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RECENSIONI

SERGE

VICTOR SERGE, ANNI SENZA PERDONO – PAGINAUNO, MILANO 2022

Proveniente da una famiglia di rivoluzionari russi, Victor Serge (Bruxelles 1890 – Città del Messico 1947), anarchico dall’adolescenza, dal 1912 al 1917 fu imprigionato in Francia. In Russia aderì al bolscevismo e a partire dal 1926 partecipò all’opposizione di sinistra ispirata da Trockij. Arrestato nel 1928, venne confinato fra il 1933 e il 1936; espulso dall’URSS, visse in Belgio, in Francia e dal 1940 in Messico. Nella sua intensa attività pubblicistica sviluppò un’acuta critica di ispirazione socialista allo stalinismo. Sua opera principale è l’autobiografia Memorie di un rivoluzionario; l’ultimo fra i suoi romanzi fu Gli anni senza perdono, pubblicato postumo nel 1971 e ora riproposto dalle edizioni Paginauno.
I due racconti di cui si compone il volume (Il vicolo di San Barnaba e L’ospedale di Leningrado) sono ambientati nella Russia degli anni Trenta, in pieno stalinismo, e risentono entrambi dell’atmosfera cupa determinata non solo da una povertà diffusa e dalle prevaricazioni esistenti tra la popolazione civile, ma soprattutto dalla coercizione politica messa in atto dal regime sovietico nei confronti di qualsiasi dissidenza.
Ne Il vicolo di San Barnaba, uscito per la prima volta nel 1931, è l’aspetto umano della vicenda che attira l’attenzione dei lettori, perché in uno scenario di miseria, fame, solitudine e abbrutimento fisico si innestano processi di malvagità e sopraffazione reciproca tra esseri umani che condividono la stessa sofferenza.
In una Mosca in cui i cittadini sono costretti a fare lunghe file davanti alle panetterie e ai pochi negozi alimentari rimasti aperti, in cui si consumano quotidianamente centinaia di furti e violenze fisiche, e le forze dell’ordine si lasciano facilmente corrompere, non viene garantito né il diritto alla salute, né quello all’abitazione: a ciascun paziente i rari dottori a disposizione possono dedicare solo otto minuti di consultazione, e nessun abitante o nucleo familiare può avere in locazione più di nove metri quadri di spazio domestico. Sporcizia, epidemie di tifo e scorbuto, rachitismo, mancanza di medicinali, baratto di cibo e mercato nero si diffondono tra la popolazione sconfortata e litigiosa.
Il disfacimento del corpo di Lenin nel Mausoleo dedicatogli nella Piazza Rossa, diventa metafora del fallimento degli ideali rivoluzionari, mentre il finto attivismo di una mancata ricostruzione della capitale viene celebrato da una propaganda martellante e ipocrita: “esortatevi l’un l’altro al successo, alla vittoria, al socialismo, questa città è un’immensa trireme e noi ne siamo i vogatori – cantate e remate, ancora uno sforzo, il porto è vicino… Le rotative moltiplicano il ritmo, le canzoni del lavoro vengono diffuse dalle onde aeree, lo schermo le imprime nei cervelli, i manifesti urlano, forza, compagni, in coro!”
Se le ruspe abbattono vecchie chiese e tuguri mentre l’attività edilizia tenta convulsamente una ripresa anche impiegando manodopera straniera, la guerra tra poveri non ha tregua, e nel Vicolo Sa Barnaba si vedono “persone muoversi simili agli insetti, uscire per un istante dalle tane, in abiti di grisaglia… letame della storia”.
La vecchia Anissia vive da sola in una camera umida e buia, le cui pareti sono tappezzate da decine di icone sacre cui l’anziana dedica continue preghiere e domande di intercessione per i peccati del mondo. Rinsecchita, maleodorante e malata, è circondata dall’ostilità e dal sospetto dei vicini (“quell’odio infinito per il prossimo che la miseria fa nascere nell’uomo”). La convivenza forzata rende le persone crudeli e fameliche, invidiose anche del poco posseduto dagli altri: “Come le disgrazie, un tetto avvicina gli uomini senza unirli”. La stanzetta di Anissia fa gola a tutti, poveracci e professionisti, soldati e madri di famiglia: l’assedio intorno all’anziana, in attesa che la sua agonia si concluda, innesca una disumana competizione tra i vicini, in un susseguirsi di omertosi silenzi e dispetti vicendevoli, finché la vecchietta inaspettatamente riprende vigore, si alza dal suo giaciglio ed esce dal condominio brulicante per andare a comperare il pane, in fila tra tanti disperati come lei.
Il secondo racconto, L’ospedale di Leningrado, è più caratterizzato politicamente, e la sua denuncia contro il potere coercitivo che annulla le libertà individuali e mette a tacere il dissenso assume toni sarcastici e indignati. Emblematiche sono le righe di apertura del testo: “Nel 1923, mentre abitavo a Leningrado, conobbi direttamente la psichiatria e le sue istituzioni poiché una persona a me carissima era stata colpita dai sintomi della malattia mentale. In quegli anni già correvano avvenimenti inquietanti: alla carestia nelle città e alla miseria nelle campagne si accompagnavano le prime avvisaglie del terrore; oscuri omicidi e implacabili persecuzioni colpivano i tecnici, gli oppositori del Regime, i contadini e persino le idee. Io ap partenevo alla categoria dei dissidenti; il che si gnificava che ogni notte, nel cuore del sonno, mi destavo al primo rumore, immaginando i passi di quelli che salivano lentamente le scale per venire ad arrestarmi…”.
Invitato da un amico medico a visitare l’ospedale psichiatrico di San Giovanni Dispensatore di Miracoli a Leningrado, Victor Serge rimane da subito impressionato dall’aspetto fatiscente e sinistro dell’edificio, “un piccolo inferno ignorato dal mondo”. Assiste all’arrivo di detenuti scaricati dalle camionette della polizia politica, la Ghepeu: gente comune, spaventata e dimessa, “grumi di uomini taciturni, di donne sospette, avvolti da tutti i colori della miseria”. Condannati a lavori forzati in Siberia per piccoli reati (contrabbando, spaccio di alcol, furto), e poi di nuovo internati in clinica, brutalizzati, sedati con psicofarmaci. L’incontro con uno dei degenti, Nestor Petrovi ch Iouriev, si rivela illuminante. Uomo colto, amico personale di molti letterati, collezionista di testi rari, fornito di una sottile capacità di analisi, segregato in quanto controrivoluzionario, Iouriev aveva scritto, stampato e diffuso un Appello al popolo in cui invitava i cittadini e gli intellettuali russi a liberarsi dalla paura che controlla gli animi, avvilisce il pensiero, oscura l’intelligenza.
“I lavoratori hanno paura di morire di fame se non rubano, paura di rubare, paura del Partito, paura del piano, paura di sé medesimi. I colpevoli hanno paura di confessa re il loro misfatto, gli innocenti hanno paura di non aver niente da confessare e di essere inno centi. Gli intellettuali hanno paura di capire e di non capire, di poter comprendere o di non po ter comprendere. Gli ideologi hanno paura delle idee, i credenti hanno paura di essere scoper ti e hanno paura di tradire la loro fede. Il popo lo ha paura del potere e il potere ha paura del popolo… Al vertice dello Stato, gli uomini che occupano le più alte cariche politiche, hanno paura gli uni degli altri; hanno paura di agire e hanno paura di non agire, hanno paura della crisi economica, paura delle conseguenze dei loro stessi gesti, paura delle masse, paura della guerra. Il capo ha paura del proprio seguito, al punto da temere il veleno in un semplice bicchiere d’acqua e da diffidare delle sue più fedeli guardie del corpo. Ma a sua volta il seguito ha paura ed è terrorizzato dal capo…”.
Parole scritte un secolo fa, che sebbene rivolte al sistema liberticida staliniano, stigmatizzano qualsiasi tipo di potere antidemocratico, anche attuale e di diversa colorazione politica, là dove l’anticonformismo ideologico, la protesta sociale, la refrattarietà all’omogeneità dei costumi e delle mode imperanti produce isolamento, discriminazione, persecuzione; da sorvegliare e punire, come ci ha insegnato Foucault, e come ben ha sperimentato sulla sua pelle Victor Serge.

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 giugno 2023

RECENSIONI

SERRAGNOLI

FRANCESCA SERRAGNOLI, LA QUASI NOTTE – MC, MILANO 2020

Francesca Serragnoli (Bologna 1972), con La quasi notte è al suo quarto libro di versi, tutti orientati a esplorare l’interiorità con discrezione e coerenza, nel rispetto dovuto alla parola poetica, che pretende pulizia formale e densità di contenuti. Le cinque sezioni in cui si articola il volume si misurano con un’ansia che definire religiosa è forse eccessivo, ma certamente pare circoscrivibile entro una dimensione di ricerca spirituale, non sempre rasserenante e risolta, e invece rasentante i bordi dell’incertezza, del rovello e dell’inquietudine.

Nella scrittura della poetessa si addensano infatti intensità e rarefazione, sobrietà e desiderio di svelamento, oscurità e trasparenza. L’evidente tensione metafisica, oggettivata in una terminologia che rimanda al credo cristiano (la croce, il calice, la lancia, la comunione, le reliquie, il costato da cui escono acqua e sangue) e il richiamo costante a una presenza divina, velata e non sempre paterna, si scontrano con una forte materialità fisica, evidente nell’accumulo di termini appartenenti al corpo: mani, dita, piedi, ginocchi, gola, lingua, bocca, cuore, scheletro, viscere, volto, occhi. Gli occhi, soprattutto, e lo sguardo, e l’atto di guardare, tornano ossessivamente in molte composizioni della raccolta, ad accentuarne l’aspetto simbolicamente visionario, di un’apertura e di una repentina e quasi impaurita chiusura sul mondo circostante (“l’occhio spalancato senza vita, / senza morte”, “gli occhi spaccati in due”, “occhi impietriti”, “occhi bassi”). Ascesi e caduta, volo e precipizio si alternano nelle pagine, utilizzando metafore indicanti rinuncia, angoscia, solitudine e sgomento, a cui si oppone una tenue ma tenace speranza di salvezza, di resurrezione.

Formalmente, la sintassi nominale e paratattica evita qualsiasi subordinata, nega a se stessa l’addolcimento delle rime, giustappone versi in apparenza slegati tra loro, procedendo per associazioni visive, correlazioni sonore, o allusioni volutamente ambigue: “M’ammazza e mi sfiora / il bucato è fiamma / lino che separa i pianeti / sventola il gingillo di una catastrofe // fra me e te muove un violino / la bufera è quasi un tango / la mano ferma sulla schiena / la vita ribaltata il volto in giù”.

Un’alterità è presente, quasi un’ombra, a cui la poetessa si rivolge con un sommesso rimprovero, lamentando lontananza, incomprensione, forse indifferenza (“Che tu mi voglia bene / è un precipizio levigato”), mentre più consolante è il frequente appello a figure infantili, ai bambini simbolo di innocenza e disinteressato affetto, osservati da lontano, con nostalgia.

La tentazione ultima è la resa, l’abbandono al sonno della notte, che tuttavia non è mai completamente buia, è – come sottolinea il titolo della raccolta – una “quasi notte”, a cui si oppone un’unica vivifica verità: la salvezza promessa dalla poesia. Negli Appunti sparsi che concludono il volume, Francesca Serragnoli dichiara apertamente e orgogliosamente la sua fede nella bellezza e nell’arte: “L’arte è oltre. Non è scavalcare lo steccato, è passarci dentro… Se serve a muovere l’uomo da se stesso, ad alzarlo alla vita, a scorgere una terra promessa, allora è consentito scrivere, lasciare che le cose diventino passi, che la bellezza appunto strappi dalla disperazione umana, ci sollevi nella corrente di una destinazione e non ci lasci ad annaffiare ciò che muore e che ha altrove la sua fioritura eterna”.

Scrivere per non lasciarsi sopraffare dall’oscurità, per continuare a credere nel chiarore dell’alba.

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › La-quasi-notte-Serragnoli    31 agosto 2021

 

RECENSIONI

SERRES

MICHEL SERRES, CONTRO I BEI TEMPI ANDATI – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2018

Prossimo ormai ai novant’anni, il filosofo francese Michel Serres continua a stupire il mondo con la sua saggistica vivace, piena di entusiasmo e ottimismo, aperta ad ogni rivoluzionaria scoperta scientifica e tecnica, solidale con le giovani generazioni che abitano il virtuale. Decisamente favorevole alla “civiltà dell’accesso”, ama presentarsi come strenuo difensore di Internet e di Wikipedia, e di qualsiasi nuova modalità di espressione nella scrittura, nel linguaggio parlato, nell’arte, per una cultura finalmente accessibile a chiunque, in ogni luogo, senza barriere e pedanteschi paludamenti. Nato ad Agen nel 1930, figlio di un conduttore di chiatte, studiò all’École Navale e  all’École Normale Supérieure, impiegandosi come ufficiale di marina prima di ottenere il dottorato in filosofia nel 1968 e cominciare ad insegnare a Parigi. I suoi studi scientifici e di linguistica furono da subito orientati eticamente verso la critica di ogni bellicismo e potere reazionario, valorizzati da scambi e reciproche influenze tra i diversi saperi e discipline. Membro dell’Académie Française dal 1990, è oggi considerato uno degli intellettuali più rappresentativi e dei teorici più stimolanti nel suo approcciarsi criticamente e in modo divulgativo alla cultura contemporanea. In Italia quasi tutti i suoi lavori, espressi in una lingua lineare e accattivante, sono stati pubblicati da Bollati Boringhieri. Si tratta in genere di pamphlet scritti per un pubblico non specialistico, con l’ambizione di contestare pregiudizi radicati nelle coscienze e nell’immaginario collettivo, e di provocare nei lettori curiosità, domande e contestazioni, sempre da lui considerate proficue e necessarie.

In un volumetto uscito nel 2013, Non è un mondo per vecchi, si augurava la nascita di una società “nuova, variabile, mobile, fluttuante, variopinta, tigrata, cangiante, intarsiata, musiva, musicale, caleidoscopica…” e soprattutto “connessa”, in grado di occupare spazi orizzontali di vicinanza simultanea e democratica, offrendo risposte adeguate alle aspettative dei giovani in ambito scolastico, professionale e di utilizzo del tempo libero. Se in pochi decenni si è trasformato clamorosamente e irreversibilmente il nostro modo di vivere occidentale (boom demografico ed economico, libertà sessuale, longevità, multiculturalismo, progresso scientifico e tecnologico, aumento dell’istruzione e della ricchezza pro capite, assenza di conflitti bellici), è doveroso ideare nuovi metodi di trasmissione della conoscenza, di fare politica, di lavorare e di comunicare. Bisogna sconvolgere, rendere permeabile e disordinata ogni forma antiquata di pedagogia. “L’era dei decisori è finita… il solo atto intellettuale autentico è l’invenzione”. C’è un rischio in questa rivoluzione culturale che rende ciascuno più libero, indipendente, attivo e creativo? Certo, e Serres ne è ben consapevole: esiste una “presunzione di competenza”, che può illudere chiunque sulle proprie capacità intellettuali o artistiche, rinsaldando alla fine e nuovamente il sapere nelle mani dei soliti, pochi, manovratori. Ma è un rischio che vale la pena di correre, perché il passato va superato e vinto, anche di fronte alla prospettiva di un futuro ancora nebuloso.

Nell’ultimo saggio da poco pubblicato, Contro i bei tempi andati, l’autore sconfessa e ridicolizza senza remissione chiunque deprechi il presente in nome degli anni “di prima, di una volta”, rivisitati ed edulcorati con ipocrita nostalgia. I trentatré paragrafi di cui si compone il testo hanno due referenti immaginari: un Vecchio Brontolone, arcigno denigratore del tempo presente, e Pollicina, ragazza “disoccupata o stagista” che nel suo smartphone, ossessivamente consultato, contiene tutto il sapere del mondo. Serres prende chiaramente posizione a favore di quest’ultima, sottolineando quanto la storia, la civiltà e la cultura dei secoli scorsi, fino a buona parte del ’900, abbia prodotto di negativo e crudele nella vita degli individui (guerre, eccidi, dittature, torture, epidemie infettive, oscurantismo, retorica patriottica, razzismo e sessimo). Lo fa con cognizione di causa, avendo vissuto un’infanzia e una giovinezza tormentata da povertà e fame, da bombardamenti e persecuzioni, da tabù ed emarginazione: si sofferma a descrivere i suoi primi vent’anni, vissuti in una famiglia operaia sulle rive della Garonna, lavorando nei campi o nei cantieri navali per pagarsi gli studi.  Elenca quindi una serie di disagi e difficoltà concrete che le popolazioni a cavallo tra le due guerre mondiali dovevano patire, tra scarsissima igiene, malattie malcurate, sessualità inibita, ignoranza e superstizioni, comunicazioni precarie, lavori domestici faticosi, totale assenza di ammortizzatori sociali. L’ovvia commozione nel ricordare “i bei tempi andati” è corretta da una bonaria ironia e da un sorriso di compatimento, nel ribadire a chi afferma che si stava meglio quando si stava peggio una verità scontata e incontrovertibile: quando si stava peggio, si stava davvero peggio.

© Riproduzione riservata                «Il Pickwick», 14 giugno 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

SESBOUE’

BERNARD SESBOUÉ, LO SPIRITO SENZA VOLTO E SENZA VOCE – SAN PAOLO, MILANO 2010

Queste pagine del teologo francese Bernard Sesboué presentano un breve excursus storico sugli sviluppi della teologia dello Spirito Santo nella Chiesa: terza Persona della Trinità, la più enigmatica e incompresa, quella a cui meno si rivolgono i fedeli nelle loro preghiere. Il termine greco Pneuma è neutro, quello ebraico Rùah è femminile, Spiritus latino è maschile; molte sono le ambivalenze anche nelle sue rappresentazioni metaforiche: vento, acqua, fuoco, luce, potenza, soffio, colomba, dono, ecc. L’evangelista che ne parla più diffusamente è senz’altro Giovanni, indicandolo come “intercessore” comparabile a Gesù stesso. Eppure, riesce difficile definirlo come “persona”, al pari del Padre e del Figlio: perché è senza volto e non parla, non rappresenta un Tu, ma rimane un Egli. Si manifesta sotto la forma di lingue di fuoco, come visualizzazione teofanica: tace, ma fa parlare gli uomini che ispira, gli apostoli, i profeti, i Padri della Chiesa. Non va cercato di fronte a noi, ma dentro di noi. “Deus intimior intimo meo”, come scriveva Agostino: metapersona che agisce nella profondità del soggetto umano. Bernard Sesboué analizza la storia dello Spirito Santo nella tradizione ecclesiale antica (Atanasio ,Basilio, Gregorio di Nazianzo fino a Cirillo) e nel medioevo, soprattutto soffermandosi sulla riflessione di Tommaso D’Aquino. Ma le pagine più interessanti risultano ovviamente quelle dedicate alla teologia recente, con la speculazione profonda di K.Rahner sulla presenza trascendentale dello Spirito, e di Von Balthasar, che indica nella Terza Persona “l’esegeta” di Dio e del Cristo, colui che non aggiunge nulla all’insegnamento divino, ma lo interpreta e lo fa comprendere. “E’ libero e rende liberi”, non va interpretato tanto nel suo “partire da” le altre due Persone, quanto nel suo “verso”, nell’amore reciproco del Padre e del Figlio, che può essere colto solo nei suoi effetti. Ma la definizione più originale dello Spirito rimane proprio quella di Sesboué : “E’ il nostro inconscio spirituale”.

IBS, 13 MARZO 2012

RECENSIONI

SEUSS

DIANE SEUSS, LA RAGAZZA DALLE QUATTRO GAMBE – ENSEMBLE, ROMA 2021

Premio Pulitzer 2022 per la poesia, la statunitense Diane Seuss è stata pubblicata per la prima volta in Italia dalla casa editrice romana Ensemble, con il volume La ragazza dalle quattro gambe. L’introduzione di Alessandra Bava, che ne ha curato la traduzione insieme a Maria Adelaide Basile, parla esplicitamente per questo testo di “invenzione    di una nuova forma poetica americana”. La poeta stessa ha infatti coniato per la propria scrittura l’espressione freaking form, intendendo con ciò di aver voluto “apprendere forme tradizionali per usurparle, rovesciarle, riutilizzarle”, facendo dei suoi versi una sorta di scherzo di natura.

E agli scherzi di natura, alle deformità, ai deragliamenti da regole e consuetudini è dedicata anche la presente raccolta, il cui titolo rimanda all’infelice figura di Myrtle Corbin, nata nel 1868 e affetta da dipigo, il cui corpo terminava con due bacini e quattro gambe. Diventata nel 1913 una delle attrazioni più celebri del Circo Barnum, a lei è dedicato il testo conclusivo del libro (Is there still a Betty in this new life?): “Per aver visto lungo la strada per Ramptown, le gambe in più penzolare / inutili tra le cosce delle altre due, inutili come un usignolo / meccanico, inutili come la frangia del tuo kimono transilvano, / cantai sottovoce // … le tue gambe non erano petali o viticci come avevo creduto,     // ma sfrontate, i tentacoli aberranti sotto la veste di una regina segreta”.

Nata in una small town del Michigan nel 1956, rimasta orfana di padre a sette anni, dopo il liceo Diane si trasferisce a New York, lavorando come segretaria e scrivendo romanzi rosa e pornografici per mantenersi. Si introduce nello spietato mondo artistico della metropoli, unendosi agli adepti di William Burroughs e Andy Warhol. Alla morte del suo compagno per overdose, torna a vivere nel Midwest, si laurea in Scienze Sociali presso il Kalamazoo College, dove continuerà a insegnare scrittura creativa per trent’anni.

L’ambiente sociale in cui ambienta i suoi versi è quello miserevole dell’infanzia, con strade sterrate, paludi infestate da cicale, paesi semideserti, pochi negozi, qualche pollaio e la morte che si aggira tra imprese di pompe funebri e cimiteri. La sua adesione anti-intellettualistica al mondo degli emarginati deriva da una concreta esperienza esistenziale, come afferma in una orgogliosa dichiarazione di poetica: “Ritengo che il mio lavoro possa essere definito come punk rurale. Emerge dagli spazi rurali alla ricerca della durezza, della stranezza, dell’assurdità, della tigliosità, della rabbia e del dolore di ogni cosa in contrapposizione alla rusticità. La ruralità non è meno punk dell’urbanità. La mia estetica è quella delle carcasse di animali investite. Dei fantasmi che fumano sigari lungo le sponde del fiume”.

La campagna, infatti, fa da sfondo alla maggior parte delle composizioni, mantenendo nel suo rivelarsi qualcosa di minaccioso e di putrido, persino nella sua colorata e lussureggiante fertilità: “nella merda di falco, nella borragine, nel crescione, / nella licnide, nella vite americana, nella fitolacca, nella phryma, nel convolvolo, /  nel trifoglio e nel fiore di caprifoglio, bianco come osso bollito”, “Gli iris si alzano su steli carnosi, / i boccioli ancora avvolti in qualcosa di simile a cartine, / il viola che passa attraverso, il colore delle viscere”, “Qui, a metà maggio,  passato il fiore degli anni, / i tulipani ingialliti e spampanati come cose trascinate a riva, / e le ragazzacce si sono tolte gli abiti da sposa, hanno fatto ricadere le tette, / hanno allentato i loro strascichi. La bellezza era un fardello, dopo tutto, / non è vero?”, “Ricordi quella primavera? La brezza odorava di preparato per torte / e di un certo non so che di sodomia nell’aria. Forse era la spirea, / che olezzava di spermatozoi e detersivo al pino”.

Dalla desolazione campestre del Michigan, ancora più squallida negli interni domestici, al feroce abbruttimento del periodo newyorkese, Diane Seuss sembra non volersi risparmiare nulla in infelicità e abiezione: a sfregio di ogni facile e privilegiato perbenismo, sceglie l’abisso, il degrado, e la provocazione diventa per lei bandiera.  Il rifiuto riguarda ogni cosa, dalla banda degli amici punk all’intellettualità di moda, dalla maternità alla religione (“Dio ha persino il voltastomaco per le preghiere / dei credenti. Sono sudaticce e ampollose, / non come stalker ma come guardoni, che propendono / all’introversione e alla balbuzie”). Soprattutto respinge l’idea di morte, dopo che quella paterna ha tormentato il suo immaginario infantile, lasciando in lei cicatrici indelebili: “i tumori di mio padre / sbocciavano come i palloncini nei cartoni animati”, “quando / ero bambina, la bara nera di mio padre mi ricordava // un piano. Un piano senza tasti. Ero abbastanza / giovane da credere che fingesse di essere morto / e i miei // incubi erano colmi della sua strana resurrezione, / braccia cariche di gigli bianchi”.

Finché, per salvarsi, decide di anestetizzarsi, cementandosi: “Non c’era sollievo a essere / umana e così mi trasformai in pietra   / e ora non provo sollievo / a essere una pietra. Non / ho scelto di essere pietra”.

Nella postfazione, Maria Adelaide Basile insiste giustamente sullo stile immaginoso delle frequenti metafore usate da Diane Seuss, sempre visivamente plastiche, mescolanti realtà e magia, storia e affabulazione. Le immagini che ci scorrono sotto gli occhi sono nitide e oniricamente svianti, nel loro variopinto anarchismo, capaci di suscitare inconciliabile rabbia, e umanissima pena.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 30 maggio 2022

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SEVERINO

EMANUELE SEVERINO, IL MIO RICORDO DEGLI ETERNI – RIZZOLI, MILANO 2011

Da quanto scrive il filosofo Emanuele Severino in  Il mio ricordo degli eterni, ricordare è alterare, errare: «È una parte del grande sogno in cui il mondo esiste». E questa sua autobiografia risulta, quindi, un errore: «Trapelano, in queste mie pagine, vanità e puerilità»,messaggi che allontanano dalla verità, addirittura nella falsità dello stile: «Ho nostalgia del linguaggio pesante e duro dei miei scritti».

E ancora: «Pubblicare un’autobiografia è dar confidenza al prossimo. Che a volte la merita, altre no». Ma non sempre chi legge la narrazione di una vita altrui lo fa per banale curiosità: a volte può sperare in un’illuminazione, desidera imparare dall’esistenza di un Maestro. Ecco che allora la vita di un filosofo può risultare davvero un insegnamento, non solo nei particolari biografici (la famiglia d’origine, siculo-bresciana, con il padre ufficiale dei bersaglieri e poi bancario; un fratello maggiore morto in guerra; la moglie amatissima, conosciuta a sedici anni e sposata a ventidue; due figli, e un’intera esistenza dedicata alla ricerca, allo studio, all’insegnamento universitario).
Non solo, quindi, nelle vicende della quotidianità: l’amore per la musica e per la letteratura (soprattutto Leopardi e i tragici greci), gli incontri con i grandi pensatori italiani ed europei (Gadamer e Levinas tra gli altri), le polemiche e gli scontri ideologici con altre teorie filosofiche (tra cui, fondamentale, quella con le gerarchie della Chiesa), i viaggi.

Ma essenzialmente nelle graduali conquiste filosofiche, nell’avvicinarsi al nucleo tematico del suo pensiero: l’oltrepassamento del nichilismo, inteso come “alienazione essenziale”, secondo cui le cose vengono dal nulla e vi ritornano; la critica al cristianesimo, al capitalismo, al tecnicismo; l’approfondimento di parole chiave (l’incontrovertibile, il rimedio e il riparo). E in particolare la sua tesi più originale e discussa, ma inevitabilmente più affascinante: l’eternità di tutti gli essenti, per cui «se tutto è eterno, tutto è legato a tutto, sì che, se un filo d’erba non fosse, nulla sarebbe».

Perché «ciò che se ne va scompare per un poco. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare».

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/mio-ricordo-eterni-Severino.html     10 giugno 2016

RECENSIONI

SEVERINO

EMANUELE SEVERINO, IL NULLA E LA POESIA – BUR, MILANO 2005

Due grandi pensatori si interrogano, a duecento anni di distanza l’uno dall’altro, sul “nulla”: il primo con la tentazione e il desiderio di naufragarvici dentro, il secondo per negarlo teoricamente ed eticamente. Emanuele Severino, polemico assertore dell’eternità del tutto, e strenuo accusatore del nichilismo come forma mentis del pensiero occidentale, ha il grande merito di rivalutare, in questo suo documentatissimo volume, Giacomo Leopardi come profondo e originale filosofo, oltreché eccelso poeta. E lo fa scandagliando a fondo sia lo Zibaldone sia l’ epistolario, e mettendoli a confronto tra di loro, con la produzione poetica e con le Operette Morali. Sappiamo che fin dall’adolescenza Leopardi aveva studiato e meditato tutto lo scibile greco e latino, dai Presocratici in poi, ed era convinto anche della necessità di misurarsi con le scienze e la cultura contemporanea. Già nel 1821 poteva quindi scrivere che “il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla”, basandosi non solo sulla sua tormentata sensibilità, ma soprattutto sulle sue documentate ricerche. Per lui era ovvio dedurre che sia il pensare alla nullità delle cose sia “la cognizione della nostra miseria” fossero radice e causa dell’infelicità umana. Meglio quindi non essere che essere, meglio l’ignoranza che la sapienza, più felici gli animali, i bambini e gli ignoranti che l’uomo colto. Unica consolazione può essere data allora dall’immaginazione e dalle illusioni, soprattutto nella loro forma più alta: la poesia, capace di “fingere” profondissima quiete, di perdersi nell’indeterminatezza dell’infinito. Dopo aver indagato alcuni termini chiave del pensiero leopardiano (il piacere, la ragione, la noia, la verità, la natura…), Severino offre al lettore una guida sapiente alla poesia eterna del recanatese, con due interpretazioni di A se stesso e  La ginestra, e conclude definendo Leopardi epigono e precursore insieme di ogni nichilismo passato e futuro.

IBS, 11 settembre 2013

RECENSIONI

SEVERINO

EMANUELE SEVERINO, LA STRADA – BUR, MILANO 2008

“Ritorniamo indietro di millenni e le cose – per esempio queste voci che vengono su dalla strada- sono lì già da sempre, con la pioggia che questa sera le circonda e la lampada che illumina la stanza. Andiamo avanti per millenni, ed esse sono lì per sempre, così come ora appaiono, nella loro interezza. Nessuna cosa, quindi, è “creatura” e nessuna è un “creatore”. Nessuna ha bisogno di un “dio”, di un “padre”, di un “signore”, di un “padrone”, di un “artefice”, di un “produttore” che le garantiscano il suo permanere nell’essere e la tengano lontana dalla minaccia del niente”. Nella sua appassionata ed esaltante fede nell’eternità del Tutto (“La più umile delle cose è eterna in un senso abissalmente più profondo dell’eternità di ‘Dio’ “), Emanuele Severino sa assumere toni di purissimo lirismo, che lo avvicinano più all’ispirazione poetica che alla speculazione filosofica, come quando ci descrive il bruciarsi della legna, il suo ridursi prima a brace e poi a cenere, senza tuttavia diventare “niente”, ma persistendo nella sua eternità: “Se il divenire non appare come annientamento, ma come l’entrare e l’uscire delle cose dal cerchio dell’apparire, allora l’affermazione dell’eternità del tutto stabilisce la sorte di ciò che scompare: esso continua a esistere, eterno, come un sole dopo il tramonto”. Come il sole allo spuntare del nuovo giorno, anche ciò che muore e apparentemente finisce, in realtà, può “ritornare”. E questa profonda convinzione deve renderci certi della nostra finalità di gioia (“Noi siamo la Gioia”), consapevolmente oltre la follia di tutta la filosofia nichilista dell’occidente, che dai greci in poi ha cercato di convincere l’umanità che il non-niente sia il niente, destinato al niente. E cosa ribattere, quindi, alle affermazioni degli astrofisici, secondo cui anche il Sole, le galassie, l’universo moriranno, inghiottiti da un’entropia irrevocabile? Anche il nulla è eterno, come il dolore, la felicità, ogni pensiero?

IBS, 30 giugno 2013

RECENSIONI

SEVERINO

EMANUELE SEVERINO, DEL BELLO – MIMESIS, MILANO 2011

“Quando parliamo di estetica abbiamo l’impressione che questa disciplina si interessi del superfluo, perché i bisogni primari dell’uomo sono altri: la sopravvivenza, la tranquillità dell’anima…”: così inizia la conferenza che Emanuele Severino ha dedicato al concetto di bellezza, e che l’editore Mimesis ripropone nella sua esatta trascrizione. In effetti, sembra che sia l’homo oeconomicus sia l’homo eticus abbiano la prevalenza, nella soddisfazione dei loro bisogni materiali e spirituali, rispetto a chi privilegia la dimensione estetica della vita. Ma “la bellezza è una forma di rassicurazione della propria esistenza… il bello è un rimedio contro l’angoscia provocata dal pericolo che avvolge l’esistenza”. E ancora “Il bello compare come strumento mediante il quale è possibile, sia nel corpo sia nell’anima, liberarsi dalla morte”. Severino ribadisce qui che ogni nostra angoscia proviene dal divenire, e soprattutto dalla sua imprevedibilità: al fuoco annichilente del divenire si può opporre solo la perfezione della bellezza, della poesia, dell’opera d’arte: ” la bellezza diventa la potenza con cui si guarda l’impotenza delle cose”. Allora, al dolce naufragare nel nulla dell’Infinito leopardiano, lo stesso Leopardi oppone il giallo della ginestra che fiorisce nel deserto, consolandolo della sua aridità. Nell’arte, nel bello, si manifesta “il significato ultimo di qualcosa”, l’immagine dell’unica salvezza possibile. Poiché siamo consapevoli di essere “effimeri, esposti al pericolo del nulla”, tentiamo di affidarci a una “volontà di rimedio che è anche volontà di bellezza”. Quindici pagine che ovviamente non esauriscono gli infiniti interrogativi posti dalla definizione di estetica, ma propongono spunti di riflessione. Corredate da un glossario, curato da Davide Grossi, dei termini filosofici più indagati da Severino, tra cui i suoi tòpoi: divenire, apparire, nichilismo.

IBS, 22 aprile 2012

RECENSIONI

SHAKESPEARE

WILLIAM SHAKEAPEARE, NON CHIEDERE RAGIONE DEL MIO AMORE – L’ORMA, ROMA 2016

In una originale ed elegante veste tipografica, l’editore romano L’Orma propone a un prezzo molto conveniente libriccini di autori classici, contenuti in una sovraccoperta trasformabile in busta pronta ad essere affrancata e spedita. Idee regalo, quindi, preziose e finemente curate. La collana, denominata “I Pacchetti”, offre ai lettori testimonianze epistolari di famosi filosofi, artisti e politici di ogni epoca e nazionalità, corredate all’interno da fotografie o immagini poco note al grande pubblico.
Tra le ultime uscite Non chiedere ragione del mio amore, un florilegio di messaggi epistolari tratti dalle opere teatrali di William Shakespeare, che rivelano nuove prospettive di interpretazione dei drammi del Bardo, svelando intrighi di potere, amori turbolenti, foschi drammi esistenziali dei suoi immortali personaggi.
Così scrive il traduttore e curatore dell’antologia Eusebio Trabucchi: «Il teatro di Shakespeare è costellato di lettere: scambiate, scritte, falsificate, sussurrate, fatte a pezzi, declamate ad alta voce. In scena entrano spesso di colpo suscitando negli spettatori un brivido di trepidazione o uno squasso di risa».

Sono quindici i brani scelti, estrapolati da undici opere shakespeariane, e tutti illustrano con fulminea evidenza e vivace dinamismo i caratteri peculiari dei personaggi in scena, sia che siano mittenti, destinatari o semplici lettori delle missive.
Falstaff, ad esempio, rivelando il suo amore a una incredula e sdegnata signora Page, le si rivolge in questo modo: «Non vi dico: abbiate pietà. Non è frase degna di un soldato. Vi dico invece: amatemi. E mi firmo: sono il vostro cavaliere / sia di giorno sia di notte / le mattine e anche le sere / sempre pronto a fare a botte / per difendere vossia». E Amleto così scrive a Ofelia: «Tuo più che mai, signora prediletta, finché questo congegno apparterrà ad Amleto». E a Orazio: «Raggiungimi con la velocità con cui si fugge alla morte». Malvolio, ne La dodicesima notte, legge una sentenza passata ai posteri per la sua lapidaria evidenza: «C’è chi nasce grande, chi la grandezza la conquista, chi invece la riceve in dono».

Artemidoro mette in guardia Giulio Cesare dai congiurati che lo attendono al varco, e Macbeth si rivolge alla sua terribile moglie chiamandola “mia carissima compagna di grandezza”.
Questo volumetto con cui l’editore romano intende celebrare il quarto centenario della morte di William Shakespeare, intitolato poeticamente Non chiedere ragione del mio amore, si conclude con un’ultima lettera, ma di Eugenio Montale, che si rivolge con sublime sprezzo a un Malvolio intellettuale contemporaneo di cui stigmatizza la «focomelia concettuale» e l’agilità nel rimescolare «materialismo storico e pauperismo evangelico».
Tanto per dire che vizi, viltà, accuse e polemiche dell’epoca elisabettiana possono rivivere in qualsiasi epoca e compagine storica.

 

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18 maggio 2016