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SHAPIRO

BRETT SHAPIRO, L’INTRUSO – FELTRINELLI, MILANO 1994

Di Giovanni Forti, corrispondente da New York per L’Espresso, morto di Aids nel 1992, molti ricorderanno un coraggioso reportage-diario sulla sua agonia, cosciente e combattuta, pubblicato dal settimanale, e una straziante intervista televisiva con Enzo Biagi. Ci avevano impressionato i suoi occhi mobilissimi e stanchi, i tratti tirati, la voce affaticata ma intenerita con cui parlava di sé, del suo essere ebreo e omosessuale, del suo compagno e dei suoi bambini: ma anche di flebo e diarree, di reazioni fisiche mortificanti, della sua voglia di non arrendersi. L’annuncio, dopo poche settimane, della sua morte, ci aveva toccato non solo dal punto di vista umano, ma anche culturalmente, con la consapevolezza di aver perso una voce anticonformista e stimolante.
Ora Brett Shapiro, che aveva diviso con Forti gli ultimi due anni di vita, pubblica presso Feltrinelli un libro che è omaggio al suo compagno e insieme narrazione spietata di un lento, inevitabile soccombere alla malattia: ne è derivata una «storia d’amore della fine del nostro secolo» (come scrive Rossana Rossanda nella sua lucida e partecipe prefazione), più qualcosa d’altro. Una sfida al nostro perbenismo sempre in agguato, uno schiaffo al pregiudizio, un pungolo all’apertura della mente. Giovanni Forti (romano trentaseienne di origine ebraica, ex redattore de Il Manifesto, ex marito di Giovanna Pajetta, padre a tempo pieno dell’undicenne Stefano) incontra a New York tramite un annuncio sul giornale Brett Shapiro, intellettuale suo coetaneo e padre di un bambino adottivo. Forti è da anni sieropositivo, e non nasconde la sua condizione all’amico, che l’accetta insieme a tutte le inevitabili conseguenze: i due decidono di convivere, coinvolgendo nella loro scelta non solo i due figli, ma anche le famiglie d’origine, sempre incombenti e affettuose, totalmente comprensive, e di arrivare addirittura al matrimonio ebraico con rito tradizionale. Di fronte a un rabbino newyorkese, Brett e Giovanni si sposano sotto la huppah, recitando le formule della torah e calpestando i bicchieri di vetro, festeggiati da amici e parenti. Il desiderio di essere una famiglia “vera” è a tal punto impellente, insopprimibile, da richiedere il sigillo del rito, il ritorno alla tradizione più conservatrice e severa, quella della religione ebraica. E ciò che ai nostri occhi cattolicamente italici pare più incredibile, è la totale naturalezza con cui questa scelta viene accettata e condivisa dall’ambiente familiare e culturale che circonda i due compagni: così come ci sconcerta la scelta del coinvolgimento dei due bambini in un ménage tanto diverso dai soliti, non solo ideologicamente, ma proprio nelle abitudini quotidiane, nel sovvertimento dei ruoli, nella divisione dei compiti maschili e femminili. Ci imbarazza la presenza, molto americana e assidua, e per niente ironica, dell’analista-donna, delegata a risanare i traumi, a superare le divergenze in ogni occasione difficile della vita a due; ci infastidisce a volte l’esibizione provocatoria di un epistolario domestico che sembra ingiustificatamente diffuso su episodi troppo particolari e personali. Ma non si può negare al libro la capacità concreta di scuoterci prima ancora che di commuoverci con il resoconto del graduale spegnersi della vita di Giovanni e con la dedizione assoluta, generosa e appassionata di Brett al destino del suo compagno, al punto di convincerlo ad accompagnarlo a Roma, ormai sulla sedia a rotelle, perché lui possa morire dove desidera, tra i suoi, e riposare nel settore ebraico del Verano. Lo strazio della morte di Giovanni risulta dai fatti raccontati con asciutta veridicità, e lo riviviamo un po’ tutti perché ormai sappiamo (chi più chi meno) cosa significa assistere un malato terminale. Eppure davanti a questa morte così accoratamente pianta, ci ritroviamo più fragili e vulnerabili, e allora “ebreo”, “gay”, e quant’altre definizioni si vogliano, appaiono appunto quello che sono: etichette.

 

«L’Arena», 17 febbraio 1994

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SHELLEY

PERCY BYSSHE SHELLEY, IN DIFESA DELLA POESIA
MIMESIS, MILANO 2013

Percy Bysshe Shelley (1792-1822), uno dei più rappresentativi poeti del romanticismo inglese, ostile al conformismo e al fariseismo della società borghese ottocentesca, scrisse questo polemico pamphlet nel 1821, quando risiedeva in Italia, un anno prima di morire in un naufragio nel mare ligure.
In difesa della poesia è un saggio denso e vibrante, ideato in un periodo di forti contrasti ideologici che animavano il mondo letterario e civile europeo.
In esso Shelley prende decisamente e fieramente le parti della composizione poetica intesa come unico antidoto in grado di opporsi al dominio dell’interesse economico, egoistico e calcolatore, che ottunde con le sue lusinghe la mente e la sensibilità dell’essere umano: “Il corpo è diventato troppo ingombrante per ciò che lo anima”.
Attività per eccellenza nobile e gratuita, la poesia si presta a diventare il mezzo privilegiato capace di alleggerire lo spirito appesantito degli individui e delle collettività, agendo non solo esteticamente attraverso lo stimolo dell’immaginazione, ma anche eticamente con la promozione della solidarietà e del sentire comunitario.
La contrapposizione tra immaginazione e ragione vede Shelley schierarsi apertamente in favore della prima delle due facoltà mentali, che caratterizza l’umanità già dai suoi albori. La ragione è sintetica, stabilisce i rapporti tra i pensieri, individua le differenze; l’immaginazione è analitica, arricchisce i pensieri, coglie le somiglianze tra le cose. È da quest’ultima che la poesia trae linfa per esplorare l’ignoto, avvicinarsi al bello, modulare armonie, creare metafore e associazioni, superando ogni contingenza temporale ed elevandosi alle verità eterne e universali.
“La poesia solleva il velo dalla nascosta bellezza del mondo, facendo sì che le cose familiari appaiano come insolite; essa dà nuova vita a tutto ciò che rappresenta…”
Shelley ripercorre la storia della poesia universale partendo da Omero (i cui eroi spronavano al raggiungimento di un grande ideale etico) per arrivare a Shakespeare, che con il Re Lear toccò la vetta dell’arte drammatica mondiale: ogni vera poesia educa, eleva, ammonisce, commuove e rende migliore chi ne fruisce. Ma nei periodi di decadenza sociale e politica, anche l’arte e la letteratura illanguidiscono, si raffreddano e involgariscono, perché esiste una corrispondenza inevitabile tra gli avvenimenti storici e la loro interpretazione creativa.
La realtà nutre la poesia, ma non la vincola alla sua pura descrizione. Spetta “ai ragionatori e ai meccanicisti”, ai filosofi e agli economisti politici, servirsi della ragione per allontanare “il fastidio dei bisogni dalla nostra natura animale”, assicurare agli uomini un’esistenza più sicura e tranquilla: a loro spetta l’utilità del pensiero e dell’azione. Tuttavia, il loro ruolo è circoscritto e temporaneo, legato a interessi particolari, spesso dipendenti dal potere delle classi dominanti. Scienziati, finanzieri e politici producono “gli effetti inevitabili dello smodato esercizio della facoltà computazionale”.
Ma “quale sarebbe stata la condizione morale del mondo” senza i poeti e gli artisti che con l’immaginazione e la creatività hanno illuminato, esaltato e consolato l’anima universale? Nell’idolatria del calcolo, del denaro, del successo “abbiamo mangiato più di quanto siamo in grado di digerire. L’assenza della facoltà poetica ha fatto sì che il culto di quelle scienze che hanno allargato i confini del dominio dell’uomo sulla realtà esterna, abbia man mano circoscritto quelli del mondo interiore, e l’uomo, pur soggiogando gli elementi, è rimasto schiavo”.
L’esaltato fervore di Percy Bysshe Shelley “in difesa della poesia” lo porta a farne “qualcosa di divino”, “il centro e la circonferenza della conoscenza”, “la radice ed il germoglio di tutti gli altri sistemi di pensiero”.
Essa sola “rende immortale tutto ciò che di più bello e di più buono c’è nel mondo”.

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https://www.sololibri.net/In-difesa-della-poesia-Bysshe Shelley.html          6 settembre 2019

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SHEPARD

SAM SHEPARD, MENZOGNE DELLA MENTE, COSTA&NOLAN, GENOVA 1996

Sam Shepard (1943-2017), autore drammatico, sceneggiatore e attore di grande e meritato successo, scrisse questo testo teatrale nel 1986. Con la prefazione di Claudio Gorlier, venne pubblicato in Italia dall’editore Costa&Nolan due anni dopo. Passati quasi trent’anni, “A Lie of the Mind” (chissà perché reso con un plurale) mantiene tutta la sua carica di violenta denuncia delle ipocrisie familiari e sociali, delle sconfitte ideologiche e politiche, delle ambiguità morali che fanno da sfondo a un’ America in dissolvimento: genialmente metaforizzata dalla sua bandiera che alcuni protagonisti ritrovano nascosta sotto un letto, e di cui si rivestono e con cui si travestono, strappandosela vicendevolmente di dosso, calpestandola, e infine ripiegandola per riporla ingloriosamente in un cassetto. I sei personaggi dei tre atti in questione sono membri di due diverse famiglie, una del Montana e una californiana, imparentate tra loro non solo attraverso il matrimonio tormentato di Beth e Jake, ma anche per un comune destino di incomprensioni e difficoltà economiche, di sopraffazioni e fallimenti esistenziali, di malattie mentali e alcolismo. In una società maschilista, i padri se ne vanno di casa, i figli si ribellano, i mariti picchiano le mogli, i fratelli vagheggiano incesti, le donne tentano di resistere… Shepard fornisce accuratissime indicazioni di scena, segnalando anche i giochi di luce che devono illuminare i doppi ambienti in cui si situano contemporaneamente azioni e attori, con una tecnica da effetto cinematografico, che riesce anche ad alternare nei dialoghi notazioni assolutamente prosastiche e marginali (aprire le lattine di birra, sfilare i calzini, cucinare minestroni, scuoiare cervi…) con affermazioni più riflessive (“Dovrebbe essere tutto il contrario! La parte peggiore della vita dovrebbe venire per prima e non per ultima! Perché la tengono in serbo per quando si è troppo vecchi per poterci fare qualcosa?”).

 

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www.sololibri.net/Menzogne-della-mente-Shepard.html       2 agosto 2017

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SICA

GABRIELLA SICA, SCRIVERE IN VERSI –  IL SAGGIATORE, MILANO 2011

Gabriella Sica, poeta e protagonista del dibattito letterario contemporaneo, ci introduce con questo volume – che ha conosciuto diverse edizioni di successo – nei meandri non sempre di facile accesso delle varie forme poetiche, così come sono andate trasformandosi dalle origini della lingua italiana ad oggi. Senza eccedere in ostici tecnicismi, l’autrice ripercorre la storia della nostra poesia illustrando gli elementi fondamentali che sono alla base della costruzione del verso: quindi i vari canoni metrici (con le differenze tra dattilo, anapesto, trocheo, giambo), le figure prosodiche, le diverse tipologie di versificazione (dall’endecasillabo al settenario, fino ai rarissimi trisillabi e bisillabi), il ritmo e la rima, che costituiscono l’ossatura caratterizzante dello stile individuale di ogni poeta. Quindi presenta le diverse forme metriche della poesia lirica (sonetto, canzone, sestina, ballata, madrigale), e di quella narrativa (terzina, ottava), con un excursus nella metrica barbara e in quella popolare. Il libro si conclude poi con un interessante capitolo riguardante la poesia del nuovo millennio.

Le pagine più emotivamente coinvolgenti sono però quelle della prefazione, in cui Gabriella Sica manifesta tutto la sua appassionata devozione verso la poesia, a cui riconosce il merito di trasmettere «un’infinita e partecipe attenzione amorosa per il mondo»: «La lettura di una poesia non cambia il mondo, ma la nostra vita, anche soltanto un po’. Il fatto che risvegli una memoria, illumini una situazione, crei un pensiero o un turbamento trascina comunque a un piccolo cambiamento, porta in noi lettori in piccolo annuncio. Ci prende del tempo, ma ce lo restituisce più ricco». Tuttavia, proprio questa dedizione dell’autrice alla parola poetica, la induce a rivolgere con legittima severità qualche ammonimento a chi ritiene che basti andare a capo a metà riga per confezionare una composizione artisticamente valida:

«Non c’è poesia senza studio. E lo studio serve a ridiventare semplici, a togliere più che ad aggiungere», «La poesia è una nemica del caso… Essa è edificazione, lingua, espressione di quell’ordine giusto che regola il ritmo generale del mondo», «La trascuratezza delle forme, come l’approssimazione verbale, non appartiene all’ordine in cui vivono le ragioni fattive dell’amore e della poesia: un dire trasandato e distratto, se contrasta con la poesia, è altrettanto discordante con ogni cimento amoroso della cortesia e della vita. Misura allora, vuol dire proprio misura, misura nel metro ma anche nei modi d’amare, e dunque anche riflessivo equilibrio, moderazione e, per successivi accostamenti, conoscenza…», «La metrica non è l’aspetto esteriore o il traliccio [della forma], né una scienza separata o un’ideologia ingombrante, perché la metrica è la poesia, il filo d’oro che la trattiene e la delimita… Se la poesia è conoscenza e accettazione del limite umano, la metrica ne è legge e misura liturgica, è la madre che forgia e taglia, dà forma ai visi e alle cose».

Già Paul Valéry soleva ripetere che in poesia il contenuto è la forma. Quasi invitando chi non condividesse questo rigore espressivo a formulare le proprie emozioni in uno dei tanti modi alternativi che offre la lingua scritta: racconti, canzoni, cronache giornalistiche, bollettini, manifesti politici.

 

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www.sololibri.net/Scrivere-versi-Gabriella-Sica.html      6 settembre 2017

 

RECENSIONI

SILESIUS

SILESIUS, IL VIANDANTE CHERUBICO – MOLESINI, VENEZIA 2023

Angelus Silesius (Angelo della Slesia) è il nome che il medico e filosofo tedesco Johann Scheffler (Breslavia 1624-1677) assunse quando, trentenne, si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo, vivendo da allora asceticamente, immerso in studi di teologia e dedito a opere di carità. Aveva studiato a Strasburgo, Leida e Padova, padroneggiava le lingue antiche e moderne, conosceva a fondo i testi spirituali del misticismo medievale tedesco – in particolare Meister Eckhart e Jakob Böhme –, e di quello spagnolo, il pensiero platonico e neoplatonico, la patristica fino a Sant’Agostino e gli scritti di San Bernardo.

Dopo aver preso gli ordini sacerdotali nel 1661, si impegnò con rigore nella lotta della Controriforma, pubblicando opuscoli violentemente apologetici in difesa della Chiesa e del Papato. Ma la maggiore celebrità gli deriva dalla prima opera poetica, il Cherubinischer Wandersmann, pubblicata nel 1657 e rielaborata in forma definitiva nel 1675, consistente in una raccolta di epigrammi in cui riflessioni filosofiche e morali, e concetti teologici di non facile comprensibilità, erano rielaborati con estrema sapienza stilistica: venivano utilizzate immagini di icastica espressività e formule letterarie innovatrici, perlopiù in distici alessandrini, rese in un gioco di antitesi, paradossi e sorprendenti metafore.

In questa nuova edizione pubblicata da Molesini e curata dal germanista Gio Batta Bucciol, l’attenzione al testo originario, presentato a fronte e tradotto sottolineando la stringatezza epigrammatica dello stile, è già evidente dal titolo, Il viandante cherubico (Wandersmann), che sostituisce con maggiore esattezza la versione tradizionale più nota de Il pellegrino cherubico.

Nell’introduzione viene messa in luce una caratteristica dell’opera di solito trascurata, rispetto alla prioritaria tematica spirituale: l’interesse verso la natura, che assume talvolta connotati panteistici, e risente dell’atmosfera seicentesca segnata dalle scoperte geografiche e astronomiche.

Il cielo di Silesius non è più solamente quello divino, chiuso in un rigido schema tolemaico, ma comprende immanenza e trascendenza in una visione unificante di uomo e infinito, suggerendo ipotesi teoriche audaci e per l’epoca destabilizzanti : “Il sole tutto stimola e tutte le stelle fa danzare, / e se anche tu non ti muovi, non appartieni al tutto”, “Tu dici che nel firmamento c’è un unico sole, / ma io ti dico che ci sono migliaia di soli”, “Via la parete divisoria, se devo vedere la mia luce /  non devo ergere muri al mio sguardo”, “Non c’è né inizio né fine, né centro,  / né cerchio per quanto mi volga e giri”.

Anche la riflessione sul tempo, nel suo fondersi indistinto con l’eternità, rivela tratti premonitori della fisica a venire, quando adombra addirittura l’ipotesi dell’inesistenza di una qualsiasi scansione cronologica: “Il tempo è come l’eternità e l’eternità come il tempo, / purché tu stesso non crei una distinzione”, “Sei tu a fare il tempo! L’orologio sono i tuoi sensi: / blocca il bilanciere, e il tempo svanisce”, “Non so che fare! Per me è tutt’uno: / luogo, non-luogo, eternità, tempo, notte, giorno, gioia e pena”, “Cos’è l’eternità? Non è né questo né quello, / né attimo, né qualcosa, né nulla: essa è non so che cosa”. Come non ricordare lo sconcerto di Sant’Agostino, quando nell’XI libro delle Confessioni rivela di non riuscire a definire il concetto di temporalità?

Rimane comunque prevalente il fascino delle poesie di carattere più specificamente religioso, che tanto hanno attratto filosofi quali Hegel, Schelling, Kierkegaard, Schopenhauer, Wittgenstein e Heidegger, e poeti come Rilke e Celan, per la consapevolezza dell’insignificanza dell’essere umano, e la sua incapacità di comprendere e raffigurare l’assoluto: “Non so quel che sono, non sono ciò che so. / Sono una cosa e non una cosa: un puntino e un cerchio”.

Insomma, Silesius sembra riassumere in sé echi del passato e premonizioni del futuro, soprattutto nell’esprimere l’indefinibilità dell’Essere Supremo. Il suo Dio ha infatti i caratteri dell’Uno plotiniano, inizio e fine, totalità assoluta; ma viene rappresentato anche in maniera antitetica come tutto e nulla, presenza e assenza, diventando erede e premonitore della teologia negativa: “Dio è puro nulla. Non lo sfiorano il tempo e lo spazio”, “Dio non viene ferito da nulla, non ha mai provato dolore: / eppure l’anima mia può ferirgli a fondo il cuore”. Un Dio dei contrasti, insieme imperturbabile e pietoso, di cui non si può e non si sa parlare, perché inconoscibile. Già Plotino affermava “possiamo dire quello che Egli non è, ma non diciamo quello che è. Diciamo di Lui partendo dalle cose che sono dopo di lui”, e Agostino gli faceva eco: “Si comprehendis non est Deus”.

Dio che si supera, va oltre se stesso e porta l’individuo a superarsi e a superarlo: “Se Dio non mi volesse portare oltre Dio, / lo forzerei a farlo col solo amore”. Il nostro Ferdinando Tartaglia scriveva pressappoco la stessa cosa, meritandosi una scomunica “vitando”: “Quando io dico ‘Oltre Dio’ / quando io grido ‘Dopo Dio’ / come vorrei essere capito / come vorrei essere capito. / Ma non ò le parole. / Non sarò capito”.

Silesius racconta un Creatore che assume addirittura il modernissimo sembiante di divinità debole, che deve essere aiutato dall’uomo a esistere: “Inconcepibile! Dio ha perduto sé stesso, / Per questo egli vuole rinascere in me”.

 

Secondo le indicazioni della mistica classica, Dio è visione purissima, estasi in cui perdersi, perfezione irraggiungibile: “Dio è il mio bastone, la mia luce, il mio sentiero, la mia meta, il mio gioco, / mio padre, fratello, figlio e tutto quel che voglio”, “Dio è spirito, fuoco, essenza e luce, / ma a sua volta neppure tutto questo”, “Dio è un fiume possente che si porta via spirito e sensi. / Ah, che non sono ancora tutto trascinato via da lui”. Dalla contemplazione dell’Assoluto devono tenersi lontani anche i Serafini e gli “angeli tutti”, perché con il loro fulgore distraggono l’orante dal rapimento: “ora non vi voglio, ora mi immergo solo / nell’increato mare della pura divinità”.

Eppure, il confronto con l’Essere Supremo continua a essere ambivalente, talvolta inchiodando la creatura alla sua miseria, altre volte esaltandola in una comparazione quasi sacrilega: “Sono grande come Dio, egli è piccolo come me: / egli non può essere sopra di me, né io sotto di lui”, “L’abisso del mio spirito chiama sempre con forza / l’abisso di Dio. Di’: quale è più profondo?”, “Sono sconfinato come Dio, niente c’è nel vasto mondo / che mi tenga – o prodigio! – racchiuso in sé”, “Sono l’alter ego di Dio, solo in me egli trova / quel che gli sarà simile ed uguale in eterno”.

La consapevolezza della propria eccezionale irripetibilità può arrivare alla più presuntuosa delle convinzioni: “So che senza di me Dio non può vivere un attimo. / Se divento nulla, egli deve necessariamente morire” (se ne sarà ricordato Rilke, quando scriveva nel Libro d’ore: “Che farai, Dio, se muoio?”). Se il silenzio è spesso citato come modalità privilegiata di raccoglimento nell’interiorità, troviamo tra i distici anche umanissimi moti di protesta e ribellione verso l’indifferenza celeste: “A cosa mi serve, o Gabriele, il tuo saluto a Maria, / se non hai anche per me lo stesso messaggio?”, sottolineando l’orgogliosa rivendicazione della propria indipendenza: “Mettimi e stringimi tra mille catene, / resterò sempre libero e senza catene”. La stessa fierezza va attribuita a ogni cosa esistente, che nel suo semplice esserci reclama la propria dignità e magnificenza, come nei versi più famosi e citati del Viandante Cherubico: “La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce. / Non bada a sé. Non chiede se la vedi”. Farsi mezzo e fine della creazione, diventare insieme creatura e creazione, è il messaggio che Silesius affida a ciascuno, quello con cui conclude il suo libro (“Amico, ora basta. Se vuoi leggere di più, va’ e diventa tu stesso scrittura ed essenza”), aldilà di ogni teologia, ancora una volta oltre Dio.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 10 maggio 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

SIMENON

GEORGES SIMENON, LETTERA A MIA MADRE – ADELPHI, MILANO 1985

Conosciamo molte lettere indirizzate da famosi scrittori ai genitori: in genere tardive ammissioni di colpe rimosse per anni, o rancorose puntualizzazioni dei torti subiti, oppure ancora malinconiche rivisitazioni che omaggiano l’amore materno e paterno. Questa Lettera a mia madre di Georges Simenon, scandita in brevi capitoletti composti da frasi concise e asseverative, porta la data del 18 aprile 1974: l’autore aveva 71 anni, sua madre più di novanta e stava morendo in un letto d’ospedale di Liegi. I due vivevano lontani da più di cinquant’anni e non solo lontani, ma estranei, ostili, diffidenti. Il figlio davanti alla silenziosa agonia materna si cimenta in un severo riesame del loro rapporto, dei reciproci errori, delle incomprensioni sedimentate nel tempo, e ormai del tutto immodificabili. «Noi non ci siamo mai amati, quand’eri viva – lo sai bene. Abbiamo fatto finta, tutti e due».

Henriette Brull era stata una donnina minuta e inoffensiva, sempre sull’orlo di crolli nervosi, di indole generosa verso gli estranei e i poveri, ma sospettosa nei riguardi dei propri parenti e di chi nella vita avesse accumulato ricchezze e successi. Ultima di tredici figli, rimasta presto orfana, caduta in miseria da uno stato di relativo benessere, si era dovuta adattare a un’esistenza di stenti e fatiche, vivendo dello “stretto necessario”, come amava sempre ripetere. Pur nella sua esibita modestia («Volevi apparire umile. Dicevi grazie a tutti e a tutto, grazie alla lattaia e grazie alle tue sorelle») manteneva una dignità orgogliosa e caparbia, rifiutando ogni aiuto, anche e soprattutto quello del figlio diventato famoso e miliardario.
Così, ostinata a vivere nel suo povero appartamento, era giunta a restituirgli, prima di morire, tutti i soldi che lui le aveva inviato nel corso della vita. Simenon non le perdonò mai questa durezza, né di essersi risposata dopo la morte del padre, e il suo disamore risulta addirittura imbarazzante, il processo postumo inclemente e ingiusto.

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/Lettera-a-mia-madre-Georges.html      21 marzo 2016

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SIMENON

GEORGES SIMENON, PIOGGIA NERA – ADELPHI, MILANO 2002

Georges Simenon, autore non solo di gialli e di noir che hanno segnato un’epoca, ma anche di straordinari romanzi di atmosfera, scrisse Pioggia nera nel 1939, alle soglie del luttuoso evento bellico: di quell’epoca tragica e oscura rimangono in questo racconto il senso opprimente di un grigiore non solo atmosferico, ma anche politico, sociale, familiare. Come sempre maestro nella descrizione di ambienti e personaggi, Simenon tratteggia qui una storia circoscritta nell’ambito ristretto di un nucleo parentale, letta attraverso gli occhi di un bambino di sette anni, Jérôme Lecoeur, figlio di piccoli commercianti di tessuti, proprietari di un negozio di stoffe in una cittadina della Normandia. Jérôme vive nel soppalco dell’appartamento dei genitori, osservando dalla finestra con ostinata curiosità la pioggia sporca che batte sulla tettoia di zinco sottostante, la piazzetta del mercato animata da personaggi folcloristici o patetici, e soprattutto il piccolo dirimpettaio Albert, silenzioso e malaticcio, con cui scambia sguardi di muta solidarietà. Improvvisamente, la sua tranquilla esistenza di figlio unico, affettuosamente protetta dai due genitori indaffarati nel loro lavoro ma premurosi e attenti, viene sconvolta dall’arrivo della settantaquattrenne zia del padre, una megera strabordante di cattiveria e adipe, baffuta, ansimante e sporca, che impone la sua ingombrante presenza in cambio dell’aleatoria promessa di un futuro lascito ereditario. Zia Valérie tormenta il nipotino con sadismo, costringendolo ad ascoltare le sue lamentele e i suoi negativi apprezzamenti su ogni accadimento esterno ed interno alla famiglia: “Lei odiava me e io detestavo lei… Per certi aspetti aveva la mia stessa età. Quando litigavamo, per esempio, lei non litigava con me come un adulto con un bambino, ma come un bambino con un altro bambino. E anche a tavola sbirciava il mio piatto per assicurarsi che mia madre non mi avesse servito un pezzo migliore del suo!”. Il rapporto tra la “vecchia foca” e Jérôme si nutre di dispetti e sadismi reciproci, sfociando addirittura in una insofferenza ideologica, quando il bambino prende istintivamente le parti dei compaesani più umili, costretti a vivere di piccoli espedienti, o dei rivoltosi che con le loro proteste e gli scioperi reclamano una maggiore giustizia sociale. Il contrasto tra la mamma, dolce e laboriosa, continuamente umiliata dalle pretese domestiche della zia e dai suoi maligni commenti sulla cucina e sull’arredamento della casa, si acuisce quando tutto il quartiere rimane coinvolto nella spietata caccia a un terrorista anarchico da parte della polizia. L’intimorito sentimento di pietà umana di Jérôme e dei genitori per il fuggiasco si scontra con il crudele rigore dell’anziana Valérie, ferocemente ostile a qualsiasi rivendicazione politica, al punto da esibire la sua trionfante soddisfazione per la cattura dell’uomo, e per la sua futura decapitazione. «Non provavo né tristezza né collera, le mie lacrime erano l’espressione tiepida e liquida di un grande vuoto, di un immenso avvilimento… Mia madre smise di mangiare e mi guardò anche lei: poi il suo sguardo si posò su zia Valérie e io capii che era finita, che quella schifosa se ne sarebbe andata”.

 

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https://www.sololibri.net/Pioggia-nera-Georges-Simenon.html      15 marzo 2018

 

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SIMENON

GEORGES SIMENON, IL TRENO – ADELPHI, MILANO 2020

Non è stato solo uno dei massimi giallisti del’900, Georges Simenon (1903-1989): è stato anche un grande romanziere, che proprio dal suo scrivere centinaia di libri noir e polizieschi ha saputo trarre abilità particolari: l’attenzione all’indagine psicologica dei personaggi, l’intelligenza nella costruzione degli ambienti e delle situazioni in cui essi si muovono, la sapienza nel condurre dialoghi credibili, la capacità di creare nel lettore il senso di un’attesa curiosa ma non impaziente dello svolgersi degli avvenimenti. Non ultima, poi, la padronanza di uno stile asciutto ed elegante, senza indulgere alla retorica o a una troppo scaltra condiscendenza verso i gusti del pubblico. Penso che chiunque abbia letto La neve era sporca, Lettera al mio giudice o quel piccolo gioiello di perfidia e dedizione che è Lettera a mia madre possa confermarlo.

Il treno, pubblicato nel 1961, vent’anni dopo lo svolgimento dei fatti che vi sono raccontati, è uno dei libri più noti e ammirati del romanziere belga. Il famoso filosofo e sinologo François Jullien, nel suo intenso volume Sull’intimità, gli dedica addirittura un capitolo intero di ammirato commento.

In centocinquanta pagine Simenon racconta una vicenda sentimentale iscritta all’interno della tragedia dell’invasione tedesca della Francia all’inizio della seconda guerra mondiale. Il protagonista e voce narrante è Marcel Féron, un radiotecnico trentaduenne, sposato con Jeanne, incinta al settimo mese. I due hanno già una bambina, Sophie, e vivono in una casetta con un cortile, un cane, un piccolo pollaio, adiacente al laboratorio in cui l’uomo trascorre con regolarità le sue giornate dedicate al lavoro e alla famiglia. L’avviso diramato per radio dell’avanzare delle truppe del Reich getta l’intero paese di Fumay, sul fiume Mosa, ai confini con il Belgio, nel più totale trambusto: è venerdì 10 maggio, Danimarca, Norvegia e Olanda sono già state occupate.

Marcel, che aveva trascorso l’adolescenza in sanatorio e soffriva di una miopia invalidante, è stato riformato e non teme l’arruolamento, tuttavia accorgendosi che intere famiglie del vicinato si apprestano a lasciare le loro abitazioni, decide di porsi in salvo insieme alla moglie e alla figlia. Affida agli anziani vicini le chiavi di casa e gli animali, riempie due valigie di vestiti e cibo, e con un carretto a mano si precipita alla stazione. Qui una folla di persone di tutte le età, impazienti e smarrite, aspetta l’arrivo del primo treno diretto verso ovest. All’arrivo del convoglio, le infermiere e i gendarmi smistano il gruppo, facendo salire sulle prime carrozze le donne e i bambini, mentre ammassano gli uomini negli ultimi vagoni merci. Quello su cui sale Marcel, dopo aver lasciato i bagagli alla moglie, puzza di stalla, perché adibito in precedenza al trasporto di bestiame: vi si pigiano perlopiù anziani del paese, impauriti e zitti, indifferenti gli uni alla sorte degli altri.  Lui stesso si lascia trascinare dagli eventi, senza opporre resistenza, con rassegnato fatalismo: “Fino al giorno prima ero io a dirigere la mia vita e quella dei miei cari… Ora non più. Non avevo più radici. Non ero più Marcel Féron… ma un uomo fra milioni di altri uomini in balìa di forze superiori”.

Inizia il viaggio, estenuante e gravoso, del convoglio, che spesso è costretto a fermarsi su binari morti, cambiando direzione per l’improvviso intensificarsi dei combattimenti e le incursioni degli aerei tedeschi. Marcel ha la netta sensazione di trovarsi a una svolta importante della sua vita, a un appuntamento con il destino cui non può né vuole sottrarsi: “Non mi dispiaceva affatto, anzi, provavo una sorta di gioia torbida, come quando si distrugge qualcosa che si è pazientemente costruito con le proprie mani”.

La promiscuità all’interno del vagone crea imbarazzo in alcuni, diffidenza e circospezione in altri, sfrontata esibizione delle proprie voglie sessuali e dei bisogni fisiologici nei più disinibiti. Marcel è attratto dalla vista di una giovane donna vestita di nero, che lo osserva con uno sguardo sospeso tra timidezza e pietà. Inevitabile che i loro corpi si avvicinino, si sfiorino, e poi nella notte si accoppino con naturalezza innocente e ingorda insieme, “silenziosi entrambi come due serpenti”. Simenon racconta l’attrazione erotica tra i due profughi con delicata e solidale indulgenza, la stessa con cui descrive la serena e placida bellezza delle campagne attraversate dal treno, mentre dal cielo cadono le bombe e raffiche di mitragliatrice si abbattono su chi incautamente scende dai vagoni.

Con pudore la donna rivela la sua identità: si chiama Anna, ed è un’ebrea di origine cecoslovacca, fuoriuscita da un carcere del nord. Mentre il treno attraversa una Francia irreale, lambendo Reims, Bourges, Nantes, diretto verso Bordeaux, Marcel e Anna approfittano di ogni sosta per fare l’amore, sui prati, sull’argine di un fiume, nascosti agli altri e sempre più coinvolti emotivamente, pur consapevoli che la loro storia non può avere futuro.

“Ma era poi lei che amavo, o la vita? Non so spiegarmi: io ero nella sua vita; avrei voluto rimanerci per ore, non pensare più a nient’altro, diventare come un albero al sole… Si era prodotta una frattura. Ciò non significa che il passato non esistesse più, né tanto meno che rinnegassi la mia famiglia e avessi smesso di amarla. Semplicemente, per un tempo indeterminato, vivevo in un’altra dimensione, i cui valori non avevano nulla in comune con i valori della mia vecchia vita… Se dovessi descrivere il posto, potrei parlare soltanto delle chiazze di ombra e di sole, del colore rosato di quel giorno, del verde della vigna e dei cespugli di ribes, del mio torpore, una sorta di benessere animalesco, e mi chiedo se quel giorno io non sia arrivato il più vicino possibile alla perfetta felicità”.

Arrivati al centro di accoglienza di La Rochelle (che Simenon descrive con cognizione di causa, essendovisi trasferito nel 1940 per occuparsi dei profughi belgi), i due amanti trascorrono un mese lavorando e fingendo uno scampolo di routine matrimoniale, finché Marcel viene raggiunto dalla notizia che sua moglie Jeanne ha partorito in un ospedale della Vandea. Con Anna si mette fortunosamente in viaggio per ricongiungersi alla sua famiglia, separandosi dall’amata sul portone del reparto di maternità, con consapevole e malinconica ragionevolezza.

Si incontreranno di nuovo anni dopo, per pochi minuti e in un’occasione tragica, quando già Marcel è tornato a Formay: “Ripresi la mia vita dal punto in cui l’avevo lasciata, com’era mio dovere, com’era destino, perché era la sola soluzione possibile e non avevo mai pensato che ce ne potesse essere un’altra…”. Simenon fa concludere il racconto al protagonista con scarne parole: “Non sono mai ritornato a La Rochelle. Non ci tornerò mai. Ho una moglie, tre bambini, un’attività commerciale in rue du Château”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali»      5 ottobre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SIMENON

GEORGES SIMENON, GLI ALTRI – ADELPHI, MILANO 2023

L’ultimo libro di Georges Simenon uscito da Adelphi, che da anni ristampa con successo l’opera omnia dell’autore belga, si intitola Gli altri, ed è stato pubblicato in Francia nel 1961. Non si tratta di un giallo, genere di cui lo scrittore è celebrato maestro, ma di un romanzo psicologico, ambientato nel secondo dopoguerra in una cittadina francese di provincia, pettegola e conformista, e circoscritto alla storia della numerosa ed eclettica famiglia Huet.

Utilizzando la formula del diario, l’io narrante Blaise – ventottenne docente di disegno all’Accademia di Belle Arti, sposato con Irène – scandisce la propria narrazione suddividendola nelle sette giornate seguite alla morte dell’anziano zio Antoine. Blaise ed Irène conducono una vita matrimoniale monotona ma appagante per entrambi, tradendosi vicendevolmente senza alcun sotterfugio o senso di colpa. D’altra parte, tutti i membri della dinastia degli Huet (fatta eccezione per il fratello di Blaise, Lucien, modesto giornalista cattolicamente ligio ai propri doveri di marito-padre-cittadino, e per alcune figure femminili, dignitose nella loro fragilità) non esitano a mostrare il loro lato peggiore, si tratti di smodate ambizioni per ottenere successi economici e professionali, o di condotte sessuali che oscillano tra la superficiale disinvoltura e la depravazione. In particolare il cugino Édouard, tornato in città dopo un’assenza di molti anni, collaborazionista e spia dei nazisti, truffatore più volte finito in carcere, catalizza su di sé l’ostile imbarazzo di tutto il nucleo familiare, restio a perdonarlo e ad accoglierlo nuovamente tra le mura domestiche.

Blaise si riconosce pusillanime nei confronti della moglie adultera, frustrato socialmente e culturalmente (“Sono solo un mediocre, lo so, ma un mediocre lucido, direi persino, senza esagerare troppo, un mediocre soddisfatto”), ma sa anche di essere il solo in grado di registrare lucidamente ciò che accade intorno, tentando di rinsaldare i logori rapporti che negli anni hanno allontanato genitori e figli, fratelli e cugini, coniugi e amanti. La città in cui vive gli assomiglia, gli è estranea e insopportabie: “città della mia infanzia, della mia adolescenza, dove la vita non aveva sbocchi e dove non restava che cercare di vincere la noia”.

Il funerale dello zio Antoine, il cui suicidio viene raccontato ad apertura del romanzo, scatena una guerra sotterranea tra tutti i parenti in vista della divisione ereditaria. Giurista potente e rispettato, oculato amministratore del suo ricco patrimonio, innamorato della giovanissima moglie Colette -donna affascinante e inquieta, psichicamente instabile, sospetta ninfomane -, Antoine Huet viveva in una signorile palazzo in Quai Notre-Dame, frequentato raramente e con reverenziale timore da tutto il vasto consorzio parentale. Le sue esequie diventano un avvenimento rivelatore cui tutta la famiglia si sottopone con ansia e turbamento, come se l’evento “morte” mettesse ciascuno di fronte alla propria meschinità di piccola, insignificante ed egoista creatura umana. La cerimonia nella cattedrale gremita di personalità importanti e semplici curiosi, vede i consanguinei a disagio, sospettosi e indaganti le intenzioni e aspettative altrui riguardo alle decisioni testamentarie del caro estinto. “Mi chiedevo che cosa ci facevamo lì, tutti quanti, a seguire dei riti che comprendevamo solo in modo approssimativo… Il tutto assomigliava a una grande, spettacolare liquidazione… Ce l’eravamo cavata con canti, paramenti, canonici, insomma una sfarzosa messinscena sproporzionata ai personaggi che eravamo”.

Neppure la notifica dell’eredità dello zio Antoine, con un più che dignitoso vitalizio alla giovane moglie, e le restanti proprietà divise tra i tre nipoti maschi Blaise, Lucien ed Édouard, cambia qualcosa nell’esistenza di chi è rimasto. In particolare, non modifica in alcun modo l’atteggiamento dell’io narrante Blaise, sempre più apatico e indifferente nei riguardi di sé stesso e degli altri. Quegli altri che Simenon ha lapidariamente omaggiato nell’essenziale  titolo del suo romanzo.

“La vita continua… Fuori, i lampioni si erano appena accesi. Ho camminato lungo rue de la Cathédrale, poi lungo rue des Chartreux, guardando le stesse vetrine di quando avevo sedici anni”.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 21 dicembre 2023

 

RECENSIONI

SIMIC

CHARLES SIMIC, CLUB MIDNIGHT – ADELPHI, MILANO 2008

Leggendo Club Midnight l’antologia di versi dell’ americano Charles Simic, che Adelphi gli ha dedicato definendolo “uno dei maggiori poeti contemporanei”, caratterizzato da “un inconfondibile impasto di mistero e quotidianità” e dalla “trasparenza della parola”, balzano alla mente le sacrosante parole che il critico Alfonso Berardinelli ha coraggiosamente scritto in un suo saggio (“Leggere è un rischio”): “Anche per la poesia è poi arrivato dagli Stati Uniti lo stile da ’creative writing’, che permette di produrre diligentemente una poesia al giorno buttando l’occhio sulle pareti della propria stanza, sul bricco del tè, sui movimenti dei vicini di casa: niente rime, meglio evitare la punteggiatura, il verso venga indicato dal semplice andare a capo, usare molto gli spazi bianchi che sono sempre suggestivi”.

Quindi, scrittura piana, immediata, che nasce da uno sguardo impassibile ma puntuale su esterni e interni fisici e mentali. Berardinelli pensava anche a Charles Simic scrivendo quello che ha scritto? Gli interni ci sono: “La lampada sul comodino / si impegnava a conferire / alla stanza un’aria di mistero”, “Quanti minuti / in un bicchier d’acqua / accanto al letto?”; “Parlami dei granelli di polvere / posati sul mio comodino”; “e le voci / difficili da distinguere all’inizio / anche se premo l’orecchio contro la parete”. E gli esterni: “Alcune case appena pignorate / con finestre color delle pozzanghere / che stanno per gelare, i cortili soffocati / di erbacce e auto arrugginite”.

E tanta, tanta America desolata: tavole calde deserte, ubriaconi e giocatori d’azzardo, strade polverose osservate con disincantato occhio fotografico. Come nella poesia più bella del libro, Autostoppisti, un po’ Easy Rider un po’ Simon and Garfunkel: “Lei lavorerà come domestica o cameriera, / lui farà il benzinaio o assalterà banche. / Compreranno una macchina grande come un carro funebre / per fuggire lontano veloci, / ma non si scorderanno di tirarti su, amico, / se anche a te non andrà tanto bene”.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Club-midnight-Charles-Simic.html   3 ottobre 2016