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RECENSIONI

SCHLINK

BERNHARD SCHLINK, IL LETTORE – NERI POZZA, MILANO 2018

Pubblicato da Garzanti nel 1996 con il titolo A voce alta, riedito nel 2010 come The reader, e nel 2018 da Neri Pozza come Il lettore, da questo avvincente libro di Bernhard Schlink è stato tratto nel 2008 un film interpretato da Ralph Fiennes e Kate Winslet, per l’occasione premiata con l’Oscar. Si tratta di uno dei romanzi fondamentali della narrativa tedesca contemporanea, “stilisticamente perfetto, inquietante e moralmente devastante”, secondo la definizione del Los Angeles Times, tradotto in più di venti lingue, premiatissimo e a lungo ai vertici delle classifiche di vendita nel mondo intero. La sua fama deriva dall’aver saputo dosare in giusta misura vicende private e storia collettiva, tenerezza personale e sdegno civile, attraverso una prosa asciutta, incalzante, priva sia di retorica sia di morbosità.

Protagonista maschile è Michael Berg, un quindicenne che vive a Heidelberg negli anni del secondo dopoguerra. Colto da malore sulla strada di casa viene soccorso da una vicina, bionda e solida quarantenne dai modi spicci e sicuri. L’avvenenza tranquilla e senza artifici della donna colpiscono profondamente il ragazzo, il quale, non appena riavutosi da una debilitante e lunga malattia, inizia a frequentare la casa di lei animato da un turbamento che pian piano si trasforma in passione. Hanna Schmitz lo accoglie con naturalezza compiaciuta, iniziando con il “ragazzino” – come lo chiama – una relazione sempre più coinvolgente.

Il rapporto tra i due, tenuto segreto a tutti con una complicità che è vergogna degli altri ma anche reciproco imbarazzo, si approfondisce nel tempo non solo da un punto di vista sessuale, ma anche affettivamente e culturalmente. Perché la donna, semplice bigliettaia su una linea tranviaria molto frequentata, e Michael, liceale figlio di un professore universitario, sembrano avere inclinazioni letterarie comuni, e lei pretende che il giovane le legga a ogni incontro pagine e pagine di classici, da Omero a Tolstoj, “a voce alta”. La loro relazione va avanti per quasi un anno, arricchendosi di stimoli nuovi (un viaggio di alcuni giorni in bicicletta attraverso il paesaggio del Baden-Württemberg; concerti, cinema, teatro), finché tra loro si apre qualche incrinatura, poiché Hanna sembra voler custodire con gelosia inconfessabili segreti, e Michael le tace la propria attrazione per una compagna di scuola.

Improvvisamente, la bigliettaia sparisce senza lasciare traccia di sé, e il ragazzino vive questo abbandono come un tradimento, si indurisce nei riguardi del prossimo, chiudendosi in una corazza di indifferenza e superficialità: si concede molte storielle facili, pratica svogliatamente un po’ di sport, studia senza interesse fino all’iscrizione alla facoltà di giurisprudenza. Qui la sua strada si intreccia nuovamente con quella di Hanna, accusata di aver redatto un elenco di donne ebree da deportare ad Auschwitz e processata come ex-sorvegliante in un lager nazista. Michael assiste a tutte le udienze in tribunale, senza perdere una seduta, senza scambiare nemmeno una parola con l’imputata, pur sentendosi legato a lei da un filo tenace di comprensione, di condivisione anche del non detto, del molto taciuto. E finalmente arriva a intuire il motivo reale dell’abbandono dell’antica amante, i tanti sotterfugi cui ricorreva, gli appuntamenti mancati, le lettere rimaste senza risposta, la continua richiesta di fare di lui un lettore privilegiato. Pur di non rivelargli il suo analfabetismo, Hanna aveva deciso di troncare il loro rapporto, e in seguito preferisce passare per criminale piuttosto che umiliarsi confessando pubblicamente di non saper né leggere né scrivere: ammette quindi le proprie responsabilità politiche, pur con qualche esitazione, e viene condannata a diciotto anni di carcere.

Michael potrebbe parlare, salvandola così dalla prigione, ma non lo fa per rispettare la sua riservatezza. Sceglie una monotona professione in ambito legale, si sposa e divorzia, passando con indifferenza attraverso altre relazioni, ma è sempre ad Hanna che pensa, e ricorda con uno struggimento misto a sensi di colpa e a rimpianto. Decide infine di farsi vivo con lei nell’unico modo che gli è concesso, e registra decine di cassette leggendo e inviando alla detenuta tutto quello che gli capita, oltre a quello che man mano va componendo lui stesso come scrittore. Solo dopo alcuni anni, la donna gli risponde con grafia incerta: “Ragazzino, l’ultima storia era molto bella. Grazie”.

Così i due continuano a comunicare, lui attraverso le registrazioni, lei con bigliettini scritti via via con maggiore sicurezza, fino a quando, sessantenne, termina di scontare la pena.

Il romanzo non si conclude qui, ma chi volesse conoscerne il finale, di certo non consolatorio, farebbe bene a non accontentarsi di questa recensione, e a leggerlo per intero, non solo per soddisfare la  curiosità, ma anche per godere di uno stile elegante di scrittura, come si addice a un appassionato “reader”.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 18 gennaio 2023

 

 

 

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SCHMIDT

ARNO SCHMIDT, ATEO?: ALTROCHÉ! – IPERMEDIUM, 2007

Dello scrittore tedesco Arno Schmidt (1914-1979) in Italia si conosce poco o niente: le tardive traduzioni sono state incoraggiate da piccoli o piccolissimi editori, e perlopiù hanno avuto scarsi riscontri di pubblico e di critica. Forse ciò dipende dalla natura del personaggio (anarchico, polemico, sarcastico), e dallo stile sperimentale, oscillante tra narrazione fantastica e saggio di denuncia sociale, manierismo e allegoria, onirismo e biografia, ma sempre in chiave anti-realistica e di eversiva invenzione linguistica. Schmidt fu il primo scrittore tedesco a parlare dei campi di sterminio e a indagare i rapporti politici e sociali esistenti tra le due Germanie, criticando contemporaneamente con feroce ironia sia l’attualità disumanizzante del neocapitalismo, sia il vecchiume culturale proposto da molte istituzioni, in primis dalla Chiesa.

Il libello Ateo? Altroché! raccoglie le risposte che Arno Schmidt diede nel 1957 a un questionario sul cristianesimo proposto da Karlheinz Deschner a una cinquantina di scrittori tedeschi (molti declinarono diplomaticamente l’invito, solo in diciotto aderirono). Per Schmidt, sempre caustico e violentemente «anticlericale, anticristiano, antireligioso» fu un invito a nozze: proprio alla tredicesima e ultima domanda sull’ateismo rispose infatti con lapidaria irrisione servendosi del punto interrogativo e del punto esclamativo riportati nel titolo di questo breve saggio, che replicano la frase finale di un suo racconto del 1955 (Paesaggio lacustre con Pocahontas), denunciato per blasfemia e pornografia: «Io? Ateo? Altroché! Come ogni uomo che si rispetti!».

All’epoca la Germania viveva sotto la cappa di restaurazione ideologica imposta dal Cancelliere Adenauer. Schmidt si espresse quasi con sprezzo, in uno stile secco e corrosivo, dichiarandosi a favore di una società laica, libera, pacifista e illuminista, contraria a ogni superstizione e fanatismo religioso. Si dichiarò «Uno neutrale. Oggi, di fronte a un ciclorama di sinodi e cercatori di Dio, figuri con la fronte nuvola da scolastici aggrondati, infallibili, censorii, senescenti e mo’ daccapo “Signore degli eserciti!”». Proclamò la sua ostilità al Cristianesimo basandosi su tre punti: la dubbiosità dei documenti d’origine (una Bibbia contraddittoria, oscura, piena di episodi violenti, inficiata da migliaia di varianti testuali), la personalità «insoddisfacente» di Gesù di Nazareth, e gli effetti non propriamente esaltanti o formativi prodotti da duemila anni di messaggio cristiano, tra censure, roghi, massacri, argomentazioni antiscientifiche e oscurantismo culturale. Per cui alla domanda riepigolativa «Lei cosa pensa del Cristianesimo?», rispose sornione: «Non un granché!».

 

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https://www.sololibri.net/Ateo-altroche-Schmidt.html               24 maggio 2018

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SCHMIDT

ARNO SCHMIDT, LEVIATANO O IL MIGLIORE DEI MONDI – MIMESIS, MILANO 2013

Con traduzione e introduzione di Dario Borso (già curatore di altri due testi schmidtiani), Mimesis ha pubblicato nel 2013, con testo originale a fronte, un racconto di Arno Schmidt uscito in Germania nel 1949. Schmidt, reduce da sei anni di guerra e prigionia, vissuto fino ad allora in assoluta povertà, solo nel dopoguerra, e dopo aver tentato diversi mestieri, riuscì a dedicarsi completamente alla scrittura, divenendo un riferimento osannato e contestato della letteratura tedesca. Pagava nei confronti dei lettori e dell’editoria più tradizionale un estremismo ideologico e sprezzante, una cultura eccedente e anticonformista, uno stile provocatoriamente funambolico, smozzicato, sperimentale. In Leviatano o il migliore dei mondi narra la disperata fuga verso Ovest di un gruppo di slesiani sbandati, affamati, feriti, sporchi (soldati, vecchi, bambini), in cerca di salvezza dai bombardamenti dell’aviazione inglese, in un treno rugginoso e sferragliante, continuamente costretto a fermarsi, bloccato dalla neve e dalle mitragliate dell’artiglieria: «Il gelo, il gelo, Scavammo con mani di marmo vicino all’acciaio corrusco. Mordente polvere di neve fluttuava intorno a naso e bocca. L’avrei guardata da palpebre d’argento. Il vecchio mi cadde sulla spalla; lo tirai con me nel vagone», «I demoni d’acciaio gridavano e gridavano intorno a noi, sopra noi, sotto noi. Ancora numerosi esplosero i colpi dietro, e una volta tremò tutto, come crollasse un monte (e mugghiare di acque gorgoglianti)».

Il protagonista, un sergente della Wehrmacht reduce dallo sbandamento dell’esercito, sale sul convoglio in partenza da Berlino il 20 maggio del ’45, e scandisce con una scrittura sincopata ed ansante una sorta di diario dei giorni e delle ore trascorse nel viaggio infernale, compiuto in compagnia di un pastore luterano retoricamente salmodiante, con la sua numerosa famiglia, di un anziano meditativo e curioso, di soldatacci lascivi, di diverse comparse generiche, della dolcissima Anne («Anne era già accanto a me e il suo profilo da Marlene Dietrich tornò a precipitarmi in beata servitù») e della madre di lei.

Il sergente alter ego dell’autore porta soccorso come può al manipolo terrorizzato degli scampati, scortandoli dentro e fuori dai vagoni ad ogni fermata, scavando a mani nude nella neve, soccorrendo i febbricitanti, ma soprattutto imbarcandosi in discussioni e teorizzazioni filosofiche e scientifiche, sia con il religioso «vile e bizantino», «anima svergognata di lacchè», che reagisce con pio fideismo anche davanti alla morte straziante dei suoi bambini («ma questi qui hanno mai pensato che potrebbe essere Dio il colpevole?»), sia con il vecchio agnostico che gli pone quesiti sulla realtà e sul destino finale del mondo. Lui risponde, didascalico, saccente e polemico. Esemplifica ricorrendo all’astrofisica, alla biologia, alla filosofia, alla matematica, alla storia: cita Einstein e Platone, Budda e Schopenhauer, Cervantes e Mozart, Nietzsche e Spinoza, esibendo un rabbioso nichilismo, un convinto ateismo, un feroce spirito anarchico, già evidente dal titolo e dal sottotitolo del libello: Leviatano o il migliore dei mondi. Ironizza su una divinità crudele e indifferente in un cielo spaventosamente vuoto, in uno spazio-tempo «illimitato ma non infinito», in cui brancola violenta e cieca la stirpe degli uomini illusi e angosciati: «Saluterei con gioia la fine dell’umanità; ho fondata speranza che entro ‒ beh ‒ fra i 500 e gli 800 anni si saranno annientati del tutto; e sarà cosa buona», «Questo mondo è qualcosa che sarebbe meglio non fosse, chi dice il contrario, mente! Pensi ai meccanismi universali: gola e foia. Propagarsi e asfissione». Attacca furiosamente Hitler («un ibrido di Nerone e Savonarola»), il cristianesimo con le sue «ridicole ambizioni gnoseologiche», e tutti i terrorismi ideologici che hanno manovrato le persone come marionette.

Eppure, quando il treno termina la sua corsa in bilico su un burrone, sospeso su un fiume dopo il crollo di un ponte, tra i cadaveri dei compagni di sventura, sogna la distruzione della Bestia, del famelico Leviatano, e «la rivolta dei buoni», Così le ultime frasi del diario suonano pudicamente utopiche: «Varcheremo la porta color cotto ricoperta di brina. Velato d’oro sarà in agguato il diabolico sole invernale, biancorosa e freddosfera. Lei sporgerà il mento e farà una smorfia villana, solleverà i fianchi per darsi slancio. Contratto la cingerò col braccio. Ecco sventolo via il quaderno: volate, brandelli!».

 

© Riproduzione riservata   

https://www.sololibri.net/Leviatano-o-il-migliore-dei-mondi-Schmidt.html           29 maggio 2018

 

 

 

 

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SCHMIDT

ARNO SCHMIDT, I PROFUGHI – QUODLIBET, MACERATA 2016

I Profughi, scritto da Arno Schmidt nel 1952 e da lui definito romanzo “svelto”, racconta la tragedia vissuta da due giovani amanti negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, quando più di dieci milioni di tedeschi vennero espulsi dai territori orientali (ceduti alla Polonia e alla Cecoslovacchia), per essere trasferiti a forza a sud e a ovest, costretti a reinsediarsi tra  abitanti spesso ostili, attraversando zone sfregiate dalla guerra e affrontando fame, malattie, pregiudizi ideologici e politici.

Durante questa diaspora si incontrano, in treno, i due protagonisti: lui è uno scrittore che si mantiene con precarie collaborazioni editoriali, lei una giovane vedova di guerra, Katarina, che ha perso una gamba durante un bombardamento. Nel corso del viaggio condividono forzatamente cibo, difficoltà, pensieri, sentimenti e sesso in una storia che è anche una storia d’amore, ma di un amore trattenuto, scontroso, per nulla edulcorato, con un finale di ipotetica e fiabesca irrealtà: “Così viviamo per il momento insieme; come andrà poi, non lo so ancora”. I due osservano dai finestrini del loro scompartimento una nazione distrutta, paesi “tondi e rannicchiati, con verruche per tetti”, campi abbandonati, gente incattivita e rancorosa, che per sopravvivere lotta anche contro i compagni di sventura.

In uno stile crudamente sperimentale, Schmidt esprime la necessità di conservare vivi e integri barlumi di umanità nello sfacelo morale e materiale della Germania hitleriana.  Lo fa utilizzando gli strumenti della riflessione filosofica, della citazione letteraria, della polemica antireligiosa e antipatriottica, dello scherno. Ma lo fa soprattutto inventando un nuovo modello narrativo, orgogliosamente dichiarato nel sottotitolo della prima edizione de I Profughi, uscita per la Frankfurter Anstalt nel 1953, insieme al romanzo Alessandro o della verità: “due studi di prosa (forme brevi per la resa di uno spostamento spaziale plurimo degli agenti in un’unità di tempo fissa)”. Intenzione di Schmidt era appunto quella di creare una narrazione che non rispettasse tanto l’unità di luogo, quanto invece l’unità di tempo. Il paesaggio di sfondo cambia infatti continuamente, tra osterie e stazioni, trasferimenti e occupazioni di alloggi promiscui, mentre l’arco di tempo viene focalizzato in 24 sezioni collegate unitariamente. L’elemento unificante è rappresentato da una reiterata tecnica fotografica, per cui ogni sezione è introdotta da un piccolo brano incorniciato in un rettangolo dalle dimensioni di una fotografia. Un vero e proprio “album”, in cui “le foto consistono di parole, che dovrebbero trasmettere al lettore un’immagine la più nitida possibile, a fuoco”, secondo quanto specificò l’autore stesso in un’intervista radiofonica. Lo scatto istantaneo iniziale viene poi sviluppato ed espanso in un racconto più disteso e argomentato, che utilizza una prosa magmatica, frantumata sintatticamente, sconvolta semanticamente, provocatoria nelle scelte lessicali, in una continua ricerca di effetti linguistici estranianti, imprevedibili, irriverenti, attraverso un’aggettivazione convulsa e ingegnosa: “greve gracchiante grugnente ghignoso gradasso”, “luna precoce”, “sfottente pendio”, “ruvida voce”, “notte angolosa”, “ventruti re”…

Arno Schmidt (1914-1979), dopo sei anni di guerra e prigionia, due volte reinsediato con la moglie Alice come i profughi di cui narra, vissuto in assoluta povertà, solo nel dopoguerra, e avendo tentato diversi mestieri, riuscì a dedicarsi completamente alla scrittura, divenendo un riferimento osannato e contestato della letteratura tedesca. Pagava nei confronti dei lettori e dell’editoria più tradizionale un estremismo ideologico e sprezzante, una cultura eccedente e anticonformista, uno stile arrogantemente funambolico.

Di lui in Italia si conosce poco: le tardive traduzioni sono state incoraggiate da piccoli editori (Lavieri, Ipermedium, Zandonai, Mimesis, e ora per I Profughi Quodlibet, che ne ha affidato la cura a Dario Borso, massimo interprete schmidtiano in Italia), con scarsi riscontri di pubblico e di critica. Forse ciò è dipeso dalla natura del personaggio (anarchico, polemico, sarcastico), e dalla sua scrittura oscillante tra narrazione fantastica e saggio di denuncia sociale, manierismo e allegoria, onirismo e biografia, ma sempre in chiave anti-realistica e di eversiva invenzione linguistica. Schmidt fu il primo scrittore tedesco a parlare dei campi di sterminio e a indagare i rapporti politici e sociali esistenti tra le due Germanie, criticando contemporaneamente con feroce ironia sia l’attualità disumanizzante del neocapitalismo, sia il vecchiume culturale proposto da molte istituzioni, in primis dalla Chiesa. Messosi in luce nel dopoguerra con un racconto audacemente innovativo (Il Leviatano o il migliore dei mondi, 1949), che oltre a stigmatizzare il nazismo contestava ogni forma di organizzazione sociale, nei volumi successivi (Dalla vita di un fauno, 1953; Paesaggio lacustre con Pocahontas, 1955; La repubblica dei dotti, 1957; Ateo? Altroché!, 1957; Alessandro o Della verità, 1959, fino alla vertiginosa esperienza espressiva delle ultime prove), esibì sempre una tormentata mescolanza di metafore barocche, neologismi futuristi, allegorismo simbolista, razionalità illuminista, immaginario fantascientifico. Erede di Joyce e degli espressionisti, rappresentò un caso estremo di ribellione anti-realistica, ripudiando ogni tradizionale descrittivismo e recuperando memorie personali e collettive venate di grottesco, indulgendo anche a forme di compiaciuto mimetismo che talvolta sfociava nel manieristico, con l’esibita volontà di polemizzare contro l’establishment culturale e l’attualità, da cui amava prendere le distanze, rifugiandosi in un passato di ideale purezza o in un futuro utopistico e improbabile.

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 15 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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SCHMITT

CARL SCHMITT, TERRA E MARE – ADELPHI, MILANO 2002

In un originale saggio del 1942, redatto con l’accattivante forma e struttura del racconto, il filosofo e giurista tedesco Carl Schmitt riassunse due millenni di storia mondiale, individuando nell’opposizione tra la terra e il mare il motore dell’evolversi dell’intera vicenda umana. Nella dicotomia tra i due elementi della natura, l’autore ravvisava l’antitesi che ha perennemente contrapposto civiltà e sistemi economici, teorie politiche e filosofiche, miti e religioni rivelate.

Schmitt dedicò Land und Meer alla figlia tredicenne Anima, usando uno stile narrativo inedito rispetto alla sua precedente produzione scientifica, proprio perché il fine che si proponeva era principalmente divulgativo e didattico. I venti capitoletti, a metà tra speculazione e immaginazione, spaziano geograficamente e storicamente dall’antica Grecia alla Repubblica marinara di Venezia, dalla scoperta dell’America al colonialismo britannico, fino alla II guerra mondiale e alle prime esplorazioni del cosmo.

Giustamente famoso, nella sua icasticità, è l’avvio del saggio: “L’uomo è un essere terrestre, un essere che calca la terra. Egli sta, cammina e si muove sulla solida terra. Questa è la sua collocazione e il suolo su cui poggia, e ciò determina il suo punto di vista, le sue impressioni e il suo modo di vedere il mondo”. Animale terrestre e pedestre, quindi, l’uomo: ma già il primo dei presocratici, Talete di Mileto, aveva riconosciuto nell’acqua l’origine di ogni vita. Secondo il mito, poi, Afrodite ‒ dea della bellezza ‒ nacque dalle onde del mare, di cui Poseidone era la divinità incontrastata e implacabile.

La contrapposizione evidente tra l’elemento equoreo e quello di superficie non è solo ideologica e caratteriale, bensì anche di dominio militare e di conquista: “La storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare”. Atene e Sparta, Roma e Cartagine, Vichinghi e Saraceni: da un lato il possente e lento progredire degli eserciti in marcia, dall’altra l’agilità temeraria di chi affronta l’ignoto solcando i mari. Vari imperi si sono succeduti dominando le acque: si possono distinguere culture fluviali (Assiri, Babilonesi, Egiziani), culture dei bacini interni e del Mediterraneo (Grecia e Venezia), culture oceaniche (in seguito alla scoperta dell’America e alle circumnavigazioni del globo): qualsiasi apertura  nello spazio circostante  ha sempre comportato un progresso di civiltà, a partire da Alessandro Magno, passando per l’impero romano, le crociate, i commerci intercontinentali, per arrivare alle trasmigrazioni novecentesche: “Ogni volta che, grazie a una nuova avanzata delle forze storiche e alla liberazione di nuove energie, nuove terre e nuovi mari fanno il loro ingresso nell’orizzonte della coscienza collettiva umana, mutano anche gli spazi dell’esistenza storica. Nascono allora nuovi parametri e nuove dimensioni dell’attività storico-politica, nuove scienze, nuovi ordinamenti, una nuova vita di popoli nuovi o rinati”.

Schmitt dedica molta attenzione all’espansione di Venezia nel Mediterraneo, iniziata intorno all’anno 1000 con una timida ricognizione verso la Dalmazia, e proseguita per sei secoli, con grandi risultati economici e diplomatici. Tuttavia, l’ascesa della Repubblica Veneta rimase circoscritta all’epoca medievale, senza riuscire a penetrare nell’epoca moderna, a causa dell’arretratezza nella pratica navigatoria (le sue galee si affidavano solo alla forza dei remi…). Furono gli olandesi a perfezionare metodi e attrezzature nautiche, con una cantieristica avanzata, la costruzione di imbarcazioni veloci, l’invenzione di un sistema di veleggio leggero, lo sviluppo degli strumenti di orientamento: ciò permise alle flotte di bordeggiare lungo le coste, e di affrontare le battaglie navali non più con arrembaggi diretti, ma in duelli di artiglieria anche a grandi distanze. Fu in questo modo che l’Inghilterra riuscì a prendere il sopravvento sulle popolazioni dell’Europa meridionale, diventando il primo impero marittimo (e in seguito militare, mercantile, industriale) della storia dell’umanità: utilizzando una nuova tecnologia nautica, e servendosi anche dell’azione anticipatrice,  aggressiva e banditesca, di corsari, masnadieri, filibustieri, “schiumatori del mare”, che tra il 1550 e il  1700 si spingevano dalle coste britanniche a quelle continentali ed extra-continentali. Francis Drake, Richard Hawkins, Sir Walter Raleigh, Sir Henry Morgan e altri meno famosi, con le loro scorrerie assestarono i primi colpi al monopolio commerciale della Spagna. Schmitt esaltava la funzione storica svolta dai predoni anglosassoni, feroce avvisaglia della potenza marinara protestante schierata contro l’egemonia delle nazioni cattoliche, in una serie di conflitti che culminarono nella Guerra dei Trent’anni (1618-1648).

L’originalità del saggio di Carl Schmitt consiste nell’aver interpretato dati storiografici universali con approcci trans-disciplinari, derivati dalla scienza, dal mito, dalle leggende popolari, da nozioni scientifiche e tecniche. Così come aveva riconosciuto i meriti della pirateria inglese, seppe interpretare originalmente anche l’importanza della caccia alle balene, che aveva indotto gli uomini a inoltrarsi in mare aperto, sempre più lontano dai lidi di partenza, verso l’ignoto. Più che alla flotta di Cristoforo Colombo, dobbiamo alle navi baleniere la scoperta di rotte, isole, correnti e approdi sconosciuti, dall’Atlantico al Pacifico. Nell’elogio che Schmitt intesse della balena (e del suo massimo cantore Herman Melville, l’Omero dell’oceano!) si intuisce la volontà di rappresentare metaforicamente la lotta tra il Leviatano e Behemot, mitici mostri biblici del mare e della terra, in cui raffigurava il conflitto esistente tra i due elementi naturali, le corrispondenti forme di potere e gli spazi da loro occupati.

Proprio sul concetto di spazio fa leva la riflessione schmittiana, nel narrare della grande rivoluzione derivata dalla scoperta dell’America, quando gli oceani entrarono a far parte dei percorsi navali dei popoli europei, modificando l’orizzonte geografico planetario e contribuendo alla formazione di una nuova idea di infinito e di vuoto, che da allora permeò ogni scienza e arte umana. Un fondamentale contributo al concetto di una diversa spazialità venne dato dalle scoperte astronomiche di Copernico, Galileo, Keplero, dalla filosofia di Giordano Bruno, dalle tesi dell’illuminismo, grazie a cui l’uomo comprese di non essere più al centro dell’universo, intuendo che davanti a lui si aprivano estensioni sconfinate. Tale consapevolezza trasformò il suo modo di pensare e di agire. Dopo secoli in cui le forze cristiano-europee si erano distinte nella colonizzazione, nello sfruttamento e nella spartizione dei territori aldilà degli oceani con guerre sanguinose e fratricide, il vecchio continente si aprì ad altre decisive esplorazioni, non più terrestri e marittime, ma dei cieli, inaugurando un nuovo stadio della rivoluzione spaziale planetaria. Con un capitolo finale dedicato appunto all’aria, terza sfera vitale dell’esistenza umana, si chiude la riflessione schmittiana sull’ antinomia terra-mare.

Per quale motivo un filosofo e giurista di assoluto livello e rinomanza come Carl Schmitt decise di affrontare nella maturità studi storici e scientifici sulla navigazione, e di scrivere Land und Meer? Lo spiega molto bene nella postfazione il compianto Franco Volpi, adducendo alla strisciante persecuzione patita dallo studioso da parte del partito nazista (che inizialmente lo aveva avuto tra i sostenitori) la dolorosa crisi esistenziale che lo portò a estraniarsi dall’attualità per dedicarsi a una visione più elevata dei destini dell’umanità, approfondendo studi antropologici in un indirizzo escatologico ed esoterico, e non più in base alle limitate categorie nazionali, sociali, economiche. “Era un uomo di scienza, abituato al rigore della definizione e dell’argomentazione, ma al tempo stesso uno sciamano della parola e un mistagogo. Padroneggiava entrambi i registri, quello della logica e quello della seduzione, del concetto e dell’immaginazione, della ragione e del mito”.

Carl Schmitt (Plettenberg, 1888-1985), professore di diritto pubblico all’Università di Berlino, aveva orientato la sua produzione filosofica sui concetti-chiave di decisionismo, sovranità, valore, limite, seguendo le orme di Hobbes e Weber. Il suo pensiero venne condizionato dall’ideologia nazista, cui prestò un fondamento filosofico-giuridico, aderendo in prima persona al partito di Hitler, che lo nominò consigliere di Stato prussiano, considerandolo una sorta di Kronjurist («giurista della Corona») del Terzo Reich. Dopo la guerra, Schmitt fu processato e imprigionato dagli alleati per i suoi rapporti con il nazionalsocialismo; in seguito prosciolto, gli fu vietato l’insegnamento: per tale motivo continuò a ritenersi fino alla morte ingiustamente emarginato, unica vittima a pagare per tutta l’intellighenzia tedesca. Franco Volpi scolpisce con pochi tratti incisivi il ritratto intellettuale dell’autore di Terra e mare: “Schmitt si inoltra qui in un territorio rischioso e affascinante, al confine tra la storia e l’immaginazione, la scienza politica e la visione mitologica, la giurisprudenza e l’evocazione di potenze elementari e demoniache. Cantore degli elementi e del loro ultimo potere, egli ci insegna che la storia del mondo non si decide nel palazzo dei concetti, ma nelle sue segrete: cioè prima di dove pensavamo cominciasse, e oltre dove pensavamo terminasse”.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 9 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SCHNITZLER

ARTHUR SCHNITZLER, FUGA NELLE TENEBRE – ADELPHI, MILANO 1981

Incontriamo il protagonista del romanzo (Robert, consigliere governativo a Vienna) mentre si trova in un albergo su un’isola dell’Adriatico, convalescente a causa di un’imprecisata malattia nervosa, in procinto tuttavia di partire, preso da incontenibile ansia, per tornare in Austria (“Era suo destino ritornare a casa altrettanto depresso come quando ne era partito?”). Quella che da subito sembra delinearsi come una sua tormentante nevrosi, ben presto assume i caratteri più complessi e minacciosi di un delirio ossessivo, animato da sensi di colpa e di persecuzione, incubi e fobie ricorrenti, allucinazioni visive e uditive, che lo avvicinano ineluttabilmente al baratro della follia. In particolare la sua mente sembra attanagliata da due idee fisse: il timore di avere ucciso in stato di incoscienza la giovane moglie ed altre amanti, e il confronto umiliante con la figura del fratello Otto, medico di successo, marito e padre felice, stimato membro dell’alta borghesia viennese. “Credeva di riconoscere che il legame fraterno non solo costituiva per lui la conquista migliore e più pura dell’esistenza, ma anche più in generale, l’unico legame di una naturale e sicura stabilità… Sempre, sin dalla giovinezza, egli si era ritenuto meno importante del fratello maggiore…”. Tornato nella città natale, Robert non riesce a riadattarsi al tran tran quotidiano; si assenta spesso dall’ufficio; trasloca in diversi alberghi; cerca sollievo dalle sue paure in brevi e frequenti viaggi, o in incontri casuali, sempre tuttavia deludenti. Nemmeno il tentativo di ricostruirsi una vita sentimentale con una affascinante e sensibile musicista riesce a placare le sue angosce, che alla fine si risolvono con un omicidio e nell’inevitabile conseguente suicidio. Un Arthur Schnitzler che ben aveva assimilato la lezione freudiana, riuscendo a scandagliare le ombre tenebrose di una psiche malata e infelice.

IBS, 14 marzo 2014

RECENSIONI

SCHUETZ

ALFRED SCHÜTZ, DON CHISCIOTTE E IL PROBLEMA DELLA REALTA’ – ARMANDO, ROMA 1996

                                  LO STRANIERO / IL REDUCE ‒ ASTERIOS, TRIESTE 2013

Alonso Quijano non si riconosceva nel suo corpo, nel suo ambiente e nella sua epoca: si inventò quindi una nuova esistenza e un nome diverso, diventando El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, intrepido e valoroso combattente, deciso a riparare torti, violenze e soprusi perpetrati contro donzelle indifese e altre vittime innocenti. Si scelse come scudiero un contadinotto tarchiato, che ribattezzò Sancho Panza. Offrì i suoi servigi a una nobile dama, Dulcinea del Toboso, che assomigliava (ma senz’altro non era!) la sua umile vicina di casa Aldonza Lorenzo. Salì in groppa al docile Ronzinante, fiero e veloce come il Bucefalo di Alessandro Magno; imbracciò la sua potente lancia spuntata e partì alla ventura, elettosi da sé “cavaliere errante”, sul modello dei romanzi cavallereschi che tanto ammirava.

Nel suo fantastico viaggio (la vida es sueño…) si imbatté in mirabolanti avventure, in eroiche imprese e strenui duelli. Lottò contro giganti dalle braccia rotanti camuffati da mulini a vento, contro eserciti di arabi mascherati da greggi di pecore, contro pericolosi masnadieri che si fingevano innocui mercanti. Le osterie in cui si fermava erano fastosi castelli, umili frati benedettini maghi incantatori, un teatro di burattini celava in realtà pericolosi anfratti animati da demoni. E l’elmo che indossava, chi mai potrebbe sostenere fosse una bacinella da barbiere? Anche il giovane studente di Salamanca che lo aveva sfidato nascondeva proditoriamente la sua effettiva identità di “Cavaliere della Luna Bianca”. Il nobile Hidalgo scambiava le sue fantasie per verità, l’immaginazione per consistenza. O no? Cos’è vero e cos’è falso, cosa illusione e cosa oggettività?

Alfred Schütz (Vienna,1899New York,1959) nel 1955 rilesse filosoficamente il capolavoro di Cervantes in un saggio, Don Chisciotte e il problema della realtà, affrontandovi la questione della costruzione intersoggettiva del reale. Schütz, nato da famiglia ebraica, è considerato il fondatore della sociologia fenomenologica; le sue teorie sono state influenzate dalle ricerche di Max Weber, Henri Bergson, Edmund Husserl e Max Scheler. Emigrato negli Usa nel 1938 per sfuggire alle persecuzioni naziste, insegnò a New York, dove morì a sessant’anni. L’influenza del pragmatismo americano e del positivismo logico consolidò in lui l”attenzione empirica al mondo concretamente vissuto, nella sfera delle occupazioni quotidiane, minute e abitudinarie, cadenzate dalla routine cui ci si abbandona per comodità, pigrizia o mancanza di alternative, rispondendo in maniera acritica e amorfa ai suggerimenti dell’opinione prevalente.

Il saggio di Schütz, pubblicato a più riprese dall’editore Armando, è introdotto da una concisa e illuminante prefazione di Paolo Jedlowski, che indica al lettore quale fosse l’intento fondamentale dell’autore nel ripercorrere le pagine dell’opera cervantiana: esistono tante diverse realtà, e non è detto che quello che il senso comune dà per scontato sia “vero”. “Don Chisciotte non partecipa del ‘senso comune’. Per lui, sono plausibili e reali cose che per Sancho Panza (il rappresentante per eccellenza del senso comune) sono solo fantasie”. Le figure dei due protagonisti del romanzo (il visionario e il concreto, ii sognatore e il disincantato) ci mostrano in quale maniera per ciascuno di noi funzioni “il modo in cui attribuiamo un senso di realtà alle cose in cui ci imbattiamo e alle forme con cui ce le rappresentiamo”.

Schütz derivava dalla fenomenologia il concetto antipositivista e antidogmatico che noi sappiamo della realtà solo ciò che appare, ciò che si manifesta nei contenuti delle percezioni e della coscienza. E riteniamo reale ciò che gli altri ci confermano come tale, in un rapporto intersoggettivo che quando viene a cadere insinua in noi il dubbio di essere in torto, di sognare o fantasticare. Se manca l’accordo intersoggettivo su quanto esperiamo, ecco che non siamo più sicuri della nostra stessa esperienza. Nella vita quotidiana ci affidiamo infatti al senso comune, che ritiene le cose essere esattamente come appaiono, secondo quanto ci hanno insegnato i genitori, i maestri, le convenzioni collettive, la verifica sensoriale: così pensava, senza farsi eccessivi scrupoli, Sancho Panza.

Tuttavia, non si vive solo nella realtà quotidiana; esistono infatti anche altre realtà in cui ci immergiamo, per esempio quando andiamo a teatro o al cinema, o quando ci lasciamo assorbire da idee-guida religiose, scientifiche, artistiche. Il filosofo William James le catalogava come sotto-universi: sono molteplici, e ciascuno di noi vive nei suoi, non sempre comunicabili e condivisibili. Don Chisciotte era totalmente immerso nel sotto-universo del suo mondo cavalleresco, e senz’altro non partecipava del senso comune: “Io immagino che tutto ciò che dico, è vero. Niente di più, niente di meno”, affermava perentoriamente. Secondo Alfred Schütz, la fonte della realtà, dal punto di vista assoluto e pratico, è soggettiva: siamo noi che abbiamo la possibilità di pensare in modo diverso a proposito del medesimo oggetto, e scegliere in seguito a quale modo aderire e quale scartare. Quando il trascendente e lo stra-ordinario si insinuano nella vita quotidiana, la nostra ragione può negarli o dissimularli, preferendo aggrapparsi al tran-tran quotidiano, adeguandosi alle regole comuni. Siamo, così decidendo, saggi o folli, e a quale universo generale o sotto-universo personale aderiamo?

La riflessione del sociologo austriaco si era già soffermata sul concetto di estraneità e conformità nella vita collettiva, in due lavori del 1944-45 che oggi assumono un rilievo particolare, in quanto si occupano delle figure dello straniero e del reduce, cioè di chi non appartenendo a una specifica comunità cerca di avvicinarla e introdurcisi, e di chi essendosene allontanato vuole o deve rientrarci. Con parole empatiche e di straordinaria sensibilità, che lasciano trapelare quanto lo stesso Schütz avesse sofferto sulla sua pelle l’abbandono dell’Europa e il trasferimento negli Stati Uniti, la figura dello straniero viene indagata nel rapporto vicendevole instaurato con l’ambiente di accoglienza. Lo straniero trova difficoltà nell’interpretare il modello culturale del gruppo sociale cui si avvicina, teme di non comprenderlo e di non esserne compreso poiché la sua storia personale (lingua, studi, affetti, educazione, gestualità, abitudini) non sono quelli della comunità che deve accoglierlo.
Può forse aspirare a condividere, con grande sforzo e buona volontà, presente e futuro con il gruppo cui si è avvicinato, ma rimarrà escluso dalle esperienze che riguardano il passato suo e degli altri, mai spartibile. Icasticamente Schütz afferma: “Tombe e ricordi non possono venire né trasferiti né conquistati”. Come chi impara una lingua diversa difficilmente riesce ad appropriarsi delle sue implicazioni emotive, della terminologia specifica, di espressioni idiomatiche, degli schemi espressivi e dei vari codici privati, così lo straniero che aspira a inserirsi in una nuova società non riuscirà mai a possederne completamente gli automatismi, le sfumature irrazionali, i segni dell’abitualità. Sarà destinato a rimanere un ibrido culturale, a rivestire un ruolo marginale, soffrendo di un costante disorientamento che lo renderà diffidente e insieme infido, in una distanza che mai potrà sfociare nell’intimità. La stessa cosa vale per chi, allontanatosi dal suo luogo d’origine (“Home is where one starts from”, scriveva Thomas S. Eliot), tornandovi non la troverà come la ricordava, avendo interrotto una comunanza di spazio e tempo con il gruppo primario cui apparteneva, e avendo sperimentato altre dimensioni sociali, altri posti e valori.

Nella mia piuttosto lunga esperienza di insegnante a Zurigo, ricordo che i nostri connazionali emigrati confessavano di non riuscire più a definirsi orgogliosamente italiani (resi critici dal confronto con una collettività economicamente avanzata) e insieme di non aspirare a identificarsi con la popolazione svizzera. Chi poi rientrava al paese dopo una vita spesa all’estero, viveva una penosa incapacità di riadattamento, un doloroso senso di esclusione e auto-esclusione: cosa che è successa anche a me e alla mia famiglia.

“Da principio non è soltanto la patria a mostrare al reduce un volto insolito. Il reduce appare altrettanto estraneo a coloro che lo attendono, e la nebbia intorno a lui lo farà irriconoscibile”. Come Don Chisciotte, lo straniero e il reduce rimangono secondo Alfred Schütz, disadattati, incompresi, chiusi in un loro mondo incomunicabile agli altri, in cui spesso il sogno prevarica la realtà, alterandola nel tentativo di addomesticarla e renderla inoffensiva.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 26 settembre 2019

 

 

RECENSIONI

SCHULTZ

PHILIP SCHULTZ, ERRANTI SENZA ALI – DONZELLI, ROMA 2016

Nel commentare il libro di Philip Schultz – con testo inglese a fronte – appena uscito da Donzelli, vorrei soffermarmi sulla nota finale delle traduttrici (Basile, Mormile, Rava, Robustelli, Splendore), per rendere il meritato riconoscimento all’operazione difficile e misconosciuta della traduzione. Le autrici, rendendo conto del loro esperimento durato più di un anno (incoraggiato dall’associazione romana Monteverdelegge), vantano il lavoro di gruppo «perché agisce come correttivo di atteggiamenti di prevaricazione sul testo più facilmente diffusi nelle traduzioni fatte singolarmente». Una di loro, Paola Splendore, ha firmato anche l’esaustiva postfazione, presentando la biografia e la produzione letteraria di Schultz, «personalità poetica estranea a scuole e movimenti, la cui forza è nel linguaggio intimo e diretto con cui tratta i suoi temi». Nato a Rochester nel 1945, da una modesta famiglia di ebrei immigrati dall’Europa orientale, l’autore di queste poesie ha vissuto un’infanzia e una giovinezza difficile, minata dalla dislessia e da altri problemi psichici, che lo portarono a un tentativo di suicidio, all’internamento in una clinica e alla cura con l’elettroshock. Queste esperienze sofferte trovarono poi un loro riscatto nella scrittura, dapprima in prosa (sulle tracce di Hemingway, Salinger e Bellow), quindi in poesia, con la pubblicazione di diversi volumi, uno dei quali, Failure (2007) vinse il Premio Pulitzer.
Da questa raccolta, che proprio al fallimento umano (espresso dalla fragilità mentale, dall’esclusione sociale, dalla povertà intellettuale e materiale del suo ambiente nativo) era intesa a offrire un solidale e affettuoso omaggio, sono tratte le quattro sezioni di Erranti senza ali.

Chi sono questi erranti (The Wandering Wingless) è presto detto: i vinti della storia, le persone che trascorrono la loro esistenza senza lasciare traccia di sé, prive di qualsiasi aspirazione alla trascendenza, costrette alla pura lotta quotidiana del sopravvivere. Quindi i genitori, la madre umiliata in lavori sfibranti («le dita rosse e gonfie / per i tagli della carta, / gli occhi, fondali neri»), il padre, figura odiata-amata per la sua violenta e castrante nullità («perché / papà non possedeva, non credeva, / non ammetteva, non capiva / non amava niente… perché / era così spaventato / dalla bontà / che aveva dentro?»). Erranti senza riposo e spersi nei loro sbagli, nelle loro colpe, senza possibilità di redenzione: erranti come l’ebreo che vaga per il globo non sapendo dove e come fermarsi, scontando una condanna più divina che storica.  Così Schultz si inventa un alter ego, un dog-walker di New York che porta a passeggio, attraverso il Village, la Madison Avenue, la Washington Square, Soho o il Central Park, i cani aristocratici dei ricconi americani: quadrupedi dalla tosatura costosa, dai nomi sfiziosi o altosonanti («Vanno forte gli scrittori / ora: ho un Gogol, un Omero e due Wolf»), cagnoline sexy, barboncini incappottati elegantemente, alani imponenti. Mescolandosi all’umanità più varia e a «una noia del mondo / squisitamente illecita», il dog-walker si annulla come persona, riducendosi ad accompagnatore-servo di viziati animali domestici: «Porta a spasso cani per campare / e diventi inesistente, / eclissato / da una forza superiore». Le sue minime considerazioni filosofiche sulla superiorità canina rispetto all’egoismo superficiale degli esseri umani sono inframezzate da flashback che hanno la crudele evidenza di incubi (il ricordo dell’11 settembre, la morte del padre e della nonna, la perdita della cagnolina più amata nell’adolescenza, la malattia mentale, il lavoro nero come operaio edile): e la colloquialità dello stile – espressa in versi brevi, serrati, ritmici – bene si accorda col tono (talvolta ironico, sferzante, e più spesso commosso, malinconico) di tutta la raccolta, intenerito omaggio alla sconfitta: «Al mondo per me / non c’è niente di meglio / che guardare correre i cani, / la lingua penzoloni, / le orecchie sventolanti, / il cuore che gli scoppia / contro le costole», «ognuno di noi / è un’emergenza che si prepara / ad accadere, una storia / di implacabile dolore, / Un World Trade Center / di immane rovina, / un riverbero, una teologia, / … tutto tenuto insieme per caso, / solo per caso», «Mi spaventava tutto quello che amavo. / Era questo il fallimento? – / Una paura senza fine?»

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Erranti-senza-ali-Philip-Schultz.html     15 settembre 2015

 

 

RECENSIONI

SCHULZ

BRUNO SCHULZ, LE BOTTEGHE COLOR CANNELLA – EINAUDI, TORINO 2008

Einaudi ha ripubblicato nel 2008 gli scritti, i saggi e i disegni, ormai introvabili, di Bruno Schulz, ebreo galiziano ucciso dai nazisti a 50 anni nel ’42. L’opera omnia di questo scrittore consiste soprattutto di una trentina di racconti (pubblicati in Polonia tra il 34 e il 38), poiché il resto della sua produzione è andato perduto durante la guerra: Schulz infatti aveva affidato i suoi scritti a un mezzo quanto mai precario quale la corrispondenza privata. Nella stessa atmosfera che anima le pagine di Kafka, di Musil, e in qualche modo anche di Singer e di Canetti, si muoveva questo timido e malaticcio professore di disegno, vissuto sempre in famiglia, senza mai uscire dalla natia Drohobycz. E si muoveva con l’impaccio di chi abita preferibilmente le stanze del pensiero, e quando è costretto a uscirne subisce l’impatto con un “esterno” deformato e allucinante. Quello che Schulz ha scritto costituisce un ininterrotto viaggio a ritroso nella mitica infanzia: «Il genere d’arte che mi sta a cuore è appunto la regressione…Il mio ideale è di ‘maturare’ fino all’infanzia».

Niente a che vedere, per fortuna, con i noiosissimi ‘come eravamo’ cui ci ha abituato la letteratura nostrana: qui non ci troviamo davanti a recuperi, ma a una reinvenzione totale, a un’esasperazione, a una magia caleidoscopica dei minimi appigli forniti dalla memoria. Monumento di quest’infanzia è il padre Jakub, mercante di stoffe, che volteggia folletto in un oscuro negozio dagli scaffali di muffa, in una casa dalla stanze che si rincorrono e dalle tappezzerie ricamate, in una cittadina le cui vie scompaiono e ricompaiono nelle nebbie, le cui carrozze corrono senza cocchieri…Jakub è insieme vittima e creatore di metamorfosi, illusionista e demiurgo che muore e resuscita, si rinsecchisce e si espande, diventa mosca, uccello e pompiere, scarafaggio. Jakub crede nei miracoli eretici, nati dall’assurdo, da situazioni illogiche in cui tutto può accadere. Il regno di questa potenzialità del tutto, e della distruzione, è la materia «priva di iniziativa propria, lascivamente arrendevole», tuttavia anche «oppressa» e sofferente nelle forme immobili, nei «manichini» in cui uomini e dei la costringono. Gli oggetti formati da questa materia non hanno pace (come aveva scritto Ripellino in un suo articolo), mutano, si ribellano, diventano anime (mentre le anime a volte si amorfizzano, si riducono a cose). Anche la natura è un trionfo della materia, lussureggiante, rigogliosa, sensuale nel caldo dei suoi mesi estivi, nella vacuità della primavera, nell’immobilità dell’autunno o addirittura nell’assurdità di un 13° mese imposto dal calendario. Questa materia schulziana non produce storia né cronaca: ogni avvenimento assume la potenza e la necessità dei destini biblici, l’infallibilità del fato. L’imperatore Francesco Giuseppe, suo fratello Massimiliano, sono entrambi emblemi immobili, caricature di un’idea. Ciò che accade è assorbito da un tempo cosmico, relativo, che si trascina fino ad annullarsi in un luogo e contemporaneamente rinasce per bruciare in un istante, altrove. Chi è morto può rivivere e assumere qualsiasi forma, smontarsi e rimontarsi come una formula chimica. Schulz arriva dove lo spiritualismo più esasperato confina con un materialismo conseguente fino all’autocreazione. I suoi racconti si concludono tutti in una misura perfetta, senza un filo di retorica o una sbavatura, ma così, con indifferenza, come se dovessero anch’essi ricominciare subito da capo. La prosa di Schulz, barocca, piena di metafore fino all’esasperazione, può richiedere impegno al lettore, ma alla fine lo premia con un’illuminazione e una conversione alla sensibilità del pensiero interiore, commosso e partecipe.

 

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www.sololibri.net/Le-botteghe-color-cannella-Bruno-Schulz.html     17 ottobre 2015

RECENSIONI

SCHWARZENBACH

ANNEMARIE SCHWARZENBACH, GLI AMICI DI BERNHARD – L’ORMA, ROMA 2014

Annemarie Schwarzenbach, nata a Zurigo da facoltosi industriali nel 1908 e morta precocemente nel 1942, fu scrittrice anticonformista e ribelle, lesbica e morfinomane, viaggiatrice instancabile e chiacchierata protagonista dei salotti dell’alta borghesia internazionale. L’elegante casa editrice L’ Orma pubblica ora il suo primo romanzo, scritto a ventitré anni, ambientato nell’elitario e ovattato milieu dell’aristocrazia finanziaria, culturale e artistica imperante in Europa tra le due guerre. Protagonisti della narrazione sono i compagni di Bernhard, un diciassettenne tedesco sensibile, mite, dolcissimo che vorrebbe dedicare la sua intera esistenza all’amicizia e alla musica. I giovani che gli ruotano intorno (Gert, Irma, Hans, Christine, Leon…) sono belli, alti, eterei, raffinati, benestanti, privi di interessi politici e indifferenti a qualsiasi scrupolo religioso o solidarietà sociale. Le loro ambizioni sono volte a raggiungere traguardi non tanto economici quanto di notorietà artistica (seppure effimera) come pianisti, pittori, scultori. Vivono senza programmare il futuro, in un continuo accavallarsi di incontri, viaggi, cene, spettacoli, e amori incrociati che mai si trasformano in dedizione, passione o tormento. La seduzione reciproca, la continua allusione a un’omosessualità tentatrice ma temuta, le ripicche adolescenziali, le gelosie e i fallimenti vengono raccontati dall’autrice con vivacità divertita e cronachistica, passando spesso dalla prima alla terza persona, o usando l’artificio didascalico di rivolgersi direttamente al lettore. Non ci troviamo di fronte alla profondità della Woolf, né all’eleganza di Scott Fitzgerald: ma l’inquietudine, l’insoddisfazione morale, i tremori emotivi di questi amici nascono negli stessi anni e nelle stesse atmosfere: «…si dovrebbe vietare ai giovani di dichiararsi soli. Che paradosso, scrivere la tragedia di un giovane».

«Leggendaria» n. 111, maggio 2015