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RECENSIONI

TERRANOVA

NADIA TERRANOVA, IL CORTILE DELLE SETTE FATE – GUANDA, MILANO 2022

Nel quartiere Ballarò di Palermo si trova Piazzetta Sette Fate, luogo in cui credenze popolari hanno ambientato oscure leggende. “Racconta Giuseppe Pitrè, collezionista e narratore di storie siciliane, che a Palermo, nonostante i controlli della feroce Inquisizione, c’era un cortile dove di notte si davano appuntamento sette donne misteriose, una più bella dell’altra. Quando decidevano di portarsi dietro qualcuno gli facevano fare cose mai viste: danze mistiche, canti paradisiaci, voli eterei, camminare sull’acqua e altri prodigi. All’alba i fortunati si risvegliavano come se nulla fosse successo, però di quell’avventura ricordavano ogni dettaglio”.

Con queste parole si apre la fiaba che Nadia Terranova ha pubblicato per le edizioni Guanda, Il cortile delle sette fate, immaginosamente illustrato – come si conviene per l’argomento – da Simona Maluzzani. Nadia Terranova (Messina 1978) nella sua produzione letteraria ha alternato romanzi classici a libri per ragazzi. Tradotta in diverse lingue e pluripremiata, lo scorso anno ha vinto il Premio Andersen con Il segreto.

Questo suo nuovo testo è ambientato nel 1586, in un’epoca in cui essere donne (e soprattutto donne non conformi al sentire ufficiale di Chiesa e autorità, e a quello popolare imbastito di superstizione e ignoranza) non doveva essere facile, sia in Sicilia che altrove.  Anche essere gatte nere poteva essere molto pericoloso, a quanto afferma la co-protagonista del racconto: “Provateci voi a essere una gatta nera al tempo dell’Inquisizione. Voglio dire, non `e facile. Innanzitutto non `e detto che possiate tenere il vostro nome, anzi conviene che ve ne troviate uno buono per salvarvi la pelle. Io, per esempio, mi presento come Arte ma in realtà mi chiamo Artemide, come la dea della caccia: pensate a cosa succederebbe se qualcuno sapesse che porto il nome di una divinità pagana, no, non voglio neanche immaginarlo, già la mia vita è difficile così”.

Perseguitata perché ritenuta creatura diabolica, la gatta Arte gira con circospezione nei vicoli del capoluogo siciliano, dove gli inquisitori, affidandosi al Malleus Maleficarum, un manuale per la caccia alle streghe, istillano ovunque sospetti e diffidenza. Eppure, nelle sue due vite precedenti in Egitto e in Grecia, Arte era stata rispettata e onorata, addirittura con la considerazione dovuta a un essere di origini divine. Una notte il suo fortuito incontro con Carmen la mette in contatto con le forze indomabili e ribelli della natura. Carmen è una bambina “furtiva e zingaresca… libera come il vento e zozza come la pece, vestita di stracci sotto un mantello damascato e i piedi nudi incrostati di strada fin dentro le unghie”. È cresciuta in un bosco, accudita da lupi, donnole, lepri, ricci e ghiri, nutrita con “bacche, frutti ed erbe”, assimilando così comportamenti ed espressioni selvatici, lontani dalla sensibilità della gente comune. Ora vaga per le vie della città, impaurita e affamata. La notte in cui Carmen e Arte si incrociano     per la prima volta  nei pressi della Chiesa di Santa Chiara, vicino a una torretta d’acqua, è animata da voci e sussurri indecifrabili, da passi femminili leggeri, da intensi profumi di piante aromatiche. Mentre la gatta si rifugia spaventata dietro a un muro, la ragazzina viene circondata da sei bellissime donne che intorno a lei ballano e cantano, vestite d’oro e d’argento, prima di dissolversi nel nulla. L’irruzione di due ossessionati inquisitori marchia Arte e Carmen dell’accusa di stregoneria, conducendo la prima alla fuga, e la seconda in prigione con l’accusa infamante di “guaritrice”, di “ciamavermi”. A salvare entrambe, ecco che arrivano le sei donne concretizzatesi dal buio, streghe o fate: comunque figure libere e liberanti, capaci di ribellione, allegria e lievità in un’epoca di gretta repressione. Raccolgono erbe mediche per preparare infusi magici che inducono sogni rasserenanti in chi dorme. Manifestano una saggia teoria sugli inquisitori: “I pensieri negativi sono quelli che qualcuno chiama diavolo. Si impossessano della mente di chi li partorisce e non se ne vanno più, inquinano il  cuore  e  i  sentimenti,  fanno calare le tenebre, creano paura, odio, sospetti.  Anche se certi signori lo vanno cercando per le  strade  di  Palermo,  in realtà   il  diavolo `e solo dentro di noi, pronto ad apparire e a rovinarci la vita quando non siamo consapevoli di poterla godere appieno”. Regalano alla gatta nera esperienze gioiosamente visionarie, sollevandola in atmosfere sconosciute. Si rendono invisibili per penetrare nella prigione in cui è rinchiusa Carmen, e immobilizzano l’inquisitore che la sta sottoponendo a un interrogatorio brutale per farle confessare peccati mai commessi.

Una delle fate, Pia, rivela alla bambina di essere stata la sua levatrice, raccontandole i misteri della sua nascita: figlia di una guaritrice, la bambina aveva ereditato le stesse facoltà taumaturgiche della mamma, e ora che ne è consapevole può unirsi a loro sei, diventando la settima fata fornita di ali, capace di volare più in altro di ogni pregiudizio, vessazione e ingiustizia, tenendosi stretta una gatta nera, decisamente portafortuna!

 

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SoloLibri.net › … › Il cortile delle sette fate di Nadia Terranova           31 marzo 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TESIO

ENRICA TESIO, FILASTORTA D’AMORE – GIUNTI, MILANO/FIRENZE 2019

Già autrice di due romanzi (La verità, vi spiego, sull’amore e Dodici ricordi e un segreto), blogger seguitissima, rubrichista su “La Repubblica”, la scrittrice piemontese Enrica Tesio pubblica per Giunti un volume di “rime lievi e prose fluide”, che con ironico understatement ha intitolato Filastorta d’amore.

Si tratta infatti di una trentina di componimenti, perlopiù a rima baciata o alternata, che sulla pagina si distendono nella misura dei versi (cantabilissimi endecasillabi, dodecasillabi, settenari) con gli a-capo di prammatica, oppure si mimetizzano in brani narrativi molto ritmati, e spesso ancora rimati, dall’andamento appunto di filastrocche, cantilene, ninne nanne, ritornelli: tutti insieme a comporre un divertente canzoniere amoroso, dedicato «alle donne e a tutti quelli che non ce la fanno, e poi invece sì, ma che fatica…».

Illustrato spiritosamente dai disegni di Giulia Richetta, il libro strizza l’occhio in particolare al pubblico femminile, che ovviamente si riconosce nella voce recitante di una donna non più giovane e non ancora matura, separata con due figli, stretta tra mille doveri e scadenze, tanti interessi e desideri, infinite stanchezze, e qualche rimpianto, qualche rancore, lacrime inconsolabili e scoppi improvvisi di allegria. Ci sono quindi i ricordi di amori passati, l’illusione di legami futuri, addii e voglie di vendetta, recriminazioni e perdoni, rifiuti espressi e patiti, telefonate interrotte e lettere cestinate, rituali del corteggiamento e del sesso: «Tu sguardo indecente, noi due buoni a niente, tu sei il mio mandante, io sono il movente, mi impugni dal collo e ogni bacio è uno sparo, guardo in faccia la fine, tu onesto, io baro», «Io sono la frase che rimane sospesa, / non gioco d’attacco, sono forte in difesa. / Sono quella ‘tranquillo, la risolvo da sola’, / e finisco a far fiocchi coi miei nodi alla gola. / Ma se pesti i miei sogni poi paghi il pedaggio // E adesso amami, avanti, se ne hai ancora il coraggio», «C’è il mio corpo sul letto. / Appoggia l’orecchio al mio petto, / lo senti questo cuore alveare? Ascolta il frastuono, si è rimesso a ronzare».

C’è poi l’impegno, gravoso e gratificante, di mamma: chioccia o sfinita, petulante o severa, delusa se i figli crescono diversi da lei, contrita con i vicini disturbati dal chiasso mattiniero o serale, ma sempre pronta a capire, a difendere, a giustificare: «Col mio corpo puoi farci un mantello, / il mio braccio come cintura / te lo slacci se il tempo è bello, / te lo stringi se hai un po’ paura», «C’era una mamma, una madre madrona, / la mano a saetta, la voce che tuona. / Più che un bambino voleva un soldato, / ma poi crebbe un hippie tutto arruffato», «Se sapessi, Vicino, che urlo potente l’amore che parla e nessuno lo sente… Ma sono una madre, io urlo ovvietà».

Donna moglie-madre-figlia-amante-professionista-casalinga, e soprattutto donna-donna: con le rughe meritate e conservate, i trucchi e le borsette, i lavori domestici e i pettegolezzi con le amiche, la solidarietà femminile e le rivendicazioni femministe: «Amiche mie belle, compagne di viaggio, quand’è che arriviamo? La meta è vicina, ti guardo le spalle, respira e cammina».

L’ironia talvolta si vela di inevitabile sarcasmo, la nostalgia di tristezza, ma la voglia di resistere emerge anche dalla leggerezza con cui viene affrontata la pagina, con il fastidio per la banalità e la volgarità propinata quotidianamente dall’esterno, e soprattutto con l’impegno verso il mondo, la sua bellezza da salvare, la sua pulizia da mantenere: «Rassetto le stanze di questa mia vita / per qualcosa di nuovo, dell’aria pulita. / E butto i rapporti scaduti e scadenti: / è l’ecologia, dei miei sentimenti».

 

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https://www.sololibri.net/Filastorta-d-amore-Tesio.html          14 maggio 2019

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TESTA

ITALO TESTA, LA DIVISIONE DELLA GIOIA – TRANSEUROPA, MASSA 2010

Questi versi di Italo Testa interrogano il lettore -emozionandolo, anche- già dal titolo, che (al di là del riferimento al gruppo punk inglese Joy Division) non allude come ci si aspetterebbe a una “condivisione” della gioia (tra l’autore e chi legge, tra protagonista recitante e deuteragonista che ascolta), bensì a una sua “divisione”: quindi a una frammentazione, a una non totalità e non completezza, ribadita in tutti e tre i capitoli che compongono il libro. La cui nota dominante è senz’altro una rassegnata malinconia, attualissima però, disincantata in un soliloquio che tenta vanamente il dialogo, con alle spalle uno scenario grigio, silenzioso, di smobilitazione post-industriale. E opportunamente il poeta cita, in esergo alla seconda, splendida sezione, una frase di Edward Hopper: perché proprio agli interni disadorni e ai desolati esterni del pittore americano sembra rifarsi l’ambientazione dei suoi versi («I was more interested in the sunlight on the buildings and on the figures than any symbolism»»).
Eccoli, dunque, gli interni raccontati da Testa nelle quattro parti in cui si suddivide la sezione che dà il titolo al volume: «un interno spoglio e taciuto… a telefono spento… nello specchio marmoreo di un tavolo… le grate che spartivano il vetro… i gradini lucidi… di sbieco su una sedia… in una stanza anonima, spoglia… in una stanza vuota»: un crescendo di non appartenenza, in cui si muove la coppia di amanti. Il poemetto (che è poi una lunga lettera d’amore, sfiduciata eppure tenera, delusa dalla propria non-passione, rivolta a una lei sempre lontana anche quando viene descritta nella sua fisicità più intima), ha un ritmo lento e avvolgente, assolutamente musicale, nella pacatezza delle sue rime e di una metrica tradizionale però mai scontata, priva di qualsiasi brusco scarto formale. Una bassa marea di sonorità, che accompagna queste immagini dal sapore cinematografico (campi lunghi, sfondi dai colori tenui, una natura indifferente se non ostile alla presenza umana): i luoghi sono quelli, padani, pianeggianti, del delta del Po. E gli echi letterari (una presenza costante del primo Montale: come non ricordare Dora Markus?) rimandano forse alla narrativa di Bassani (le bellissime pagine de  L’Airone trovano un’empatica rispondenza in questi versi); ma anche a Celati, a Tonino Guerra, e ad altri visionari della pianura tra Veneto ed Emilia.
Gli esterni non sono più partecipi dell’avventura umana di quanto lo siano gli interni: «spazio deserto… sotto un lampione astioso… la fissità del cielo… statue mute… i tetti opachi e le lamiere arroventate… la distesa dei campi d’acqua… case abbandonate… fabbriche addormentate… l’armatura dei pilastri… erbe matte sul terreno… mattoni e lamiere ondulate…»). E la nebbia, il silenzio, in cui si muovono i due protagonisti, sospesi, incapaci di vera comunicazione. Italo Testa recita le sue parole in prima persona, si rivolge a un tu che stenta a raggiungere, a toccare concretamente: i due amanti sono descritti spesso in piedi, «appoggiati», «affacciati»», zitti e in attesa, quasi a chiedere conforto e sicurezza alla realtà dei muri, dei balconi, degli oggetti. E non trovano certezza nei loro gesti, nei pensieri, nei reciproci abbandoni: «così aspettiamo giorno per giorno, / un foglio in mano, lo sguardo perso», «la fragilità ci insidia dall’interno», «stiamo lì, col capo arrovesciato / un po’ assonnati sopra il letto, / le gambe appena reclinate / contiamo le pieghe sul lenzuolo», «il braccio nascosto tra le gambe, la luce sulle mie cosce nude, / la mano a coprirti il pube». In un’estraneità sofferta, immodificabile: «saremo corpi in attesa, tronchi / riversi, distesi tra le cose». La stessa incomunicabilità che ricorda i film di Antonioni, e, come già detto, l’angosciante desolazione dei quadri di Hopper, la ritroviamo nelle altre due sezioni del volume:  CantieriDelta. Quest’ultima ancora centrata sui temi sentimentali della precedente, espressi in versi più veloci e orecchiabili, al limite del cantato, con qualche concessione alla retorica di più facile presa. Il paesaggio è sempre segnato da pioppi e argini, nebbia e neve, rami-confluenze-strade come si conviene in un delta, entro i cui confini i due protagonisti si cercano e si sfuggono, trincerandosi in rapporti sessuali veloci e talvolta colpevoli, chiedendosi e negandosi aiuto reciproco. I colori non transigono, severamente sfumando dal bianco al grigio, «nel polverio / di una geografia remota» che non sembra conoscere l’indulgente abbandono al sole, al calore, alla luce. Decisamente più originali sono invece le poesie della prima parte, ambientate nelle periferie industriali di Marghera, tra pale meccaniche, cisterne, torri e silos, container, gru, pilastri di cemento, cavi dell’alta tensione, tralicci, rimorchi; tra fabbriche disumane dai nomi inclementi (Fincantieri, Saipem, Crion), in orari albeggianti di «luce polverosa» e proletaria. Eppure in questi versi privi di rabbia e semplicemente descrittivi, che si limitano a constatare una realtà perdente e umiliata, aleggia uno stupefatto e accorato sentimento di solidale comprensione, e pietà, per le persone, la loro vita e la loro storia, che avvicina il lettore alla verità disadorna della poesia più autentica.

 

«nazioneindiana», 30 marzo 2014

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TESTA

ENRICO TESTA, CAIRN – EINAUDI, TORINO 2018

Un libro dedicato alla perdita, patita o inferta, questo di Enrico Testa (Genova 1956), alla sua quinta prova nella collezione bianca di Einaudi. Versi che interrogano la mancanza, il disorientamento, la solitudine seguita a un lutto, in un’atmosfera che ricorda, persino in alcune modulazioni formali oltre che in certe ambientazioni di interni, la Satura montaliana, permeata dalla sottile e penetrante nostalgia di una presenza-fantasma: assente nella concretezza della realtà, incombente nel pensiero e nel sogno. I segnali spia dell’abbandono si annidano ovunque (il linoleum marrone malsteso sul pavimento, un filo scuro di polvere, le rondini in picchiata, la cucina gelida, panchine arrugginite, stivali sporchi, acqua marcia, ciliegi spogli, polpette crepate…), a indicare trascuratezza, disaffezione alle cose, abbattimento. Solo il rapporto con le «care ombre» viene testardamente cercato e nutrito, in abitudini e riti quasi morbosi, attraverso la frequentazione di ospedali e camere mortuarie, o il vagabondare tra ceppi e tombe di famiglia nei cimiteri, nell’ansia di recuperare legami affettivi troncati, riecheggiando le leggende funerarie di Emerson e Lincoln:

«cavalcaniamente scavalco tombe abbandonate / sposto con inaspettata forza steccati d’assi / m’arrampico su pesanti grate metalliche / infrango il minaccioso diktat cimiteriale / che dice VIETATO L’ACCESSO / aggiro le voragini lasciate aperte / dall’incuria comunale / arranco, preso ormai dalle vertigini, / su traballanti passarelle per becchini. / E pateticamente solo / per raggiungervi, sentirvi / (e non si creda che farlo altrove valga uguale), / baciarvi (sì anche baciarvi) / e inginocchiarmi davanti a voi, / ombre care della mia infanzia», «quando entrò il lavacadaveri / (guanti pesanti blu / lungo camice verde in plastica deforme / mascherina protettiva / come a trattare un’appestata) / gli strappai di mano, nella luce accecante dell’acciaio, / gli strumenti del suo lavoro / e lo cacciai via urlando. / Poi per l’ultima volta / mi diedi con calma / alla cura santa del tuo corpo, / riflesso nell’ombra della mia salma».

Le relazioni sociali si riducono ormai alla frequentazione, smarrita e annoiata, di aule universitarie, convegni intellettuali, alberghi, stazioni e aeroporti, tra persone che rimangono indifferenti ed estranee, compitamente ipocrite («Peso del mondo. / Qualcuno accanto?»). L’unica alternativa alla superficialità dei rapporti umani, alle «varie attività parassitarie» rimane il «Tenersi da parte. / Anche a rischio di passare per fesso», evitando la «sciapa misticanza del misticume», «dell’eleganza come vizio / e dell’arroganza come vezzo». Rassegne e congressi, letterari o filosofici, sono utili solo alla vanità di chi li anima:

«A poco servono teologi da festival / che ne sanno ancor meno / delle beghine di paese / bistrattate da poeti tracotanti; / e augusti filosofi verbigeranti / sotto il segno del mito o della moda; e iene maculate dai denti gialli / che ringhiano, a loro tornaconto, / spirito di servizio o senso d’appartenenza. / Se ne può – state certi ‒ / fare anche senza».

Uno sdegno civile pervade i versi a cui Enrico Testa demanda la sua rabbia residua, schernendo «gli empi», «il mio paese i suoi politici / gli escalofonisti tutti – vecchi e nuovi ‒ / i professionisti nel maneggio dell’argilla / che impasta parole in nome dell’affare», e «l’irridente sfacelo» di «tutti i fetori di Roma / e della repubblica intera»: perché «il potere è tetro», affumica l’anima, corrompe le esistenze. Allora l’attenzione agli ultimi – a «chi scompare nei deserti o in mare», o alla senzatetto «spaurita e minuta» della stazione di Brignole ‒ trova una sua eco in quella destinata alla flora e fauna di umile lignaggio (lucertole, merli, millepiedi, rane, topi, ragni, gatti; more, rovi, patate, castagne, aglio, funghi, felci, gramigna…), al lavoro nell’orto o alla pulizia del pollaio.

Cairn, termine gaelico indicante il mucchio di pietre utilizzato sia come monumento sepolcrale sia come indicazione di percorso nei tragitti montani, rimane un monito che collega il ricordo dei propri morti al suggerimento di una via d’uscita nel labirinto del vivere.Le poesie di questa raccolta ‒ prive di artifici retorici, fatte salve rarissime rime sempre e solo utilizzate nelle chiuse ‒, testimoniano una fede superstite nella parola-abbraccio, «che dice ancora / quando non c’è più niente da dire». Parola pronunciata «senza urlare», limpida e mai pretenziosa, parola «Segnavia e segnavita».

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 25 luglio 2018

RECENSIONI

TESTORI

L’ AMORE di GIOVANNI TESTORI
Giovanni Testori, Poesie 1965-1993, OSCAR MONDADORI, MILANO 2012.

Questa raccolta di cento poesie, scritte tra il 1966 e il 1967, fu pubblicata da Feltrinelli nel marzo del 68: anno strategico, drammatico, pulsante – per la storia, per le vicende politiche e per lo sviluppo del pensiero filosofico del mondo occidentale. Nessuna eco esterna, nessun fremito ideologico trapela dai versi di Giovanni Testori, completamente immersi, grondanti, recintati in un privato esclusivo: in un amore.
L’amore, appunto, è il titolo di questo volume di poesie, categorico e definitivo, come deve essere quando si parla di chi entra nella propria vita (nei pensieri e nella carne), e la domina, totalizzandola. Alain è il ragazzo a cui Testori offre questa testimonianza, insieme lucida e delirante, possessiva e sacrificale, di un sentimento assoluto. Una confessione, un testamento, una richiesta d’aiuto. E, insieme, una condanna.
Viene in mente l’affermazione severa di Charles Peguy: «Una parola non è la stessa in uno scrittore e in un altro. Uno se la strappa dalle viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito».
Viscerale è la scrittura di Giovanni Testori; lacerata, inquieta, crudele. Anche quando si intenerisce e commuove su se stessa, anche quando sembra placarsi nella contemplazione più pura.
Confrontandola con le parole di altri poeti omosessuali, la sentiamo così lontana dall’azzurra tenerezza di Sandro Penna («La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta»), dalla dedizione ideologizzante di Pasolini («con maschile / pudore e maschile impudicizia / nelle pieghe calde dei calzoni nascondendo indifferenti, o scoprendo, / il segreto delle loro erezioni»), dalla sfrontata esaltazione di Dario Bellezza («Satana mi vuole perduto e peccatore. / Io devo smettere l’orgoglio / di sapermi diverso. Irreale / amante dei diversi»). E dall’incantato, classicheggiante omaggio di Stefan George («Quando dietro il cancello fiorito / alfine sentimmo solo il nostro respiro, / godemmo le sognate beatitudini?»), o di Kavafis («Ormai ricordo appena gli occhi: azzurri, forse… / Oh, azzurri, sì! Come zaffiro azzurri»).
«Ciascuno la propria tristezza / se la compra dove vuole», scriveva Antonia Pozzi. E Giovanni Testori ha comprato la sua tristezza profonda, irredimibile, in questi versi e in questo amore. Mai gioioso, mai esultante, anche nel possesso più totale ed esclusivo: ma temuto e riconosciuto in un presente di colpa e sofferenza, in un futuro di solitudine e distacco.
L’offerta di sé del poeta è totale, generosa, oblativa: «T’offro, amore, / guarda, / gli zigomi, le palme / e l’ultima forza / dell’insana maturazione; /…i fianchi, / il labbro t’offro, / la speranza, / il mio stesso battesimo, / la mia firmata dannazione / t’apparterrò e per sempre, / perché sarà oltre i sensi, / il dolore, / l’apparenze…».

E la fusione con l’amato ricorda la tensione religiosa dei grandi mistici («perché t’amo, carne / più della carne, / in anima»), nell’utilizzo di vocaboli, immagini e riferimenti che appartengono tutti al repertorio culturale della cattolicità (battesimo, inferno, Croce, sudario, martire, il Cristo delle spine), all’interno del rapporto tormentato e folgorante che Testori ha avuto sempre con la fede e la Chiesa.
Eppure, con quali e quante similitudini e attributi dolcissimi e innocenti il poeta definisce il suo ragazzo: petalo astante, faro, luce dell’alba, sangue, rubino e viola della sera, figlio, capanna, stella, unico amante, mia vittoria sul nulla, segno dell’aldilà dopo la fine, giovane lepre e stanca bestia, mia volpe, mio santo, eternità nel nulla, ala, carne di me, mia falce, mio martire, mia colpa, mia unica salvezza, mia fornace, tu meraviglia e gaudio, rondine mia cresciuta nel nido del mio cuore, amore disperato, mia cara luce, felce piegata in sé, mio bosco, zaffiro del passaggio, mia grande nevicata, piccolo coniglio, vigore del mio stelo, angelo, cielo, diamante, mio airone, mia gironda, edera verde e ruggine, mio bambino adulto e delicato, mia lettera prima, mio trionfo, mio sudario, mia cara nudità…
Il suo amore sa farsi anche paterno, protettivo, fino a spingersi ad immaginare per l’amato una vita di futura e tranquilla normalità, augurando e prevedendo per lui la nascita di un figlio: «padre responsabile, felice, / e i figli attenderanno / il tuo ritorno», «Il figlio che avrai un giorno, / il figlio arcano e biondo, /… che segno porterà in sé / di me, / nella sua anima e nel cuore?», «Vedo tuo figlio in te. / Ancora non è nato / ma già ne scorgo salire / dal tuo sonno / il primo riso. / Lo guarderai dormire / com’ io guardo te, / padre ingiusto e furtivo».

Perché invece è lui, il ragazzo-amante, il figlio vero e sognato, non generato e inventato, ricreato a parole e nei gesti dell’amore, quello in cui il poeta si perpetua e cerca un’eternità profana, promettendogli un’eredità perenne di ricchezze inestinguibili: «O figlio amato, / mai avuto che in te, / di cui accolgo nel bacio / lo spasimo dei sensi / ancora chi t’ha amato / t’amerà / e così sempre, / mio figlio, / mio sudario».
Di Alain il lettore conosce poco, a parte il neologismo che accompagna alcuni luminosi vocaboli: alanina luce, alanina alba, alanina infanzia. Forse la sua Parigi, a cui il poeta allude velatamente; il suo scendere da un aereo, salutando: «Scendevi, / l’ala appena immobile; / emergere ti vedevo /…- la piccola valigia tra le mani, / il trench, / la sciarpa che s’alzava /… l’aria ronzava / dell’oro del tuo viso / e della grazia adolescente /…  Al tuo saluto / s’accendevano le foglie / di brughiera / – la mano in alto, / mollemente- / ed io perdevo forza, / ero lì, / morivo, / io che t’aspettavo / travolgendo me in me, / carbone, legno arido, / fuoco vivo di te, / della tua luce».

Pochi sono i particolari fisici recuperabili nei versi: «la tua dolce, tenera saliva… il curvato ventre… la schiena adorata… l’alito denso», fronte, guance, mento, ciglia, ricci: ma senza una descrizione vera e propria che stagli un’ immagine corporea. Eppure Testori riesce a rendere indelebile, con pochi leggerissimi tratti, la delicatezza della giovane figura. Come quando racconta di un improvviso ricovero ospedaliero del ragazzo, del tremore di entrambi (amanti, ma anche padre e figlio) nell’ attesa di una diagnosi, della gioia di una riconquistata salute: «Seguo l’occhio sapiente; / tormento di domande / lo sguardo del medico, / il suo braccio; / l’aiuto a liberarti; / t’alzo la maglia; / t’abbasso il caro slip: / il ventre appare. / Tremi nel suo tremito, / piccolo coniglio».

L’amore tra i due è assolutamente fisico, sensuale, ma lontano da qualsiasi crudezza o volgarità; piuttosto dilaniato in un possesso che vorrebbe superare anche i confini della fisicità, in un’ansia divorante che sembra non conoscere sorriso, clemenza, perdono: «mentre bacia il tuo bacio / la mia vana caverna», «fusi nell’abbraccio che ci avrà distrutti, / cancellati», «ti stringo / oltre il curvato ventre, / ombra interiore di carezze / che ti bacio, / abbacinante nudità», «nudi castamente /… senza lasciarci mai, / coperti di sudore», «se scivolo entro te, / sfascio le bende / e, disperato, senz’averti / ti vedo, / è perché t’amo, carne», «di nuovo i corpi nudi / e l’amore lucido, furioso», «amore cieco, / vieni su me, / in me, / coprimi, neve, / luce, / benda cercata, / benda disperata», «Ti vedo nudo, / carne di me, / mia falce; / steso t’adoro / sui lenzuoli», «E la tua schiena è lì; / la bacio; / la ricolmo di saliva; / specchio diventa e fiore / del mio cieco, / inutile dolore».

Questo ritrovarsi dei corpi e delle anime al di là di ogni futile o falsa apparenza, lo scoprire nell’altro il messaggio di dannazione o salvezza che comunque avvicina alla verità ultima, il dono estremo di sé nel reciproco disvelarsi e comunicarsi, è qualcosa che ha procurato a Testori censure imbarazzate e santificazioni esaltate, troppo spesso discutibili e insincere.
Il suo situarsi ai margini della tradizione novecentesca, abissalmente lontano da tutti gli esiti della poesia italiana del dopoguerra, ne ha fatto un eccentrico, indefinibile, non catalogabile poeta dalle soluzioni formali poco condivise. I nomi che sono stati fatti dai critici per accostarlo a una qualche fonte letteraria, facendone un originale epigono (dai futuristi a D’Annunzio, da Rebora a Caproni), sembrano tutti alquanto opinabili. Forse invece potremmo scoprire una vaga rimembranza dell’Ungaretti di Sentimento del tempo, o un’eco dell’angosciata ricerca formale e esistenziale di Paul Celan.
In questo volume troviamo versi brevi, persino brevissimi, in strofe singole, prive di rime e artifici retorici, indifferenti ad ogni metrica, e invece incalzati da un ritmo ansioso e franto, talvolta colloquiale e più spesso classicheggiante: invocativo, esclamativo, interrogativo, ma sempre con una vocazione esibita per la confessione ostentata, plateale, pubblica. Poesie da leggere a voce alta, proclami amorosi da recitare con orgogliosa consapevolezza della loro superba nobiltà.
Il volume riproposto ora negli Oscar Mondadori offre ai lettori una meditata scelta da questo libro altissimo, poco recensito e poco antologizzato, addirittura imbarazzante nella sua esplicita e disarmata sincerità, che fa del suo titolo, L’amore, una rivendicazione ferita e altera.

«Qui Libri»,  giugno 2012

RECENSIONI

THOMPSON

CARLENE THOMPSON, COME SEI BELLA STASERA – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2015

Le cinquecento pagine che compongono questo romanzo Come sei bella stasera (Marcos Y Marcos, 2015) si leggono senza difficoltà, come in genere tutta la produzione narrativa di questa prolifica autrice statunitense Carlene Thompson (nata in Virginia nel 1952, amante della vita rurale e degli animali, vivaci protagonisti nella sua quotidianità e nelle sue pagine).
Questa della lettura facile, scorrevole, pulita ma priva sia di profondità di pensiero sia di qualsiasi tentativo di invenzione formale, è ormai una caratteristica che sta contagiando tutta la letteratura mondiale, in narrativa come in poesia, livellando stili e contenuti, omogeneizzando generi e pubblico di lettori. In particolare per quello che riguarda il thrilling soft, o il noir sfumato, l’ambientazione si riduce quasi sempre alla società medio-alto borghese, in cui vite che sembrano scorrere su binari prestabiliti, innocui, di vacuo successo salottiero, vengono bruscamente sconvolte da rivelazioni di sordide brutalità, inconfessabili turpitudini, violenze raccapriccianti e inattese.
Nel caso del romanzo in questione, una coppia all’apparenza serena e benestante della Virginia (lui, Steve, pubblico ministero; lei, Deborah, casalinga un po’ frustrata con aspirazioni artistiche, due gemelli, un cane e villetta di proprietà con giardino) si trova inaspettatamente catapultata in un turbinio di vicende e sospetti spaventosi, che lentamente si aggrovigliano inspiegabili per poi altrettanto lentamente sgrovigliarsi in un finale a sorpresa.
Steve si prende cura della moglie «in modo affidabile e distaccato». Deborah lo stima perché «la rettitudine morale di Steve era una di quelle cose che l’avevano attratta. Poteva essere distratto o poco sollecito, ma la sua onestà era fuori discussione».

Ecco però che improvvisamente la moglie si accorge di avere accanto uno sconosciuto, di cui teme il passato tenuto nascosto, il presente intorbidito e il futuro messo in discussione. Intorno a loro si muovono colleghi insoddisfatti o invidiosi, una vicina novantenne semi-demente che li spia, un ambiguo ex-poliziotto, fantasmi che abitano ville non arredate: mentre un crudele e inafferrabile serial killer fa strage di giovani e sprovvedute ragazze nei dintorni.
Steve, minacciato o ricattato dallo stupratore di sua sorella che lui molti anni prima aveva spedito in prigione, sparisce. Deborah e i bambini vivono giorni e notti nel terrore, tra tentativi di rapimento, telefonate anonime, incursioni notturne in giardino, conti bancari svuotati. Ma chi ha veramente violentato la sorella di Steve? E chi uccide le giovani donne della zona?

Carlene Thompson non riesce a tenere alta la tensione del racconto per così tante pagine: il plot narrativo sembra programmato senza slanci, e patisce rallentamenti e divagazioni ingiustificate, rese ancor meno convincenti dalla superficialità dei dialoghi e delle descrizioni. Solo nel finale, ansante e caotico, inficiato da numerose incongruenze e soluzioni insostenibili, il ritmo si accende, lasciando tuttavia il lettore perplesso o spazientito.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/+-Carlene-Thompson-+.html      29 gennaio 2016

RECENSIONI

TODD

TRACY N. TODD, NINA. LA STORIA DI NINA SIMONE – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2023

Le edizioni pugliesi AnimaMundi regalano a noi tutti, anche se con un occhio preferenziale al mondo dei giovani, un bellissimo volume illustrato, dedicato alla cantante afroamericana Nina Simone. Scritto con commozione e lirismo da Tracy N. Todd, editrice e autrice di libri per l’infanzia, e accompagnato dalle tavole vivacemente colorate di Christian Robinson, Nina racconta la vita di una delle più famose interpreti di musica jazz del ’900, inserita al 29° posto nella classifica dei migliori cantanti al mondo dalla rivista Rolling Stones.

Nina Simone, pseudonimo di Eunice Kathleen Waymon, nacque a Tryon, nel North Carolina il 21 febbraio 1933, e morì a Carry-le-Rouet (in Francia dove si era trasferita, lasciando polemicamente gli Stati Uniti) il 21 aprile 2003, a settant’anni. Proveniva da una numerosa famiglia molto unita e molto povera: il padre era musicista, la madre faceva la cameriera presso una casa privata, ma svolgeva anche le funzioni di pastora e predicatrice in una congregazione religiosa. Furono proprio i genitori a incoraggiare la predisposizione naturale della piccola Eunice verso la musica, già evidente dalla più tenera età (“era in grado di cantare prima di saper parlare e di tenere il ritmo prima di saper camminare”). La mamma la faceva esibire nel coro domenicale in chiesa, il papà le impartiva sul pianoforte i primi rudimenti del blues. Tra musica sacra e devozionale e il suono “diabolico” dell’improvvisazione jazzistica, la piccola sembrava comunque a proprio agio con qualsiasi tipo di suono e melodia, fino ad appassionarsi alle composizioni di Bach, sotto la guida esperta di un’insegnante professionista. Nell’adolescenza frequentò la Juilliard School a New York, ma in seguito la sua domanda di iscrizione al prestigioso Curtis Institute di Philadelphia fu rifiutata, probabilmente per motivi razziali. Da allora, frequenti furono le umiliazioni che Eunice dovette subire a causa del colore della sua pelle. Per poter continuare gli studi, iniziò a suonare e a cantare (“con voce profonda e dolce come un tuono”) nei bar e nei locali notturni di Atlantic City, con il nome d’arte di Nina Simone, connubio tra lo spagnolo Niña (piccola) e l’omaggio all’attrice francese Simone Signoret, da lei molto ammirata. Mentre la sua versatilità di pianista e cantante si andava sempre più imponendo tra New York e Philadelphia (leggendaria fu la sua interpretazione di I loves You Porgy, brano di George Gershwin, che vinse il Grammy Hall of Fame Award 2000), l’America iniziò a interrogarsi sul fenomeno irrisolto del razzismo contro la popolazione nera, decisa a non a subire ulteriori violenze e persecuzioni: “Un sordo rimbombo fatto di rabbia e paura: il rumore dei neri che si sollevavano, si sollevavano, non più disposti ad accettare di essere trattati come esseri inferiori”.

Il clima politico incandescente pretendeva da Nina Simone una partecipazione diretta, soprattutto dopo il famoso discorso di Martin Luther King del 1963, I have a dream, e la sua successiva incarcerazione, e dopo l’uccisione dell’attivista Medgar Evers, seguita da altri numerosi attentati contro la gente di colore.

L’indignazione di Nina trovò espressione non solo nell’adesione pubblica alla domanda popolare di giustizia e uguaglianza tra i cittadini, ma anche nell’alzare la propria voce di protesta, incidendo canzoni come Old Jim Crow, Mississippi Goddam e To Be Young, Gifted and Black (Giovane, di talento, e nera) divenute subito inni della lotta per i diritti civili.

La tormentata esistenza privata dell’artista, con i suoi infelici matrimoni, il difficile rapporto con la figlia, i continui tentativi di trovare serenità all’estero per sfuggire alle ostilità dell’America bianca e razzista, non viene affrontata nel libro di Tracy N. Todd, che rimane invece fedele a una narrazione quasi fiabesca della vita di Nina, maggiormente adatta a catturare l’attenzione dei lettori più piccoli, grazie anche allo stile semplice e accattivante della scrittura, e all’espressiva gioiosità dei disegni di Christian Robinson. L’autrice affida la dettagliata biografia dell’artista, e un essenziale repertorio bibliografico, alle pagine conclusive del volume, mantenendo così il carattere didatticamente divulgativo e formativo del suo lavoro, mirato a far conoscere la figura coraggiosa di una donna e di un’artista, interprete delle istanze di libertà, democrazia e parità sociale ancora oggi purtroppo messe in discussione.

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net          4 settembre 2023

 

 

RECENSIONI

TODOROV

Tzvetan Todorov, L’identità europea – Garzanti, Milano 2019

“Il continente europeo porta il nome di una giovane, Europa, di origine straniera, senza radici, un’immigrata involontaria: abita ai confini, lontano dal centro delle terre, su un’isola. Il pluralismo delle origini e l’apertura agli altri sono diventati l’emblema dell’Europa”.

Così Tzvetan Todorov, in un piccolo libro del 2009, L’identità europea, giustamente riproposto da Garzanti in quest’anno di elezioni. Todorov (Sofia 1939-Parigi 2017) è stato un critico letterario, un linguista e un saggista di fama internazionale, che nei primi anni della sua carriera ha contribuito a diffondere in Europa gli studi dei formalisti russi, basilari nell’influenzare la cultura strutturalista degli anni Sessanta. Trasferitosi a Parigi nel 1963, intorno agli anni ’80 prese le distanze dalla critica scientifica del testo per orientarsi verso interessi storici, antropologici, artistici ed etici, aprendosi al dialogo tra diverse culture e all’incontro con l’«altro». Per un trentennio esplorò eventi di cronaca e storia europea e americana, riflettendo su democrazia e totalitarismo, su civiltà e barbarie, sui destini del nostro continente di fronte al multiculturalismo e alle migrazioni.

Appunto di quest’ultimo problema si occupa nel testo in questione, indagando le motivazioni che hanno spinto nel dopoguerra alcune nazioni a fondare l’Unione Europea, e le prospettive con cui essa si propone oggi di rinsaldare i propri principi costituenti, potenziando la sua influenza nel mondo. Se è vero che la UE costituisce una realtà sul piano economico, giuridico e amministrativo, è altrettanto vero che non riesce ancora a giocare un ruolo di primo piano tra le grandi potenze, assediata com’è dai colossi americani, russi e cinesi e dalle aspirazioni sovraniste di alcuni stati membri.
Todorov suggerisce che potrebbe essere la cultura a dare un impulso supplementare al ruolo politico del nostro continente: culla della filosofia, della poesia, dell’arte e della musica già dall’antichità, patria di geni universali, cementata da un’uguale spiritualità e sensibilità religiosa, resa incredibilmente unica da capolavori architettonici e plastici, aperta a influenze di pensiero provenienti da realtà lontane nel tempo e nello spazio, crocevia di scambi commerciali.

L’associazione tra i vari paesi è stata resa possibile dalla loro disposizione geografica, con distanze facilmente superabili e un territorio frammentato da mari, monti e fiumi che preserva l’autonomia e l’autogestione, garantendo l’indipendenza dei singoli stati ed evitando qualsiasi tentazione di sopraffazione da parte dei più forti o l’instaurarsi di un potere antidemocratico, come già avevano intuito Hume, Montesquieu e Voltaire. Differenze sostanziali che rendono invece più difficoltosa l’aggregazione solidale tra i 28 paesi sono il grande numero di lingue parlate, la pluralità di costumi e tradizioni regionali, i diversi orientamenti politici, i caratteri stessi delle popolazioni e le loro particolari memorie storiche: ciò sembra rendere insostenibile l’idea di un canone culturale europeo comune.

Ma Todorov ritiene che proprio da questa pluralità di identità nazionali si possa raggiungere un’unità di intenti, qualora si riesca a gestire le specificità peculiari a ogni stato facendone uno stimolo alla competizione. Le nazioni europee sono “sufficientemente simili per dimensioni e potenza perché nessuna di esse possa sottomettere le altre”. Ciascuna nella sua indipendenza conserva libertà di giudizio e pensiero, mantenendo legami economici e politici, in un equilibrio di unità e pluralità che fa dell’Europa un caso unico tra i continenti. Così un tratto che potrebbe sembrare negativo, quale quello dell’eccessiva differenziazione tra i paesi membri, in realtà si trasforma “in qualità positiva assoluta, la differenza diventa identità e la pluralità unità”. L’identità europea si configura dunque nell’accettare le diversità tra gli aderenti, traendone il massimo profitto possibile.

Le spinte sovraniste attuali, nazionaliste sul piano istituzionale ma europeiste nella rivendicazione di radici storiche e religiose comuni, in realtà tendono a legittimare l’esclusione di chi, arrivando da zone povere e conflittuali della terra, preme ai confini, e chiede di essere accettato portando il proprio contributo di lavoro e di sapere. È quindi in un cosmopolitismo capace di integrare “le diverse maniere di vivere l’alterità culturale” che l’Unione Europea può riconoscere la sua identità come eredità del passato e prospettiva per il futuro.

 

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https://www.sololibri.net/L-identita-europea-Todorov.html                17 maggio 2019

 

RECENSIONI

TODOROV

TZVETAN TODOROV, LA LETTERATURA IN PERICOLO – GARZANTI, MILANO 2008-2018

Ci sono libri preziosi, che hanno il grande merito di racchiudere, in poche pagine di scorrevole lettura, i caratteri fondamentali del pensiero di un autore, le scelte che ne hanno determinato la formazione e lo sviluppo, gli snodi essenziali della sua biografia. È il caso di un volumetto di Tzvetan Todorov, pubblicato da Garzanti nel 2008 e riedito nel 2018, intitolato La letteratura in pericolo. Todorov (Sofia 1939-Parigi 2017) è stato un critico letterario, un linguista e un saggista di fama internazionale, che nei primi anni della sua carriera ha contribuito a diffondere in Europa gli studi dei formalisti russi, basilari nell’influenzare la cultura strutturalista degli anni Sessanta.

Nella breve introduzione a questo volume racconta di come, nella Bulgaria comunista del dopoguerra, si fosse sottratto al severo controllo della autorità accademiche sull’ortodossia marxista-leninista degli studi universitari, scegliendo di laurearsi con una tesi asetticamente grammaticale. Trasferitosi a Parigi nel 1963 per il dottorato, divenne allievo di Roland Barthes, che lo indirizzò all’approfondimento delle leggi generali della linguistica e del simbolismo letterario. La scelta di restare in Francia, determinata da motivi sia familiari sia politico-culturali, si rivelò conveniente per la sua notorietà intellettuale già dalla prima celebre pubblicazione del ’65, Théorie de la littérature. Ricercatore, poi direttore presso il Centre national de la recherche scientifique, intorno agli anni ’80 prese le distanze dalla critica scientifica del testo per orientarsi verso interessi storici, antropologici, artistici ed etici, aprendosi al dialogo tra diverse culture e all’incontro con l’«altro». Per un trentennio esplorò eventi di cronaca e storia europea e americana, riflettendo su democrazia e totalitarismo, su civiltà e barbarie, sui destini dell’Europa di fronte al multiculturalismo e alle migrazioni.  Affrontando inoltre temi decisamente inusuali per un linguista, come il ruolo dell’artista nella società, le derive autoritarie nei governi e nelle ideologie contemporanee, la scelta indifferibile tra bene e male: sempre con uno stile curato ed elegante, ma di grande presa comunicativa.

La fedeltà alla letteratura, iniziata nell’infanzia e protrattasi fino alla morte, indusse Todorov a scrivere pagine appassionate, con la volontà di renderne partecipi lettori di ogni provenienza, classe ed età, in un nobile desiderio di proselitismo e contagio amoroso: “La letteratura può molto. Può tenderci la mano quando siamo profondamente depressi, condurci verso gli esseri umani che ci circondano, farci comprendere meglio il mondo e aiutarci a vivere. Non vuole essere un modo per curare lo spirito; tuttavia, come rivelazione del mondo, può anche, cammin facendo, trasformarci nel profondo… Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di capirlo e organizzarlo… apre all’infinito la possibilità d’interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente… permettendo a ciascuno di rispondere meglio alla propria vocazione di essere umano”.

Le considerazioni da cui parte il libro di cui ci occupiamo riguardano l’insegnamento delle lettere ‒ così poco fruibile e stimolante per i giovani ‒ nei licei e nelle università, dove si antepone l’ermeneutica del testo alla comprensione del testo stesso, privilegiando i metodi d’analisi critica al piacere della lettura. La trattazione esclusivamente filologica delle opere finisce per rinchiuderle in un loro limitato e autoreferenziale spazio interno, nell’indagine sugli strumenti formali di cui si servono e sui metodi interpretativi con cui approcciarvisi, escludendo il loro significato ultimo, le finalità che si propongono di raggiungere, il rapporto che hanno col mondo. In tal modo si creano lettori linguisticamente competenti ma annoiati, incapaci di trarre dai classici antichi e moderni la lezione davvero necessaria e illuminante: la riflessione sulle proprie scelte personali, l’apporto di esperienze che provengono dagli altri, l’apertura verso la realtà circostante.

Purtroppo, la concezione riduttiva della letteratura è oggi comune a insegnanti, giornalisti, recensori e scrittori, che sembrano compiacersi della sua autosufficienza e incomunicabilità, spesso tendente a un solipsismo narcisistico e nichilista, espressione di una radicale frattura tra l’io dell’autore e l’esterno. Da queste osservazioni preliminari, Todorov prende lo spunto per delineare una breve e puntuale storia dell’estetica e della critica letteraria, a partire dai greci. Se nella classicità la poesia aveva il compito di imitare la natura, o di piacere, istruire, educare, dal rinascimento in poi le si richiese soprattutto di essere “bella”, formalmente perfetta, quasi fosse una creazione in forma minore di un artista-demiurgo equiparato a Dio. L’opera d’arte non doveva essere sottoposta ad altre finalità o scopi che esulassero dalla sua autonomia e dal suo valore estetico, e lo scrittore andava giudicato solo in base al suo talento. Inizia così uno scollamento tra chi scrive, dipinge, compone musica e la realtà in cui vive, fino ad arrivare agli estremismi dell’epoca romantica, secondo cui ogni forma artistica supera qualsiasi altra espressione della ragione, fornendo “l’accesso a una realtà seconda, vietata ai sensi e all’intelletto, più essenziale o più profonda della prima”. L’arte, insomma, è portatrice di una verità e di un bene superiori a quelli della filosofia, della religione e della scienza: è estasi, rivelazione, assoluto. Nel XX secolo, con le pratiche espressive dell’avanguardia, si è aperto un solco profondo tra letteratura di massa (popolare, a contatto con la vita quotidiana) e letteratura d’élite, fruita da esperti interessati più che altro alla struttura formale dei testi: “da un lato il successo commerciale, dall’altro le autentiche qualità artistiche”. Ci troviamo oggi davanti a un panorama editoriale in cui la relazione tra scrittura e mondo è relegata a produzioni di consumo, ai best seller e a un pubblico di non specialisti, mentre l’intellettualità più raffinata si barrica nell’ermeneutica testuale, inibendo così una ricezione più complessa e arricchente della letteratura.

Tzvetan Todorov aveva intrapreso la carriera accademica (che gli ha valso numerosi premi internazionali e incarichi di prestigio in importanti università) proprio come studioso del formalismo e dello strutturalismo. La sua svolta ideologica verso un differente approccio culturale, che lo portò ad occuparsi della “scoperta che l’io fa dell’altro, l’incontro con il diverso per eccellenza”, fu determinata dal coinvolgimento psicologico nei riguardi della conquista dell’America, descritta nel volume omonimo del 1982. In esso ripercorre le sconvolgenti vicende che dal primo viaggio di Colombo fino al 1600 interessarono le popolazioni dei Caraibi e del Messico, e lo fa utilizzando le cronache e i diari dei conquistadores, testimonianze del più grande genocidio della storia umana, iniziato con la volontà di scoprire popoli e territori ignoti, e passato successivamente al volerli convertire, per poi conquistarli e infine distruggerli.

L’interesse politico e sociale per le sorti dell’umanità si rivelò preminente in tutte le successive pubblicazioni dello studioso bulgaro. Nel volume L’identità europea del 2009, giustamente riproposto da Garzanti in questo anno di elezioni, Todorov indaga le motivazioni che nel dopoguerra hanno spinto alcune nazioni a fondare l’Unione Europea, e i motivi per cui essa dovrebbe rinsaldare i propri principi costituenti, potenziando la sua influenza nel mondo. Sarà forse proprio la cultura a dare un impulso supplementare al ruolo politico del nostro continente: culla della filosofia, della poesia, dell’arte e della musica già dall’antichità, patria di geni universali, cementata da un’uguale spiritualità e sensibilità religiosa, resa incredibilmente unica da capolavori architettonici e plastici, aperta a influenze di pensiero provenienti da realtà lontane nel tempo e nello spazio, crocevia di scambi commerciali. Le nazioni europee sono “sufficientemente simili per dimensioni e potenza perché nessuna di esse possa sottomettere le altre”: ciascuna nella sua indipendenza conserva libertà di giudizio e pensiero, in un equilibrio di unità e pluralità che fa dell’Europa un caso unico tra i continenti. Così un tratto che può sembrare negativo, quale quello dell’eccessiva differenziazione tra i paesi membri, in realtà si trasforma “in qualità positiva assoluta: la differenza diventa identità e la pluralità unità”. L’unione europea si configura dunque nell’accettare le disuguaglianze tra le varie entità nazionali, in un cosmopolitismo capace di integrare “le diverse maniere di vivere l’alterità culturale”. Le spinte sovraniste attuali, nazionaliste sul piano istituzionale ma europeiste nella rivendicazione di radici storiche e religiose comuni, in realtà tendono a legittimare l’esclusione di chi, arrivando da zone povere e conflittuali della terra, preme ai confini, e chiede di essere accettato portando il proprio contributo di lavoro e di sapere.

A questa nuova anima multirazziale e multiculturale delle società occidentali, Todorov dedicò i suoi ultimi anni di studio e di impegno civile, con la convinzione che l’arte e la letteratura possono salvare sé stesse e il mondo solo aprendosi ai contributi più diversi, mettendo a tacere paure e pregiudizi. Da esule bulgaro in Francia aveva sperimentato su di sé la difficoltà dell’integrazione, il peso della diffidenza e del rifiuto: con la sua testimonianza afferma che l’unica soluzione per uscire indenni dalla tagliola discriminante dell’intolleranza consiste nella capacità di conoscere e accogliere la diversità a livello personale e politico, poiché la storia umana è fatta di “una serie di impercettibili modificazioni”, prima individuali e poi collettive.

 

© Riproduzione riservata                 «Il Pickwick», 21 maggio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TOEWS

MIRIAM TOEWS, I MIEI PICCOLI DISPIACERI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2015

Marcos y Marcos propone ai lettori un quarto romanzo di Miriam Toews, autrice canadese di fama internazionale, nata nel 1964 da una famiglia mennonita di lontane origini ucraine. Di lei la critica ha sempre lodato l’abilità particolare nel raccontare vicende tragiche, in genere circoscritte al microcosmo della famiglia, senza scadere nella retorica o nel gusto del patetico, punteggiando invece la narrazione (scorrevole e colloquiale, fatta di frasi brevi e dialoghi vivaci, con frequenti e puntuali citazioni letterarie) di episodi leggeri, ironici, o francamente comici. Quasi a voler stemperare pudicamente il dolore, imbavagliandolo, quando si fa troppo forte o pericolosamente declamato.
Anche in questo romanzo i riferimenti autobiografici sono espliciti: la residenza stessa dell’autrice nella città di Winnipeg, il claustrofobico clima di fanatismo religioso della comunità mennonita (sempre ottusamente incline alla riprovazione, alla condanna, all’esclusione di chi avverte come potenzialmente diverso, e quindi minaccioso), la dolorosa catena di suicidi parentali, l’originalità controcorrente e le aspirazioni artistiche del nucleo familiare. Protagonista in prima persona è Yolandi, sorella minore e complessata della talentuosa, sensibilissima, geniale Elfrieda. Il rapporto che lega le due è strettissimo, simbiotico. La maggiore è una pianista di successo, «un’assoluta professionista della mondanità. Tutto in lei era di un’intensità incredibile. Così nitido e frizzante». Ma questo eccesso di intelligenza ed emotività l’ha resa fin da piccola un corpo estraneo nel mondo, vulnerabile, incapace di rassegnarsi alla mediocrità. Yoli invece si sa, o si crede, mediocre, e cresce all’ombra della sorella, con ammirata dedizione. Il romanzo si apre su una prima vicenda traumatica della famiglia, costretta a un trasloco non voluto, all’interno di una comunità religiosa fanatica e ottusa: padre, madre, figlie mal si adattano al conformismo dell’ambiente, cementandosi nel loro rapporto di assediati incompresi. Elfrida studia musica e legge poesie, e per lasciare un segno di sé incide su muri e alberi un acronimo tratto da un verso di Coleridge: «IMPD, i miei piccoli dispiaceri». Yolandi cresce goffa e alternativa, con un’inquietudine che la porterà da adulta a contorte scelte sentimentali, a una perpetua instabilità economica, e a inseguire una realizzazione come scrittrice sempre frustrata dai risultati.
Dopo poche pagine, il lettore viene catapultato in una realtà drammatica: il padre, un idealista sconfitto dalla rudezza dell’esistenza, si è ucciso sotto un treno; la madre, positivamente ottimista ma incapace di reagire alla disgrazia, si ammala di cuore; Yolanda si immola all’assistenza adorante della sorella, chiusa nella sua disperata scelta di rinunciare non solo a una luminosa carriera di pianista, ma alla vita stessa.

«La sofferenza, anche se risalente a un passato lontano, è una cosa che si trasmette di generazione in generazione, come l’agilità o la dislessia». I tentativi di suicidio di Elfrida si susseguono implacabili, come i suoi ricoveri, nonostante l’amore e la comprensione di chi la circonda, e della sorella in primo luogo. A niente valgono le carezze, i ricatti emotivi, le minacce, le recriminazioni, le dichiarazioni d’amore di Yolandi, perché «il problema è la vita e la sua invivibilità». Eppure, nonostante il dolore che dilaga, tra le righe aleggia un senso invincibile di leggerezza, di solidarietà e comprensione affettiva che fortifica i rapporti di amicizia e parentela; si impone come un dovere la possibilità di continuare a sorridere, aggrappandosi ai ricordi belli, ai rari gesti di qualche generoso sconosciuto, a preziosi momenti di inaspettata rivelazione della bellezza: «Lo sai che la gente è più felice quando smette di cercare di esserlo?»
Il lungo racconto di Miriam Toews termina con l’apertura alla continuità della vita, e alla necessità della speranza: «Dài, alziamoci, facciamo la doccia e andiamo». Un plauso alla traduttrice Maurizia Balmelli, che ha saputo rendere in un italiano fluido ed elegante la prosa della scrittrice canadese.

 

«succedeoggi», 22 aprile 2015