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RECENSIONI

SAUNDERS

GEORGE SAUNDERS, PASTORALIA – MINIMUM FAX, ROMA 2014

Dei sei racconti (stralunati, sarcastici, polemicamente amari) che compongono il volume, il primo è quello più programmaticamente inverosimile e insieme più plausibile in un prossimo, paradossale futuro della nostra illogica umanità. La voce narrante della vicenda – che impersona un cavernicolo in un parco a tema interattivo – vive con la collega Janet in una grotta, scuoiando capre di cui si cibano entrambi, catturando scarafaggi, raccogliendo rifiuti e grugnendo tutto il giorno per divertire i turisti. La sera deve redigere per l’amministrazione un modulo di valutazione del successo ottenuto con il pubblico e del rapporto con la partner, e inviarlo via fax. Sia lui sia Janet hanno i problemi familiari ed economici di qualsiasi altro lavoratore del parco, e di qualsiasi spettatore: figli malati o drogati, possibilità di licenziamento, furti, anziani a carico. Ma tutto risulta farsesco o indifferente a fronte della recita assurda che sono chiamati a interpretare quotidianamente. Tragicommedie simili animano le pagine degli altri cinque racconti, i cui protagonisti sono sempre dei perdenti, persone di scarsa istruzione e in gravi difficoltà economiche, illusi di poter trasformare magicamente la propria esistenza per qualche improvviso intervento divino o della sorte, o per un improbabile e mai realizzato scatto d’orgoglio personale. Così ci imbattiamo nella famiglia proletaria che vive di espedienti al limite della legalità e del buon gusto, con una vecchia e amatissima zia risorta dalla tomba per rimettere tutti in riga con l’autorità minacciosa di una rivoltante zombie. Oppure nello sfigato che segue un ridicolo seminario sull’autostima nella vana speranza di riuscire a imporsi sulla sorella deficiente e ricattatoria. In uno stile veloce, fitto di labirintici percorsi mentali e dialoghi surreali che ben esprimono la banalità del quotidiano, George Saunders ci offre un realistico e commovente spaccato dell’America attuale, impoverita e disorientata.

IBS, 25 agosto 2014

RECENSIONI

SAUNDERS

GEORGE SAUNDERS, LINCOLN NEL BARDO – FELTRINELLI, MILANO 2017

George Saunders, texano nato nel 1958, ingegnere geofisico di formazione, in seguito scrittore e saggista di fama, ha espresso una sua originale vena di autore satirico attraverso la proposta di storie che utilizzando un tono tragicomico, rivelano una pungente critica alla società dei consumi e al ruolo manipolatorio dei media. In Lincoln nel Bardo (il primo romanzo dopo diversi volumi di racconti di successo) si misura con temi più profondi, e con le domande che da sempre si pone l’umanità intera: esiste una vita dopo la morte, rivedremo chi abbiamo amato in un ipotetico aldilà, come si può superare il dolore del distacco definitivo dai propri cari? Lo fa in maniera particolare, usando sia la leggerezza dell’invenzione fantastica, sia l’empatia che nasce dall’osservazione della sofferenza. La vicenda si svolge in una sola notte del 1862, quando l’America è impegnata nella guerra civile e il suo Presidente, il gigantesco – fisicamente e moralmente – Abramo Lincoln porta sulle spalle la responsabilità di guidare il paese nella tempesta, e contemporaneamente vive una sua privatissima e sconvolgente tragedia. Il figlio Willie, splendido e adorato undicenne, gentile d’animo e attaccatissimo al padre, muore per febbre tifoidea dopo una breve agonia. Saunders narra la disperazione dei genitori, il funerale gremito e straziante, le vicende politiche e belliche che continuano a sovrapporsi indifferenti.

L’invenzione dell’autore, che rende il romanzo assolutamente insolito e sorprendente, consiste nell’intercalare ogni momento narrativo con testimonianze cronachistiche dell’epoca (diari, articoli, memorie) e attraverso commenti pronunciati da un coro di trapassati, che osservano e giudicano dall’Aldilà ciò che succede nell’Aldiquà. Una sorta di popolosa e democratica Commedia dantesca, di vociante e confuso Spoon River in cui si radunano potenti e diseredati, nobildonne e ruffiani, sguattere e accademici di ogni età, rievocanti con nostalgia o rabbia, con rimpianto o sete di vendetta la loro esistenza terrena e i particolari del decesso che persistono a non accettare, ritenendosi imprigionati in uno stato onirico destinato a infrangersi magicamente, catapultandoli nuovamente nell’esistenza precedente. Questo affollato Eliso vede quindi arrivare l’ombra impaurita e disorientata del piccolo Willie Lincoln, quando il suo corpo fisico viene invece seppellito nel cimitero di Georgetown, accompagnato dal pianto angosciato dei parenti e dal cordoglio di tutta Washington. La notte stessa, il Presidente torna a visitare la sepoltura del figlio, solleva la pietra tombale, scardina la bara e stringe a sé il cadavere del piccolo, accarezzandolo, mormorandogli parole affettuose, in una delle scene più toccanti del libro, mentre il fantasma di Willie «sfrecciava avanti indietro lì accanto, in un evidente parossismo di frustrazione», stizzito perché il papà cullava la sua forma morta ignorando il suo spirito bisognoso di attenzione e conforto. Così l’anima del bambino decide di rientrare nel proprio corpicino irrigidito, per ritrovare nell’abbraccio paterno la calda intimità del tempo vissuto.

Dall’alto, i defunti stipati nel Bardo (riferimento al “Libro tibetano dei morti”, che indica con tale nome il momento del trapasso) osservano questa incredibile reincarnazione, sperando che lo stesso miracolo possa ripetersi per ognuno di loro. Infatti il limbo viene invaso da una valanga di parenti e amici urlanti, imploranti, recriminanti, furiosi, dando inizio a una sarabanda di scambi tra passato e presente, vita e non-vita, assurdo e razionale, finzione e verità, santità e demonismo che sottolineano come sia sottile il confine che separa la tragedia dalla farsa, la ragionevolezza dalla pazzia, l’eresia dalla fede. I trapassati fanno visita ai cimiteri terreni, i sepolti riprendono i contatti con i viventi, gli scheletri danzano, la vegetazione si anima, silenzi paurosi si alternano a urla assordanti, in un bailamme infernale e celeste in cui l’ultima drammatica domanda rimane quella sull’essere o il non essere.

Abramo Lincoln, nello stesso giorno del suo lutto privato, viene informato dell’eccidio in cui sono sati uccisi più di mille giovani soldati: altri genitori affranti, altro dolore inconsolabile, altri interrogativi senza risposta. «Signore, perché? Perché tutto questo camminare, provare, sorridere, fare inchini, scherzare? Sedersi a tavola, stirare camicie, annodare cravatte, lucidare scarpe, programmare gite, cantare canzoni al bagno? Se poi devo lasciarlo quaggiù?» Anche il lettore, affascinato e sconcertato, si interroga sull’effettiva finalità dello scrivere, quando l’abilità letteraria offre esibizione di sé scommettendo sulle carte del dolore e della disperazione, con il timore che (per dirla con Montale e con il Bardo britannico), “tutti siamo già morti senza saperlo” perché “fatti della stessa sostanza dei sogni”.

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www.sololibri.net/Lincoln-nel-Bardo-Saunders.html        31 ottobre 2017

 

 

 

 

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SAVINIO

ALBERTO SAVINIO, TUTTA LA VITA – ADELPHI, MILANO 2011

Di questo volume pubblicato nel 1946, Giorgio Vecchietti scrisse che si trattava di un libro “al tritolo”, intendendo probabilmente che al di là del timbro svagato e dell’ironia lieve che caratterizza tutti e tredici i racconti, e li può far percepire dal lettore come un innocuo divertissement letterario, si cela una pungente intenzione dissacratoria e la serissima volontà di scardinare il fariseismo della morale borghese contemporanea. Nella prefazione, quasi a voler giustificare i contenuti e le forme delle novelle, poco obbedienti ai dettami del neorealismo allora imperante, Alberto Savinio scriveva: «Il surrealismo, come molti miei scritti e molte mie pitture stanno a testimoniare, non si contenta di rappresentare l’informe e di esprimere l’incosciente, ma vuole dare forma all’informe e coscienza all’incosciente. Mi sono spiegato? Nel surrealismo mio si cela una volontà formativa e, perché non dirlo? una specie di apostolico fine». Racconti surreali, quindi, istrioneschi, magici, di una comicità quasi stizzita: e sempre adombranti un umanissimo sberleffo, un tacito rimprovero, un richiamo anche severo a un’eticità e a un’onestà non di facciata. Gli oggetti parlano, in questo libro, rivelano tradimenti, bugie, fissazioni; e si muovono, partoriscono, si trasformano. Sono la cattiva coscienza dei loro proprietari: sempre più sinceri di loro, e stanchi della loro ipocrisia, della loro falsità. Il giudizio dell’autore trapela a volte esplicito («Che strana cosa la famiglia! Che casuale riunione di estranei!»), ma più spesso si insinua vendicativo e sarcastico, per esempio, nella scelta dei nomi dei protagonisti: un Candido Bove commendatore cornuto, un Dazio che paga pegno all’infelicità, un Eonio che non può invecchiare, un Leone codardo, una rigida fidanzata Chiappadoro, un’attempata vergine dal vaporoso nomignolo Fufù… E su ogni cosa e su ogni persona il sorriso amaro e insieme indulgente di Savinio.

 

IBS, 4 febbraio 2013

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SAYA

MARCO SAYA, INCORPOREI APPUNTI – MARCO SAYA EDIZIONI, MILANO 2022, p.124

L’antologia che Marco Saya (Buenos Aires 1953, editore e musicista jazz) ha da poco pubblicato, raccoglie una scelta di versi scritti in vent’anni di attività poetica, già usciti in diversi volumi. Testimoniano un percorso di consapevolezza letteraria che si dipana dagli esordi più intimistici, attraverso alcune sperimentazioni di stampo avanguardistico, per approdare al più controllato esito formale della produzione recente. Se nelle poesie dei primi anni duemila temi e toni prevalenti si situavano all’interno della discorsiva e pacata linea lombarda, con aperture morbidamente sonore (“Non ci è dato sapere / se i cari estinti anelino / a resuscitare e penso di no”, “Quel palloncino salì improvviso / scappato da una piccola mano”), in seguito la tensione etica sottesa è diventata più severamente esplicita e risentita, evidenziando un deciso rifiuto ideologico verso la cultura postindustriale e gli ambienti sociali e culturali effimeri, conformisti ed esclusivi proposti da un “capitalismo abortito”, da una “democrazia stuprata”.

La frenesia del lavoro compulsivo, la rincorsa al successo economico, il meccanicismo di rapporti umani vissuti all’insegna dell’interesse personale, vengono stigmatizzati con un fastidio che sa farsi rabbioso rifiuto: “Le parole mentono. / Nude si coprono”, “La disperazione scivola / al mio fianco, / mi accompagna nell’open space, / che fastidio tutte quelle voci / all’unisono”, “E tutti dicono. / Poi tacciono. / Si nascondono. // E tutti pretendono”. Milano, la città in cui Saya vive e lavora da più di cinquant’anni, diventa il simbolo di una disumanità crescente, a cui l’individuo spesso non riesce a opporre resistenza: “Simili a pappagalli ripetiamo / che c’è stato un giorno, / un mese, un anno e domani / ritorneremo alla “burlesque” / di questo tempo ignari / di un futuro e imprecisato / giorno, mese, anno”, “Perché non scappavamo da questo scempio? / Perché non distruggevamo il non senso? // Torniamo a essere normali. // Nella pazza incredulità / riprendiamoci gli oggetti smarriti”, “pause di respiro. / flash di intermittenza, / luci impazzite del microonde. / “dove corri?”, “in ufficio” meccanica risposta-suono. / suona il cell. / numero privato chiama”.

Chi scrive si abbandona sia a sconfortate confessioni bisognose di un’assoluzione, o autoassoluzione (“Mi sento / (sempre) / fuori dal coro / di chi ha fatto / della consuetudine / il minore dei mali”, “È strano vedersi che vivi, / ti domandi perché sei lì… in mezzo agli altri (chi?), “Svesto il cuore / del rivestimento”), sia alla ricerca di verità definitive, che aiutino a trovare un ancoraggio esistenziale, in grado di salvare dal “coma della vita”. Quando il “fardello umano” si fa più pesante, allora nasce il desiderio di rimescolare le carte, servendosi di “un mazzo nuovo / con altri giocatori”. Anche la musica offre salvezza, allora, soprattutto se modulata sulla passione di un’intera esistenza. Esperto chitarrista jazz, Marco Saya esprime in versi sincopati la sua riconoscenza alle note: “Jazz jazzbo dancer / nel vicolo bidonville / o nella tumefatta favela / o nella metro leggo metro / o city leggo in piazza affari”.

Frequente nel volume è la sperimentazione di stilemi diversi, utilizzanti calligrammi, reiterazioni, plurilinguismi, citazioni varie, così come termini scientifici tratti dall’astronomia, dalla fisica e dalla paleontologia, a testimonianza degli interessi culturali dell’autore, approdato all’editoria dopo una lunga professionalità vissuta nell’ambito dell’ingegneria informatica.

Gli “incorporei appunti” del titolo segnalano l’intenzione di un avvicinamento discreto alla poesia, dove i versi, scorporati da qualsiasi presuntuosa referenzialità autobiografica, rivendicano la necessità testimoniale di annotare e chiosare tempi e spazi della nostra comune avventura terrena.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Incorporei-appunti-Saya     21 gennaio 2022

 

 

 

 

RECENSIONI

SCARABICCHI

FRANCESCO SCARABICCHI, IL PRATO BIANCO – EINAUDI, TORINO 2017

Nel 1997 il poeta Francesco Scarabicchi (Ancona 1951) pubblicò presso il piccolo editore bresciano L’Obliquo una raccolta di poesie, Il prato bianco, che venne accolta con notevole interesse di critica, e che oggi Einaudi ripropone nella sua prestigiosa collana “bianca”. E proprio il bianco (inteso come candore, pulizia, sospensione neutra), è un non-colore che ricorre non solo nel titolo del volume, ma in tutto il corpo del testo: «i miei pensieri bianchi / come il sale», «la strada bianca», «povero niente bianco», «passo di notte bianco», «un’ombra bianca», «questa nebbia / bianca» … La stessa chiarità che anima i ricorrenti lucori, le albe, le luci domestiche e notturne, le nebbie soffuse e le nevi. Nessun altro colore, in questi versi, se non un «innocente azzurro», un pallido verde, un grigio. Una discrezione che viene ribadita dalla scelta degli aggettivi, mai imperiosi, e invece appena suggeriti: muto, spento, povero, lontano, calmo, vago, solitario, tenero, tranquillo, paziente, leggero, breve, sospeso, vano, arreso, chino, trepido, impreciso, segreto, sommesso, consueto… molti dei quali più volte ripetuti, a sottolineare una modalità di tono volutamente dimesso, non prevaricante. E così avviene anche per i titoli che scandiscono le varie sezioni: Ombre, Soglia, Bisbigli, La sosta, Le serre silenziose, e i sette Preludi, che sembrano indicare un avvicinamento, un presagio, un suggerimento più che una reale entrata, presa di possesso, irruzione nella concretezza del reale.

Scarabicchi sembra osservare il mondo e se stesso da una sorta di impalpabile estraneità, quasi in punta di piedi e sempre sottovoce, aborrendo qualsiasi veemenza o imposizione, «lasciando intatti / il garbo e la misura»: «Seduto a lume spento, / ho visitato / il mondo senza me», «prima che possa anch’io / fare a meno di me», «Piano m’abituo a perdere, paziente».  Non solo il paesaggio, con le sue stagioni e i suoi panorami, sfuma in un’indistinta lontananza, timorosa dell’appropriazione sopraffattrice; anche le figure umane, persino le più amate (la donna che «guarda senza colpe», il caro amico e maestro Franco Scataglini), sono tratteggiate con un pudore timoroso di offesa, in cui il non detto, il sottinteso, assume una pregnanza e un valore più evidente delle parole stesse («Sta seduto di spalle l’uomo solo», «Che ne sarà dell’uomo / paziente e solitario / che vedo rincasando, / dipingere un cancello?», «Rari passanti scendono con calma / e poi scompaiono»).

L’evidenza va oscurata, nel prediligere sempre la discrezione dell’ombra («la garza della luce», «vetro affumicato»); e “ombra”, appunto, in tutte le sue declinazioni, è sostantivo privilegiato, rispetto all’invadenza della luminosità («Finalmente distanti / dalla noia del sole»). Un’ombra che diventa metafora dello sguardo socchiuso con cui il poeta si pone davanti alla brillantezza, troppo esibita e aggressiva, della realtà. Allora l’epigrafe di sei versi in regolarissimi endecasillabi con cui si apre il volume diventa una dichiarazione di poetica, la perfetta introduzione (non solo estetica ma soprattutto etica), al suo credo: «Porto in salvo dal freddo le parole, / curo l’ombra dell’erba, la coltivo / alla luce notturna delle aiuole, / custodisco la casa dove vivo, / dico piano il tuo nome, lo conservo / per l’inverno che viene, come un lume». Porto in salvo-curo-custodisco-dico piano-conservo: un’attitudine materna alla dolcezza, all’attenzione, alla cura. Che stranamente ritroviamo in molti poeti contemporanei occidentali, da Strand a Jaccottet, da Larkin a Bonnefoy, dai nostri De Signoribus, Damiani, Fo, Lanaro, Riccardi e Pusterla, ai recentemente pubblicati –  proprio da Einaudi – Strumia e Consonni: quasi che il rifiuto di un imporsi virilmente e retoricamente aggressivo sia stato introiettato anche a livello stilistico, con la scelta meditata di un’introspezione minimalista e intenerita. Mentre ci imbattiamo frequentemente in una poesia femminile ben più puntuta, armata, energica: dalla Sexton alla Cassian, per arrivare alle italiane Cavalli, Valduga, Gualtieri, Insana, Frabotta, Annino, Calandrone, Policastro. Sarebbe divertente indagare gli stili poetici attuali anche da un punto di vista sociologico e psicanalitico, sia nei più docili arretramenti maschili sia nelle spavalde perentorietà femminili.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Il-prato-bianco-Scarabicchi.html    19 gennaio 2017

RECENSIONI

SCARABICCHI

FRANCESCO SCARABICCHI, LA FIGLIA CHE NON PIANGE – EINAUDI, TORINO 2021

Nella quarta di copertina, vengono così presentate le poesie comprese in questa raccolta einaudiana, purtroppo postuma, di Francesco Scarabicchi (Ancona 1951-2021), intitolata La figlia che non piange: “Il lirismo sommesso ed essenziale tipico del poeta marchigiano è qui al servizio di un libro testamentario in cui il poeta fa pacatamente i conti con la fine della vita, avvertita ormai come imminente. Senza mai indulgere al pathos, attenendosi a quella sobrietà linguistica, a quel «monachesimo lessicale», come scrisse Enrico Testa, che chi ha letto Il prato bianco e gli altri suoi non numerosi libri ha imparato a interpretare come indicazione etica non meno che come scelta stilistica”.

Libro testamentario, dunque, malinconicamente teso nella consapevolezza di una fine ormai prossima, ma nello stesso tempo proteso generosamente verso un futuro che non riguarderà chi l’ha scritto, ma gli altri, tutti gli altri: i cari più amati, gli amici degli anni giovani e i sodali del tempo più responsabile, i poeti letti, i pittori ammirati, e insomma ogni vivente che respira e si muove intorno, insieme alla solidità consolante e protettiva degli oggetti, delle case, dei paesaggi. Così si alternano considerazioni sul passato irrecuperabile, e su un domani riservato a chi sopravvivrà:

“Sarò puntuale quando sarai notte, / starò dalla tua parte a ravvisarti / gli anni di molte insonnie e passi calmi. / Avrò quel viso che non so di avere, / dirò parole appena per fermarti / sull’unico confine che scompare”, “Si decida il contabile del tempo / a restituirci gli anni non vissuti, / tutti i sogni, le cose, / i persi sguardi, / le idee che vanno, veloci, a scomparire”.

La prima quartina del memorabile sonetto petrarchesco (“La vita fugge, et non s’arresta una hora, / et la morte vien dietro a gran giornate, / et le cose presenti et le passate / mi dànno guerra, et le future anchora”), insieme al “fugit inreparabile tempus” virgiliano, vengono ripresi da Scarabicchi in classicissimi endecasillabi: “Dalla parte del tempo passa il mondo, / dai suoi sentieri ignoti, dalle strette / vie degli istanti che non torneranno”, “ad ogni passo se ne vanno i giorni”, “Ah, il tempo che passa alle mie spalle, / sulle mie scarpe nuove, sulla pelle”, “Come scompaiono veloci gli anni, / come portano doni ad ogni giorno”, “Ore degli anni che ti lasci indietro, / minuti d’ogni epoca che è stata”.

Ma non è l’unico argomento, lo scorrere dei giorni e l’avvicinarsi del tramonto, a essere affrontato dal poeta: ci sono versi civili, irosi contro un’Italia scaduta politicamente e socialmente, contro “questo adesso inerme”, che fa rimpiangere “un sogno infranto, un’utopia perduta”. Anche le scelte formali sono varie, diversificandosi tra brevi prose ritmiche (“L’esito di un’attesa”), modulate in endecasillabi o quinari mimetizzati narrativamente, allineati senza andare a capo. O tra serie di acrostici dedicati al nome di un amico, e ai giorni della settimana. Ancora, altri distici riassumono specifici caratteri dei dodici mesi e delle stagioni, indicando quanto il tempo e la sua scansione cronologica siano un tema fondante di tutta la raccolta: “Autunno: È una quieta bellezza a dominare / l’intero mondo, i campi, le colline”, “Ottobre. Mese del mosto e del pane di vino, / vendemmia delle ore e del conforto, // lume di tempo quieto del destino, / nome dell’umiltà, bosco, cammino”.

La scelta del metro e del lessico, così piani e cantati, rientrano nella nostra più collaudata tradizione elegiaca, riecheggiante magari alcune atmosfere di Sandro Penna, ma volutamente straniate nella proposta di termini desueti, antichi (m’aggrada, lasca, contrada, s’avvera, duole, compìta). Sulle orme leopardiane, poi, silenzi, spazi infiniti, colline, orti, vento, luna, notti, sono un tacito e discreto invito alla meditazione, all’abbandono di sé per naufragare in più alti spazi: “Cala piano la sera e tutto intorno” …

È il bianco il colore che prevale in tutta la raccolta, quello del sogno e della neve, come nella dolcissima silloge celebrante appunto la Nevicata: “Nessun passo su tanto candore, / nessuna orma ignota”.

Alla verità filtrata dai suoi versi (“la verità invisibile del mondo”), Francesco Scarabicchi ha affidato non solo la possibilità di continuare a vivere nel ricordo altrui, ma anche la capacità di interpretare il reale, e ciò che lo supera: “la pagina / e poi quelle formiche delle righe / a dire il poco, il molto che noi siamo”. Poco e molto, il suo essere poeta mite, dallo sguardo stupito e mai recriminatorio, cantore di memorie e nostalgie che raccontano la bellezza di “un vivere smilzo e con la corda corta”, lì dove si nasce e muore: “Scegli il crepuscolo o l’alba, visita il regno. Del privilegio che ti tocca in sorte non farne mai parola a anima viva”.

© Riproduzione riservata                    «Il Pickwick», 22 ottobre 2021

 

 

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SCARPA

TIZIANO SCARPA, CORPO – EINAUDI, TORINO 2011

Il corpo maschile, maturo, un po’ sovrappeso, di Tiziano Scarpa ci viene raccontato dal suo inquilino, o proprietario, in 50 capitoletti di diversa lunghezza e consistenza, ciascuno dei quali si suddivide in paragrafi asciutti e assertivi, più sarcastici che ironici, più amari che consolatori. E’ un corpo ispezionato e osservato con una lente d’ingrandimento severa e asettica, senza nessuna complicità, allusività o clemenza. Anche nei suoi elementi interni, invisibili: nervi, tendini, vene, ossa, cuore. Un corpo sezionato senza amore e compassione, quasi con ostilità e un gusto sadico per i particolari più crudi e rivoltanti.

Di lui si osservano le reazioni vitali e animalesche (dal sudore alle erezioni, dall’eccitazione nervosa alla voracità alimentare), come anche il decadimento fisico e l’invecchiamento (la caduta dei capelli, l’attrito delle giunture); su di lui si fanno fantasie morbose o allucinatorie, associazioni deliranti o ossessive. A volte queste considerazioni dell’autore assumono la secca brevità delle greguerias (“I miei nervi sono i fulmini del mio corpo”; “le mie palpebre sono due ghigliottine che tagliano la testa alla luce”). Altre volte hanno la sentenziosità proverbiale degli aforismi (“L’amore è una vendetta reciproca che gli uomini e le donne si fanno l’un l’altra per lo smacco di non essere androgini; “Nella stretta di mano si fa conoscenza con la parte del corpo altrui che più d’ogni altra è al corrente delle sue nefandezze”). Capita anche che Scarpa si lasci andare a qualche ovvietà (“L’odore è l’anima delle cose”; “I miei nervi sono i fili che tirano il burattino”), ma più spesso ammiriamo l’acutezza e l’icasticità delle sue affermazioni (“I miei gomiti sono una tappa delle mie braccia”). Della lotta perpetua e beffarda con l’altro sesso, che si proietta sia in un futuro apocalittico sia nella preistoria, quello che rimane alla fine è lo stupore attonito per le molteplici forme di cui si può rivestire la materia corporea, e il suo tragico destino di disfacimento.

IBS, 29 maggio 2011

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SCARPA

TIZIANO SCARPA, L’ULTIMA CASA – TRANSEUROPA, MASSA 2011

Il testo teatrale che Tiziano Scarpa ha offerto alla rappresentazione scenica della Compagnia Pantakin è decisamente provocatorio e dissacrante. Si apre con uno stupro consumato in un cimitero in costruzione, e continua con il coprotagonista impegnato a defecare sul cadavere dello stupratore. I personaggi dela dramma-farsa sono cinque, ma si scambiano i ruoli, si fingono altro da quello che in realtà sono, in una commedia degli equivoci e dei travestimenti, di improvvise agnizioni ch ci riportano al teatro cinquecentesco e alle burle della commedia dell’Arte. Quindi abbiamo due muratori addetti all’ampliamento del camposanto (uno italiano, che in realtà è l’architetto progettatore, e uno nordafricano, che in realtà è un giornalista), i quali dormono nei loculi; una ragazza stuprata che diventa assassina vendicatice del suo stupratore, ma insieme incarna tutti i ruoli femminili del testo; un vecchio e famoso architetto, padre-rivale del protagonista, che si finge paralizzato per farsi accudire dalla badante russa; una inconsolabile vedova che porta al marito morto omaggi floreali composti con petali delle sue mutande sporche, e con i suoi peli pubici. Infine due zombie immateriali che escono dalle tombe verseggiando in rima… In realtà questo caleidoscopico accavallarsi di situazioni e personaggi improbabili e tragicomici sono solo l’incarnazione del teatro che fa il verso a se stesso, con l’intenzione di scuotere l’indifferenza e il perbenismo del pubblico, pronto ad applaudire qualsiasi volgarità e stupidaggine, ma chiuso e diffidente verso tutti i diversi nella realtà: “Puoi anche metterti a cagare in scena, ma un applauso te lo fanno lo stesso… Gli stranieri, le badanti, i lavoratori clandestini. Non gli rivolgono neanche la parola. Finchè si tratta di venire a vederli messi in scena, tutto bene. Ma se li incontrano per strada.. alla larga!”. Insulti al pubblico di Peter Handke datava 1966: è rimasta qualche eco nel teatro di Scarpa?

IBS, 11 giugno 2011

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SCARPA

TIZIANO SCARPA, UNA LIBELLULA DI CITTÀ E ALTRE STORIE IN RIMA – MINIMUM FAX, ROMA 2018

Un po’ di Gianni Rodari, un po’ di Toti Scialoja, e molto del tono sfrontato e sbeffeggiante a cui ci ha abituato Tiziano Scarpa, alleggerito qui da una nota di scontrosa e quasi imbarazzata leggerezza. Sono trenta raccontini in rima baciata, lunghe filastrocche che lasciano spesso zoppicare la metrica, come accade talvolta nelle canzoni dei bambini, quando le idee si rincorrono in fretta. Dello spirito infantile mantengono anche il divertissement della parola sporca, dell’immagine scurrile ma non troppo: una specie di volgarità alata, di impudicizia da Zecchino d’oro.

Protagonisti di queste storie rimate sono persone, piante, cose e animali che si ribellano al destino loro assegnato, tentando di sfuggire al cliché che li inchioda a un ruolo definito da altri (un dio crudele? la società? la natura matrigna?), inventandosi scappatoie improbabili, insurrezioni eclatanti, disubbidienze quasi sempre destinate al fallimento. Incappano così in avventure comiche o tragiche, ma comunque rivelatrici di un insopprimibile bisogno di libertà, di opposizione al reale. La rassegna si apre con una libellula che, consapevole della propria caduca e labile esistenza, cerca di sfruttare le sue ultime ore di vita (“Vola più in alto, vola più in là, / per assaggiare un po’ di realtà”), e poco prima di essere fagocitata nel buio della notte eterna viene illuminata dalla luce splendente di una lucciola. Il tono idilliaco è però subito mortificato dalla seconda composizione, in cui un omaccione di Treviglio, fognaiolo puzzolente, non riesce a soddisfare il suo desiderio di paternità perché rifiutato dalle donne, e alla fine per un miracolo inspiegabile partorisce maschilmente un coyote più sudicio di lui, che per troppa affettuosa riconoscenza lo divora. Ci sono poi una giocoliera sadica, un elefante che si mette a dieta per amore, un regista di horror che si tramuta in zombie, un misantropo che “considerando ognuno un somaro, / se ne andò a vivere in cima a un faro”, una voragine che “mangia e beve di tutto. La terra inghiotte, e dopo fa un rutto”. C’è uno scrittore “che sta a San Polo, / le sue parole le prende a nolo”, e “un cavallo a Borgosatollo / che lacrimava a rotta di collo”.

Nell’elencare precisi luoghi di provenienza geografica (Tolmezzo, Buffalora, Ventotene, Pordenone, Cinecittà, Murano, Saturnia…), Tiziano Scarpa conferma il suo debito a “I bravi signori” di Rodari e ai limerick di Edward Lear, e insieme suggerisce che questi pupazzetti disossati e inconcludenti siamo tutti noi, sparsi qua e là per il mondo, chiusi nel nostro bozzolo e vanamente speranzosi di chissà quale liberatorio ed eroico riscatto: “Fai da te. Monta e smonta. Taglia e cuci. / Quegli attori, purtroppo, siamo noi”. Pittrici, scultori, artigiani, terroristi, architetti, musicisti: stigmatizzati nel nostro narcisismo, nella vile ignavia che non ci fa partecipare alle gioie, alle fatiche e alle sofferenze altrui. I peccati di superbia, isolamento, egoismo vengono quindi puniti con un penoso contrappasso, commentato da sentenze moraleggianti sparse qua e là: “Sono i pezzi di noi, che rifiutiamo / per diventare quello che non siamo. // Sono i pezzi di noi, che abbandoniamo sentendoci sbagliati, e ci perdiamo”.

 

© Riproduzione riservata                  «Poesia» n.342, novembre 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

SCARUFFI

SILVANO SCARUFFI, ROMANZO DI CRINALE – NEO, CASTEL DI SANGRO 2024, p. 160

Romanzo di crinale è l’ultima originale opera di uno scrittore altrettanto originale, Silvano Scaruffi, che vive a Ligonchio (RE) lavorando come guardiadiga, e ha pubblicato una quindicina di romanzi,

moltissimi racconti e pièce teatrali. Teatrale è in qualche modo anche l’impianto di questo testo, basato su un fitto intreccio di dialoghi diretti, in un linguaggio che mima l’arruffato, inconcludente, ripetitivo, talvolta scurrile e sempre immaginoso, cianciare in un italiano dalle forti cadenze dialettali di un’intera comunità strapaesana. Ambientato in un borgo dell’Appennino tosco-emiliano, località senza nome ai piedi di una minacciosa montagna, animata da fenomeni mostruosi e inspiegabili, la vicenda si snoda tra minime storie di uomini e donne senza storia, personaggi bizzarri legati da una consuetudine esistenziale che li rende fraternamente solidali anche nei dissidi e nei fallimenti.

Il loro paesino è una realtà logistica immobile ed eterna, definita fisicamente dai suoi confini esterni più che dalle caratteristiche interne: “C’è un gruppo di case, ammucchiato su un rivone, streminato lassù dalla mano di un seminatore distratto. E intorno, monti a raggiera. Un ghippo appenninico dove l’aria sa di frontiera, la terra di colonizzazione, le persone di deriva”.

Questo paese è però minacciato da un esproprio territoriale, imposto da una società edilizia chiamata SIO, che intende costruire il Parko, con finalità mai chiaramente definite, ma esposte in incomprensibili dépliant distribuiti periodicamente agli abitanti (“Allora, se ci fate poi caso… fanno ʼsti depliant, quelli lì, della SIO, li stampano e li danno in giro per reclamizzare  il Parko, ma non ci si capisce mica una sega di quello che vogliono  dire”).  Gli indigeni reagiscono compattandosi in una resistenza sfiatata e parolaia, limitandosi a pretendere spiegazioni dal centralino telefonico sulle scosse che provengono dal sottosuolo, scrivendo sui muri Porko Parko, e a cacare provocatoriamente davanti ai cancelli dell’azienda.

In questo villaggio abbandonato da Dio e dalla civiltà, l’iniziativa dell’impresa immobiliare esprime la violenza di un arrembaggio capitalistico volto a stravolgere suolo e natura, calpestando i diritti di gente incapace di difendersi, che in realtà vorrebbe solo continuare a vivere la propria quotidianità senza essere disturbata da ingerenze esterne: “È inutile star lì a ridire che manca il lavoro, mancano le strade, mancano i servizi, manca questo e quello. Ormai l’abbiamo capita ʼsta fola: qua ci manca tutto. Ma a noi, può poi anche darsi che non ci serva niente”.

Chi sono le “persone di deriva” che animano il racconto, opponendosi a un progresso imposto dall’alto e non condiviso? Poveracci, gente stramba, che vive “di crinale”, raccogliendosi intorno all’unico posto in grado di accoglierli e ascoltarli: il bar, frequentato assiduamente dagli uomini di tutte le età, che bevono-fumano-bestemmiano-giocano a carte-litigano. Lo gestisce Brasco, che serve da bere ai rissosi Romma e Burasca, ascoltando le confidenze di Bunga (proprietario di una gatta, di un canarino e di un verme gelosamente conservato in un vaso di vetro: tutti e tre chiamati Bunga come lui) e le fantasie di Ginasio, allampanato boscaiolo in grado di predire il futuro ogni volta che si addormenta, mentre sua moglie Viola lo tormenta con rimproveri crudeli. C’è poi l’animalesco Bestio, che mangia uccellini vivi e beve olio dei motori, ossessionato da visioni horror scaturite dalla montagna che incombe terrifica, oppure dalle acque turbinose del lago: da lì sembra uscire nottetempo una figura mostruosa, un predatore gigantesco alto o due o venti metri: “Dicono scavi giorno e notte. Scavi e basta, tutto a picco e pala. E terra e pietre di risulta, le ammucchi qua e là, a secchiate”, mentre si susseguono spaventosi fenomeni atmosferici che terrorizzano l’intera comunità: “Qua va tutto a botaccio… Qua si sente crocchiare la terra sotto… Viene giù la casa. Presto o tardi, la casa verrà giù”.

Per esprimere paura e rabbia, la gente del paese conosce colorate imprecazioni e bestemmie (“Maledissa al diavle”, “Diavla impestada schiffa”, “Lurida vacca indemoniata”), intercalate a discorsi confusi e sgomenti, che fanno immaginare l’impossibilità di qualsiasi reazione contro il sopruso dei colonizzatori.  Invece improvvisa e inaspettata scoppia una rivolta contro la Sio e il Parko, che né impiegati e funzionari dell’azienda, né le guardie della sicurezza riescono a sedare. “I rivoltosi scardinarono il cancello della sede del Parko, si ammucchiarono all’ingresso. Spinsero e scancherarono, finché il por tone si incrinò, poi crollò… Invasero corridoi, stanze e uffici, risalendo le scale, ululanti e fitti, come una colonia di formiche legionarie. A un punto, i vetri delle finestre all’ultimo piano esplosero, le fiamme slinguarono fuori soffiando nella notte. Cenere e lapilli rotearono in aria, sospinti dal vento come insetti di fuoco. Piovve roba dal piano di mezzo, volarono fuori anche gli infis si delle finestre, sedie, scrivanie, schedari, computer, uno scroscio d’ufficio, poi il fuoco ghermì tutto”. Feriti, arresti, cala la notte nel silenzio di un incendio a mala pena domato, e il Romanzo di crinale si chiude senza specificare se “el pueblo unido jamás será vencido”, ma il lettore spera sia successo proprio così.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 22 marzo 2024