scrittura, lontana da ogni intellettualismo e artificiosità letteraria. La sua esistenza ha attraversato due guerre sanguinose, la seconda mondiale e quella della ex Jugoslavia, perdendo in esse parenti stretti e amici cari, abitazioni e sicurezza economica, libri e pagine scritte. Ma nei suoi versi parla di queste tragedie con una sorta di pacata accettazione, accentuando soprattutto l’aspetto sentimentale dei suoi rapporti umani, la vitalità degli affetti che perdurano anche e nonostante i cataclismi storici. Così, il fil rouge che segna i cinquant’anni della sua poesia è senz’altro l’amore unico e insostituibile per la moglie, dagli anni giovani alle visite bagnate dalla pioggia alla tomba di lei, in versi commossi: «Un immortale agosto ti ha portato nelle mie ballate», «al cinquecentesimo chilometro dell’amore / ti amavo esattamente come al primo», «da quando sei andata via tu / è come se fosse andata via anche la città», «Cosa facevo io mentre durava la storia? / Mi limitavo ad amare te».

Talvolta tuttavia eccedendo in qualche banalità, od effetto troppo facile: «In questa tristezza che ci opprime entrambi, / e io piango, piango, piango, / perché sono tempi duri per l’amore, sempre più duri», «In quest’anima si è ammucchiata / tanta tristezza, /tanta delusione, / tanta amarezza, / tanta disperazione», «Oggi per me è importante ogni giorno / in cui ti posso guardare».

Alcune sue soluzioni stilistiche potrebbero ricordare Prévert, o un nostro Saba alquanto diluito: manca del tutto il senso del tragico, e ogni descrizione appare sospesa in una levità lontana dalle passioni. Quindi anche Auschwitz e Sarajevo sono vissute attraverso le sofferenze particolari di una sola anima, e non dei destini collettivi di un popolo. Qualche accennata ironia si riserva alle incongruenze e al conformismo della cultura letteraria, mentre il rimpianto è tutto per il tempo dei sentimenti che fugge: «La vita è trascorsa, e se ne va via. / Resta da scriverci una poesia», «L’epoca della grande arte è passata. // Io / almeno / c’ho vissuto dentro». E rimane comunque in chi legge questi versi l’impressione di cantabilità e semplicità eccessive, di un sentimentalismo esibito, di un consapevole e orgoglioso rifiuto dell’elaborazione linguistica, quale invece si presuppone in un poeta contemporaneo. Erri De Luca, nella sua partecipe prefazione ( in cui come sempre riesce a parlare di se stesso anche quando deve parlare di un altro) afferma: «In un poeta cerco, esigo che la sua vita sia all’altezza della sua pagina»». Giustissimo: ma anche la pagina deve essere alta.

 

«Atelier» n.65, marzo 2012

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SARCHI

ALESSANDRA SARCHI, VIOLAZIONE – EINAUDI, TORINO 2012

In questo romanzo di Alessandra Sarchi si fronteggiano due nuclei familiari, due ambienti culturali e soprattutto due diversi modi di affrontare l’esistenza. La prima famiglia è quella costituita da Primo Draghi -possidente terriero e costruttore edile-, sua moglie Genny, le loro due bambine, la nonna e alcuni inservienti rumeni. Orgogliosamente consapevole delle proprie possibilità economiche e delle proprie ambizioni, questa famiglia vive a pochi chilometri da Bologna, in una tenuta agricola che vorrebbe trasformare in sito residenziale, aggirando fraudolentemente qualsiasi vincolo paesaggistico, violentando il territorio con inqualificabili abusi, sfruttando la manodopera straniera e imbrogliando malcapitati e ingenui acquirenti. Solidali nella loro disonestà finalizzata al puro arricchimento senza scrupoli, i coniugi Draghi sono tuttavia genitori modello, teneramente attenti allo sviluppo delle figlie: in particolare affettuosissimi con Vanessa, gravemente disabile. Di tutt’altro spessore etico e intellettuale la seconda coppia, formata dall’architetto Alberto Donelli e dalla ricercatrice universitaria Linda, che vivono freneticamente in un piccolo appartamento del centro città, insieme ai due figli Filippo e Martina: nostalgicamente attratti dal recupero di una dimensione più umana del vivere, all’interno di spazi naturali e incorrotti. I Donelli quindi abboccano all’amo astutamente offerto loro dai Draghi, e acquistano una casa nella loro tenuta, senza sospettare di stare sprofondando in un tranello economico ed ecologico.
Alessandra Sarchi ha ideato un plot narrativo di indiscutibile interesse, che sfiora diverse e impegnative tematiche: rancori familiari e ambizioni di riscatto sociale, arrivismo e corruzione, sfruttamento dell’immigrazione e cementificazione delle campagne, abusi edilizi e compromessi politici. Ma la resa stilistica che ne deriva risulta piuttosto deludente. Il tono è spesso involontariamente didascalico, quasi che l’autrice si sentisse in dovere di spiegare al lettore vicende storiche, evoluzioni di costume, scoperte scientifiche, tesi filosofiche man mano che i protagonisti del romanzo si presentano sulla pagina con le loro specifiche professionalità e ideologie. Così della neurologa Linda veniamo a conoscere le ipotesi di studio sui «segnali intrasinaptici» e sulle scoperte di Mc Culloch e Pitts; di suo marito Alberto scopriamo che si tormenta sulla «dicotomia sviluppo umano-rispetto dell’ambiente», pronto tuttavia ad abdicare ai suoi ideali per banali interessi di carriera; dal costruttore edile Primo Draghi, fedele al motto «urbanizzare e vendere», recepiamo formule di successo basate su un realistico buon senso capitalistico: e contemporaneamente veniamo catechizzati da allarmanti e fosche previsioni sul surriscaldamento terrestre, sullo smaltimento dei rifiuti tossici, sulla disumanizzazione della medicina, sulla corruzione morale scaltramente inoculata dai media nelle anime più indifese. Anche i dialoghi sembrano spesso costruiti e artefatti, con giardinieri che parlano come libri stampati, immigrati clandestini eloquenti, ragazzini insopportabilmente saccenti e poco credibili. Al punto che dopo l’omicidio efferato con cui si chiude il volume, a scapito dell’unico personaggio davvero innocente e nobile, ci imbattiamo in uno scambio di battute di questo tenore: «Ma perché l’ha fatto?» «E saperlo cosa ti cambia? Credi che un atto criminale sia maggiormente pensato e voluto rispetto a un atto innocuo? Questa differenza, secondo me, non esiste».
Forse una vicenda ricca di stimoli e provocazioni come quella ideata da Alessandra Sarchi meritava un restyling maggiormente accurato, per evitare ingenue o noiose banalità che possono infastidire anche il lettore più bendisposto.

 

«Leggere Donna» n.166, gennaio 2015

RECENSIONI

SARTRE

JEAN PAUL SARTRE, LA RESPONSABILITA’ DELLO SCRITTORE – ARCHINTO, MILANO 2012

Bene ha fatto l’editrice Archinto a proporre questa prima traduzione in italiano della conferenza che Jean Paul Sartre tenne nel 1946 all’Unesco, offrendo al lettore la possibilità di meditare sulla tensione utopistica, di irriducibilità ideologica e insieme di archeologica ingenuità delle parole del filosofo francese. Chiusa da appena un anno l’esperienza tragica della seconda guerra mondiale, della resistenza al nazismo, con la sua ansia di libertà e la candida esigenza di una nuova giustizia sociale, l’intellettualità occidentale faceva i conti sia con i suoi complici e vili silenzi, sia con rivoluzionari orizzonti di engagement futuro. Sartre appare consapevole, elettrizzato e quasi spaventato dalla responsabilità che lo scrittore del secondo novecento ha nei confronti della società, e soprattutto nei riguardi degli oppressi (“l’infelice coscienza marxiana”!), in un’epoca in cui la comunicazione sta assumendo dimensioni prima sconosciute (quello che oggi definiamo “villaggio globale”, lui lo chiamava più romanticamente “one world”…). E molto insiste sull’ambiguità dello scrittore postbellico, stritolato tra la sua provenienza borghese, il suo ruolo di disvelatore dei meccanismi di oppressione sociale e politica, il suo dovere di denunciare qualsiasi sopruso, violenza, negazione della libertà.

«Lo scrittore scrive perché, in un mondo in cui la libertà è costantemente minacciata, si assume il compito di ribadire l’affermazione della libertà». Dovere della letteratura è quindi quello di trasformare la realtà, facendosi parola ed espressione: «La letteratura trasporta un fatto immediato, irriflesso, forse ignorato, sul piano della riflessione e dello spirito oggettivo»; e ancora : «Opprimere i neri non era niente finché qualcuno non ha detto ‘I neri sono oppressi’ ». La missione, il compito e la responsabilità che Sartre affida allo scrittore è quindi smisurata e gravosa, e oggi la sentiamo sperequata e illusoria rispetto al ruolo secondario che arte e letteratura rivestono in un mondo sempre più asservito e dominato dall’economia. Il “pentalogo” di compiti che delinea per l’intellettuale moderno ci appare ingenuo e utopistico. Chi mai si azzarderebbe oggi a definire lo scrittore un uomo libero, condizionato com’è dalle scelte editoriali, dal mercato, dalle mode filosofiche? Se è vero che gli intellettuali occidentali sono sempre stati legati a doppio filo al potere (un tempo militare, ecclesiastico, politico; oggi soprattutto mediatico e finanziario), chi affiderebbe ad essi, oggi, il riscatto degli oppressi, la critica delle classi dirigenti, la rivendicazione dei diritti calpestati? Sartre, già nel 1946, intuiva il paradosso in cui viveva e operava lo scrittore, se poteva scriverne: «Quando egli cerca di difendere la libertà di pensiero, non si sente la coscienza a posto, perché, nonostante abbia assolutamente ragione, in un certo senso difende soltanto la propria libertà: che cosa significa ‘libertà di pensiero’ per un’operaia che cuce stivaletti?», e ancora: «o parla tanto per parlare, ed è un commovente, puro e semplice idealista, o imbroglia le carte. In entrambi i casi sbaglia. Ondeggia senza tregua».

Questo scriveva più di sessant’anni fa il filosofo che rifiutò il Nobel: ma oggi le coscienze critiche della letteratura le troviamo nei salotti televisivi, nelle mortificanti classifiche dei best-seller, a contrastare l’esibito e forse giustificato disinteresse dei non lettori.

 

«Orizzonti» n. 42, 2013

RECENSIONI

SAUNDERS

GEORGE SAUNDERS, L’EGOISMO E’ INUTILE – MINIMUM FAX, ROMA 2014

Dello scrittore americano George Saunders (1958), di cui in Italia sono state pubblicate quattro raccolte di racconti, molto celebrate e premiate negli USA, la casa editrice romana Minimum Fax propone due brevi saggi dedicati rispettivamente alla gentilezza e al dominio dei media nella società contemporanea. Se il primo intervento sottolinea con garbo e delicatezza l’urgente necessità di rinunciare, oggi e nei rapporti interpersonali, all’egoismo e alla sopraffazione derivanti dalla volontà di raggiungere posizioni di prestigio, rifacendosi invece a un’esigenza etica di rispetto per gli altri e per la propria vita, nel secondo capitolo Saunders risulta più polemicamente ironico e dissacrante, meno serafico e conciliante. I suoi strali, ragionevolmente puntuti e spesso sarcastici, sono rivolti contro “l’informazione deficiente” da cui siamo intontiti nei messaggi mediatici, e da cui ci lasciamo convincere e intorbidire mentalmente rinunciando a qualsiasi spirito critico. Un’informazione sempre più prona agli interessi economici e politici di chi ci governa, agendo sui nostri meccanismi di difesa, di paura, di dipendenza: e rendendoci illusi gregari in una corsa esistenziale che non riusciamo più a indirizzare secondo le nostre vere priorità. Ormai qualsiasi dj radiofonico, qualsiasi imbonitore pubblicitario, e qualsivoglia Talent show o fiction televisiva è in grado di condizionare milioni di persone più di un premio Nobel. I media non si interrogano tanto sulla validità o veridicità di una notizia, quanto sulla sua capacità di “fare colpo”, di reclutare ascolti, e in concreto di realizzare profitto. Usando spesso volgarità e sproloqui, esasperazioni e gusto per il torbido, pur di ottenere audience. Il volume si conclude con un’intervista di Christian Raimo all’autore, che sempre con ironia e intelligenza racconta di se stesso, della sua fiducia buddhista in un mondo più umano, e nel dovere morale di chi scrive nei riguardi dei lettori e della sua stessa scrittura.

IBS, 25 agosto 2014