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RECENSIONI

SIMONCELLI

STEFANO SIMONCELLI, PROVE DEL DILUVIO – ITALIC PEQUOD, ANCONA 2017

Nato a Cesenatico nel 1950, Stefano Simoncelli è poeta appartato che però ha al suo attivo pluripremiate raccolte di versi e una lunga militanza letteraria, soprattutto come redattore della rivista Sul porto, che negli anni 70 raccolse intorno a sé prestigiose firme culturali italiane ed europee. Da poco ha pubblicato presso l’editore marchigiano Italic Pequod un elegante libro di poesie e prose intitolato Prove del diluvio, sulla cui copertina di un azzurro acceso campeggiano tre orme di gatto, evidentemente amputato della quarta zampetta, a indicare una traccia labile, disorientata, che si avventura prudente nel campo minato della scrittura. In effetti, lo stile di Simoncelli si rivela da subito come particolarmente curato, attento a evitare qualsiasi ridondanza retorica nella forma e nella sostanza; ma anche cauto, sommesso, tendenzialmente felino come suggeriscono l’allusione al gattino zoppicante e il titolo stesso del libro: “Prove”, in attesa di qualcosa che sta per arrivare, e incombe incontenibile quasi fosse un nubifragio. La memoria, forse? Un passato di affetti familiari perduti e rimpianti, come nelle sezioni dedicate al padre, alla madre e alla moglie morta più di dieci anni fa?

Così scrive in Elenio Wagner Debiase, una delle tre notevoli prove narrative antologizzate, cammei di amare biografie di uomini perdenti: «ognuno, ha imparato col tempo, si aggrappa dove può se sta attraversando la corrente di un fiume in piena. I guadi li trovano i più fortunati e lui non è mai stato tra quelli. È uno da tralicci, uccelli migratori e fulmini». Qui un Elenio, impiegato dell’Enel in pensione, vive su una squinternata palafitta ai confini del porto, in preda a malinconie e fantasmi che si incarnano imprevedibilmente in un petulante ed istrionico invasore, giudice spietato dei suoi fallimenti e delle sue paure, forse allucinazione o alter-ego inventato per farsi compagnia.

Nelle venti poesie dedicate al padre (Un lungo brivido di freddo) è ancora in primo piano il rapporto controverso tra due uomini, legati indissolubilmente non solo dal vincolo di sangue, ma da una odiosamata dipendenza reciproca. Il poeta bambino guarda al padre come a un esempio da imitare («la fragile eleganza / trasognata con cui saliva le scale»; «Possedeva il formidabile talento / di trasmutare l’incredibile in credibile»; «Con quello strampalato arsenale del niente / inventava e costruiva…»), insieme con il rancore di chi teme l’esplosione di un’improvvisa violenza dovuta all’ubriachezza. Un bambino che si fa carico delle debolezze paterne, al punto da perdonargli anche la disattenzione nei suoi confronti, e che persino da adulto è costretto ad ammettere: «Sto sempre ritornando a casa di mio padre». Ne Il talento che era mia madre e in Cartoline al tuo silenzio Stefano Simoncelli rende omaggio alle donne più importanti della sua vita: la madre (nella logora vestaglia rossa dei tanti ricoveri ospedalieri, nelle due gocce di profumo di mughetto spruzzato sulla tunica di lino prima di uscire, negli umili gesti da casalinga operosa), e la moglie: la cui assenza incombe come un’eterna condanna per un irragionevole rimorso da sopravvissuto («Mi sento un ladro con le chiavi / in questa casa troppo piena / di ogni cosa e vuota»; «non sei più raggiungibile / e non puoi telefonare da nessuna cabina, // o almeno è quello che molti credono»).

Il pensiero della morte – la propria avvertita con rassegnato presentimento, quella altrui dolorante nel ricordo – anima anche l’epilogo del volume, nell’attesa di un dopo sentito quasi come una liberazione, per la stanchezza fisica e per l’irrimediabile abbandono delle persone amate: «voglio farmi trovare pronto: / ho il nécessaire per la notte e la pila», «penso che ho fatto il mio tempo, // dato tutto il peggio e il meglio. / Tiro il freno d’emergenza, / saluto tutti e scendo». Il tono discreto, l’elegante equilibrio della poesia di Simoncelli non si manifesta solo nei temi della raccolta, ma soprattutto nella sua fedeltà alla tradizione letteraria del nostro novecento, nei versi rispettosi di una metrica e di un ritmo musicale mai ostentato, eppure sapiente e rigoroso.

 

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www.sololibri.net/Prove-del-diluvio-Simoncelli.html;       31 marzo 2017

RECENSIONI

SIMONELLI

MARCO SIMONELLI, IL PIANTO DELL’ARAGOSTA – D’IF, NAPOLI 2015

Di Marco Simonelli, giovane poeta-performer-traduttore fiorentino, la casa editrice napoletana D’If ha pubblicato lo scorso anno una raccolta di versi dal titolo insolito e intrigante: Il pianto dell’aragosta. Le tre sezioni di cui si compone il suo libro sono comprese tra due poesie, in apertura e conclusione, che suggerendo e paventando ipotetiche e minacciose persecuzioni o condanne (proprie e altrui, private e sociali), ne irridono sarcasticamente gli effetti: «levar non sai / quel ghigno rosso fisso sulla faccia / che beffa e burla l’ombra dei tuoi guai», «è tempo di occhi cerchiati di nero / è tempo d’arrendersi, accendere un cero». Già da subito mettendo in campo le armi formali e di contenuto che caratterizzano il poetare dell’autore, intelligentemente allusive all’eredità dal suo più illustre concittadino, Aldo Palazzeschi: l’ironia e l’uso ribadito e spiazzante della rima.

Già da una prima veloce lettura del testo, si viene colpiti dalla franchezza esibita con cui Marco Simonelli si apre a tutto ciò che lo circonda, a qualsiasi cosa riveli un’anima pulsante: personaggi e paesaggi, animali e abitudini quotidiane, amori e delusioni. Raccontando un “noi” coinvolgente e solidale, anche nella critica e nello sbeffeggiamento, con una comprensione canzonatoria ma clemente di tutto quello che è “altro”. Così nella prima parte, un “Bestiario” descrive in otto componimenti l’affanno sofferente degli animali, torturati dall’indifferenza umana: chiocciole, roditori, gatti moribondi, coniglietti, cuccioli di cinghiali, e appunto l’aragosta («L’aragosta va bollita viva. / Stordita dall’ossigeno boccheggia / sul marmo di cucina. //… Si dice che al contatto con la morte / emetta un grido, strilli, / un pianto disperato, stile supplica»). Il confronto tra il dolore innocente e la crudeltà impassibile non dà adito a giudizi recriminatori, ma viene semplicemente inquadrato visivamente in immagini esplicite, che hanno un impatto quasi cinematografico.

La seconda e la terza sezione ci introducono in ambientazioni decisamente più umane, nei rapporti che si instaurano tra amici, nei paesi, in villeggiatura, nei condomini o nei bar. In “Cortesie per gli ospiti” e ne “Il settimo anno”, la gentilezza rimane comunque da salvare anche quando le relazioni sono improntate all’interesse, alla vanità, a un’inaspettata invidia, al tradimento. Lo stile scelto per raccontare episodi di vita ha un impianto narrativo e teatrale (che forse manifesta qualche debito al Giudici de La vita in versi, e al Luzi di Nel magma), ma addolcito da cantabilissimi endecasillabi, e attualizzato da espressioni idiomatiche («Vacci tranqui», «Ecchecazzo s’è rotto l’ascensore»).

Raccontati nei loro gesti, tic, atteggiamenti e propensioni morali possono essere i pazienti chemioterapizzati di una clinica asettica, nei loro rimpianti per l’ospedalizzazione più umana del passato («erano altri tempi quelli lì / si stava male stando tutti insieme»), la compagnia di amiconi che si rivela improvvisamente aggressiva («Beviamo vino, parliamo dell’amore, / il nostro sciocchezzaio aumenta di volume»), la straripante matrona versiliana che troneggia in spiaggia e nei locali a la page, ma viene tradita dal marito vanesio («E molle s’affloscia caliente la pelle abbrustolita / croccante panatura un tempo di fanciulla / ormai sfiorita»). Un caravanserraglio di varia umanità, disperata o gaudente, la cui osservazione e descrizione non mette tuttavia al riparo da crisi sentimentali, da rancori riaffioranti come fantasmi del passato, dalle strazianti separazioni dall’amato: «Sarà come voltarsi all’improvviso / e vedere un totale sconosciuto / là dove poco fa c’era il tuo viso», «Adesso puoi permetterti di piangere. / Puoi farlo in santa pace, è tuo diritto». Una poesia, quella di Marco Simonelli, che non teme di essere dichiarativa, estroversa, antidogmatica e, perché no?, anche sentimentale.

 

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www.sololibri.net/pianto-aragosta-Simonelli.html      10 novembre 2016

 

 

 

RECENSIONI

SIMONELLI

MARCO SIMONELLI, L’ESTATE STA FINENDO – LECONTE, ROMA 2011

Marco Simonelli (Firenze 1979), poeta, critico e traduttore, pubblica questo libriccino di originali poesie, dai versi lunghi e dalle cadenze narrative, ma animate da una musicalità discreta e catturante, in cui riesce a intrecciare il suo privato (la scoperta adolescenziale della propria omosessualità: non ostentandola polemicamente, ma sottolineandola con sensibile ironia) alla deludente storia collettiva di un recente passato italiano. Dopo una breve intervista iniziale, in cui rimarca cos’è oggi necessario a chi scrive (“tenersi sempre pronti… ascoltare il ritmo, le pause, i tentennamenti… essere curiosi… essere eretici”), Simonelli da subito esplicita la sua cultura impastata di musica (Soft Cell, Cure e Bauhaus) e di internet (“e questo è confermabile, lo dice wikipedia, è un fatto vero”). La “prova schiacciante” della sua diversità è il ricordo di quando bambino si esibiva ballando “davanti ai grandi”. Ma l’infanzia è anche il condominio abitato da esistenze disagiate, inquiline pazze e casalinghe suicide, o gite al mare turbate dalla cottura crudele dei girini d’anguilla. E ancora l’adolescenza, in cui i primi, intimoriti trasalimenti sessuali appaiono innocentissimi rispetto al corrotto affarismo di un losco socio d’affari del padre, in un’Italia “economicamente destabilizzata”: e gli eccitati incontri con il mondo dei trans (prostituzione ed estrogeni, silicone e spudorate esibizioni di sensualità) sono raccontati con umanissima partecipazione, priva di qualsiasi retorica, in un linguaggio che sa calibrare neologismi e citazioni dotte (Puccini, Artusi, Ovidio come Brandon Lee e Tom Cruise; la pineta toscana frequentata da pederasti e la Senna o Malibu; i Rayban e i ghiaccioli Calippo). Ma soprattutto il tremore del sentimento vero con “la ripetizione meccanica dell’atto”. Allora la parodia di Presso il Bisenzio di Mario Luzi è un’addolorata e sarcastica constatazione di quanto storia, società e poesia si siano trasformati negli ultimi, frustranti, 50 anni.

IBS, 8 luglio 2012

RECENSIONI

SIMONIGH

CHIARA SIMONIGH, LA DANZA DEI MISERI DESTINI, TESTO&IMMAGINE, TORINO 2000

Chi ha amato Decalogo di Krzysztof Kieślowski (oggi scaricabile in tutti i dieci episodi su diverse piattaforme streaming) può leggerne un’esauriente e appassionata esegesi nel volume La danza dei miseri destini di Chiara Simonigh, pubblicato nel 2000 ma ancora facilmente recuperabile nelle librerie online. Il libro si apre con un excursus sulla biografia di Kieślowski, nato a Varsavia nel 1941 e morto nella stessa città nel 1996, in seguito a un intervento al cuore. Orfano di padre dall’adolescenza, la sua vita fu segnata da problemi di salute, familiari, economici e da persecuzioni politiche. Laureato alla Scuola di Cinema di Łódź nel 1969, iniziò la sua carriera girando documentari, per cui si valse della collaborazione dell’avvocato Krzysztof Piesiewicz, divenuto suo prezioso sceneggiatore in quasi tutti i film successivi, caratterizzati dall’assenza di effetti speciali o spettacolari, da dialoghi scarni e da temi concentrati su laceranti dilemmi etici ed esistenziali.

Il cinema “di pensiero” di Kieślowski raggiunse il suo apice espressivo proprio nel Decalogo, serie di 10 mediometraggi prodotti dalla televisione polacca  dal 1988 al 1989: ogni episodio della durata di un’ora circa, indipendente dagli altri, racconta storie di vita quotidiana, ispirate vagamente o in maniera più esplicita a uno dei dieci comandamenti biblici. Chiara Simonigh ne offre un’accurata sinossi, presentando i vari personaggi nell’incalzare degli avvenimenti esteriori che li coinvolgono, conducendoli poi verso scelte definitive e discriminanti. Il luogo in cui le vicende accadono è un anonimo condominio del quartiere Stowski di Varsavia, dall’architettura spoglia e squadrata, a sottolineare la presenza spersonalizzante, livellatrice del regime. I condomini vivono vite parallele ma estranee tra loro: di tanto in tanto alcuni personaggi appaiono fuggevolmente e in modo enigmatico in puntate diverse, come a richiamare un’unicità di destino, o all’opposto uno stridente contrasto. Una sola figura ritorna con insistenza in tutti e dieci film, osservatore misterioso e silenzioso, testimone dell’accaduto o di ciò che accadrà, incarnazione di un giudizio destinato a restare inespresso.

Gli anni in cui il Decalogo fu ideato e girato avevano visto nascere dapprima la dittatura comunista di Jaruzelski nel 1981, in un clima di terrore e abbattimento sociale, quindi la contrapposizione del movimento sindacale di Solidarność, appoggiato dalla Chiesa: come alternativa al totalitarismo e alla paralizzanti paure della sua gente, Kieślowski scelse di dare voce ai conflitti interiori, alla destrutturazione psicologica individuale, alle domande esistenziali delle singole coscienze piuttosto che alle imposizioni del potere e alla ribellione politica collettiva. Preminente era infatti nelle sue inquadrature il senso di desolazione degli ambienti esterni ed interni, che rifletteva sia la rassegnazione e la mancanza di iniziativa popolare, sia un insopprimibile senso di colpa, di sospetto e di vergogna nei rapporti interpersonali.

In tutti gli episodi il richiamo a una spiritualità capace di superare la contingenza materiale del vivere mantiene sempre qualcosa di segreto e indecifrabile, non direttamente collegabile a qualche fede o esperienza religiosa, estraneo a ogni schema dottrinale, lontano da toni moralistici. Il regista polacco in più riprese ebbe a definirsi laico: “Da quarant’anni non vado in chiesa… Bisogna cercare Dio in altre cose cha vadano oltre Dio… Non credo in Dio, ma anche non credendo, ho comunque un rapporto con Lui”. Il dio privato di Kieślowski non fa riferimento a nessuna Chiesa (non è presente alcun rappresentante del clero in tutto il ciclo), ma il sentimento del divino è innegabilmente pervasivo e perturbante in tutta l’opera, simbolicamente rappresentato da segnali provenienti da un aldilà, da un altrove non razionalizzabile: oggetti, animali, suoni, ricorrenze visive, presagi imperscrutabili, indizi sibillini privi di nessi logici che mirano a sconcertare chi guarda, ponendogli domande ineludibili.

Chiara Simonigh lo conferma: “Lo spettatore è continuamente posto dinanzi all’inesplicabile, alla contraddizione, al paradosso, senza che questo scalfisca in nulla la trasparenza, a tratti così limpida da risultare intollerabile, del realismo dei dieci film”.

L’autrice indaga trasversalmente forme e contenuti delle diverse puntate utilizzando alcune questioni fondamentali presenti in varia misura in ciascuna di esse: il senso metafisico di un’alterità che pur rimanendo inconoscibile continua a interrogare le coscienze, la contrapposizione tra caso e destino, la colpa e il castigo osservati dall’implacabile lente della giustizia, il corpo nella sua gloria e nella sua miseria, il paradosso impietoso del grottesco nella tragedia. Tanti i casi umani raccontati: il rapporto genitoriale, la morte ingiustificabile di un bambino, il tradimento nella coppia, l’avidità, l’omicidio, la malattia, l’eroismo e la viltà, la sensualità, il perdono, la tentazione. La relazione con i dieci comandamenti dell’Antico Testamento non è dichiaratamente espressa, ma rimanda allusivamente all’insieme di norme che per millenni hanno indirizzato la condotta morale dell’intera civiltà occidentale, comunemente accettate e continuamente trasgredite.

Oltre all’importante esegesi offerta nel libro di Chiara Simonigh, un più recente e-book di due psicanalisti friulani (A mani vuote, di Sandra Puiatti e Moreno Manghi) suggerisce un’analisi critica acutamente provocatoria del Decalogo, a indicare quanto questi film di iKrzysztof KieślowskI ancora oggi possano offrire al pubblico spunti di riflessione, com’è nella natura di ogni capolavoro.

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 8 luglio 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SINI

CARLO SINI, IL GIOCO DEL SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

L’editore Mimesis ripropone (in una collana tutta dedicata al silenzio) questo breve e prezioso saggio del Professor Carlo Sini, già pubblicato da Mondadori nel 2006. Una lunga meditazione, ma resa in termini quasi colloquiali, e senz’altro ispirati, sulla natura del silenzio, che è «l’intorno e l’intervallo…è prima di ogni cosa, però è anche tra le cose: le separa…un impercettibile intervallo al mutare di ogni stato di cose». Silenzio che può maturare nell’assenza e nel vuoto, o come opposizione, contrasto, sottolineatura della parola. Quindi la riflessione filosofica deve partire proprio da qui, dalla nostra capacità/possibilità di espressione, dal linguaggio: «La parola rompe il silenzio. Ma lo fa anche apparire». E quanti sono i silenzi che ci circondano: il silenzio dell’ignorante e dell’ignorato, il silenzio dell’animale, dell’infante, della nuvola, che «sono quello che sono e sanno fare quello che fanno senza bisogno di parlarne». Il silenzio di Dio, che non preoccupa né l’ateo né il credente convinto, ma turba chi si interroga sul suo «imponente, onnipresente, esorbitante riserbo», forse giustificabile solo come salvaguardia della nostra libertà.
Quel silenzio che rende «irriducibile ogni domanda, inconsistente ogni risposta, imprevedibile il futuro, irrevocabile il passato, col suo bene e col suo male, decisiva, emozionante e inquietante la croce del presente…».

La scrittura del filosofo diventa in queste righe intensa e profetica, quasi a farsi «coscienza desta della vita…giusta eco del silenzio del mondo…aspirazione silenziosa che vive nell’esperienza di tutti», perché «la virtù prima del filosofo non è la parola, bensì l’ascolto, non è la ragione espressa, ma la domanda silenziosa». Che il linguaggio salvi, esprima la sua carità. Altrimenti, come scriveva Wittgenstein, meglio che taccia.

 

«Accademia del silenzio», 16 dicembre 2013

RECENSIONI

SINISGALLI

LEONARDO SINISGALLI, TUTTE LE POESIE – MONDADORI, MILANO 2020

 

A sedici anni, nell’antologia scolastica di poesia contemporanea di G.Rispoli-A.Quondam, sulle cui pagine ho incontrato per la prima volta il nome di mio marito Siro Angeli, ho letto con emozione anche i versi di Leonardo Sinisgalli. Questi, in particolare: “I fanciulli battono le monete rosse / contro i muri. (Cadono distanti / per terra con dolce rumore). Gridano / a squarciagola in un fuoco di guerra. / Si scambiano motti superbi / e dolcissime ingiurie. La sera / incendia le fronti, infuria i capelli. / Sulle selci calda è come sangue: / il piazzale torna calmo. / Una moneta battuta si posa / vicino all’altra alla misura di un palmo. / Il fanciullo preme sulla terra / la sua mano vittoriosa”.

La forte impressione di quella “mano vitttoriosa”, così stagliata visivamente come in un’inquadratura cinematografica, mi ha colpito ancora, a distanza di cinquant’anni, sfogliando il corposo volume che meritoriamente Mondadori ha dedicato al poeta lucano.

Intellettuale sui generis, Sinisgalli si configurò già nel dopoguerra come originale protagonista della storia letteraria del nostro Novecento. Nato a Montemurro (Potenza) nel 1908 da una famiglia contadina “al limite dell’indigenza”, morto a Roma nel 1981, era laureato in ingegneria; oltre che poeta fu narratore, saggista, critico d’arte, traduttore, art director, autore di documentari e programmi radiofonici, disegnatore, acquerellista. Fondò importanti house organ e fu responsabile della pubblicità per molti gruppi industriali (Olivetti, Alfa Romeo, Pirelli, Finmeccanica, Eni, Alitalia), cui seppe fornire ricchi spunti creativi, nella convinzione che la cultura italiana necessitasse di contaminarsi con diversi ambiti produttivi, più moderni e complessi.  Scriveva infatti: Io aspetto il gran giorno in cui il Regno dell’Utile sarà rinverdito dalla cultura, dalle metafore, dall’intelligenza”.

Anche la poesia, avrebbe quindi dovuto rinunciare alla sua aureola di decantata purezza, se in un articolo del 1945 così aggiungeva “Siamo tutti convinti (ad eccezione di Benedetto Croce) che la poesia non può essere un metallo puro. Non lo sono neppure le monete più pregiate, i carlini, i napoleoni, i talleri. Certo bisogna regolare la dose di queste impurità: storia, scienza, biografia, psicologia, nomenclatura, ecc. Un meticciato è redditizio per fortificare le nascite, così come un’aliquota di carbone è necessaria al ferro per renderlo più robusto”.

Sinisgalli proclamava palesemente il suo interesse per tutte le ramificazioni della scienza; dalla questione ecologica di cui avvertì precocemente la rilevanza (numerose le sue composizioni dedicate agli animali e all’ambiente, minacciato dall’inquinamento: “la natura si vendica / delle abiure cervellotiche”), alle rivoluzionarie intuizioni della fisica quantistica. In una composizione intitolata Varenna si confessava affascinato dall’imprevedibile e misteriosa possibilità di mutazione, di devianza e di flessibilità del reale: “Quella domenica di Pentecoste / Heisenberg in cattedra / spiegava il Principio di indeterminazione / a una platea di eletti. / In un angolo Fermi e Dirac / si guardarono un attimo sbigottiti, / poi si scambiarono brevi formule / scritte sui palmi delle mani”. E in Visioni celebrava il superamento del dato reale, in favore del non prevedibile, dell’indefinito: “Le cose che vedo / non ci sono. / Ci sono state, / ci potranno essere”. Addirittura, in una lettera a Gianfranco Contini del 1941, si spinse a ipotizzare “un tipo di poetica condensata nella formula a + bj, il numero complesso che compendia entità reali (a e b) e un operatore immaginario (j) che altera nel profondo la realtà attraverso il linguaggio”. Geometria, algebra, chimica entravano nei suoi versi non tanto come contenuto ma nel senso di un rigore compositivo in grado di applicare l’astrazione concettuale al dato descrittivo.

Nel suo libro di saggi più noto, Furor mathematicus (1950), ispirato all’interazione tra differenti campi disciplinari, associava all’idea di ordine, razionalità e regolarità (proprie della matematica), l’entusiasmo dell’atto creativo, affrontando in maniera eclettica le materie e i soggetti più vari. Primo critico di se stesso, sia nei libri di poesia sia negli articoli giornalistici e nei frammenti sparsi, Sinisgalli esibiva costantemente dichiarazioni di poetica, sentendo l’esigenza di riflettere sulla propria produzione e più in generale sul ruolo di chi scrive in versi. Non gli era congeniale la vocazione all’impegno, al dogma, all’enfasi, alla ricerca di una verità ideologica. Anteponeva al realismo l’invenzione libera, l’associazione spontanea di memorie, immagini, sentimenti, seguendo il proposito di “cancellare i connotati del vero”. Rifuggiva dagli astrusi sperimentalismi linguistici, dalle forme chiuse ormai ritenute obsolete, da ogni provocazione polemica, dagli eccessi esornativi: sempre fedele a una volontà di chiarezza e semplicità comunicativa, amava combinare nelle sue raccolte versi e prosa, canto e parlato.

I riferimenti biografici rimangono essenziali dalla prima produzione, declinata in tonalità elegiache e musicali, all’ultima, più narrativamente distesa.

I suoi luoghi lo seguirono sempre: l’amata Lucania (“Terra di mamme grasse, di padri scuri / e lustri come scheletri, / piena di galli / e di cani, di boschi e di calcare, terra / magra dove il grano cresce a stento”, “Qui dovevo vivere, / verrò a morire tra i ruscelli / le vigne le pietre”), poi Roma (“Sprango la mia finestra / all’afrore delle carni fresche, / allo sciame delle rondini tiburtine. // Ruderi dell’Appia aguzzi ispidi grevi”), Milano (“In quel fosso è nato / il grattacielo di Milano, / un piccolo segno di vittoria / per noi apostoli di cànoni nuovi / del nuovo vangelo”), la Sardegna dove fu richiamato col grado di ufficiale durante la guerra.

Nello stesso modo, anche le persone campeggiano vivide nei suoi ritratti, volti amati di familiari e amici.

La madre: “Mia madre aveva un modo strano / di carezzarmi la faccia, mi premeva / il palmo contro il muso, quasi mi / schiacciava le labbra, mi tirava indietro / di colpo per baciarmi sulla nuca”, “Caldo com’ero nel tuo alvo / Mi attacco alle tue reni / Madre mia. Io sono / Il tuo frutto e a te ritorno / Ogni notte e nell’ora della morte”, “Nessuno più mi consola, madre mia. / Il tuo grido non arriva fino a me / neppure in sogno”.

Il padre: ”L’uomo che torna solo / A tarda sera dalla vigna / Scuote le rape nella vasca / Sbuca dal viottolo con la paglia / Macchiata di verderame. //… È un uomo, un piccolo uomo / Ch’io guardo di lontano. / È un punto vivo all’orizzonte”, “Padre mio che sei / sulla loggia dopo cena / e sonnecchi. Ti scuoti / al rumore dell’acqua / che dal barile è calata nei secchi”, “Mio padre parlava di quel ciliegio / Piantato il giorno delle nozze, mi diceva, / Quest’anno non ha avuto fioritura, / E sognava di farne il letto nuziale a me primogenito”.

La sorella morta bambina, “Io ricordo, sorella, il tuo pigolìo / quando ti chiudevi a piangere sulla loggia / perché volevi andare sul tetto a stare. / Eri felice soltanto se potevi sollevarti un poco da terra. / Ti misero nella cassa gli oggetti più cari, / perfino una monetina d’oro nella mano / da dare al barcaiolo che ti avrebbe accompagnata / all’altra riva”.

La malattia e la morte della moglie Giorgia de Cousandier: “Lasciami contare i tuoi capelli / da mattina a sera, / e a mezzanotte rifare i calcoli”, “Davanti a te sto seduto per ore. / Non mi dici niente”, “Rimane male / quando entra in camera / all’improvviso e trova / che sto guardando / fisso, fuori”, “Ti devo abbracciare / con cautela / per non spezzarti”, “Ti nascondi / nella bottiglia d’inchiostro, / ho paura di trafiggerti / con la punta del pennino”, “Quello che tu / avevi messo dritto / è tornato alla rovescia”.

L’antologia che Mondadori ha dedicato a Leonardo Sinisgalli è presentata nell’empatica introduzione del suo attento curatore, Franco Vitelli, come “un vero e proprio ‘atlante’ della sua produzione in versi. Comprende infatti tutte le poesie da lui pubblicate in vita sia in raccolte sia in plaquette, a partire dalla ‘preistorica’ Cuore, che si ristampa per la prima volta dal 1927”.

Ricchissime le note finali, la biografia e la bibliografia critica, puntuale ed esaustiva l’introduzione: un volume, dunque, che viene giustamente a ricordare un poeta e intellettuale che ha saputo mantenere, in cinquant’anni di attività, un profilo discreto e insieme rigorosamente definito (“Io cerco da anni questa sintesi. // Cerco di salvare la grazia / negli esercizi di calcolo”), anti-eloquente nella sua naturale chiarità di stile: “Io devo veder crescere la frase / come cresce l’unghia ai vitelli, / come cresce la barba sulla guancia dei ragazzi”.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 8 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SITI

WALTER SITI, IL REALISMO E’ L’IMPOSSIBILE – NOTTETEMPO, ROMA 2013

Nella nota finale a questo smilzo e coltissimo saggio, Walter Siti gioca al ribasso: “Nel presente libretto la precisione filologica non è garantita, le citazioni sono a orecchio e spesso di seconda mano; volevo che conservasse il carattere di una confessione di laboratorio, se avessi lasciato entrare il demone dell’accademia certo questo mi avrebbe dissuaso dall’affrontare un argomento così impegnativo”. Ci vuole infatti coraggio e una certa dose di improntitudine per prendere di petto la questione dibattutissima del realismo in letteratura con la verve, l’ironia e la consapevole, istrionesca nonchalance di cui Siti si serve per calcare le orme di un gigante come Auerbach, spaziando attraverso la letteratura mondiale di tutte le epoche (da Plinio il Vecchio a Dante a Shakespeare, fino a Philip Roth e a Easton Ellis; da Balzac e Zola a Sartre e Genette; da Dostoevskij e Proust al “minimalismo fabulatore” dei nostri Ugo Cornia e Paolo Nori); attraverso le citazioni cinematografiche di Visconti, Ken Russell e Jodorowsky, e la pittura di Lotto, Velázquez, Courbet, Picasso e Warhol: per concludere con esempi concreti tratti con “una bieca ammissione di poetica” dai suoi stesso romanzi.

Cosa si propone lo scrittore realista “nell’impresa scriteriata e arrogante di ricreare la vita coi segni”? Secondo l’interpretazione provocatoria ma un po’ vaga dell’autore, non “un rispecchiamento piatto e subalterno, ma uno svelamento impossibile”, “realismo come trasgressione e rottura di codici…attitudine a sconvolgere gli stereotipi culturali…anti-abitudine”: specchio sì, ma “concavo che concentri in una fiamma i raggi sparsi della realtà”. Il saggio di Siti termina con questa intensa e poetica affermazione: “Se dovessi trovare, per il realismo come lo intendo, un verbo riassuntivo, indicherei il verbo ‘sporgersi’ “. Sporgersi, quindi, affacciarsi: fuori, al di là, oltre.

IBS, 21 marzo 2013

RECENSIONI

SMITH

ZADIE SMITH, L’AMBASCIATA DI CAMBOGIA – MONDADORI, MILANO 2015

Mondadori, che nel 2001 aveva pubblicato Denti bianchi della giovanissima Zadie Smith (nata a Londra nel 1975 da padre inglese e madre giamaicana), romanzo divenuto subito un best-seller internazionale, propone oggi una novella della stessa autrice, certamente non allo stesso livello della sua opera d’esordio. Si tratta di un racconto scandito in 21 capitoletti, quanti sono i punti di una partita a badminton, perché proprio sui colpi cadenzati (poc, smash; poc, smash…) di questo gioco si modula la narrazione. Protagonista è la giovane ivoriana Fatou, arrivata a Londra dopo aver attraversato Africa e Italia in cerca di un futuro decente, e dopo aver subito una violenza sessuale in Ghana da parte di un turista russo, insieme a molte altre umiliazioni nei più disparati posti di lavoro. A Londra presta servizio presso una ricca famiglia araba, occupandosi delle pulizie e dei tre figli spocchiosi e aggressivi. Non riceve nessuno stipendio, e le viene nascosto il passaporto perché non possa scappare. Suo unico diversivo è recarsi a nuotare nella piscina di un centro benessere con i biglietti omaggio dei suoi datori di lavoro. Per farlo, ogni lunedì passa davanti all’ambasciata di Cambogia, un villino circondato da un alto muro di mattoni rossi, dall’interno del quale sente sempre arrivare i colpi di volano del badminton. Fatou ha un unico amico, uno studente nigeriano che la istruisce sommariamente con elementari lezioni di storia, raccontandole qualcosa della dittatura cambogiana e dei Khmer Rossi, abbozzando pensieri di una banalità quasi sconcertante: «C’è sempre qualcuno che vuol essere l’Uomo Forte, e arraffare tutto, e dire a tutti come pensare e cosa fare. Quando in realtà è lui quello debole. Ma se un Uomo Forte vede che tu vedi la sua debolezza, non gli resta che distruggerti. Questa è la vera tragedia».

La vicenda, tutto sommato piuttosto inconsistente e senza alcun approfondimento di tipo sociologico, si conclude con l’immotivato licenziamento di Fatou, salvata alla fine dall’ amico nigeriano che le presta generosamente il suo solidale soccorso economico ed esistenziale.

 

«Leggendaria» n.111, maggio 2015

RECENSIONI

SMITH

PATTI SMITH, A BOOK OF DAYS – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023

Come preludio e introduzione ai prossimi tour in Italia di Patti Smith (sarà a Parma e a Gorizia il 4 e 5 ottobre, quindi tra novembre e dicembre in una serie di concerti acustici in teatri e luoghi sacri) l’editore Bompiani pubblica A Book of Days, un prezioso volume che raccoglie riflessioni, brani di diario, appunti e 366 fotografie scattate dall’autrice, a testimonianza del suo credo estetico e di una vita totalmente dedicata all’arte. Cantautrice, performer, visual artist, scrittrice, poeta, Patricia Lee Smith (Chicago30 dicembre 1946) è stata una protagonista atipica e rivoluzionaria del rock, del proto-punk e della New Wave degli anni settanta: il suo eccezionale carisma interpretativo e la potenza dei suoi testi le hanno fatto guadagnare il soprannome di ”sacerdotessa del rock”. La rivista Rolling Stone la inserisce al quarantasettesimo posto nella classifica dei cento migliori artisti e all’ottantatreesimo nella lista dei più grandi cantanti. Prima di quattro figli di un macchinista e di una cameriera-cantante jazz, entrò giovanissima a contatto con la musica. Trasferitasi a  Manhattan nel 1976, iniziò una tormentata ed intensa relazione con il fotografo Robert Mapplethorpe, i cui ritratti furono spesso utilizzati come copertine per i suoi album. Il primo grande successo fu  Horses, a cui seguì un’altra decina di album, e quindi un lungo periodo di ritiro dalle scene per motivi familiari e per una lunga depressione seguita ai gravi lutti patiti. Le sue canzoni si nutrono dei drammi del mondo contemporaneo, e il suo attivismo politico l’ha vista a fianco delle più importanti manifestazioni internazionali contro la guerra e per i diritti civili. Nel 2010 ha dato alle stampe il libro autobiografico Just Kids, vincitore del National Book Award.

Tutti questi complessi e intensi avvenimenti esistenziali hanno lasciato traccia nel volume edito da Bompiani, che nel risvolto di copertina viene definito “un viaggio caleidoscopico nella mente visionaria di un’artista suggestiva e inconfondibile, una lettura senza tempo per tempi molto incerti, una mappa ispiratrice della sua vita come della nostra”.

Patti Smith nella primavera del 2018 ha iniziato a pubblicare su Instagram le sue fotografie, sia quelle più antiche, scattate con la vecchia Polaroid Land 250, sia le recentissime, catturate in giro per il mondo con lo smartphone. In A Book of Days si susseguono, intercalando così atmosfere struggenti e nostalgiche con testimonianze appassionate di storie private e collettive, talvolta dolorose e drammatiche, oppure ironiche, spiazzanti, polemiche. Ogni foto è accompagnata da una breve didascalia scritta dall’artista su un taccuino o direttamente sull’i-phone. L’assemblaggio, intensamente meditato dal punto di vista dell’accostamento estetico delle immagini, è stato compiuto nei giorni di imposto isolamento della pandemia, e pensato come omaggio non solo alle persone che vi sono ritratte (a quelle vicine e viventi, a quelle perdute e rimpiante, a donne e uomini famosi che hanno fatto la storia e vengono immortalati nelle loro tombe, nei monumenti, negli autografi), ma anche alla bellezza dei giorni che a ciascuno è dato di vivere\. Camus e Murakami, Joan Baez e Bob Dylan, Giovanna d’Arco e San Francesco, Kurosawa e Werner Herzog, Borges e William Burroughs, Yoko Ono e Kurt Cobain… E poi la tazza del caffè mattutino, gli stivali consumati, la chitarra del marito, il gatto amato, i regali di Robert Mapplethorpe, la madre e le sorelle, i figli nelle diverse età, piazze e stazioni, spiagge e montagne. Regali, insomma, a chi volesse entrare nel mondo di Patti, provando a guardaridimensionando rlo attraverso i suoi occhi. “Trecentosessantasei modi di dire ciao”, come ha tenuto a scrivere nella prefazione, un po’ minimizzando, un po’ sottolineando la bellezza contagiosa dell’antologia.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 29 settembre 2023

 

RECENSIONI

SNEGIRËV

ALEKSANDR SNEGIRËV, LA STRADA FANTASMA – GATTOMERLINO, ROMA 2022

Del romanzo La strada fantasma di Aleksandr Snegirëv, il traduttore Raffaele Marchi mette in luce nella postfazione “la struttura svagata, la prosa asciutta, quasi schiva, sicuramente restia alla descrizione ma non assente da lirismo, l’ironia solforica, l’individualismo nervoso”. Si tratta infatti di uno stile particolare, quello utilizzato dall’autore, per narrare vicende altrettanto particolari, divaganti tra storia, cronaca, fantasia, sperimentazione. Pubblicato in Russia nel 2019, è la prima opera di Snegirëv uscita in Italia, per le edizioni romane Gattomerlino. Alexandr Snegirëv (pseudonimo di Alexei Vladimirovich Kondrashov) è nato nel 1980 a Mosca. Autore di testi narrativi tradotti in molte lingue, si occupa di belle arti e insegna letteratura nella sua città natale. Nel 2015, ha vinto il Russian Booker Prize per il romanzo Vera.

In questo testo (una cinquantina di capitoli brevi, suddivisi in stringati paragrafi che parcellizzano il racconto utilizzando frasi minime e costanti a-capo) il protagonista si esprime in prima persona, soggettivamente, per poi esternarsi in uno sguardo astratto, narrando di una realtà che da vissuta interiormente si fa collettivamente oggettiva. Aprendosi in uno spazio assolutamente domestico, l’io narrante si svela come scrittore di successo, inquieto e bulimico di rapporti interpersonali, analizzati e descritti con ironia e autoironia, ma anche con lo stupefatto, continuo interrogarsi sulle motivazioni dell’agire umano nella quotidianità e negli eventi storici. Vive con una compagna sensuale e svampita, che tratta con buona dose di maschilismo già nell’attribuzione del nomignolo sprezzantemente misogino: “I nostri orari sono regimentati dalla sfasatura: io dormo – Micetta fuma, io mi sveglio – Micetta dorme. Un piccolo zig-zag nel reciproco timing mantiene saldo il rapporto… Annuso Micetta come un cane annusa un tesoro edibile. La afferro come un cuoco afferra l’impasto. La accarezzo, la sculaccio e la rivolto. E come lei risorge dal sogno, io, al contrario, cado addormentato”. Con loro, un cane razzista che abbaia agli islamici, due artigiani chiamati a riparare i perduranti guasti dell’abitazione, un vicino erotomane appassionato di storia, una vicina platinata diva di Instagram, che “riesce a gustare la dolcezza dell’interattività e al contempo guadagnare”, avendo come motto “Vivi come se dovessi postare”. Il diario quotidiano del protagonista elenca non solo varie comparse e le loro attività, ma anche i vorticosi pensieri di chi scrive, le sue fantasie e allucinazioni, cambiando continuamente punto di vista e materia di osservazione, con un pungente senso dello humor che aborre sia il patetico sia gli stereotipi.

Erede dello sguardo ferocemente caustico dei suoi connazionali Gogol’ e Bulgakov, Snegirëv tratta la storia passata e quella recente con lo stesso disincanto: se la strada in cui abita è stata percorsa dall’armata di Napoleone in ritirata, la cronaca politica attuale pone sugli altari Kim Jong-un e i vari Congressi del Partito Cinese. Il conflitto con l’Ucraina (al momento della composizione del romanzo limitato al Donbass), viene raccontato attraverso una lettura sarcastica degli imbonimenti propagandistici dei due paesi nemici: “Tutto ha avuto inizio nella prima fase operativa della guerra ucraina. Allora la gente teneva lo sguardo fisso sulle vicende e si strappava i capelli per una parte o per l’altra. C’erano dei profughi: alcuni andavano a ovest, verso Kiev, altri a est, in Russia”.

È comunque il presente a imporsi, ma un presente immaginoso, inventato e inventivo, paradossale negli accadimenti che si incalzano, cancellandosi e ricreandosi in continuazione, perché “La realtà si è sdoppiata”, e lo scrittore spavaldamente può annunciare: “È il mio libro e faccio quello che mi va”. Se il narrato si rivela falso, ebbene diventa vero dopo essere stato scritto: omicidi per gelosia, squartamento di cuori, tentativi di liquefare un cadavere nell’acido, resurrezioni improvvise, l’adozione di un’orfanella pestifera, lo smaltimento dei rifiuti, una Mosca post-moderna e cibernetica, nel vertiginoso accavallarsi di eventi inverosimili. L’autore-demiurgo vanta in continuazione la propria autonomia di ideare e depennare personaggi e situazioni, nella necessità di rendere sulla pagina il caleidoscopico trasformarsi della società e degli individui: “Merda, io sono uno scrittore, merda, e ho bisogno di un’idea”.

Quello che risalta nel magma incontrollato del racconto, è l’idea liberatoria della letteratura e dell’arte come emancipazione dalla verità, diritto all’immaginazione, indipendenza assoluta della creatività.

Nel flusso continuo di associazioni e immagini proposto da Snegirëv, domina l’introspezione maniacale, venata da incertezza e insoddisfazione (“La cosa più dura è abituarsi a sé stessi”), soprattutto per ciò che riguarda il proprio ruolo di intellettuale e di narratore. “A dirla tutta, volevo scrivere qualcosa di importante. Qualcosa di originale e di saggio. Ma l’ho dimenticato. Ho dimenticato quel che volevo scrivere. Riempio queste pagine con una grafia a volte piana, a volte convulsa, ironizzo sul passato, lo metto persino in dubbio, e oltre a ciò penso al futuro. Penso a come accoglierà il mio lavoro il redattore, come lo valuteranno i critici. Mi rinfacceranno il disprezzo di una struttura consueta, mi daranno la colpa d’aver rovesciato sui lettori un gran mucchio di avanzi del mio pensiero sbrindellato. Ho raccolto un po’ di tutto in bocconi diseguali, poi l’ho buttato giù in tocchi alla maniera di un’insalata”.

Un romanzo spiazzante, La strada fantasma, con tratti di comicità pura e altri di scandalosa provocazione, che il giovane slavista Raffaele Marchi ha tradotto in una prosa limpida, sciolta e accattivante.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 13 agosto 2023