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RECENSIONI

BASHO

MATSUO BASHŌ, SOTTO LA LUNA UN BRUCO – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2020

Alessandro Clementi degli Albizzi, fra i nostri migliori nipponisti, ha curato una nuova edizione di 69 haiku di Matsuo Bashō, massimo maestro nella composizione di questo genere lirico.

Nato nel 1644, Bashō ebbe molti allievi che conservarono la sua feconda produzione in sette raccolte, di cui questo volume offre una meditata antologia. Meditata perché il curatore non solo commenta ogni testo presentato, ma offre ai lettori una approfondita introduzione all’origine, alla trasformazione e diffusione dei ku, oltreché alla biografia del poeta.

Lo haiku come lo conosciamo noi, ai tempi di Bashō non aveva una forma autonoma. Si trattava di un esercizio collettivo, un dialogo poetico tra amici e appassionati, o tra maestro e allievi, “in cui il ku di avvio, forniva ispirazione e ambientazione per il secondo che poi a sua volta aggiungeva elementi per il terzo e così via”. Quattro secoli fa il poeta non si rivolgeva a un pubblico, ma alle persone della sua cerchia, che lo soccorrevano nella creazione, essendo al corrente di tutte le sue ragioni e intenzioni. Haikai significa “motto di spirito”, e per essere efficace imponeva di stupire i lettori, spiazzandoli con un finale imprevisto, o deformando i contenuti (paesaggi, situazioni, personaggi) con lo scopo di divertirli. Carattere fondamentale dell’haiku era la musicalità, il tono aggraziato e rasserenante che in genere veniva d’improvviso turbato da una parola o da un’immagine dura e respingente.

Ecco alcuni dei ku più suggestivi, con il commento suggerito dal curatore Alessandro Clemente degli Albizzi. Si tratta di delicate immagini paesaggistiche, di scene di vita paesana, di momenti comunitari o di testimonianze affettive di particolare intensità:

“Notte silenziosa / sotto la luna un bruco / si fa strada dentro una castagna”: nel silenzio della notte illuminata dalla luna, il lieve rosicchiare del bruco insinua nell’atmosfera qualcosa di inquietante.

“Sul ramo spoglio / si è ora poggiato un corvo / crepuscolo d’autunno”: le immagini del ramo e del corvo sono basate sul canone pittorico classico.

“Mani di donna staccano carne di baccalà /all’ombra di un mazzo di azalee / appena raccolte”: considerato uno dei primi ku che catturano l’istante, sembra ispirato da una scena vista in una locanda di campagna, in cui l’elemento prosaico è accostato a una visione floreale.

“Sfilarsi un indumento / e metterselo in spalla / il mio cambio di stagione”: il cambio del guardaroba esprime con libera noncuranza la leggerezza d’animo del viaggiatore, che si lascia alle spalle il passato.

“Sentore putrido / sorrette da giacinti d’acqua / viscere di pesce”: gli intensi calori estivi accelerano la putrefazione delle interiora del pesce, e la sgradevolezza dell’odore è contrapposta al profumo dei fiori.

“Stringo forte spighe di grano / a reggermi / nel momento dell’addio”: in questo malinconico saluto agli amici prima della partenza, Bashō chiede aiuto alle spighe di grano, incerto sostegno a cui affidare la sua debolezza fisica.

“Il viaggio interrotto dalla malattia / il sogno che corre libero / per le brulle distese”: alle due del pomeriggio Bashō, improvvisamente destatosi nel suo letto di morte, detta a un allievo il suo ultimo ku.

 

 

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 2 novembre 2020

 

 

RECENSIONI

BASHŌ

BASHŌ, ELOGIO DELLA QUIETE – SE, MILANO 2023

Con un ricchissimo apparato di note e l’accurata ricostruzione biobibliografica della curatrice Lydia Origlia, l’editrice SE ha ristampato il volume Elogio della quiete di Bashō, pubblicato per la prima volta nel 2001. Composto da otto brevi saggi, perlopiù consistenti in note di viaggio, appunti diaristici o riflessioni morali, il libro offre al lettore sia un autoritratto del monaco buddhista, sia delicate immagini della natura – primaverile o notturna, principalmente – e inviti a un’elevazione spirituale mirata a conquistare la serenità dell’anima, l’eliminazione di ogni inutile inquietudine, il superamento dell’inadeguatezza caratteriale.

Bashō nacque nel 1644, figlio di un samurai di campagna, nella città di Ueno, a circa trenta chilometri dall’antica capitale Kyōto. Trentenne, destinato a diventare anch’egli samurai, si trasferì a Edo, l’odierna Tōkyō, iniziando un’esistenza indigente e ascetica, illuminata dalla filosofia Zen e dedicata alla poesia, descrivendo con sensibilità e grazia anche i più umili aspetti della vita quotidiana, la bellezza del paesaggio e le sue peregrinazioni alla ricerca della verità e della pace interiore. Scrive Lydia Origlia: “il poeta si sente alleviato da ogni ansia e desiderio: non teme di venir derubato poiché nulla possiede, ignora la fretta poiché è libero da ogni impegno, procede a piedi, gusta i cibi più semplici, gode dell’incontro con casuali passanti che, se dotati di una qualche sensibilità d’animo, gli paiono come pepite d’oro in uno stagno”. Muore a cinquant’anni di stenti e fatica, ma attorniato dalla stima di discepoli e poeti e dall’affetto di molti amici.

Pur riconoscendo umilmente la fragilità del proprio carattere, il monaco-poeta sapeva che ogni cosa e persona vive in continua trasformazione, può redimersi e innalzarsi al di sopra di qualsiasi miseria morale e fallimento economico: “Quanto a me, non sono né monaco né laico, sono una sorta di pipistrello, fra il topo e l’uccello”, “I miei sogni non sono né di un santo né di un gentiluomo. Per l’intera giornata disperdo il mio spirito nelle fantasie e così accade nei miei sogni notturni”. Lodava il silenzio, la riservatezza e la solitudine, che conducono alla meditazione e alla quiete del cuore: “Non v’è nulla di più attraente di una vita solitaria: ‘La mia tristezza / in solitudine trasforma, / romito uccello”, “Il piacere di un anziano consiste nel vivere sereno, libero dalla schiavitù di profitti e perdite, dimentico della distinzione tra vecchiaia e giovinezza”.

Consapevole dello scarso ruolo sociale rivestito dalla poesia, tuttavia ne amava il richiamo ed era felice di potersene dichiarare suddito fedele, obbediente all’ispirazione dell’arte più che a qualsiasi lusinga del potere: “Le mie poesie sono simili a un fornello in estate e a un ventaglio in inverno. Contrarie al senso comune e prive di utilità alcuna”. E ai suoi versi demandava soprattutto il compito di veicolare la bellezza, nella descrizione degli ambienti naturali, del cielo e della vegetazione, delle acque e degli animali: “Il chiarore della luna, che pareva essersi offuscata, penetra ora da una breccia del muro, s’infiltra tra le fronde, mentre qua e là si odono i rumori dei crepitacoli per gli uccelli e le grida per allontanare i cervi”, “La montagna è quiete e nutre lo spirito, l’acqua è movimento e mitiga le passioni”, “Il lago somiglia a un liuto ed è pervaso dei fruscii dei pini e della melodia delle onde”, “Apro dunque con tristezza la finestra per mitigare almeno un poco la malinconia del viaggio e contemplo il tenue chiarore della luna dopo il crepuscolo, e il Fiume d’Argento in mezzo al cielo e il vivido bagliore delle stelle”. Contento del poco che possedeva, perennemente grato a ciò che osservava intorno a sé, come di un dono immeritato e gratuito, da omaggiare nei suoi ispirati haiku.

 

© Riproduzione riservata      19 maggio 2023

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RECENSIONI

BASSANI

GIORGIO BASSANI, L’AIRONE – FELTRINELLI, MILANO 2013

Nel primo dopoguerra, in un nebbioso dicembre che invade le campagne ferraresi anestetizzandole con la sua penetrante umidità, il proprietario terriero Edgardo Limentani decide di riprendere un’abitudine abbandonata da molti anni, dedicandosi a una solitaria battuta di caccia sulle sponde limacciose del Po. Ma già durante la meticolosa preparazione mattutina viene sopraffatto da un’invincibile stanchezza e ripugnanza per tutto ciò che lo circonda, a cominciare dal suo stesso corpo: “Come era meschino e antipatico anche il suo viso, come era assurdo!”, descritto con implacabile e disgustata severità nelle sue esigenze fisiologiche.
Anche la vicinanza della moglie volgare e avida, la bambina indifferente, la madre senescente e smemorata, i domestici pigri, le trattorie fumose e dozzinali non fanno che aumentare il suo fastidio insopprimibile per la vita: “non c’era più niente che non lo urtasse, non lo ferisse…”. Immerso in un “cupo pozzo di tristezza accidiosa”, qualsiasi cosa gli provoca “il consueto, amaro senso di estraneità, quasi di repulsione”, e la giornata di caccia in cui non riesce a sparare un colpo (mentre osserva la natura, gli uccelli, l’agonia di un airone ucciso con crudele e gratuita noncuranza), diventano metafora della sua banale esistenza: “Come diventava stupida, ridicola, grottesca, la vita, la famosa vita… E come ci si sentiva bene, immediatamente, al solo pensiero di piantarla con tutto quel monotono su e giù di mangiare e defecare, di bere e orinare, di dormire e vegliare, di andare in giro e stare, in cui la vita consisteva!”

La realtà ambigua, l’opportunismo politico di ogni ambiente, i tradimenti coniugali, la cupidigia economica da cui si vede assediato vengono osservati dal protagonista come attraverso una spessa lastra di vetro, che lo difende e insieme lo separa da tutto: e Giorgio Bassani, in questo bellissimo romanzo, L’airone, che gli valse il Campiello nel 1969, accompagna il lettore con essenziale misura verso un finale inevitabile e tragico.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/L-airone-Giorgio-Bassani.html     12 settembre 2016

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BASSANI

GIORGIO BASSANI, UNA LAPIDE IN VIA MAZZINI – FELTRINELLI, MILANO 2017

Il racconto Una lapide in Via Mazzini, pubblicato in e-book da Feltrinelli nel 2017, fa parte del libro Cinque storie ferraresi con cui Giorgio Bassani vinse il Premio Strega nel 1956. Rielaborati in continuazione per decenni, fino a rientrare in una definitiva edizione del 1980 con il titolo Romanzo di Ferrara, i cinque testi sono ambientati nella città natale dell’autore, che ha fatto da sfondo anche al suo capolavoro, Il giardino dei Finzi Contini.

Geo Josz, figlio primogenito di un commerciante in tessuti, torna inaspettatamente e incredibilmente vivo dal campo di concentramento di Buchenwald dove era stato deportato nel 1943, insieme ad altri 182 membri della Comunità israelitica ferrarese. È l’agosto del 1945, la città emiliana ha pagato un grosso tributo di terrore e sofferenza durante gli anni torbidi del fascismo, e vorrebbe ora tornare, dopo la liberazione, a un clima di ritrovata serenità e compostezza. I molti notabili del luogo che si erano compromessi con il regime, si nascondono oppure ostentano indifferenza, pronti a offrire i loro servigi ai nuovi rappresentanti del potere democratico. I militanti comunisti e i partigiani chiedono giustizia promettendo vendetta contro gli ex gerarchi e i loro sostenitori in camicia nera. Quand’ecco che riappare Geo Josz “basso, tarchiato, il capo coperto fin sotto gli orecchi da uno strano berretto di pelliccia. Come era grasso! Sembrava gonfio d’acqua, una specie di annegato”. Si ferma in Via Mazzini, dove un operaio sta attaccando una lapide commemorativa sulla facciata del Tempio Israelitico: e scoppia a ridere beffardamente, leggendo il proprio nome tra quello delle altre 183 vittime dell’olocausto.

L’arrivo inatteso di Geo Josz è accolto con diffidenza e fastidio, quasi fosse un fantasma tornato a turbare i sonni finalmente tranquilli della rispettabile cittadinanza: “Veniva da molto lontano, da assai più lontano di quanto non venisse realmente. Tornato quando nessuno più l’aspettava, che cosa voleva adesso? … A quanto asseriva, aveva fatto parte di quella schiera di centottantatré larve inghiottite da Buchenwald, Auschwitz, Mauhausen, Dachau, eccetera: possibile che lui, solo lui, se ne tornasse adesso di là, e si presentasse bizzarramente vestito, è vero, però ben vivo, a raccontare di sé e degli altri che non erano tornati, né sarebbero, certo, tornati mai più? Dopo tanto tempo, dopo tante sofferenze toccate un po’ a tutti, e senza distinzione di fede politica, di censo, di religione, di razza, costui, proprio ora, che cosa voleva?”

Tra i concittadini del reduce serpeggia incredulità e malevolenza, si ipotizzano suoi imbrogli e sotterfugi per ottenere vantaggi economici o politici in risarcimento delle sofferenze patite. Ma Geo Josz assume una tattica di sfrontata e polemica resistenza, riallacciando i rapporti con due zii rimasti vivi e operosi nel ghetto, e pretendendo con il loro appoggio di tornare in possesso della casa paterna, occupata dai partigiani dell’ANPI durante la guerra, deciso ormai a riavviare l’attività paterna. Tuttavia il suo conflitto interiore, e l’ansia di rivincita nei confronti della società, prendono il sopravvento sulla volontà di pacifica reintegrazione, e trovano un improvviso sfogo in un atto inconsulto e provocatorio. Un pomeriggio, incontrando casualmente in Via Mazzini l’anziano conte Lionello Scocca, che per anni era stato informatore dell’OVRA, lo schiaffeggia violentemente “con due ceffoni secchi, durissimi”, provocando uno scandalo e grave irritazione nelle classi abbienti della città.

Evitato da tutti (per disprezzo, paura o commiserazione), porta in giro la sua “faccia di malaugurio”, e il suo sarcastico sorriso, coprendo l’improvviso brusco dimagrimento sotto abiti sporchi e sdruciti, o intabarrato come il giorno del suo rientro dal lager, quasi per rinfacciare alla comunità le colpevoli collusioni col fascismo e l’antisemitismo. Siede al centrale Caffè della Borsa, concionando su politica e morale, nel disinteresse annoiato dei presenti.

Poi, imprevedibilmente, sparisce, e di lui non si sa più nulla. Sulle ipotesi fatte dai concittadini, Bassani non si sofferma molto. Quello che gli interessa far intendere ai lettori non è tanto la vicenda sconclusionata dell’infelice Geo Josz, quanto la reazione difensiva di un’intera città, timorosa di ripiombare nell’incubo di un passato incancellabile.

 

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5 agosto 2021

 

 

RECENSIONI

BASSI

SHAUL BASSI, PIANETA OFELIA: FARE SHAKESPEARE NELL’ANTROPOCENE

BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2024

 

Una bella occasione per rileggere (e rimeditare) le più importanti opere shakespeariane ci viene offerta dall’interessante volume di Shaul Bassi, docente di Letteratura inglese a Ca’ Foscari: Pianeta Ofelia, che audacemente propone un’interpretazione ambientalistica di sei testi chiave del Bardo: Amleto, Sogno di una notte di mezza estate, La tempesta, Re Lear, Il mercante di Venezia e Otello.

Perché offrire un’ipotesi critica tanto attuale e insolita prendendo in esame capolavori scritti più di quattro secoli fa? Ma perché Shakespeare non solo possedeva un’eccezionale potenza immaginativa, in grado di illuminare passato e futuro, ma sapeva penetrare con particolare acutezza nella psicologia dei suoi personaggi, inserendoli in strutture sociali e ambientali puntualmente analizzate. Aveva inoltre una spiccata sensibilità verso il mondo naturale, con profonde conoscenze della botanica e della zoologia, e una giusta diffidenza verso la capacità umana di comprendere, rispettare e sfruttare positivamente la ricchezza del mondo non-umano: “Ma l’uomo, l’uomo superbo, rivestito di una piccola e breve autorità, del tutto ignaro di ciò di cui più dovrebbe essere sicuro – la sua specchiata essenza – si esibisce come una rabbiosa scimmia in tali trucchetti stravaganti davanti all’alto cielo da far piangere gli angeli; i quali, se avessero la nostra milza, morirebbero dal ridere” (Misura per misura III.1.78-80).

Queste caratteristiche del genio di Stratford ce lo rendono contemporaneo, e incoraggiano un dialogo con le sue opere per ripensare noi stessi e le nostre relazioni col mondo, oggi pericolosamente minacciato sia dagli squilibri climatici sia dalla crisi della cultura antropocentrica. Shakespeare infatti

da un lato affronta esplicitamente problemi ambientali del suo tempo (deforestazione ed eventi meteorologici estremi) che nella nostra epoca si sono esacerbati; dall’altro crea situazioni e personaggi che si prestano a nuove e stimolanti interpretazioni ecologiche.

Bassi non individua il teatro shakespeariano come precursore dell’ambientalismo o profeta della fine dei tempi, ma invita ad approfondire tracce e suggerimenti per ripensare alla radice i comportamenti distruttivi dell’umanità, utilizzando riferimenti critici tratti dall’arte, dal cinema, dalla letteratura di tutti i tempi. Troviamo nelle pagine citazioni di filosofi contemporanei (Cacciari, Cavarero, Agamben, Derrida, Braidotti, Coccia) e antichi (Giordano Bruno); di poeti e scrittori come Leopardi, Primo Levi e Cormac McCarthy; di ecologisti come A. Ghosh, B. Latour, S. Iovino, D. Haraway, J.J. Cohen, O. Laing,

Lasciamoci quindi condurre da questo fil rouge che attraversa epoche e luoghi, per sottrarci alla provocatoria ammonizione di Re Lear: “È la piaga dei tempi quando i pazzi guidano i ciechi” (IV.1.46), cercando di aprire gli occhi sul domani che ci aspetta, anche con l’aiuto della letteratura.

Nella tragedia di Amleto, da secoli simbolo della condizione umana, possiamo riscontrare due concetti contrapposti di ecofobia ed ecofilia: il primo incarnato dal protagonista, ossessionato dall’idea di marciume e putrefazione del mondo naturale (l’aria è “una immonda e pestilenziale congregazione di vapori”, “il sole genera vermi in un cane morto”, “la marcia corruzione, che tutto mina dentro, infetta non veduta”). Risponde in controcanto l’ecofilia di Ofelia, immersa in un paesaggio floreale e in visioni acquatiche, capaci di conciliare cielo terso e terra fertilmente produttiva.

Il rapporto tra natura e cultura balza in primo piano soprattutto nel Sogno di una notte di mezza estate, dove la simbiosi tra umano e non umano crea combinazioni impreviste tra luoghi magici e boscosi, ambienti popolari, specie sovrannaturali e ceti aristocratici, in una continua metamorfosi il cui principale interprete è Puck, folletto che varca e intreccia i domini umano, animale e vegetale. L’elogio della biodiversità implicito in questa commedia suggerisce anch

e una celebrazione del polimorfismo sessuale, che ha offerto l’estro a recenti ambientazioni teatrali basate su nuove versioni queer, e riflessioni sulla coesistenza, interdipendenza, ibridazione degli umani e delle creature più-che-umane, aldilà di ogni rigida schematizzazione.

La tempesta, unica opera di Shakespeare che prende il titolo da un fenomeno atmosferico, è la più carica di significati politici, poiché testimonia un momento di passaggio da un oceano mitologico, divino e ostile, a un oceano reale che spiana la strada ai commerci transatlantici e alla conquista di nuove terre. Ambientata tra il mare minaccioso e sconfinato e la misteriosa segregazione di un’isola, si situa in un orizzonte lontano dallo spazio urbano e civile, evidenziando le potenzialità mai del tutto conosciute e dominabili degli elementi naturali, ben presenti nell’immaginario dell’uomo dell’Antropocene, consapevole degli stravolgimenti climatici provocati dalle attività industriali ed economiche prive di controllo.

Re Lear è l’opera di Shakespeare in cui ricorre con maggior frequenza la parola ‘natura’ con i suoi derivati (34 occorrenze), pur in una molteplicità di significati: carattere, destino, vita, età, paesaggio.

Solo in questa tragedia un personaggio shakespeariano si rivolge direttamente a un elemento atmosferico, in termini di incontenibile furore, quasi augurando una sorte di apocalisse vendicativa: “Soffiate, venti, e spaccatevi le guance! Infuriate! Soffiate! Voi, cateratte e trombe marine, sgorgate finché non avrete infradiciato i nostri campanili e annegato i galli segnavento! Voi fuochi sulfurei e rapidi come il pensiero, avanguardie dei fulmini che spaccano le querce, strinate la mia testa bianca! E tu, tuono che tutto scuoti, spiana la spessa rotondità del mondo, schianta gli stampi della natura, distruggi d’un colpo tutti i semi che fanno l’uomo ingrato”.

La Venezia di Shakespeare si ripete due volte, la prima come commedia e la seconda come tragedia, ne Il mercante di Venezia e in Otello, due opere sensibili a tematiche attuali, in quanto mettono in luce il rapporto necessario che intercorre tra ecologia, spazi urbani e comunità. Il capoluogo veneto è città cosmopolita, esattamente come nel 1600: multirazziale e multiculturale, epicentro mondiale del turismo, del commercio, dei trasporti e delle comunicazioni, ricco di esperienze artistiche ma segnato pure da sentimenti xenofobi e dall’ansia per i mutamenti climatici, che lo vedono spesso protagonista in negativo di inondazioni, inquinamento delle acque, abusivismo edilizio.

Ecco dunque che, seguendo i suggerimenti di Shaul Bassi, anche Shakespeare (“prospettiva e rifugio, monito e speranza, angoscia e consolazione”), può essere letto da noi abitanti dell’Antropocene riattualizzandolo con gli occhi del presente, alla luce delle trasformazioni che ci spaventano, per aiutarci a immaginare un futuro migliore.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 12 ottobre 2024

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BATTAGLIA

FILIPPO MARIA BATTAGLIA, HO TANTI AMICI GAY – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2017

“Non ho niente contro i musulmani, però…”, “Ammiro le donne, ma…”, “Ho molti amici gay, tuttavia…”. Sono le premesse usuali di chi, prima di iniziare un discorso in realtà fobico e discriminatorio, si trincera dietro un paravento di pretesa liberalità, sfoderando poi micidiali armi di attacco contro “i diversi”. Sono altrettanto numerosi coloro che, vantando la propria apertura mentale nei confronti di chi compie scelte di vita appena fuori dall’ordinario, utilizzano il preambolo “Io non ti giudico se…”, ignorando che un secolo di psicanalisi ha sancito che chi giudica ha nei fatti già condannato.

Filippo Maria Battaglia (trentatreenne giornalista d’assalto, attualmente redattore a Sky Tg24) suggerisce in questo suo pamphlet una riflessione approfondita sugli stereotipi in cui ci asserragliamo, in difensiva, quando siamo chiamati a esprimerci riguardo ad argomenti che creano fastidio, imbarazzo o diffidenza. Se recentemente si è venuti a sapere dell’esistenza in Cecenia di lager in cui vengono rinchiusi, torturati e “rieducati” gli omosessuali, e si è gridato mediaticamente allo scandalo invitando alla riprovazione e alla condanna del fenomeno, continuiamo a fingere di ignorare che il nostro cattolicissimo paese discrimina legalmente, socialmente e politicamente i gay, e vanta una delle classi dirigenti più omofobe d’Europa.

Esibendo una puntuale documentazione riportata nel cospicuo apparato di note, che occupa quasi la metà del volume, l’autore elenca una lunghissima serie di censure, persecuzioni, processi e condanne, espressioni offensive, interviste, trasmissioni televisive, articoli giornalistici e dichiarazioni ufficiali che dagli inizi del ‘900 ad oggi hanno preso di mira l’omosessualità, decretandone in concreto il biasimo collettivo, l’ostracismo o, nei migliori dei casi, un silenzioso e farisaico occultamento. Così, se Mussolini poteva affermare che al fascismo non servivano leggi punitive contro “gli invertiti” (detti anche froci, busoni, culattoni, capovolti, finocchi, terzo sesso, pervertiti…), ma sarebbero bastate “le mani e i piedi degli squadristi”, non più teneri ed eleganti furono i politici della ritrovata democrazia del dopoguerra. Battaglia ce li sciorina davanti agli occhi tutti, i nomi venerati dei Padri della Repubblica e dei parlamentari di destra di centro e di sinistra, con le loro affermazioni sessuofobe e sghignazzanti, innalzanti vessilli di conclamato pudore, onore, amor di patria e di famiglia, cattolicesimo integerrimo. Una specie di crociata che nei decenni trascorsi ha preso di mira sia i comportamenti privati di singoli cittadini, sia le opere di artisti, scrittori, registi, poeti di riconosciuta genialità, e che ancora oggi non teme di manifestare platealmente il suo oscurantismo. Accanto a questo verificato florilegio di triviali idiozie, l’autore documenta però anche una crescita della sensibilità e dell’attenzione rispettosa nei riguardi degli orientamenti sessuali dei cittadini, così come è stata incoraggiata dalle iniziative di singoli e di associazioni, di femministe e del clero più illuminato, di intellettuali e di personaggi dello spettacolo: da Pasolini ad Angelo Pezzana, da Testori ai radicali, da Franco Grillini a Niki Vendola, da Paola Concia a Vladimir Luxuria. Un affinamento e una maturazione ideologica collettiva che hanno portato alla recente approvazione del ddl sulle unioni civili proposto dalla senatrice dem Monica Cirinnà, secondo cui le coppie omosessuali potranno essere riconosciute come tali davanti alla legge e alla società, con gli stessi diritti e doveri, obblighi di legge e tutele reciproche delle coppie eterosessuali. Tardi rispetto al resto dell’Europa, ma comunque un’importante rivoluzione sociale e culturale per il nostro paese.

 

© Riproduzione riservata                 

www.sololibri.net/Ho-molti-amici-gay-Battaglia.html;      14 aprile 2017

 

 

 

 

RECENSIONI

BATTIATO

FRANCO BATTIATO, IL SILENZIO E L’ASCOLTO – CASTELVECCHI, ROMA 2014

Queste quattro conversazioni di Franco Battiato sono la trascrizione di altrettanti brevi interventi registrati per il canale satellitare Rai Doc e come tali vengono commentate dalla postfazione di Giuseppe Pollicelli. Il ruolo dell’artista siciliano sembra essere di puro supporto alle parole degli intervistati, uno stimolo discreto al chiarimento di alcuni concetti fondamentali del loro pensiero, ovviamente banalizzato e reso facilmente fruibile in poche righe.
Così all’islamista sufi Gabriele Mandel, Battiato pone domande sul misticismo e sulla reincarnazione: «Non siamo forse noi una goccia di quell’oceano infinito, a cui tendiamo e a cui ritorniamo che è Dio?». Al musicista Claudio Rocchi su dualismo e unità, passato e presente, sesso e castità: «Ciò che è utile in un contenitore è il vuoto, perché un contenitore pieno non può contenere più nulla». Al regista Alejandro Jodorowsky su scienza, rapporto tra maschile e femminile, alchimia, libertà, energia vitale: «Dio o il diavolo sono un’energia a nostra disposizione». Ma è soprattutto con il grande studioso delle religioni e mistico ecumenico Raimon Panikkar che Battiato trova una particolare sintonia di emozioni e riflessioni: «Nella vita quotidiana di noi uomini manca molto la profondità, siamo talmente distratti dai mille gadget della tecnologia… Ebbene, se c’è un compito che spetta alle religioni è quello di andare in profondità! … penso che oggi essere religiosi significhi non essere settari… l’unica vera religione… è quanto ci lega e ci slega dalla realtà».

Tempo ed eternità si compenetrano, non sono uno precedente o successivo all’altro; Panikkar conia a questo proposito il neologismo «tempieternità»: «Cogliere i momenti tempiterni in ogni istante è la chiave della felicità», consapevoli della nostra finitezza ma anche della nostra unicità. Recuperando attenzione e silenzio, capacità di ascolto, meditazione.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Il-silenzio-e-l-ascolto-Franco.html         24 dicembre 2015

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, PERCHE’ NON E’ GIA’ TUTTO SCOMPARSO? – CASTELVECCHI, ROMA 2013

Se Leibniz nella sua Grundfrage si chiedeva «Perché l’ente anziché il niente?», riproponendo uno degli eterni quesiti filosofici, il sociologo francese Jean Baudrillard ha attualizzato con indubbia verve provocatoria quell’antico interrogativo del pensatore tedesco chiedendosi, e chiedendo a noi lettori, se per caso la realtà – e l’umanità con essa – non sia già scomparsa, dissolta, volutamente autoeliminandosi dalla creazione, come in un enorme buco nero. Jean Baudrillard scrisse queste pungenti e amare considerazioni nel 2007, pochi mesi prima di morire, probabilmente riflettendo sulla sua prossima fine e sul destino di incenerimento che attende ogni essere e attività umana.

«La specie umana è l’unica ad aver inventato un modo specifico di scomparire, che non ha niente a che vedere con la legge di natura…» Avendo impresso un’accelerazione aberrante a un’evoluzione che non ha più niente di naturale, e avendo accarezzato presuntuosamente il progetto prometeico della gestione dell’universo, l’umanità si è condannata alla sparizione della sua stessa specie, in un inarrestabile processo di autodistruzione: «come se da qualche parte tale destino fosse stato programmato e noi non fossimo che gli esecutori a lungo termine di questo programma».

Insomma, sembra proprio che il mondo non abbia più bisogno di noi, se è vero – come affermano i biologi – che se il genere umano sparisse dalla terra, con lui sparirebbero solo quattro o cinque specie animali (le zanzare senz’altro…), mentre le altre continuerebbero a sopravvivere, forse anche più felicemente. La realtà si trasforma in virtualità, la coscienza individuale si polverizza, il soggetto si disperde, i valori morali si modificano, i comportamenti si uniformano, le culture si amalgamano e risultano indifferenziate. Stiamo vivendo una rivoluzione antropologica a livello planetario, in cui la rappresentazione del mondo sembra arrivata al suo compimento. Il reale, infatti, è stato inghiottito dalla sua riproduzione tecnica, duplicato sinteticamente in un miraggio artificiale.
E qui la riflessione di Baudrillard propone un’azzeccatissima metafora con la trasformazione subita negli ultimi decenni dall’arte fotografica che, diventando digitale, si è «liberata in un colpo solo del negativo e del mondo reale»». Quando il software prevale sullo sguardo, quando spariscono il differito e il distante, e l’immagine viene riprogrammata tecnicamente, ecco che allora la stessa realtà viene riciclata, e ogni rappresentazione risulta adulterata, falsa, illusoria, seriale.
Se scompare il reale, se l’intelligenza diventa artificiale, e se la singolarità è assorbita e annullata nell’universale, a un filosofo apocalittico come Baudrillard non resta che chiedersi: Perché non è già tutto scomparso?

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/Perche-non-e-gia-tutto-scomparso.html

9 dicembre 2015

 

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, IL COMPLOTTO DELL’ARTE – SE, MILANO 2012

Raccolta di saggi che Jean Baudrillard scrisse negli anni ’90, Il complotto dell’arte ha catalizzato per più di un decennio l’interesse polemico e roventi discussioni tra critici, artisti e appassionati d’arte per il tono irrisorio e requisitorio con cui il sociologo francese metteva alla berlina la produzione pittorica del ventesimo secolo. «Tutto il movimento della pittura ha rinunciato al futuro e si è volto al passato. Citazione, simulazione, riappropriazione…l’arte attuale si limita a riappropriarsi in modo più o meno ludico, o più o meno kitsch, di tutte le forme e le opere del passato, vicino o lontano, o addirittura già contemporaneo».

Gli strali feroci di Baudrillard sono rivolti non solo all’arte figurativa, ma anche al cinema: «un’orgia di mezzi e di sforzi impiegati a squalificare il film con un eccesso di virtuosismo, di effetti speciali, di cliché megalomani…Più ci si avvicina alla definizione assoluta, alla perfezione realistica dell’immagine, più si perde la forza di illusione» Ecco la grande assente dal panorama artistico contemporaneo: l’illusione, e con essa l’incanto, l’immaginazione, il desiderio, l’enigma. Ogni tipo di espressione artistica sembra tesa al “metalinguaggio della banalità”, a parlare e a straparlare di se stessa, snobbando il mondo e la realtà, svelando brutalmente ogni segreto, nell’idolatria dell’apparenza e dell’artificialità. «Oggi, tutte le cose vogliono manifestarsi. Gli oggetti tecnici, industriali, mediatici, gli artefatti di ogni specie vogliono significare, essere visti, essere letti, essere registrati, essere fotografati… Oggetti feticci, senza significato, senza valore, specchio del nostro radicale disincanto del mondo».

Baudrillard osserva che a partire da Duchamp, per arrivare a Warhol e a Koons ci siamo tutti (artisti, critici, pubblico) resi complici di questa derealizzazione dell’arte, diventata oggetto di consumo prestigioso, come qualsiasi altro affare commerciale: «Tutta la duplicità dell’arte contemporanea sta proprio in questo: rivendicare la nullità, l’insignificanza, il nonsenso, mirare alla nullità essendo già nulla. Mirare al nonsenso essendo già insignificante. Aspirare alla superficialità in termini superficiali». A questo punto, l’arte diventa inutile, riciclata, non smuove più niente, se non gli interessi del mercato, finendo per produrre gadget estetici funzionali solo al kitsch universale: e «non sarà stata che una parentesi, una sorta di lusso effimero della specie».

Questo pungente e provocatorio volume si conclude con due interviste all’autore e con un saggio di Sylvère Lotringer.

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/complotto-arte-Baudrillard.html      10 maggio 2016

 

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, L’AGONIA DEL POTERE – MIMESIS, MILANO 2008

 

L’agonia del potere, volumetto pubblicato da Mimesis, propone la trascrizione di due conferenze tenute da Jean Baudrillard (1929-2007) a Madrid nel 2005, in cui il più eclettico e polemico teorico della postmodernità attaccava frontalmente l’idea del potere: fagocitante, egemonico, repressivo, ma destinato all’autoannientamento.
Sia nella prefazione di Jorge Lozano sia nella postfazione di Alberto Abruzzese vengono ribaditi i caratteri più peculiari della riflessione teorica di Baudrillard, che ne hanno fatto un filosofo così fuori dagli schemi: «Pensava da solo (…) Un pensiero parossistico e paradossale”, “Intellettuale eccentrico eppure gran Maestro del Novecento (…) in tutta la sua programmatica contraddittorietà (…) un iconoclasta affascinato dalle immagini».

I due saggi proposti ne L’agonia del potere sono accomunati dalla perentoria e sarcastica condanna dell’ideologia occidentale contemporanea, così come viene espressa dalla cultura, dall’arte e dallo spettacolo, e soprattutto dalle forme seduttive e virulente assunte dal potere. Violenza dell’immagine – violenza contro l’immagine  è il titolo del secondo intervento, in cui il filosofo si scaglia con indignazione non tanto contro la soperchieria tradizionale rappresentata dall’aggressione, dalla forza bruta, dall’oppressione, quanto invece contro la prevaricazione più sottile e subdola del controllo, della dissuasione, della neutralizzazione. Esercitata in primo luogo dall’informazione e dai media, che ci riducono tutti a diventare «dei riciclati, degli zombi», affascinati dalla visibilità totale, dalla trasparenza immediata, dal Grande Fratello internazionale che trasforma la realtà in un reality totalizzante e totalitario, «nell’esibizionismo delirante della nullità», in cui l’osceno diventa addirittura banale, ogni distanza si abolisce, trasformando anche la tragedia della sofferenza in spettacolarità virtuale.

È però soprattutto nel primo saggio, L’agonia del potere  che si esprime al massimo l’allarme profetico di Baudrillard riguardo ai destini della nostra civiltà. E le sue parole assumerebbero un’asprezza polemica quasi apocalittica, se non intervenisse l’usuale ironia, l’acume beffardo con cui l’autore sembra strizzare l’occhio al lettore.
Se esiste, infatti, un ordine egemonico mondiale che illude i popoli con l’utopia di una liberazione totale, di un’autonoma disposizione di sé, della risoluzione di ogni conflitto – materiale o spirituale – questo potere sovranazionale è artefice di una «immensa simulazione, un immenso reality show in cui non siamo altro che vergognose comparse».

Infatti, negli ultimi anni abbiamo assistito alla subordinazione dell’intera realtà all’ordine economico, e, cosa ancora più grave e drammatica «a un asservimento delle menti a un unico modello, a una sola dimensione concettuale» imposta dal capitalismo attraverso il condizionamento generale dei media e della pubblicità. Bisogni, desideri e aspirazioni delle persone (per lo più indotti) vengono falsamente soddisfatti prima ancora del loro proporsi, attraverso una profusione e una tutela condizionata che producono sazietà e saturazione, anticipando le risposte a qualsiasi domanda.
Anche le politiche delle singole nazioni stanno trasformandosi in un «gioco di idoli e di marketing»: ne è una prova il fatto che salgono alla ribalta del potere personaggi che appartengono al mondo dello spettacolo (attori, comici, soubrette) o comunque creati mediaticamente, in una rincorsa sfrenata verso la farsa e la volgarità. Questa «forma carnevalesca e cannibale» di intendere il servizio pubblico ha già prodotto un’effettiva derealizzazione, non avendo più basi economiche e politiche concrete, ed è destinata all’autodistruzione: perché non la salverà nemmeno il maldestro tentativo di imporre alle popolazioni diseredate del terzo mondo il proprio sistema di valori, l’ideale di un welfare incondizionato, eterno ma fittizio. «Quanto più il mondo si globalizza, tanto più la discriminazione si fa feroce (…) All’ordine integrale risponde una rivolta integrale». Che sta terrorizzando l’intera civiltà occidentale, e ne prospetta la disintegrazione.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/agonia-potere-Baudrillard.html       19 maggio 2016