Mostra: 1161 - 1170 of 1.318 RISULTATI
RECENSIONI

SOCCI

LUIGI SOCCI, PREVENZIONI DEL TEMPO ‒ VALIGIE ROSSE, VECCHIANO (PI), 2017

Del poeta marchigiano Luigi Socci (Ancona 1966) è stato pubblicato finora un solo libro (Il rovescio del dolore, Italic Pequod 2013), ma molto della sua produzione è presente in varie antologie, in plaquette, su riviste e in rete: inoltre di lui sono note l’attività di organizzatore di eventi artistici e manifestazioni poetiche, e le frequenti e applaudite esibizioni in performance e letture pubbliche, o in festival di poesia in giro per l’Italia. Prevenzioni del tempo, uscito quest’anno per i tipi di Valigie Rosse e vincitore del Premio Ciampi 2017, offre un’anticipazione del volume cui Socci sta lavorando. L’acuta postfazione, affidata a Paolo Maccari (che anche in queste poche pagine si conferma essere uno dei più notevoli critici letterari del panorama letterario italiano) mette in luce le caratteristiche fondamentali di questi testi: l’ironia “molesta”, l’understatement, la malinconia “sorniona”, la leggerezza parodica, l’inventività fonica, l’originalità destrutturante della sintassi.

Nessuno sperimentalismo linguistico fine a se stesso (forse, qualche eco di un divertito Palazzeschi, di un epigrammatico Caproni, di un istrionesco Scialoja), ma sempre un esplicito intento comunicativo, che ambisce a un richiamo etico mai didascalico, e nemmeno pedantesco: semmai oscillante tra una rassegnata accettazione del reale e un utopistico inseguimento dell’ideale. L’osservazione di ciò che ci circonda, lo sguardo attento e disincantato sugli oggetti più banali della nostra quotidianità (sedie, maniglie, parcheggi, acqua dei rubinetti, armadi, tagliacarte…) rivelano al poeta ciò che è «Assurdo e ovvio / allo stesso tempo», davanti a cui si può esprimere solo meraviglia, stupore quasi fanciullesco, e divertita incredulità: «Il trucco sta nel farsi / colpire a effetto / sorpresa trasecolare per tutto / restare a bocca aperta con le mosche / che ci volano dentro esterrefatti / per la scoperta dell’acqua calda».

Le cose, le persone, il linguaggio stesso che usiamo rivelano una misteriosa e quasi buffa inconsistenza, che ci lascia attoniti e immobili a chiederci ragione e fini del loro esistere. Se il poeta cammina «contromano per le strade / come su un nastro trasportatore / cammina un camminatore / dalla parte sbagliata del marciapiedi», lo fa in quanto avverte la falsità dei rapporti, la stupidità dei luoghi comuni, l’inessenzialità della parola quando diventa abusata, superflua. L’elenco dei modi di dire, svuotati di significato, ridicolmente sfruttati, è impietoso («non c’è più religione», «non ci sono più le morte / stagioni di una volta»), quanto la satira dei Poetry Slam e della poesia visiva: «adesso vi faccio vedere una cosa // … adesso vi faccio veder un video / adesso vi faccio vedere i filmini / del viaggio di nozze scherzavo / adesso vi faccio vedere un audio // … adesso vi faccio vedere tutto / adesso vi faccio vedere ecco»; «‒ Mi giro i pollici / perché abbastanza corti / facile no? / Provo a girarmi gli indici / per scoprire che non si può. // … ‒ Sto aspettando che venga un verso / come una bocca che aspetta un morso».

I tre disegni di Riccardo Sevieri che corredano il volume richiamano nella loro schematica essenzialità sia l’infantile sbigottimento dei versi di Socci, sia il loro beffardo interrogativo sulla precarietà di ciò che si spaccia per vero e reale: «Questa cosa che manca / che si inventa di sana pianta / non hai vinto ritenta / di riconoscerla da un’impronta». Le poche, labili tracce che lasciamo dietro di noi sono illusorie e in qualche modo risibili. Luigi Socci, clemente e insieme severo censore dell’attualità, lo ricorda sornione a tutti: «Che cos’hai da non dire?»

 

© Riproduzione riservata             

www.sololibri.net/Prevenzioni-del-tempo-Socci.html        22 dicembre 2017

RECENSIONI

SŌDERGRAN

EDITH SŌDERGRAN, NOTTURNO E ALTRE POESIE – MAURO PAGLIAI, FIRENZE 2009

Alla poeta finno-svedese Edith Södergran (San Pietroburgo, 1892Raivola, 1923) l’editore Mauro Pagliai ha dedicato nel 2009 l’antologia Notturno ed altre poesie, con testo a fronte e cura di Bruno Argenziano. Considerata la fondatrice del modernismo finlandese, Södergran ha influenzato la lirica nord-europea fra le due guerre mondiali attraverso la sua delicata ma intensa voce poetica, che raccoglieva le eredità del Simbolismo francese, dall’Espressionismo tedesco e dal Futurismo russo, filtrandole con “raffinata sensibilità e prorompente vitalità”. Esordì nel 1916 con la raccolta Poesie, alla quale seguirono altri quattro volumi di versi, in cui sempre si evidenziava un’acuta percezione visiva e affettiva della natura.

“Di tutto il nostro assolato mondo / desidero soltanto una panchina da giardino / dove un gatto prende il sole…”; “Gli amari garofani allignano lungo la via / dove impenetrabile si fa la penombra dell’abete”; “Me ne sto sola fra gli alberi del lago, vivo in amicizia coi vecchi abeti della riva / e in segreta concordia con tutti i giovani sorbi”.

Nata a San Pietroburgo, Edith visse con la famiglia tra la capitale russa e Raivola (oggi Roshchino), piccolo centro a pochi chilometri dal mare e dal confine con la Finlandia, scelto come meta estiva dalle famiglie borghesi della zona. Educata in prestigiosi collegi, si esprimeva perfettamente in russo, in tedesco, e ovviamente nella lingua materna, lo svedese parlato in Finlandia. Leggeva testi sia nelle lingue classiche, sia in francese, inglese, italiano. Dai temi di ispirazione elegiaca delle prime raccolte, l’interesse della giovane poeta si orientò verso interessi politici e filosofici, frutto di approfondite letture, soprattutto da Freud e Nietzsche, con una precoce e risentita attenzione nei riguardi del ruolo subalterno delle donne nella società. Quindicenne si ammalò di tubercolosi, la stessa malattia che aveva portato alla morte suo padre, e che la costrinse a lunghi periodi di cura in sanatori svizzeri, uccidendola a soli trentun anni. Il presentimento della morte velava i suoi versi di malinconia e pessimismo, insieme al nostalgico desiderio di un amore e di un futuro che sapeva irrealizzabili:

“Il futuro getta su di me la sua ombra beata; / non è altro che fluente sole: / trafitta di luce morirò, una volta calpestato tutto il fortuito, / con un sorriso volgerò le spalle alla vita”; “Tra breve vorrò stendermi sul mio giaciglio, / i folletti mi copriranno di bianchi veli / e rosse rose spargeranno sulla mia bara. / Muoio – perché son troppo felice”; “Amavo una volta un uomo, non credeva in nulla… / Venne un freddo giorno e gli occhi eran vuoti, / se ne andò un plumbeo giorno e c’era oblio sulla fronte”.

Recentemente, non solo nel mondo scandinavo ma anche in Italia, le poesie di Edith sono state lette, recensite e citate con grande interesse dalla critica femminista, che ha trovato nella poeta finno-svedese un’intelligente anticipatrice delle tematiche più cogenti della lotta di liberazione della donna. L’orgoglio della propria femminilità la rendeva erede delle grandi figure del mito, e contemporaneamente proiettata in un mondo di gioiosa indipendenza fisica e intellettuale:

“A piedi / mi toccò attraversare il sistema solare, / prima di trovare il primo filo del mio abito rosso. / Ho già il presagio di me stessa. / In qualche posto nello spazio è appeso il mio cuore, / faville si sprigionano da esso, e l’aria si scuote, / verso altri smisurati cuori”.

 

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 6 luglio 2024

RECENSIONI

SOFRI

GIANNI SOFRI, L’ANNO MANCANTE – IL MULINO, BOLOGNA 2021

Gianni Sofri (Staranzano, 1936), storico e saggista, considerato uno fra i maggiori studiosi italiani di Gandhi, ha dedicato un volume alla figura del noto medievista Arsenio Frugoni (1914-1970), suo docente alla Scuola Normale di Pisa negli anni ’50. Si tratta di un’affettuosa ricostruzione biografica mirata a esplorare non solo il lato pubblico dell’esistenza di un noto e stimato intellettuale, ma anche a descriverne il profilo morale e l’integrità politica, facendo luce soprattutto su un episodio rimasto a lungo oscuro, un intero anno (L’anno mancante, recita il titolo del volume) di cui Frugoni non volle mai parlare, e che Sofri ha ricostruito attraverso minuziose ricerche documentali e numerose testimonianze di parenti e amici del protagonista. Già nella descrizione fisica del maestro si avverte l’ammirazione dell’allievo per la signorilità della sua figura: “Era un uomo alto, con gli occhiali, affascinante, molto elegante non solo nel vestire, ma anche nel gestire, nel parlare, nel misurare le pause. E nell’ironia”.

Nato a Parigi da famiglia bresciana, rimasto orfano del padre a un anno, Arsenio Frugoni si era laureato in Lettere alla Scuola Normale Superiore di Pisa nel 1938, perfezionandosi in seguito a Heidelberg e insegnando per un biennio in un liceo pisano. Sposatosi nel ’39 con una compagna di scuola, Pia Chiappa, ne ebbe due figli: Chiara, oggi celebre medievista, e Giovanni. Vicedirettore dell’Istituto italiano di cultura di Vienna dal 1941 al 1943, rientrò in Italia a 29 anni e si stabilì con la famiglia in un paesino del bergamasco. All’interno di quella piccola comunità aveva apertamente manifestato “una forte estraneità al fascismo e alla sua cultura”, mantenendo saltuari rapporti con i partigiani della zona, e adattandosi a praticare lavori umili, quali il conciatore di pelli e il fabbricante di burattini, per contribuire al fabbisogno domestico.

Ma “in un giorno di maggio, o forse di giugno, del 1944, il dottor Arsenio Frugoni uscì dalla casa di Solto Collina, in provincia di Bergamo, nella quale abitava con la sua famiglia. Inforcò una bicicletta e pedalò per 125 chilometri: tanti occorreva percorrerne per scendere a Brescia e poi, da lì, raggiungere Gargnano, sul lago di Garda, dove si erano richiesti degli interpreti. Qui rimase, sia pure tornando abbastanza regolarmente a Brescia o a Solto, più o meno per un anno”.

A Gargnano, nel cuore della maggiore concentrazione di forza militare fascista e nazista, era stanziato l’Ufficio di collegamento fra l’Alto comando della Wehrmacht e la Repubblica sociale, e risiedeva Mussolini, con i parenti e i collaboratori più stretti. Quale sia stato l’effettivo ruolo svolto da Frugoni nel periodo di poco precedente alla caduta del fascismo è quanto intende verificare la ricerca di Gianni Sofri. Fu mediatore politico-militare tra la Repubblica di Salò e il Comando tedesco? Informatore segreto degli ambienti della Resistenza? Incaricato di salvare la vita a oppositori incarcerati e condannati a morte?

Assunto con la qualifica di traduttore e insegnante di italiano del Colonnello di Stato Maggiore Hans Jandl, addetto militare dell’Ambasciata, il professore era entrato in confidenza con il Capitano Otto Joos, che in una lettera spedita a Chiara Frugoni da Berlino il 26 dicembre 1994, lo definiva “uomo di cultura, di gentilezza e di franchezza”. L’ufficiale tedesco si dichiarava convinto dell’antifascismo di Frugoni, sapendo che aveva rifiutato qualsiasi incarico istituzionale all’interno della RSI, e platealmente evitava il saluto romano al passaggio di Mussolini. Era a conoscenza di come coltivasse intensi rapporti culturali e di amicizia con il cattolicesimo bresciano – in particolare con l’Oratorio della Pace dei padri Filippini, con il Liceo Calini dove insegnava lettere, con Monsignor Montini (futuro Papa Paolo VI) e con i partigiani delle Fiamme Verdi. Sempre secondo la sua testimonianza, Arsenio Frugoni aveva lasciato improvvisamente e segretamente Gargnano nell’aprile del 1945, spostandosi verso Como, dove forse ebbe parte alla cattura di Mussolini a Dongo, fatto tuttavia non comprovato.

Frugoni non fu mai iscritto al Partito Fascista Repubblicano, né venne inserito nelle liste di epurazione del dopoguerra: anzi i familiari rivelarono di avere trovato documenti relativi alla sua appartenenza a gruppi partigiani lombardi, tra cui una tessera rilasciata dal CLN di Brescia e diverse sue dichiarazioni autografe sul proprio impegno attivo nella lotta contro la dittatura.

Dopo la Liberazione, il professore preferì osservare un composto riserbo riguardo al periodo trascorso a Gargnano, evidentemente amareggiato dai silenzi, dalle titubanze e dai commenti non sempre benevoli espressi da conoscenti e colleghi, “quando alcune delle solidarietà e delle coperture che lo avevano accompagnato cedettero il campo ad altri atteggiamenti, che andavano dall’ignorare o misconoscere il suo operato fino a farlo oggetto di biasimo ipocrita”.

Pur non essendo mai entrato direttamente nell’agone politico con l’iscrizione a qualche partito, Arsenio Frugoni nel dopoguerra assunse precise e coraggiose posizioni di denuncia nei confronti di un potere accademico e giudiziario illiberale e discriminatorio. Titolare della Cattedra di Storia alla Scuola Normale di Pisa dal 1954, morì in un incidente d’auto insieme al figlio Giovanni nel 1970, lasciando un ricordo ammirato e riconoscente della sua figura umana e intellettuale.

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 20 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SOVENTE

MICHELE SOVENTE, CUMAE – QUODLIBET, MACERATA 2019

Il quarto libro di Michele Sovente (Monte di Procida, 1948-2011), Cumae, è il primo in cui si  esprime compiutamente il trilinguismo ‒ italiano, latino e dialetto campano ‒ che ha fatto del suo autore un caso unico e originale nella letteratura italiana. Vincitore del Premio Viareggio-Rèpaci nel 1998, oggi viene riproposto da Quodlibet in un’edizione filologicamente esemplare, curata da Giuseppe Andrea Liberti, con un puntuale commento a ogni poesia, che ne sottolinea le scelte formali e stilistiche, i vari riferimenti testuali, la cronologia di composizione e pubblicazione.

Già nell’esposizione della biografia soventiana, il curatore mette in luce gli snodi fondamentali che hanno influito in maniera indelebile sulla sua scrittura: a partire dalla nascita, avvenuta a Cappella di Monte di Procida il 28 marzo 1948, ultimo di sette figli di una famiglia proletaria, con il padre piastrellista, emigrato prima a Marsiglia, poi nel Maghreb, dove il piccolo Michele imparò elementari rudimenti del francese. Morto il padre nel 1957, poco dopo il rientro in Campania, al ragazzo fu imposto di entrare in seminario fino alla maturità, ottenuta la quale si iscrisse nel 1968 alla facoltà di lettere di Napoli, dove si laureò discutendo una tesi su Eugenio Montale. Gli anni liceali e universitari lo introdussero non solo allo studio approfondito della cultura classica, e in specie del latino, ma soprattutto alla conoscenza della poesia contemporanea e della filosofia del ’900. Anni di grande fermento politico e sociale, quelli trascorsi nel capoluogo partenopeo, partecipando alle lotte studentesche e operaie con il movimento di Lotta Continua, e collaborando alle pagine culturali del quotidiano “Il Mattino”. Sovente insegnò per tutta la vita all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dapprima Letteratura, quindi Antropologia: materie i cui fondamenti costituirono la linfa della sua produzione poetica.

Cumae fu pubblicato da Marsilio nel 1998, vent’anni dopo l’esordio con L’uomo al naturale (1978), seguito da Contropar(ab)ola (1981) e da Per specula aenigmatis (1990). Il libro è diviso in sei sezioni (anticipate da un testo proemiale), connotate ciascuna da un tema specifico: la storia, l’eros, il mondo animale, il territorio campano, la forma linguistica, il dialetto cappellese.

Ricorrenti in Cumae sono i topoi di un simbolismo archetipico letterariamente collaudato: acqua, fuoco, specchio, luna, cerchio, offrono un repertorio di immagini ereditate dalla cultura classica e popolare, ma filtrate sia dalla lente della psicanalisi junghiana, sia dalla riflessione sui testi di Giordano Bruno, Giambattista Vico ed Ernesto De Martino. Sovente riteneva il suo interesse antropologico «scaturito da un impulso interno, dal bisogno di portare alla luce schegge sonore, barlumi di una età lontana dai contorni fiabeschi e primitivi, manifestazioni di energia vitale, di fisicità, figure e gesti elementari, nuclei di pensiero e di visionarietà che configurano un universo dove fascino e paura, sortilegio e smarrimento, solitudine e fusione con la natura procedono sempre all’unisono». E riguardo al suo co-linguismo si era così espresso: «non è nato da alcun calcolo letterario ma come intuizione poetica, attraverso la quale poter esprimere e riferire soprattutto a me stesso uno stato di assoluta crisi storica, di distanza dalla modernità intesa come supermercato di codici, norme, valori obbligati, tecnicismi che a nulla più servono se non a far circolare un esercito di tanti pseudo-poeti e pseudo-artisti, garanti di ferro, a loro insaputa, dell’oceanico bla-bla dei mass-media».

Latino, italiano e dialetto rimangono distintamente autonomi, senza combinarsi all’interno di una stessa poesia. L’italiano ricorre a un lessico essenziale, concreto, moderno; il latino vive di reminiscenze classiche, medievali ed ecclesiastiche, ma è attualizzato in un’originale inventività di metri e figure retoriche; il vernacolo campano viene svincolato da tutta la banalità melodica e decadente della tradizione neo-dialettale. Lo stile è inoltre coraggiosamente innovativo, con il ricorso frequente a distorsioni sintattiche, inversioni, invenzioni fonetiche, appaiamenti di termini, commistioni di termini aulici, tecnici e colloquiali.

Proemio alla raccolta è il testo bilingue Rudera / Ruderi, che fornisce la chiave di lettura stilistica e linguistica del libro, nel suo proporsi in latino e in italiano, e nel collocarsi in uno scenario cupo di silenzio e morte, testimoniato dalle rovinose vestigia lasciate dallo scorrere del tempo: «Ex imis humi larvis / ex altis umbris parvis / temporis labor erumpit / vitaeque cruor incumbit / iactura est scissura / formarum se volventium / ad mortem ad silentium…» (Dalle remote larve della terra / dalle anguste-alte ombre / la fatica schizza del tempo / e la linfa cupa del vivere / tra erosioni e deflagrazioni / si evolvono forme verso / la morte e il silenzio…). In questa introduzione ci sono già tutti i temi fondamentali dell’intera raccolta: l’ascolto del passato che si fa voce presente attraverso i resti archeologici, l’immagine della terra scavata da larve vive e tomba di presenze defunte, le erosioni e i movimenti sismici e vulcanici, il lavorio del tempo che tutto corrompe, lo sfaldarsi della memoria da cui derivano perdita e limitatezza, l’evoluzione non verso un seducente progresso ma verso un inevitabile smarrimento di sé.

Sovente è stato definito “poeta sismografo”, per la sua attitudine a registrare e decrittare i sommovimenti del territorio flegreo, sintomo e allegoria degli squilibri sociali di uno spazio scosso da violenze e sfruttamento: «Uno spazio nel quale si sovrappongono da secoli grida di mercanti e voci sovrannaturali, il mistero del futuro e la memoria del passato, la storia e la magia, il mito e la morte», secondo Liberti. La prima sezione del volume è appunto dedicata allo svolgersi della Storia («la storia che devia»), riletta nel suo misterioso e umbratile celarsi «in gurgite temporis», decifrata anche attraverso il lascito di leggende mitologiche e di tradizioni ancestrali, sospese tra fede religiosa e superstizione. Emblematicamente, la prima poesia della prima sezione si intitola Di sbieco, e indica la prospettiva secondo cui avvicinarsi alla realtà, con sguardo sbilenco e velato: «L’occhio strabico strazia / piumaggi e fossili. Si vive / si scrive di sbieco». Il mondo è qui definito «confuso», non facilmente definibile da una «lingua di grumi ingombra / e asfittica pianta».

Lingua-pianta da rivitalizzare, quindi, servendosi di energetici innesti e indispensabili lacerazioni: «Vacua lucet / lingua in frigore, varia / aequora eam incurrunt, nunc / linguafurca decidit-recidit / in vacuo inscripta infinito» (Vuota balugina / nel freddo la lingua da acque / e specchi inseguita, adesso / la linguaforca decide-recide / inscritta nel vacuo infinito). Lo stesso manovratore dello strumento espressivo, il poeta, rimane intimorito ed esaltato dal suo potere di creazione: «Ignaro del fortunale imminente / insisto a enumerare / le radiose oltraggiose strategie. / Avido animale / seguo l’occhiuta preda. / Mi uncinano le carte. / Brusiscono nell’afelio i palinsesti».

Michele Sovente, nell’interpretare l’interno di sé e l’esterno da sé, si affida alla reattività dei sensi. All’udito, in primo luogo, ma poi anche al tatto e alla vista, reclamando il primato della fisicità del proprio corpo che lo fa simile a quello di tutti gli esseri animati. Mihi sunt: «Brachia mihi sunt oculi / tengo et video albas / per aquas alas, caudas / paulatim in somno…» (Ho io: Braccia ho occhi io / tocco e vedo candide / ali nell’acqua, code / nel sonno intermittenti / finestre oscure sento / nuvole miei legami, rami / ho vertebre io, perciò / schegge mi scuotono / di nascosta luce, pustole / inquiete mi incidono / e unghie mi devastano, / foglie mille volte ho / sul confine arse io). Ne deriva un sentimento panico della natura, descritta sia nei fenomeni atmosferici e negli elementi cosmici (neve, gelo, nebbia, luna, pianeti, maree), sia nell’osservazione del mondo animale, in una «visione dell’unità metamorfica del tutto». Animali istinto, animali affetto, gioia-sofferenza-leggerezza-gratuità-morte. Siano lepri o insetti, volatili o gatti, pesci o galli, la loro natura è sentita dal poeta come umana o addirittura sovrumana: nell’agonia insopportabile di un micio, nella corsa della lepre trasformata in vento, nel tarlo misteriosamente nato dal legno, Sovente avverte la fragilità e caducità di ogni esistenza.

Una sequenza nel suo bestiario è dedicata agli uccelli, portatori di luce e colori, immagine di vitalità antropologicamente collegata al sogno antichissimo del volo; comunicando con l’uomo attraverso uno stridio acuto simile a quello di porte cigolanti, gli uccelli raccontano il destino che accomuna le creature del cielo e della terra. Aves: «Cum avibus aves / aethera dividunt, luces / cupidinesque per alas / hieme et vere ferentes. / Suas poenas, sua itinera / in ventorum nequitia, / diutius quam ianuae limosae / stridentes, avibus / aves sub noctem suaves / enarrant subtiliter.» (Gli uccelli: Si dividono l’aria / gli uccelli tra loro, d’inverno / e a primavera luci e brame / sulle ali portando. / Ciò che vedono e soffrono / nel tumulto dei venti, / più delle porte fangose / a lungo stridendo, gli uccelli / sulla soglia della notte gli uccelli / soavi e precisi raccontano).

Anche l’amore per una donna non si sottrae all’inevitabile scacco della perdita: nel tenero e commovente micro-canzoniere che il poeta dedica a una innominata «cara compagna / d’infantili giochi» è il rimpianto a costituire l’elemento tematico predominante: «vai / tuttora da un’isola / all’altra inseguendomi / blandendomi, caro dado, / amaro guado, non sai / quanto ti amai», recuperando l’eredità della nostra tradizione letteraria  che da Virgilio e Petrarca arriva a Montale, alle sue Liuba, Clizia, Volpe, Mosca.  «Ti assomiglio spesso al filo, / al foglio bianco, al mare, tu / fibra tu labile rima tu balenante / ingorgo». E ancora «Cerco di sciogliere la tua figura / dai fili, dal rancore, dal freddo che / la tengono avvinta, mando da lontano a te, / da lontanissimo, un lampo / un gutturale / suono, sfida all’occhio abissale / delle flegree frane». Prendendo spunto dalla dolorosa esperienza della separazione dall’amata, Sovente proietta la drammatica transitorietà del sentimento erotico sull’aspro e instabile scenario flegreo in cui è nato e vissuto.

Il paesaggio mediterraneo dei Campi Flegrei è un cronotopo, scrive Liberti, in cui il bradisismo e la vulcanicità riportano alla luce tracce del passato greco-romano, personaggi mitici come Ulisse, Proserpina e la Sibilla, divinità come Demetra e Venere, città fantasmatiche come Napoli e Cuma, insieme a tragici squarci di un presente violento e corrotto. Ecco quindi le sezioni finali, dedicate al paesaggio campano, ai suoi abitanti e alla sua lingua. Donna flegrea madre, Le antiche donne cumane, Acqua mediterranea, Fosforo e zolfo, Neapolis, Camminando per i Campi Flegrei, Tu, Cumae…, indicano quanto Michele Sovente sia stato debitore alla sua terra di immagini e colori, sogni e incubi, memorie personali ed echi letterari, testimonianze politiche e rabbie civili. «Diletti miei phlegraei campi / infetti dove sine die l’immobilismo / si allea con il bradisismo!», «Hanno infinite / insidie e vite queste / napoletane strade piazze alture / in cui lunatico mi perdo / estatico, dai rumori disfatto / da una vischiosavida / nube», «Zitte ogni sera stanno tra le antiche / ombre le antiche donne cumane //… i denti macchiati dall’acqua di pozzo / ascoltano il vuoto le donne di Cuma», «clamans infernalia / clinamina tu, Cumae, ad sideralia / fastigia fugitans dum letalia / leniter lingunt calcaria», «Acqua, mia / acqua antica e contemporanea, sii / tu il punto fermo, la via / che porta al miscuglio di lingue, / acqua mediterranea», «Me fótte ’a notte, me gnótte, / ‘a sete me guverna, ‘a famma / me tène comme a na mamma», «trase na luce ‘mmiez’ î rruvine, / ‘a luce r’ ‘a puisìa, nu rrevuóto / ‘i fiùre ca ‘nziéme mètteno / ‘a vita cu ‘a morte».

Questo volume «dalla lunga gestazione», prevedibilmente complessa ma portata a compimento con assoluta competenza e meritoria dedizione da Giuseppe Andrea Liberti, ci permette di valutare lo spessore intellettuale e la perizia compositiva di un poeta non abbastanza considerato nel suo effettivo valore: forse perché estraneo a scuole e correnti, o perché poco avvicinabile nella sua difficoltà interpretativa. Dobbiamo essere grati, oltreché al curatore, alle edizioni Quodlibet che hanno saputo allestire un prodotto librario raffinato, dalla grafica sorvegliata ed elegante.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 16 febbraio 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

SPADARO

ANTONIO SPADARO, CREATURE DI CALDO SANGUE E NERVI – ARES, MILANO 2020

Torna in libreria per le edizioni Ares il profilo di Raymond Carver che Antonio Spadaro aveva pubblicato nel 2001 (Carver: un’acuta sensazione di attesa), arricchito ora da un capitolo sull’attualità dello scrittore statunitense e da un diario del viaggio-omaggio alla sua tomba di Port Angeles. Il titolo del volume, Creature di caldo sangue e nervi, è una citazione tratta da Čechov, autore cult di Carver, esplicito riferimento alla sua inquieta ansia esplorativa di ambienti ed esperienze trasgressive.

Monsignor Antonio Spadaro (Messina, 1966) è un gesuita, direttore della rivista «La Civiltà Cattolica», teologo e saggista molto stimato e ascoltato da Papa Francesco, esperto di letteratura americana e fondatore dell’associazione culturale «Bombacarta».

Già nell’introduzione l’autore confessa: “Dopo vent’anni di ‘corpo a corpo’ con uno scrittore è possibile capire se e come la sua opera ci abbia ‘lavorato dentro’. E io non me ne sono mai liberato”. Citando la poesia scritta da Raymond prima di morire, Ultimo frammento (“E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra”), afferma di aver ricavato dalla questa lettura una reale illuminazione emotiva. È stata proprio l’autenticità con cui Carver ha messo a nudo ogni aspetto della propria esistenza a conquistare Spadaro: senza allontanarsi mai dal proprio vissuto ha narrato storie minime e universali, in cui ciascuno si può ancora riconoscere, spaziando nelle tematiche dall’amore alla malattia, dalla passione per la pesca a quella per l’alcol, dal sesso al denaro, raccontate con “understatement of emotion”. Estraneo a ideologie, intellettualismi e astrazioni, arrivava al cuore delle cose parlandone con assoluta e disarmante sincerità, attraverso l’utilizzo di diversi registri formali (ironia ed empatia, rabbia e commozione), in uno stile “scabro, diretto, privo di lirismo”, con “incredibile rapidità ed essenzialità espressiva”.

Il volume si divide in tre capitoli, nel primo dei quali Spadaro ricostruisce la biografia di Carver mettendola in relazione al graduale comporsi della sua attività letteraria, soffermandosi anche sull’annosa questione degli invasivi interventi correttivi dell’editor Gordon Lish.

Successivamente, propone sia un puntuale commento dei racconti più noti, sia una lettura attenta alle intenzioni etiche e comunicative della scrittura carveriana. Dalla tragica incomunicabilità delle prime prove narrative, testimonianza di uno spaesamento esistenziale, Raymond Carver si aprì progressivamente a una positiva speranza di rinascita, soprattutto in seguito all’unione con la nuova compagna Tess Gallagher. Nella sua scrittura divenne più evidente il bisogno di incarnarsi nella realtà materiale dei corpi, attraverso uno sguardo di intenerita immedesimazione, privo di giudizio o condanna. Monsignor Spadaro, in linea sia con parte della critica americana, sia soprattutto con la propria visione ideologica, interpreta l’evoluzione della scrittura di Carver nel senso di una persistente esigenza di confessione e di redenzione, alla ricerca di “una dimensione trascendente dell’esperienza quotidiana”. Nel raccontare le sue giornate, e quelle della gente comune, Raymond metteva in luce “la santità dell’ordinario”; scoprendo la propria vulnerabilità rivelava la vulnerabilità di chiunque, non solo di amici e familiari, ma anche di chi agisce nell’illegalità e nella violenza.

La terza sezione del libro analizza specificamente la produzione in versi, in genere sottovalutata rispetto alla narrativa. In essa, Spadaro individua “una funzione di discernimento e di penetrazione radicale nel reale”, capace di privilegiare la densità espressiva, la sintesi folgorante più di qualsiasi descrizione in prosa. Con fierezza, Carver affermava infatti di sentirsi più poeta che narratore: “Io ho cominciato come poeta e così suppongo che sulla mia tomba dovrei essere molto contento se ci fosse scritto: ‘Poeta, scrittore di racconti e, occasionalmente, saggista’. In quest’ordine”. I suoi versi, privi di artifici e sterili sperimentalismi, utilizzavano gli stessi temi dei racconti, resi più penetranti dalla loro contratta essenzialità, e ammorbiditi da un’affettuosa colloquialità nella descrizione dei rapporti familiari, dell’ambiente domestico, della natura.

In conclusione del volume, tra il ricco apparato di note e l’altrettanto ricca bibliografia, Antonio Spadaro inserisce il reportage diaristico e fotografico del viaggio-pellegrinaggio compiuto nell’agosto del 2010 per visitare la tomba di Carver al cimitero di Port Angeles, nello stato di Washington. In questa cittadina lo scrittore aveva vissuto serenamente gli ultimi anni in compagnia di Tess, in una casa tranquilla e luminosa posta alla confluenza di due fiumi, in riva al mare: qui aveva composto e ambientato oltre 200 poesie. Nella stessa casa era morto per un cancro ai polmoni, il 2 agosto 1988, appena cinquantenne.

 

© Riproduzione riservata    15 novembre 2020

https://www.sololibri.net/Creature-di-caldo-sangue-e-nervi-Spadaro.html

 

 

 

 

RECENSIONI

SPAEMANN

ROBERT SPAEMANN, TRE LEZIONI SULLA DIGNITA’ DELLA VITA UMANA – LINDAU, TORINO 2011

Robert Spaemann (Berlino 1927) è ritenuto il più autorevole filosofo cattolico tedesco contemporaneo. In questo volumetto pubblicato dalla casa editrice torinese Lindau sono presentate tre conferenze che l’autore tenne al campus americano dell’Università Lateranense di Roma nel 2010, riguardanti argomenti di particolare interesse per la riflessione etica contemporanea: l’amore, la dignità umana, la morte cerebrale. In una prospettiva radicata nella tradizione cristiana, e saldamente fondata sull’autorità delle Scritture, Spaemann sottolinea l’irriducibile e insostituibile importanza dell’individuo, della persona (di qualsiasi persona!), sempre inserita in un rapporto essenziale con l’alterità (“Essere una persona significa occupare un posto nella comunità universale, trans-temporale delle persone”). Nel primo saggio, contestando la pessimistica affermazione di Hume secondo cui “non avanziamo mai neppure di un passo oltre noi stessi”, Spaemann distingue diversi tipi di amore (coniugale, parentale, patriottico, di amicizia…) e i suoi rapporti con l’innocenza e la fedeltà, con l’istinto e la gelosia, per concludere che “l’amore dà all’amato la possibilità di essere una persona e di esserlo in un modo unico, non intercambiabile”. Il secondo intervento è una vibrante difesa della dignità intesa come dimensione ontologica della preziosità dell’uomo, della sua sacralità: “ognuno conta” (e molto interessanti sono le riflessioni su “la dignità del Crocefisso anche in una situazione di oggettiva indegnità”). Il terzo capitolo è forse il più polemico e militante, in quanto concerne il dibattuto argomento della morte cerebrale, che l’autore considera dalla sua prospettiva di credente: “per ogni organismo vivente vale il fatto che è vivo fintantoché possiede un’unità interna”, contestando quindi l’affermazione che la morte del cervello coincida con la morte dell’essere umano: “in dubio pro vita”.

IBS, 19 novembre 2013

RECENSIONI

SPAGNOLETTI

GIACINTO SPAGNOLETTI, POESIE RACCOLTE – GARZANTI, MILANO 1990

«Quanto di storia mi è transitato addosso / a me che sono un privato», scriveva uno dei nostri migliori poeti, Giovanni Giudici, in un suo componimento di alcuni anni fa. E parafrasandolo, quanta storia è transitata addosso a uno dei nostri migliori critici letterari. Giacinto Spagnoletti: storia privata, pubblica e letteraria, di cui oggi egli ci dà generosa testimonianza, pubblicando i suoi versi scritti tra il 1940 e il 1990, e occultati, quasi, severamente centellinati nell’arco di questo cinquantennio. Spagnoletti critico militante, come si amava dire nel ’68 e dopo, ha accompagnato le nostre lettere con puntuali e coraggiosi commenti, non solo tramite la sua lunga attività di docente universitario e i suoi interventi giornalistici su autorevoli quotidiani e riviste specializzate, ma soprattutto attraverso fondamentali pubblicazioni saggistiche: dalla giustamente famosa Poesia italiana contemporanea (Guanda, 1959) fino alla Letteratura italiana del nostro secolo, in tre volumi, usciti negli Oscar Mondadori cinque anni fa. L’attività poetica di un critico risulta, per forza di cose, alquanto offuscata, addirittura penalizzata, dalla sua produzione più nota e ufficiale: e Spagnoletti non si sottrae a questa considerazione, ne è stato probabilmente sempre vittima consapevole, se solo negli ultimi anni ha accettato di sottoporsi al rito inevitabile ma un po’ crudele delle letture in pubblico e della divulgazione dei suoi versi su riviste a bassa tiratura per farsi leggere come poeta. Oggi finalmente Garzanti pubblica dunque queste Poesie raccolte, e Spagnoletti diventa antologista e critico di se stesso, con l’umiltà di chi si offre a un giudizio complessivo, ma anche con l’audacia di una sfida troppo a lungo rimandata. La sua produzione poetica si scandisce grosso modo in due periodi fondamentali: alla Prima parte appartengono le sezioni Passato remoto e Ancora passato remoto, che raccolgono i versi dal ’40 al ’53, mentre più articolata e abbondante risulta la Seconda parte, che dagli anni ’70 arriva ai nostri giorni.

Pasolini, in un suo saggio del ’53 qui riproposto, scrive, a proposito dei versi della guerra e del dopoguerra, di “crepuscolarismo meridionale”, facendo i nomi di Di Giacomo e di Gatto: ma se di meridionalità si può parlare, sembra che comunque Spagnoletti abbia abbondantemente risciacquato i suoi panni in Arno, nell’ambiente frequentato al Caffè delle Giubbe Rosse, con Montale e il giovane Luzi, di cui si risentono notevoli influssi. Lo sfondo è probabilmente quello nativo del poeta, Taranto, ma rivisitato in un’atmosfera fiabesca, di ««velieri che non partono» e «alberi inclinati dal vento», di cieli grigi e paradisi di nafta, di uccelli marini e castelli oscillanti, in una scrittura che sempre privilegia la verticalità, il volo, l’ariosità, il salmastro. La nostalgia, giustamente definita da Pasolini “senza memoria”, perché appunto immemore, disinteressata ai particolari più veritieri, si è ricostruita i suoi miti. Il padre, in primo luogo, ufficiale di marina, novello Ulisse «brusco e sdegnoso come il mare»; «Quando tornerà dal paradiso,  / Capitano, ai miei gridi di fanciullo / Stupefatto l’oro del tuo berretto?» Ma anche la guerra e la resistenza, con omaggi che superano l’evento per inquadrarlo in un affresco metastorico, con i partigiani «simili a frati in un convento», «con la cupa passione della guerra»», trasfigurati attraverso la lente affettuosa e deformante della poesia. Meno idilliaco, più angosciato e critico risulta invece il rapporto con il reale nelle poesie dell’ultimo ventennio: l’elegia allora stemperata adesso si condensa in immagini più forti e nitide, la fiaba si fa cronaca, la tenerezza passione, magari temperata dall’ironia, in una progressiva ricerca di lucidità e adesione al vero. Il passato è sfrangiato da ogni residuo romantico e favoloso (Un viaggio); gli ambienti, gli odori e i personaggi dell’infanzia recuperano i loro contorni più netti (Mi ricordo); perfino le numerose poesie private (Pensieri di casa) e le dediche familiari sforano in un quotidiano universale e simbolico. In questa ricerca di adesione al reale, trova una sua giustificazione l’ Omaggio a una serva amorosa, sorta di collage operato dall’autore sulle lettere di Francesca Buschini a Giacomo Casanova, e rielaborato con fedeltà alla lingua veneziana del ‘700, secondo un registro di giocosità linguistica nuovo in Spagnoletti: «Se non mi mandate più denaro si vole / pacienza, ma non mi private / ve ne suprico, de vostri bramosi carateri / che si saranno etternamente cari».

Anche se più tipici, propri di un timbro coltivato e riconosciuto attraverso «anni di appostamenti / critici e l’abitudine di parlare / di libri costretto da altri libri», sono i versi autobiografici e sofferti del Diario di Barcellona, e quelli amari e lievi dedicati a Sandro Penna o a L’amore da vecchi: «Ahimè, nulla si muove nell’inquieto / sopore dei vecchi, l’amore è una spina / che punge di rado //…Poco o nulla si può recuperare: /… solo nomi, nomi, nomi».

 

«Hortus» n.4, luglio-dicembre 1991

RECENSIONI

SPARAPAN

GIANNI SPARAPAN, GRAN DE ROŞARI – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2021

Studioso di storia, cultura, costumi e linguaggio del Veneto, Gianni Sparapan (Villadose 1944), insegnante, pubblicista e autore teatrale, ha pubblicato un libro di poesie dedicate al suo Polesine, Gran de roşari. Centoquaranta composizioni in lingua rodigina, con testo italiano in calce e glossario conclusivo, che attraversano un secolo di vicende sociali e familiari, sporgendosi oltre i confini ristretti del paese nativo, con uno sguardo che si allarga su pianure, monti e fiumi della regione (“El se intristisse solo, / el Po, / cô cala la fumara, / pan e companàdego de la vita nostra”), lambendo anche la Venezia Giulia (“Zità de gloria / Trieste ventana / scanpana felizità”).

Appunto come i grani del rosario cui allude il titolo, si inanellano episodi tragici della storia e della cronaca veneta, dalle vicende migratorie del primo ’900, alle guerre mondiali, alla Resistenza con i giovani partigiani impiccati a Bassano: “Jera el so silenzio, Bassan, / fin che drento i buschi de nogara / i s-ciopetava / e fóje e żoventù cascava”. Ma è soprattutto la terribile alluvione del ’51 che campeggia come un incubo nella memoria del poeta, allora bambino testimone impaurito dello straripamento di un fiume vorticoso e travolgente, che provocò lutti, evacuazioni, povertà: “spaventi somenando / e canpane a martèlo / e desperazión: aqua alta – aqua forta – aqua marza – aqua morta / aqua sassina da strada! / aqua sporca – aqua negra – aqua tròja…”.

Il borgo di Villadose rivive in una galleria di personaggi tipici, bozzetti disegnati con complice nostalgia (il barbiere, l’orbo, il calzolaio, il cappellano, il pescatore), o con la pietà di chi visita il cimitero di una Spoon River domestica, prendendo nota di suicidi e omicidi, morti infantili e lunghe agonie, compendiando in pochi versi il percorso terrestre di medici becchini prostitute fioraie maestri: a nessuna creatura sepolta viene negata la grazia di un ricordo, di una preghiera laica, che la ripaghi dal “vivare male”.

Le prove più convincenti del volume sono quelle in cui Sparapan racconta la sofferenza che lega animali e piante nello stare al mondo, come in El lamento de le creature, in cui un ciliegio, un asino, un maiale e un merlo sembrano invidiare a vicenda l’uno la sorte dell’altro, per concludere infine che nessuno di loro può dichiararsi felice della propria, nell’amara constatazione della pena che accomuna ogni esistenza. In particolare, sembra essere proprio il porcellino a patire di più l’oltraggio della crudeltà umana, nella ferocia della macellazione descritta dalla poesia iniziale, La morte del boşegato: “I xe ’ndà driti in te’l so caşón / i ghe ga messo la mordécia in boca, / i lo ga tirà fòra de pèşo. // I so zighi i’ndava in zhièlo” (La sua disperazione arrivava al cielo. // L’hanno rovesciato sull’aia / accoltellato sotto la gola / scottato con l’acqua bollente / ripulito con le raspe della setola / alzato con corde e pali fino alla trave del porticato / sventrato da sopra a sotto / tenuto aperto da paletti appuntiti / come un povero crocefisso).

Il trascorrere di mesi e stagioni, l’avvicendarsi di realtà differenti a livello spazio-temporale, ma uguali nell’eco emotivo suscitato in chi scrive, induce la stessa trepidazione vissuta nell’infanzia: Natale con la neve, l’attesa sempre delusa dei regali della Befana, il risveglio di un’innocenza primaverile a Pasqua, e poi l’estate tormentata dalle zanzare e da temporali violenti, rinfrescata dalle angurie e da frutti succosi, per tornare infine a un autunno nebbioso e grigio di paludi. Il Polesine rivisitato di Gianni Sparapan, benché maledetto dal lavoro duro dei campi e da una miseria atavica, torna a pungere proprio perché morto. Irrecuperabile, se non scavando nella memoria: “A scarpiè de ricordi / a xe tacàle beate imàjini” (A ragnatele di ricordi / restano appese le immagini care).

 

© Riproduzione riservata         

SoloLibri.net › Gran-de-rosari-poesie-polesane-Sparapan                 20 gennaio 2022

RECENSIONI

SPINELLI

BARBARA SPINELLI, IL SOFFIO DEL MITE – QIQAJON, BOSE 2012

«Difficile dire cosa sia la mitezza, se questi sono tempi di collera, di intranquillità, di mali che si fanno forti della docilità, della passività cittadina». Così esordisce Barbara Spinelli in questo libro che è sia una meditazione sulla mitezza, sia un elogio del carattere mite, sia un excursus letterario e filosofico sulle rappresentazioni che questa particolare disposizione d’animo e atteggiamento comportamentale ha trovato nella cultura universale dalle sue origini. Se «’mite’ significa originariamente ‘maturo’ o ‘molle’: si dice della frutta…», è evidente che non sempre il termine ha avuto nell’immaginario collettivo un’accezione positiva. Per persona mite si intende abitualmente un perdente, una figura remissiva, mansueta, rinunciataria, umile, passiva, docile: insomma, «ammansita». Ma l’autrice sottolinea con veemenza l’energia «diversa ma ugualmente intensa» che anima i miti: «una forza concentrata, riluttante all’aggressione, ma non priva di ribellione». E si sofferma ad esaminare le più importanti incarnazioni di forza, convinta indipendenza di giudizio, capacità di resistenza, rifiuto di qualsiasi succube obbedienza al potere o adeguamento alla condotta dei più: da Mosè a Gesù a Gandhi… Solidali con l’altro, animati da spirito profetico, possessori di una letizia interiore che deriva dal consapevole dominio delle proprie virtù (pazienza, perseveranza, semplicità e misericordia, in primis), i miti non rifuggono dal mondo e dall’impegno civile o politico: solamente, non ne fanno un mezzo di dominio, sopraffazione e imposizione di sé. La loro «libertà consiste nel sopportare la necessità… non è apatia ma pathos e com-passione». Forse è eccessivo fare di loro degli estatici, dei dionisiaci danzanti, come suggerisce Spinelli. Ma è vero che essi «erediteranno la terra», secondo Mt 5,5: chiamati «ad agire qui in basso, ora», salvando persino la violenza da se stessa.

 

«Leggere Donna» n.97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

SPURK

JAN SPURK, E SE LE RANE RICHIEDESSERO UN RE? – MIMESIS, MILANO 2015

Il testo scritto da Sartre nel 1958, deplorante l’immobilismo politico francese che invocava un uomo della provvidenza in grado di salvare la nazione, sottolineava problematiche simili – secondo il filosofo Jan Spurk– a quelle vissute oggi da molti paesi occidentali. Anti-istituzionalismo, xenofobia, incessante successione di scandali, personalizzazione del potere, asservimento dei media alle direttive partitiche. A questo fallimento dei sistemi politici corrisponde uno stato di impotenza e rassegnazione dei cittadini, incapaci di mobilitarsi nello spazio pubblico, o non più motivati a farlo. Si assiste “al consenso all’eteronomia istituzionalmente installata”: i cittadini delegano a un’autorità di cui generalmente diffidano il dominio delle loro esistenze, “non vogliono e non possono che nuotare con la corrente di questa società”. Ambiscono solo alla loro realizzazione privata: “essere sposi, figli, impiegati, campioni di biliardo… e proprietari di macchine e di appartamenti”, convinti “della propria personale impotenza a modificare il destino del proprio paese”. Viviamo tutti un’apparenza di libertà, limitata spesso solo alla sfera sessuale o dei consumi (comunque eterodiretta), riducendoci “a un piccolo numero di rapporti ben stabiliti e considerati immutabili”, in una società che “non si è democratizzata, si è massificata”. La nostra vita appare ormai “determinata da potenze che si situano fuori dell’individuo, fuori della sua volontà e fuori dei suoi interessi”. Spurk rilegge Freud, Weber, Fromm, Habermas e ovviamente Sartre, quasi solo per rinforzare le loro analisi, e ribadire il presentimento negativo di una deriva sociale ed etica incapace di ribellione: “Si assiste a un ripiegamento angosciato e all’attesa di una soluzione a questa penosa situazione tramite l’azione di una forza esteriore ai soggetti… E oggi non mancano certo, a destra come a sinistra, autoproclamati candidati a divenire un nuovo uomo della provvidenza,”un re delle rane”.

IBS, 14 maggio 2015