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RECENSIONI

TAMMUZ

BENJAMIN TAMMUZ, IL FRUTTETO – E/O, ROMA 2014

Benjamin Tammuz (1919-1989), nato in Russia da famiglia ebrea trasferitasi nel 1924 in Palestina, laureato in legge e scienze economiche all’università di Tel Aviv e, più tardi, in storia dell’arte alla Sorbona di Parigi, è stato a lungo redattore della pagina letteraria del quotidiano israeliano “Ha’aretz” e per quattro anni attaché culturale dell’ambasciata di Israele a Londra. Autore prolifico di narrativa anche per l’infanzia, ha ricevuto diversi riconoscimenti letterari internazionali. In Italia sono stati pubblicati dalle edizioni E/O Il minotauro (giustamente celebrato a livello mondiale), Il re dormiva quattro volte al giorno, Londra, Requiem per Naaman, e Il frutteto, edito in patria nel 1972 e tradotto da noi nel 1995, con successive ristampe.

Quest’ultimo romanzo, accolto dalle critiche positive di Domenico Starnone ed Erri De Luca per la sua capacità di narrare decenni di convivenza e di massacri nel Medio Oriente, esibendo rispetto per vinti e vincitori alla ricerca delle ragioni di entrambi, è una parabola sulla rivalità sentimentale ed economica che può scavare baratri sanguinosi tra consanguinei, trasformando l’odio familiare in feroci contrasti ideologici.

Ovadia e Daniel sono due fratellastri, nati dallo stesso padre, facoltoso possidente terriero ebreo, vissuto tra l’Oriente arabo e la Russia, e da due madri diverse: una plebea turca, brutalmente liquidata dopo la nascita del primo figlio illegittimo, e un’aristocratica ebrea russa, condotta orgogliosamente all’altare e poi ossequiata in una lussuosa residenza insieme al secondogenito. Ovadia, da subito ostile sia al padre sia alla matrigna e al fratello minore, si allontana dalla casa paterna trasferendosi in Palestina, ostentando la sua origine araba con il nome di Abdallah, e trovando lavoro come capo giardiniere in un frutteto di proprietà della famiglia di Mehmet Effendi.

“Era un agrumeto sterminato, di aranci e limoni; c’erano persino dei cedri. In mezzo, e ai lati, erano piantate alcune file di fichi e melograni”. Fitto, intricato, invaso alla base da vegetazione secca e pungente, Ovadia si intestardisce a coltivarlo, preservandolo dall’invasione di cavallette che danneggia i possedimenti circostanti, spinto soprattutto dalla passione sensuale che lo lega alla figlia sordomuta dei proprietari, Luna.

Gli anni sono quelli della prima guerra mondiale, critici per l’esportazione dei prodotti agricoli in Europa e per la temuta invasione delle truppe inglesi in Medio Oriente. Quando, a causa dell’improvvisa malattia invalidante di Mehmet Effendi, il frutteto deve essere venduto, arriva via mare al porto di Giaffa il fratellastro Daniel, giovane ventenne “dall’espressione chiara, onesta e determinata, l’espressione di uno che non ha niente da nascondere”, divenuto ricchissimo dopo la morte di entrambi i genitori. Educato nel culto di Israele e della lingua ebraica, il sogno che lo anima è non solo quello di insediarsi nella terra dei suoi avi, ma soprattutto di trovare l’anima gemella, di cui fantastica dall’adolescenza. Avvicinato dall’agronomo-sensale (voce narrante del romanzo) cui è affidata la vendita del frutteto, accoglie con entusiasmo l’idea di acquistarlo, pronto a firmare il contratto davanti al proprietario ormai moribondo. L’incontro con Luna, apparizione incantevole nella sua misteriosa seduzione, si rivela oltremodo sconvolgente per Daniel, che subito si candida ad acquirente della piantagione e della casa, chiedendo in moglie la giovane donna. L’incontro, inaspettato e disorientante, con il fratellastro Ovadia, con cui i rapporti si erano interrotti molti anni prima, segna una cesura nella narrazione fino a questo punto solenne e pacata, e l’andamento del romanzo assume un ritmo più concitato e ansiogeno. Nelle vene di Ovadia scorre sangue arabo, in quelle di Daniel sangue ebreo: in loro due religioni e due culture millenarie si confrontano, scontrandosi fino all’annullamento reciproco. E se il pretesto è sempre esterno (il matrimonio di Daniel con Luna, la nascita di un figlio, la relazione clandestina di Ovadia con la cognata, la resa produttiva del frutteto, i continui pogrom antiebraici, lo scoppio della seconda guerra mondiale), in realtà le motivazioni profonde della loro ineliminabile inimicizia rimangono più radicate e crudeli.

 

© Riproduzione riservata         «SoloLibri», 17 novembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TANIZAKI

JUN’ICHIRΟ TANIZAKI, LA CROCE BUDDISTA – GUANDA, PARMA 2015

Di Jun’ichiro Tanizaki (1886-1965), uno dei massimi narratori della narrativa giapponese del secolo scorso, leggiamo questo romanzo del 1931 edito da Guanda nell’elegante collana de Le Bussole: e lo leggiamo con qualche aspettativa e curiosità, in quanto viene presentato in copertina come un «classico della letteratura erotica». In realtà, di eros se ne trova poco, nelle 250 paginette del volume, e invece di noia, mescolata a un leggero senso di fastidio, tanta. Protagonista del racconto è Sonoko, giovane e non troppo avvenente moglie di un uggioso avvocato di Tokyo: Sonoko narra in prima persona a un misterioso e silenzioso Maestro (una guida spirituale? un saggio o un monaco buddista? una sorta di psicanalista estraneo alla cultura occidentale?) della sua complicata vicenda esistenziale, da cui arguiamo soprattutto di trovarci di fronte a una signora benestante e insoddisfatta, viziata e superficiale, in spasmodica ricerca di emozioni e situazioni che la liberino dal suo torpore quotidiano. Sonoko ha già tradito il marito, che non sembra particolarmente turbato dall’incostanza della moglie: ma nella vicenda qui narrata viene sconvolta dalla turbinosa passione per una splendida ragazza, Mitsuko, con cui intreccia una relazione frenetica ed eccitante. Si badi bene che Tanizaki non racconta in nessun modo particolari o atteggiamenti relativi alla sessualità, non c’è nessuna prurigine pornografica, nessuna morbosità descrittiva. Solo accompagna il lettore attraverso una serie di situazioni labirintiche, e in fondo anche comiche, in cui le due ragazze si trovano invischiate rispetto alle loro pudiche famiglie, ai domestici e ai relativi partner di sesso opposto. Ne deriva una carambola di incontri, bugie, sotterfugi, ricatti, promesse, fughe e ritrovamenti, gravidanze supposte o reali, aborti minacciati o concretizzati, promesse siglate col sangue, in cui tutti i protagonisti appaiono insieme persecutori e vittime. Mitsuko è affascinante e crudele, irretisce con la sua conturbante personalità e bellezza chiunque incontri: la futile amante, il bolso e paziente marito di lei, un fidanzato impotente e ossessivo, la cameriera e i genitori. Sonoko quasi impazzisce per amore, travolta da una passione irresistibile: «Se per caso avessi finito per incontrarla per strada… se fosse capitato non le avrei detto niente, ma chissà poi come mi sarei comportata se per caso i nostri sguardi si fossero incrociati! Sarei impallidita e, tutta tremante, non avrei potuto muovere un passo, sarei forse svenuta sulla soglia».

Mitsuko agisce con crudele sadismo, certa del suo irresistibile fascino a cui nessuno riesce a sottrarsi: «Lei si credeva la donna più bella del mondo, era superba e si sentiva triste se non c’era qualcuno a adorarla». Questa sicurezza di facciata si rivela tuttavia scalfibile proprio nei suoi comportamenti frenetici e irrazionali, nei suoi progetti convulsi di fuga o di matrimonio, nelle sue oscillazioni sessuali; Tanizaki sottolinea con maestria la superficialità del personaggio attraverso una narrazione altrettanto superficiale, priva di scavo psicologico, intessuta di dialoghi brevi e insulsi, fino ad arrivare alla paradossale conclusione, in cui da un triplice suicidio annunciato si salva solamente Sonoko, narratrice carnefice e vittima sacrificale, probabilmente la più forte di tutti.

 

© Riproduzione riservata  

http://www.sololibri.net/La-croce-buddista-Tanizaki.html#forum5187       14 settembre 2015

RECENSIONI

TANIZAKI

JUNICHIRO TANIZAKI, LA GATTA – BOMPIANI, MILANO 2018

Junichiro Tanizaki (1886-1965) pubblicò questo lungo e giustamente celebrato racconto nel 1936. Tutto compreso all’interno di una casa e di stretti rapporti familiari, è giocato sulle sottili seduzioni e vendette psicologiche che si scatenano tra i quattro protagonisti umani (il pingue e mellifluo Shōzō, proprietario trentenne di un negozio di casalinghi; sua madre O-Rin, che ancora lo domina e sorveglia; la prima moglie Shinako, rancorosa per essere stata ripudiata e sostituita; la nuova moglie Fukuko, volubile e isterica) e il personaggio principe: la splendida e viziatissima gatta Lily. Shōzō la adora, la coccola, si lascia graffiare e tormentare in ogni modo, le permette di dormire nel suo letto, si toglie dalla bocca i pesciolini cucinati dalla mogliettina per regalarli alla micia. Non sopporta l’idea di separarsi da lei, che invece è quanto gli chiedono, con motivazioni diverse, tutt’e tre le donne della sua vita.

La madre O-Rin utilizza Lily come arma per attaccare le due nuore o per rimproverare al figlio i suoi molti difetti, la prima moglie Shinako dopo il divorzio ne reclama il possesso sperando così che l’ex-marito le si riavvicini per amore dell’animale, Fukuko la odia perché non ne sopporta gli odori, i peli, il vomito, e soprattutto è furiosa per l’interesse e le attenzioni che il suo sposo le dedica. Ma Shōzō, che l’aveva accolta in casa ventenne e dopo dieci anni ne rimane più innamorato che mai, non tollera l’ipotesi di allontanarla da sé, e le permette qualsiasi capriccio, incoraggiandola con eccessive e morbose abitudini confidenziali. Quando Shinako riesce ad avere in custodia la gatta, sottraendola al marito, nasce una specie di guerra tra i due ex-coniugi, fatta di gelosie, appostamenti e dispetti reciproci, quasi si trattasse di contendersi un figlio

Il grande merito di Tanizaki in questo racconto risiede nella sua straordinaria capacità di scrutare e portare alla luce i grovigli e le contraddizioni della psiche dei protagonisti, e ancora di più nel tratteggiare con affettuosa complicità i comportamenti della gatta, sia nell’istinto naturale che la anima, sia negli atteggiamenti quasi umani assunti nel corso della narrazione. Ad esempio, la pagina in cui viene narrato il primo parto di Lily, la sua paura della sofferenza, le mute richieste di aiuto al padrone, meriterebbe di essere inserita in un manuale di etologia felina. Così come la descrizione delle moine ruffianesche con cui la micia tenta di sedurre le persone per ricavarne qualche profitto, in termini di cibo o di carezze. L’attenzione e la cura con cui l’autore descrive sia la fisicità sia la psicologia di Lily, rivela non solo la sua profonda conoscenza e il suo amore personale per i gatti, ma anche la considerazione in cui la cultura giapponese ha tradizionalmente tenuto questi animali, per la loro particolare intelligenza e misteriosa sensibilità.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/La-gatta-Tanizaki.html             25 marzo 2019

 

RECENSIONI

TARCHETTI

IGINIO UGO TARCHETTI, STORIA DI UNA GAMBA E ALTRI RACCONTI FANTASTICI

ERETICA, BUCCINO (SA) 2022

 

Tra gli esponenti più radicali della Scapigliatura milanese, si deve senz’altro annoverare Iginio Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato 1839-Milano 1869) che, sia negli scritti teorici, sia nelle poesie e nelle opere narrative, seppe interpretare le istanze più radicali di questo movimento letterario, attivo per un ventennio nella seconda metà dell’800. In primo luogo per il gusto della ribellione antiborghese e della dissacrazione delle convenzioni morali e sociali dell’epoca, secondariamente per l’interesse a indagare gli aspetti crudi e patologici dei comportamenti umani, con una predilezione quasi ossessiva verso il macabro e la malattia. Suo capolavoro fu il romanzo Fosca pubblicato nel 1869, e ancora oggi ristampato e analizzato criticamente soprattutto per la penetrante rappresentazione della personalità della protagonista, donna colta e intelligente che riesce ad affascinare e turbare la psiche del coprotagonista maschile nonostante – o proprio a causa – del suo infelice aspetto fisico, al limite dell’anormalità.

Anche i racconti di Tarchetti, nella recente edizione proposta da Eretica, risentono dello stesso clima aderente all’ideale estetico della decadenza, scisso tra morbosità e grottesco, iperrealismo e illusione fantastica, che in quegli anni ebbe tra i massimi rappresentanti E.T.A. Hoffmann, Heinrich Heine, Charles Baudelaire, Mary Shelley ed Edgar Allan Poe.

Dei sei racconti presentati in questo volume, i più famosi sono il primo e l’ultimo, Storia di una gamba e La lettera U, entrambi incentrati su una fissazione maniacale del personaggio principale. Nel primo caso, il ventiquattrenne Eugenio, amputato della gamba sinistra (forse pretestuosamente) da un amico chirurgo cui era legato da un complicato rapporto di rivalità amorosa per la stessa donna, mantiene con l’arto asportato un legame angoscioso: non solo perché continua a viverlo attraverso assillanti sensazioni psicofisiche, ma anche perché non riesce a staccarsene nemmeno materialmente, e lo conserva in una teca con devozione abnorme. Sofferente di “ipocondria inguaribile” e di tetra malinconia, il giovane si sente parimenti vivo e morto, tormentandosi nell’osservazione ansiosa della parte vitale del suo corpo e di quella scheletrita. “Quella gamba? Io mi sento attratto continuamente, incessantemente verso di lei; è impossibile che io possa sottrarmi un istante a quella attrazione. Di giorno la vedo, di notte la sogno. E spesso anche la notte devo balzare dal letto, accendere la mia lampada, guardarla e ricoricarmi più tristo e più atterrito di prima”. Quando gli viene proposto di liberarsi dal suo incubo e di sotterrare “la reliquia”, preferisce lasciarsi morire.

Se in questa novella perturbante è la corporeità offesa e ferita ad avere il predominio nella psiche del protagonista, ne La lettera U è invece la follia psicotica, ammessa fieramente dall’io narrante già nel sottotitolo (manoscritto di un pazzo), ad annidarsi tra le righe del narrato, coinvolgendo nelle sue spire ipnotiche lo stesso lettore. Perseguitato dalla visione nefasta della vocale U, cui attribuisce la negatività che pervade l’intera umanità, già dall’infanzia combatte una sua personale e sanguinosa battaglia per cancellarla dall’alfabeto: “Ho io scritto questa lettera terribile, questa vocale spaventosa? L’ho io delineata esattamente? L’ho io tracciata in tutta la sua esattezza tremenda, co’ suoi profili fatali, colle sue due punte detestate, colla sua curva abborrita? Ho io ben vergata questa lettera, il cui suono mi fa rabbrividire, la cui vista mi riempie di terrore? Sì, io l’ho scritta… Quella linea che si curva e s’inforca – quelle delle due punte che vi guardano immobili, che si guardano immobili – quelle delle due lineette che ne troncano inesorabilmente, terribilmente le cime – quell’arco inferiore, sul quale la lettera oscilla e si dondola sogghignando – e nell’interno quel nero, quel vuoto, quell’orribile vuoto che si affaccia dall’apertura delle due aste, e si ricongiunge e si perde nell’infinità dello spazio… Sentite ora l’U. Pronunciatelo. Traetelo fuori dai precordii più profondi, ma pronunciatelo bene: U! uh!! uhh!!! uhhh!!!! Non rabbrividite? non tremate a questo suono? Non vi sentite il ruggito della fiera, il lamento che emette il dolore, tutte le voci della natura soffrente e agitata? Non comprendete che vi è qualche cosa d’infernale, di profondo, di tenebroso in quel suono? Dio! che lettera terribile! che vocale spaventosa!!”. L’infelice si allontana dalla scuola, dai luoghi di lavoro, da tutte le donne di cui si innamora non appena scopre la mefistofelica traccia di una U nei loro nomi (Giulia, Ulrica, Susanna, Lucia…), e solamente il ricovero e il successivo decesso in manicomio lo liberano dalla sua angustia.

Anche gli altri quattro racconti presenti nel volume (Le leggende del castello nero, Un osso di morto, Uno spirito in un lampone, I fatali), calibrati con intelligenza tra atmosfere metafisiche e realistiche, sarcasmo e comicità, evidenziano la compenetrazione esistente nell’individuo e nella società di vita concreta e apparenza, salute e malattia, partecipazione e marginalità. Nell’approfondita postfazione di Daniele

Palmieri (che introducendo il libro offre una visione d’insieme della Scapigliatura milanese), Iginio Ugo Tarchetti viene definito un anticipatore delle angosce novecentesche espresse da Sartre, Camus e Cioran: “la perdita di senso, la morte dell’anima che rende l’uomo un involucro vuoto schiacciato tra due dimensioni, quella della vita quella della morte”. L’assurdo inspiegabile, insomma, che attanaglia le menti degli esseri umani, con interrogativi privi di risposta.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 6 agosto 2023

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TAROZZI

BIANCA TAROZZI, TRE PER DIECI – CICERO, VENEZIA 2013

Bianca Tarozzi, stimata traduttrice dall’inglese e per anni docente universitaria di letteratura anglo-americana, si è occupata egregiamente di critica letteraria e di poesia, pubblicando numerose raccolte di versi. In questo volume, il titolo allude alla scansione delle trenta liriche in dieci sezioni, ciascuna delle quali contiene tre composizioni accomunate dallo stesso tema. Il fil rouge che attraversa il libro è quello della memoria, di un intenerito omaggio al proprio passato, rivisitato nei suoi aspetti più pregnanti, commossi, e graffiati nel cuore. Quindi i giochi infantili, in brigate rissose e vivaci, in una natura campestre ancora amica e complice; i primi amori e i progetti sul futuro; gli incubi e le paure irrazionali; le letture e il mondo fantastico delle biblioteche; i ritratti di amicizie femminili; la sostanziale estraneità all’esibito pragmatismo sociale; il ricordo dell’arte magica del ricamo, perduto irrimediabilmente nell’attuale e disanimata produzione industriale: «Il vestito col punto a nido d’ape / si metteva soltanto la domenica, / nelle grandi occasioni, / alle feste e alle prime comunioni.//… Le sarte specialiste ora purtroppo / han cambiato mestiere. Anche le api / vanno vagando in luoghi ove si è rotto / l’equilibrio ecologico, a zig zag, // non più dolci ma amare, / perso l’orientamento e l’alveare».

Il rimpianto per il tempo trascorso, per il mondo d’antan, non riguarda tuttavia solamente la realtà esterna: è soprattutto disillusione e rincrescimento rispetto alle scelte non fatte, alle occasioni sprecate, alle ambizioni rinnegate: «l’angoscia sempre torna / per ogni cosa persa, trafugata, / scomparsa in qualche sacca della vita, / di cui devo rispondere… //…quando mi chiederanno i miei talenti / io piangendo dovrò dissotterrarli?»; «La mente / l’ha tradita, volava intorno al niente»; «Dopo aver evitato quasi sempre / con cura di scontrarsi con la vita / (bastava in fondo restarsene di lato/ guardare senza essere guardati)…»; «Il mondo mi tirava dalla sua, / l’arte dall’altra parte. / Incerta, mi affidavo / a sintassi e grammatiche / prescrittive, automatiche, / a statistiche regole».

Il passato, allora, è rifugio e consolazione («Impensabile / impossibile / invisibile / passato»), e Bianca Tarozzi lo offre ai lettori con la dolcezza di tonalità sfumate, spesso cantilenanti nell’assiduità delle rime baciate, di una metrica tradizionale, di echi letterari primonovecenteschi (Gozzano, soprattutto), sullo sfondo suggestivo di una sua Venezia magica.

 

«Leggere Donna» n.163, luglio 2014

RECENSIONI

TARTAGLIA

FERDINANDO TARTAGLIA, ERETICO “VITANDO”

Ferdinando Tartaglia (Parma, 1916-Firenze 1988), prete, teologo, saggista e poeta, è stato uno dei più singolari protagonisti del pensiero religioso contemporaneo. Ordinato sacerdote nel 1939, studioso e traduttore di testi spirituali e mistici, fondò nel 1942 una comunità religiosa, presto sciolta dalle autorità ecclesiastiche perché ritenuta troppo critica nei riguardi della Chiesa; collaborò quindi a Firenze con Aldo Capitini nei Centri di orientamento sociale.

Nel 1944 gli venne proibita la celebrazione della messa, nel 1945 gli fu interdetto l’abito ecclesiastico e nel 1946 venne colpito dalla scomunica di terzo grado (la più grave in ambito cattolico, che lo definiva come vitando, da evitare fisicamente, espellendolo in pratica dalla collettività dei credenti) per aver commemorato lo scomunicato ex-prete Ernesto Bonaiuti. Così si difese in quell’occasione: “Se Buonaiuti fu prete e credette nella missione e nel destino della Chiesa, anch’io. Se Buonaiuti cercò di trasmettere alla Chiesa la volontà del mutamento e aprire uno spiraglio in quell’abside morta, anch’io. Se Buonaiuti, deluso dalla mancata risposta della Chiesa, tentò d’incrinare la grande cupola cattolica, anch’io. Se Buonaiuti fu respinto, allontanato dalla comunità dei fratelli, anch’io, presto!”.

Le accuse che gli erano valse la scomunica (revocatagli solo nel 1987, un anno prima della morte) erano state la disobbedienza, la diffusione di dottrine false, l’eresia e il tentativo di sovvertire i fondamenti della religione. Nei quarant’anni di esilio dal cattolicesimo, Tartaglia scrisse un’enorme mole di saggi, aforismi, articoli e più di settemila poesie, in cui esponeva, con toni profeticamente roventi, la necessità di una trasformazione radicale del cristianesimo, libero da divisioni e barriere confessionali, e in grado di rinnovare lo spirito dell’umanità infiacchito spiritualmente.

Dai primi anni duemila, l’editore Adelphi si è assunto l’incarico di ristampare alcune opere di questo sacerdote visionario e rivoluzionario, poeta “pazzo di Dio”, polemista coraggioso e profondo conoscitore delle Scritture, e alcuni studiosi (Giulio Cattaneo, Sergio Quinzio, Adriano Marchetti, Marco Marchi, Roberto Saviano) hanno rivalutato e commentato i suoi scritti, vagliando l’enorme quantità di inediti lasciati in eredità alla moglie Germaine Muhlethaler, e da lei catalogati. Lo stile di scrittura di Tartaglia, appassionato e caustico, utilizza metafore abbaglianti, una sintassi contorta, un lessico volutamente straniante e obsoleto, inteso a stupire e magari irritare il lettore con il suo eccentrico sperimentalismo, risvegliandolo dal tradizionale e snervato classicismo della prosa novecentesca.

In Tesi per la fine del problema di Dio l’intenzione teologica più evidente risiede nella volontà di svincolare Dio da qualsiasi limitante attributo, compreso quello di creatore, proclamandone invece l’assoluta libertà dall’essere e dal non essere; un Dio capace di oltrepassarsi, superando se stesso nella verità del “puro dopo”, “posttrascendenza e postimmanenza”; da Dio necessitante a Dio liberante, “Dio nuovo, strutturato secondo pura antimemoria e puro futuro”, tramutato e tramutante. Concetti ostici e dirompenti, espressi in un linguaggio altrettanto difficile e impetuoso.

Ne La religione del cuore quattro brevi saggi delineano con ardore dissacratorio alcune figure fondamentali del pensiero spirituale dell’Occidente. Di Blaise Pascal e delle sue Provinciali, Tartaglia afferma: “Io non trovo il mio Dio in Pascal”, accusando il filosofo francese di scarsa carità, rigorismo farisaico, tiepidezza ideologica ed eccesso di ironia. Molto più accese sono poi le sue accuse contro l’Ordine dei Gesuiti, “né liberi né redenti… menti inchiavardate… gregari ciechi e obbedienti … Il Vangelo è libertà voi siete asservimento, il Vangelo è servizio voi siete impadronimento, il Vangelo è amore voi siete prudenza e tenace non-perdonanza, il Vangelo è superiore impotenza voi siete conato alla violenza, il Vangelo è miracolo voi siete assenza”. Altri tre interventi del volume meritoriamente riproposto da Adelphi nel 2008 sono dedicati a Malebranche, Newman e Gabriel Marcel. Riguardo a quest’ultimo, esponente dell’esistenzialismo cattolico francese tra le due guerre, Tartaglia pronuncia un severo e acuto giudizio di disapprovazione filosofica, accusandolo di un “esangue teologizzare impressionistico” e di una “segreta concessione al decadentismo” che lo avvicina pericolosamente a un irrazionalismo intuizionista “conservatore, a servizio dell’ordine costituito”.

Ma è nella lingua delle sue poesie, dura, irriguardosa, eccitata, violenta, modellata sui toscani del Duecento, che più si esprime l’azzardo radicale e infuocato del prete “vitando”. In un ritmo rapido, con irriverenza e sarcasmo antidevozionali, esibisce una verticalità di pensiero esclusivo ed eccentrico. Recupera gli abbandoni estatici della mistica medievale declamando ossessivamente le argomentazioni teologiche che lo hanno condannato non solo all’esclusione dalla Chiesa, ma anche a un esilio culturale non ancora superato:

“Quando io dico ‘Oltre Dio’ / quando io grido ‘Dopo Dio’ / come vorrei essere capito / come vorrei essere capito. / Ma non ò le parole. / Non sarò capito”, “E quante cose avrei ancora da dire / prima di andare a la casa dei morti. / Mi chiudono bocca le sature sorti. / Tacere. Tacere. E soffrire”, “La rosa / così inutile è cosa che spaventa. / Anche la poesia: come la rosa”, “Vèstiti di nero / vèstiti a gramaglia Tartaglia. / Finché ci sarà una vita un uomo una pianta / un verme un animale che soffre in terra / un dio che soffre in cielo / come potrai vestirti tu di bianco / tu al banco di pianto tu Tartaglia?”, “Dopo il processo di Socrate / di Gesù / di Giovanna d’Arco: / Non vi vergognate ancora d’esser giudici?”, “Io non sono demiurgo. / Io non sono teurgo. / Io non sono ungitore di passato. / Io sono ungitore di futuro. / Io sono futurgo”, “Le cose morte durano in eterno / le cose vive subito muoiono serve”, “Io vivo ne le sagrestie. / Qui tutto è nientità / Tutto è mistero”, “Satana scese in terra e da mansarda / di parigi inventò cinema e affini. / A l’uomo disse: non pensare, guarda! / così in pugno vi avrò tutti: cretini”, “Quando sono dolore, io sono Dio. / Dio non è altro che dolore, Dio. / Quanto più Dio e tanto più dolore / e il dolor di dolore è Dio di Dio”, “Se voglio bene al ragno / devo lasciargli mangiare la mosca. / Se voglio bene alla mosca / non devo lasciarla mangiare dal ragno. / Com’è difficile o sultano! / tu provvidente signore / com’è impossibile amare tutti / in questa cosca d’orrore”.

Di quest’uomo dal “nome di re e dal cognome di buffone” e del suo “intelligentissimo delirio poetico e filosofico” Roberto Saviano ha scritto: “Il sogno di Tartaglia di liberare l’essere umano dal vincolo del progetto, dalla traccia, della tradizione e dal dogma sembra raccogliere in sé un lungo percorso attraversato dalle orme dei ribelli trecenteschi, dagli eretici del cinquecento, dai catari, dai filosofi arsi vivi, un percorso che innesca la sua voce attraverso Rilke, i passi di Cervantes e le parole di Errico Malatesta…  Ferdinando Tartaglia l’eretico, l’agitatore, il chierico studioso, l’eremita sessuofobo, il ripudiato, il riconciliato, l’anarchico, il politico rinnovatore, il poeta sublime, l’inetto freddoloso, il satiro fastidioso, il militante romantico. Tartaglia è impensabile poterlo rubricare. Potrebbe legittimamente essere fregiato d’ogni titolo e sfregiato d’ogni insulto”.


Di Ferdinando Tartaglia
: Tre ballate, Book Editore 2000; Tesi per la fine del problema di Dio, Adelphi 2002; Poesie. Esercizi di verbo, Adelphi 2004; La religione del cuore, Adelphi 2008.

Su Ferdinando Tartaglia: Giulio Cattaneo, L’uomo della novità, Adelphi; AAVV, L’eretico Ferdinando Tartaglia, Polistampa, Firenze 2011.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 22 dicembre 2021

 

RECENSIONI

TASIC

VADIMIR TASIĆ, IL MURO DI VETRO – ENSEMBLE, ROMA 2017

“Il ragazzo ha iniziato a parlare tardi. È timido, cauto; sa aspettare”. Con queste parole inizia l’unico romanzo di Vladimir Tasić pubblicato in Italia, Il muro di vetro, che vede come protagonista un undicenne, sulla cui lentezza, pazienza, malinconica riflessività l’autore insiste continuamente: a ribadire un evidente rifiuto o incapacità di crescere dell’adolescente, il suo proponimento di evitare un pericolo incombente, una nuova sofferenza (“Lui è un acrobata che si muove sopra il precipizio”).
Quale precipizio tenta di dribblare il giovane protagonista? Il disfacimento del suo nucleo familiare, ovviamente. Padre e madre del ragazzo si sono separati, non condividono più nessuna abitudine, nessuna parola. Lui è un matematico che ha abbandonato la carriera accademica per dedicarsi a lavori più remunerativi: videogiochi, programmi. Lei, telefonista per una catena alberghiera, fatica a pagare l’affitto del modesto appartamento che condivide col figlio: delusa, rancorosa, conduce un’esistenza rassegnata e solitaria, priva di distrazioni e consolazioni, senza progetti di riscatto futuro. Tra marito e moglie l’unico rapporto rimane “la solita cerimonia della consegna” del ragazzo, un weekend ogni due settimane e quattordici giorni di ferie l’anno, al deludente papà.
Vladimir Tasić (1965) è un saggista e narratore serbo che dal 1988 vive in Canada, dove insegna matematica all’Università di New Brunswick. Finora ha pubblicato varie raccolte di racconti, tre romanzi e numerosi saggi: è stato tradotto e premiato in diversi paesi. Pubblicato dalle edizioni romane di Ensemble, Il muro di vetro fa di una difficile e dolorosa vicenda familiare l’allegoria di una problematica situazione socio-politica, letta attraverso lo sguardo maturo-immaturo di un bambino, che poco capisce o vuole capire delle tragedie che si consumano intorno a lui.
Una delle quali è il rapporto con il paese d’origine dei genitori, quella Serbia di cui rifiuta anche lingua e usanze (“Il cibo è unto e la gente cerca di sopraffarsi urlando; fumano tutto il giorno”): un paese che sopravvive come un incubo nelle memorie e nei reticenti ricordi dei due sposi, emigrati dopo gli studi dal vecchio mondo slavo a un mondo nuovo, ricco, ipertecnologico, ma affettivamente gelido.
Il punto di vista del ragazzo viene, nel proseguo della narrazione, gradualmente sostituito da quello dell’autore, nella descrizione accorata e presumibilmente autobiografica delle vicende della coppia: dagli studi universitari a Belgrado, al fidanzamento e al matrimonio, agli attriti con le rispettive famiglie e alla crescente insofferenza per l’ambiente culturale circostante. Fino alla decisione di trasferirsi a Toronto per approfondire gli studi matematici del marito, al progressivo incrinarsi del rapporto coniugale, acuito forse dalla nascita del figlio: incomprensioni, litigi, violenze, ricatti, separazione. La crisi familiare si riflette nel rapporto con il paese ospitante, lo strisciante razzismo subito, i legami con l’emigrazione slava, il fastidio per le abitudini sociali, alimentari, culturali canadesi. Infine, la deriva, l’abbrutimento del padre, che cerca rifugio nell’alcol e nella pornografia; il costante rimpianto della madre per il proprio paese. Sullo sfondo, la guerra in Bosnia vissuta con il senso di colpa del transfuga scampato allo sfacelo, il gioco sordido dei servizi segreti, il terrorismo e le esecuzioni sommarie, il sospetto che si insinua nei rapporti amicali e professionali. L’irruzione della Storia internazionale nella cronaca minuta di un disagio familiare, rende ancora più drammatica il confronto tra il dolore privato e quello pubblico, nell’eterno gioco al massacro tra vittime e carnefici. Il muro di vetro suggerito dal titolo è quello che separa i tre protagonisti dal resto del mondo, imprigionandoli in un bossolo di egoismo e sofferenza, paura e nostalgia, ma restituendoli visibili a se stessi e agli altri nella descrizione implacabile di una scrittura sintetica e asciutta.

 

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https://www.sololibri.net/Il-muro-di-vetro-Tasic.html       30 luglio 2018

 

RECENSIONI

TASSINARI

SIMONETTA TASSINARI, LA SORELLA DI SCHOPENHAUER ERA UNA ESCORT

CORBACCIO, MILANO 2016

Simonetta Tassinari (autrice di romanzi e saggistica per Giunti, Einaudi e Corbaccio) insegna storia e filosofia in un liceo di Campobasso. Ama la sua professione e i suoi alunni, e di scuola e studenti parla con ovvia cognizione di causa, con appassionata dedizione, con intelligente ironia e con il dovuto (talvolta risentito) spirito critico: “Sono una di quelle persone che, dalla scuola, non se ne sono mai andate. Il mio ritmo vitale è scandito dalla campanella della prima, della seconda, della terza ora, e ho interiorizzato la ricreazione fino al punto di avvertire il bisogno di un caffè anche di domenica, o in vacanza, esattamente alla stessa ora dell’intervallo”

Dai suoi molti anni dedicati all’insegnamento ha tratto validissime considerazioni, che in questo divertente volume riporta condite di sapido, o amaro, umorismo. Il primo capitolo ci offre un quadro abbastanza desolato delle strategie messe in atto dagli alunni per copiare e ingannare i professori: trucchetti vari che si sono evoluti nel tempo, con l’aiuto di tecniche innovative offerte dagli smartphone, e delle fonti a cui attingere per ricavare preziose e confuse informazioni (Wikipedia, studenti.it, skuola.net…)- “Perché Wikipedia piace così tanto? Perché è lieve, veloce, decisionista, va subito al sodo; non confonde con tanti paroloni, risponde alle domande, la si porta dietro in un taschino assieme a tutte le sue pagine, è immateriale eppure sostanziosa. Inoltre è la prima voce che compare su Google…”.

E, nella nostra epoca dell’ “ora e subito”, che non ammette verticalità e approfondimento, ma sembra apprezzare e premiare solo la superficialità, la fretta, l’informazione epidermica, ciò che conta agli occhi dei ragazzi è il superamento strumentale e veloce dello scoglio quotidiano del compito in classe, dell’esame finale, in vista di una promozione o di un diploma che comunque non garantisce più loro nessun futuro occupazionale. Ai difetti dei discenti si sommano le colpe degli insegnanti: noia, demotivazione, insoddisfazione per lo scarso riconoscimento (culturale ed economico) del proprio ruolo, rabbia verso i programmi scolastici inadeguati, per le strutture edilizie fatiscenti, per le aspettative esorbitanti delle famiglie.

Eppure, da questo quadro desolante, Simonetta Tassinari sa trarre uno spassoso e intenerito collage di errori e strafalcioni pronunciati o scritti dai suoi allievi, sulla scia del famoso Io speriamo che me la cavo degli anni ’90: con l’aggravante che qui ci troviamo davanti a liceali che sembrano non avere più alcuna cognizione geografica, storica, letteraria o filosofica.
Alcune perle? “Amburgo era famosa per gli hamburger, Giovanna d’Arco la pulce di Orléans, Gutenberg inventò la stampante, i pamphlets sono dei pannolini, il gas esilarante, Caporetto fu una misfatta, Eraclito diceva che Pànta rally, Tolgo ergo sum, Noli me spingere, Lupus in boscus, Kant era single per scelta, Rousseau da giovane era un toy-boy, Marx e il plusmalore, Nietzsche e il corpuscolo degli dei, la più famosa paziente di Freud fu Anna Oxa, Sartre scrisse Il vomito…”

E, naturalmente, La sorella di Schopenhauer era una escort.
C’è da piangere? No, da ridere. E da ringraziare la professoressa Tassinari che ci ha regalato due ore di divertimento.

 

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www.sololibri.net/sorella-Schopenhauer-Tassinari.html     26 ottobre 2016

RECENSIONI

TEMPESTA

ROSSELLA TEMPESTA, LIBRO DOMESTICO – GHENOMENA, FORMIA 2011

Rossella Tempesta (1968), poetessa napoletana oggi residente a Formia – dove si occupa di promuovere iniziative culturali, femministe e ambientaliste –, ha pubblicato questo sottile volume, Libro domestico, che raccoglie una trentina di testi poetici, di cui il postfatore Rodolfo Di Biasio sottolinea la “sorgiva energia, gli struggimenti improvvisi, i reticoli affettivi”. Poesia esemplarmente, programmaticamente femminile, centrata sugli affetti, sui gesti quotidiani, sugli incontri-rivelazione con momenti e persone di ogni “oggi”, vissuto nella sua miracolosa singolarità: “E la radio con Gershwin / il benzinaio elegantissimo, galante / ed io buongiorno, buongiorno nuovo giorno…”.

Ci sono colori che si affacciano agli occhi e li stupiscono con la loro vivace imperiosità (il giallo del grano, il bianco dei mandorli, l’azzurro del mare; e tanto verde, tanta luce); ci sono animali (uccelli, gatti) e bambini, i propri e quelli del passato. Ci sono gli oggetti (le sedie regalate al compleanno, e non del tutto integre perché acquistate da un’esposizione), le abitudini comuni a tutti (“Molto bella l’estate / per questo suo camminare a piedi nudi nella casa / sentire com’è fresco il duro marmo”).
C’è ovviamente l’amore per il proprio uomo: “Più bianco, più luce, Amore mio. / E girare solo dentro al chiostro / dei tuoi denti, vorrei”. I viaggi, gli addii, i ritorni.  Ma soprattutto la tenace, riconoscente dedizione alla casa, intesa come guscio protettivo, come àncora di salvezza, e riflesso di sé, del proprio sentire, del proprio ritrovarsi: “Che l’intero senso / era nella casa, alla partenza/ salutata brevemente”, “La mia casa / vorrei che fosse bianca, / piena di noi soltanto / e delle risa a gola dei bambini”, “La casa resta quella con la nostra essenza e il dolore, / dove la morte e la nascita sono incise nei muri”. Versi che non temono di sfiorare la retorica, e sembrano invece farsi un vanto della loro domestica, curata, rasserenante semplicità.

 

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www.sololibri.net/Libro-domestico-Rossella-Tempesta.html      16 novembre 2016

RECENSIONI

TEMPORELLI

ANDREA TEMPORELLI, TERRAMADRE – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2012

Sei sezioni compongono questo libro di Andrea Temporelli, contrassegnate da titoli che rimandano alla natura o al dominio dello spirito, temi che si rincorrono e intrecciano in tutto il volume. Una natura sempre in bilico tra promessa e minaccia, seduzione e sfida («Certe mattine il cielo è una promessa», «il ticchettio spaventa i nidi, il vento / turbina foglie e lacera giornali, / promette brace fuoco e zolfo»), provocando fantasmagoriche allucinazioni mentali («crepita il fuoco e accresce in mostri / piccoli insetti»), a cui il poeta oppone una dignitosa ed esplorativa resistenza: «lui rimarrà lì immobile ad attendere», «io assisto allo spettacolo da qui, / semplicemente. // …non attendo nessuno / non ho nulla da dire / piuttosto prendo appunti». Una natura che comunque è testimone e partecipe dello srotolarsi della storia, universale nei millenni, e particolare nei giorni della quotidianità: «Non indugiare adesso / ai piedi di quelli che furono / muraglie di ghiaccio in ritiro, / acquitrini malsani, / foreste celtiche e poi / avamposti d’impero». E la storia personale di Andrea Temporelli è sfiorata con la discrezione del poeta che si sa unico e insieme comune, nel rimpianto che è di tutti per il tempo che passa («Ma gli anni gli anni come trattenere / infedeli e dannati»), e che rimane tuttavia inconfondibile nella sua peculiarità. Eccoli, dunque, gli anni turbati dell’ infanzia in seminario, con i compagni che fanno roteare il turibolo come una fionda, o nascondono le ostie nel tovagliolo per merenda: mentre lui, il futuro poeta bambino, trasforma l’ obbligatoria preghiera serale in un’invocazione quasi blasfema : «Preservaci, preservaci dal padre». Ecco l’amore in versi inteneriti : «staremo bene / avrebbe voluto dirle d’un fiato / senza paura d’essere ridicolo / ma si zittì sentendola già ridere / piena di gioia tanto da aver voglia / di fare un figlio, lì, / subito, per telefono». O la polemica con la conventicola dei letterati: «Ti giuro c’è chi scrive / per uccidere», «Si seppelliva vivo col pennino sicario, / scrocchiava sulla stilo come un’ostia». Formalmente, la poesia di Temporelli vive una sorta di oscillazione (come il funambolo descritto in una composizione, scisso tra equilibrismi e vertigini, slanci ed esitazioni) tra classicità eccessivamente esibite («Ma tu sarai per me la vita intera, / il soffio in cui la voce non arriva», «Tu sei gli anni più belli della vita, / gioventù che non torna») e soluzioni più sperimentali («Ruzzolo / – la testa è gigantesca- / nello zenit del / cantando»): comunque, l’endecasillabo impera in moltissimi incipit e anche nel corpo di quasi ogni poesia, consapevolmente e orgogliosamente tradizionale. Ed è nel poemetto che dà il titolo al volume (Terramadre) che l’autore raggiunge la sua più consistente e sicura maturità: una sorta di Spoon River rivisitato nel cimitero del suo paese, omaggio a «Coloro che precedono in ascolto, / i prediletti», «ottimo / concime nel cortile disertato». Disfacimento della memoria e dei corpi («Sbocci dunque la rosa rovesciata / davanti a una platea di vermi»), di fronte al teatrino dei viventi, con il fantasma aleggiante e tentatore della morte («La sconcia locandiera dell’albergo») che «ci fa semplici», e tutto riconduce alla sua estrema, imperturbabile verità. Dei destini dei sepolti nella terramadre, e di uno particolarmente a lui più vicino e fratello, il poeta sa di doversi fare testimone, pur se proclama umilmente: «Ma il solo modo di onorare i morti / è dire addio come si dice addio / a un amore per salvare l’amore». Quindi, una poesia che salva, anche solo con la silenziosa e pietosa complicità dello sguardo.

 

«incroci on line», 10 maggio 2013