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RECENSIONI

TOGNONI

LUCA TOGNONI, DISTANZE – CAMPANOTTO, UDINE 2015

Un volume che offre al lettore versi di una delicatezza pudica e quasi ombrosa – nel senso che paiono temere qualsiasi esibita ostentazione di sé -, questo che Luca Tognoni (1977) ha pubblicato con l’editore friulano Campanotto. Benché l’autore sia laureato in filosofia, la sua poesia rifugge da teorizzazioni intellettualistiche, da tortuosità psicologiche, da sperimentazioni linguistiche. Si tratta di una scrittura puramente ed essenzialmente descrittiva, dello stesso nitore che possiamo ritrovare in alcuni acquerelli paesaggistici, anche là dove non è l’ambientazione esterna che prevale, ma l’attenzione al gesto, allo sguardo dell’altro da sé, alla sua parola e al suo silenzio. È appunto il silenzio a dominare l’espressione poetica di Tognoni, nel reiterarsi delle pause che privilegiano il taciuto e il sottinteso. Si legga per esempio la bella composizione riportata anche in quarta di copertina: «Vivi lontano, / sai del quieto giorno, / del fico che si piega / un poco al vento. / Sai dell’amore / che muta nel profondo. / Sai del tempo».  Oppure quest’altra: «Essere l’alba / dove l’acqua trema / o il lento insetto / che attraversa il grano. // Essere, forse, / dove nessuno è stato, / prima che giunga inverno».

Silenzio, lentezza, colori sfumati, il tempo quasi immobile della campagna: i versi di Luca Tognoni sono orgogliosamente inattuali, nel contenuto come nella forma. Non si intravede in essi alcun interesse per l’impegno politico e la vita sociale, per i miti imperanti della moda, del successo, dell’apparire. Non offrono spazio alla passione, o all’emotività esasperata. Amore e amicizia sono raccontati utilizzando la terminologia degli affetti, circoscritta a un ambito prevalentemente familiare: «Voglio essere l’uomo / che torna, / dopo tanto vagare, / alla casa del padre». È forse solo per la cagnetta morta che il poeta osa scoprirsi nell’intimità della sofferenza: «Sono venuto a trovarti, / mio amore, / dove grigia è la terra / e il cipresso che svetta / fa ombra. / Il mattino di giugno / ha il colore dell’erba / e l’insetto / e ogni cosa che vive / parla ancora di te». Distanze, infatti, è il titolo che Tognoni ha scelto per questa sua prima raccolta: il suo è un osservare la realtà non con distacco, ma con la discrezione di chi teme l’irruenza e l’aggressività del possesso, l’imposizione di una prepotenza. I nomi a cui sembra rifarsi la sua poesia sono quelli di una tradizione letteraria novecentesca poco sfruttata (Cardarelli e Valeri, oppure Govoni e Betocchi): voci pressoché dimenticate, ma che un epigono attento e sensibile può e deve saper fruttuosamente recuperare.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Distanze-Luca-Tognoni.html      23 novembre 2017

RECENSIONI

TOLENTINO

JOSÉ TOLENTINO DE MENDONÇA,  ESTRANEI ALLA TERRA – CROCETTI, MILANO 2023

José Tolentino de Mendonça (Machico 1965), cardinale, teologo, docente universitario, dal settembre 2022 è Prefetto del Dicastero per la cultura e l’educazione. Recentemente vincitore del Premio Lerici Pea, nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata Mondiale della Poesia. Tra i temi principali delle sue numerose raccolte di versi, oltre a un rapporto intimamente vissuto con la natura, troviamo la riflessione filosofica sulla libertà e sul tempo come eventi dell’umano e del sovrumano, inseriti in un ambito di pensiero cristiano apertamente ecumenico.

Estranei alla terra è il suo ultimo volume, edito da Crocetti: comprende i versi pubblicati in La strada bianca del 2005 e in Teoria della frontiera del 2017. A conclusione di entrambe le sezioni, Mendonça ha voluto apporre due riflessioni teoriche su significato e finalità della poesia, di cui sottolinea il carattere dissidente, ereticale, addirittura guerrigliero e fuorilegge: “Una poesia abbraccia precisamente l’impurezza che il mondo ripudia”. Nella sua “estraneità alla terra”, la poesia assume la forma di apostasia, indifferente all’“onnipotenza di ciò che è visibile, stabile, appreso”.

Per nulla consolatoria o devozionale, la voce intensamente spirituale di José Tolentino Mendonça è anche profondamente incarnata nell’innocente “materialità del corpo”, nella sua “esatta trasparenza”: “Ogni corpo è sempre senza speranza / e, tuttavia, la speranza / solo ai corpi appartiene”. I corpi abbruttiti e sofferenti degli emarginati e dei clandestini, destinati ad assumere su di sé “la spazzatura del mondo”, in realtà rivestono i panni luminosi degli angeli di Jahvé.

C’è, nella poesia di Mendonça, un’esplicita e orgogliosamente esibita ostilità verso il limite, la costrizione, la regola imposta: “malgrado fissa dimora e orari stabiliti / è per strada che dormiamo, a cielo aperto”, mentre è all’infinito che aspira, allo sconfinato di cui giustamente parla Alessandro Zaccuri nella partecipe prefazione, quando afferma che solo la poesia – in virtù della sua smisuratezza, della sua “natura originaria e insieme insurrezionale” -, è autorizzata ad avventurarsi nelle regioni dell’interiorità e del sacro. Della riflessione introspettiva il poeta conosce beneficio e seduzione, ma anche il turbamento e “l’indefinibile inquietudine”, il “governo del vuoto / … la caduta senza fine”. La noche oscura di San Juan de la Cruz preme su di lui con lo strazio dell’inadeguatezza, del dubbio e dell’abbandono: “a volte vedo andare a rotoli / giù per le scale la mia vita”, “Da parte mia non so mai / se sono irrimediabilmente lontano o troppo vicino a Dio”, “immagino il mio scendere nel buio / scialuppa calata nella solitudine”.

A salvarlo interviene la nostalgia di assoluto, l’attesa del miracolo, la fede che supera ogni confine spazio-temporale: “l’anima non abita dentro il proprio tempo / porta con sé una fragranza lontana”.

La volontà di partecipare alla storia, quella mitologica e millenaria e quella più recente (l’assassinio di Pasolini, il consumismo, il delirio televisivo, la corruzione ambientale e morale), si scontra con il timore di non riuscire a giustificare l’assedio del reale (“Io dicevo alle montagne: ‘cadete sopra di me’ / e alle colline: ‘nascondetemi’”).

Nella ricchezza di originali metafore visive e uditive, i versi di Mendonça si accendono di colori e suoni quando descrivono la natura assolata od ombrosa, che nel fitto della vegetazione, nel violento abbattersi delle tempeste o negli abissi siderali, mantiene traccia di un passaggio celeste: “il fruscio d’argento del fogliame / anticipa il passo dell’angelo, nel buio”, “in mezzo a quella terra incolta  / eriche, rovi, lentischi, mirti e ginestre / crescono come se lì ci fosse qualcosa / grazie a cui restare in vita”.

Se all’apparire di un segno soprannaturale si accompagna il silenzio, incapace di mentire (“prendi in bocca / il silenzio e immergiti con lui / fino al fondo / in questo consiste la vera devozione”), ecco che allora anche il ricordo di un volto amato, di un respiro sottile fa sussultare il tempo, supera ere geologiche e spazi cosmici, crea “punti di luce” nel buio del presente, con la dolcezza del sentimento condiviso.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese», n. II – febbraio 2024

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TOLENTINO DE MENDONÇA

JOSÉ TOLENTINO DE MENDONÇA, IL PAPAVERO E IL MONACO – QIQAJON, BOSE 2022

José Tolentino de Mendonça (Machico,1965) teologo e docente universitario, nel 2014 ha rappresentato il Portogallo nella Giornata Mondiale della Poesia, perché di poesia si occupa sia criticamente sia attraverso un’apprezzata produzione personale. Ha trascorso l’infanzia in Angola, dove suo padre faceva il pescatore in alcune città portuali.

Il rapporto con la natura è tra i temi principali delle sue raccolte, insieme alla riflessione filosofica sulla libertà e sul tempo come eventi dell’umano e del sovrumano, inseriti in un ambito di pensiero cristiano apertamente ecumenico. Il suo ultimo volume di versi, Il papavero e il monaco, ha tratto ispirazione da un viaggio in Giappone e dalla forma letteraria più tradizionale e nota di quel paese, l’haiku. L’haiku, che ha molti estimatori e seguaci anche in Italia (al punto che ogni anno gli si dedicano numerosi concorsi e convegni, con una vivace partecipazione di appassionati) è, come si sa, una poesia in tre versi privi di rime, che non supera le 17 sillabe, suddivise in 5/7/5 more per verso.

Nelle sue composizioni, Tolentino non si attiene rigidamente a questo schema metrico, ma rimane comunque fedele tanto a una struttura di estrema concisione, quanto alla dimensione spirituale, al richiamo evocativo, alla sensibilità pittorica tipica di tale figurazione poetica: nella premessa, afferma di essere debitore, per le sue composizioni, sia a Kerouac sia a Bashō.

Il silenzio, come intenzione di ascolto e svotamento interiore, è spesso protagonista dei versi: “Il silenzio solo raramente è vuoto / dice qualcosa / dice quel che non è”, “Il silenzio non è una forma / di riposo o sospensione / ma di resistenza”, “Silenzio: / contemplare la neve / fino a confondersi con lei”, “Impara a rinunciare / a tutto / persino al silenzio”, “Il silenzio / non è l’opposto / ma il rovescio”.

La preghiera è disposizione dell’animo, in una misura che non appartiene solo al cristianesimo, ma al sentire religioso universale, la cui espressione primaria è contemplativa, di ringraziamento e meraviglia, e i cui celebranti sono gli antichi pellegrini, i monaci di tutte le fedi: Vuoi sapere che cosa prego quando prego? / tronchi secchi, ramoscelli / recinzioni e creta rossa”, “Felice colui che bacia l’icona / con devozione totale / senza nulla chiedere”, “La vita monastica / è una forma di nudità / che non ha vergogna di sé stessa”, “La vera scienza della santità / è vivere / senza perché”, “L’estate / insegna la stessa preghiera / al papavero e al monaco”, “Il pellegrino / preferisce le scarpe / più volte riparate”.

La natura celebra la bellezza in totale gratuità: “Oggi le nuvole sembrano / monaci che prendono il tè / in silenzio”, “Cose che non lasciano traccia: il lampo nella notte / il volo degli aironi contro la neve”, “La begonia è tornata a fiorire / e la pernice ha ritrovato intatto / il proprio nido”, “Nel ramo del melo cotogno / scopro nuvole / che non avevo visto”, “Tante volte / dico alla rugiada / sono come te”.

Tra i colori di questi acquerelli poetici prevale senz’altro il bianco, nel candore della neve e dei cirri, nel vuoto della pagina che accoglie le scarne sillabe vergate in nero. Ma sono presenti anche il verde dell’erba e dei boschi, l’azzurro del cielo e dei laghi, il giallo e il rosso dei fiori.

Respiriamo qui la tranquilla serenità di chi si sa creatura simile a qualsiasi altro essere vivente, animale e vegetale, riconoscendosi inessenziale al mondo ma comunque amato da Dio; di chi desidera abbandonarsi al fluire del tempo, rinunciando a ciò che appesantisce mente e cuore: il tormento del pensiero, l’imposizione della volontà, l’afflizione della memoria, l’ansia del progetto. “Tutto è effimero: / ieri ascoltavo la tua / voce oggi solo il vento”.

Nella sua ammirata e intensa prefazione, l’italianista Lina Bolzoni così commenta queste pagine: “È un libro fascinoso e perturbante. Ci porta lontano, tra i giunchi e i crisantemi del Giappone e insieme scava nella nostra interiorità, ci provoca con le sue domande, con i suoi rovesciamenti di prospettiva, ci incanta con la magia del verso, con la danza turbinosa dei punti di vista”.

Oltre a essere poeta, José Tolentino de Mendonça è Cardinale della Curia Romana dal 2019.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 23 dicembre 2022

 

 

 

RECENSIONI

TOLENTINO MENDONCA

JOSÉ TOLENTINO MENDONÇA, LIBERIAMO IL TEMPO – EMI, BOLOGNA 2016

José Tolentino Mendonça (1965), sacerdote e poeta, è una delle voci più autorevoli e note della cultura portoghese. Le sue poesie e i suoi saggi di letteratura e filosofia gli hanno valso vari riconoscimenti e traduzioni in numerose lingue. Attualmente cura una rubrica sul quotidiano Avvenire, offrendo ai lettori una sorta di vademecum di saggezza e rasserenante spiritualità come viatico giornaliero. Questo piccolo volume pubblicato lo scorso anno consta di 17 brevi capitoli, ognuno dei quali è dedicato a un insegnamento etico, all’elogio di un sentimento, a una benevola avvertenza d’uso del vivere. “L’arte di”, si intitolano tutti: l’arte di ritrovare se stessi, e una disposizione d’animo positiva nei riguardi del proprio esistere nel mondo.

Una sorta di breviario laico su cui soffermarsi a meditare, magari una pagina per sera, prima di addormentarsi. Pillole di sapienza antica, come si trovano in tutti i testi di morale, da quelli delle Scritture, a Platone, allo stoicismo di Seneca e Marco Aurelio, alla mistica orientale. Questi interventi, tesi a sgombrarci la mente da ciò che è superfluo e ci appesantisce, suggeriscono le loro intenzioni già dal titolo: Liberiamo il tempo. Liberiamolo dalla fretta, dall’ansia di successo, dalla volontà di emulazione; ritroviamolo, facciamolo nostro, pensiamo a come scorra velocemente e non possa essere recuperato. Ecco quindi i brani che invitano alla riscoperta di virtù e valori dimenticati: L’arte della lentezza, L’arte dell’attesa, L’arte della perseveranza, L’arte del prendersi cura… Senza guardare solo ai risultati, pressati dal dovere di assolvere a mille impegni, senza riuscire mai a interrompere le nostre attività frenetiche, con il solo scopo di ottenere gratificazioni economiche o di carriera. Ricordarci che «tutto può scomparire in un attimo». Siamo sempre più polivalenti, ipertecnologici, multifunzionali, perfezionisti, efficienti, competitivi, incostanti: e sempre più insoddisfatti, scontenti, invidiosi.

Allora José Tolentino Mendonça ci invita a riscoprire altri valori dimenticati e derisi: la pazienza, la compassione, il perdono anche verso noi stessi e i nostri difetti. Per ritrovare nelle cose e in ciò che ci circonda quello che sembra non interessarci più: la gioia, l’attenzione verso i desideri più veri, la consapevolezza di quello che perdiamo ogni giorno per sbadataggine o superficialità. Abbiamo il dovere di essere felici, dobbiamo re-imparare a essere allegri come sapevamo esserlo da bambini, ribellandoci a quella «quotidianità ferrea e ingolfata che ci tiene volontariamente o involontariamente sequestrati», lasciandoci stupire dall’inatteso, dall’insperato, da qualsiasi cosa sappia farci uscire dai binari grigi dell’abitudine.

 

© Riproduzione riservata 

www.sololibri.net/Liberiamo-il-tempo-Mendonca.html;     1 aprile 2017

 

 

 

 

RECENSIONI

TOMMASI

WANDA TOMMASI, LE PAROLE PER SCRIVERLO – MIMESIS, MILANO 2020

Nei quattro capitoli che compongono il volume “Le parole per scriverlo. La ferita e la parola”, la filosofa Wanda Tommasi (che per decenni ha indagato il pensiero della differenza sessuale, sia come docente all’Università di Verona, sia all’interno della comunità filosofica di Diotima) affronta da un punto di vista poco esplorato la produzione narrativa di cinque famose scrittrici, analizzando il tema della sofferenza e della trasformazione messa in atto per superarla, rendendola fruttifera e vitale.

Già nell’introduzione l’autrice esplicita la sua intenzionalità: “Questo libro nasce dalla convinzione che ci sia una grande capacità femminile di accogliere il dolore, di ospitarlo e di elaborarlo… Tuttavia, prima dell’elaborazione del dolore, dev’esserci la sua accoglienza, la sua accettazione a livello esistenziale”. Ascoltando attentamente il proprio sentire, percependolo inconsciamente e affettivamente prima ancora di comprenderlo razionalmente, e mantenendosi recettivi rispetto all’accadere, si può convertire anche la ferita più penosa in un varco, in un’apertura all’alterità: processo di crescita percorribile solo attraverso l’espressione della parola.

Il primo tema preso in esame è tra i più dolentemente complessi da dipanare, perché archetipico e ineludibile: quello della relazione che lega madre e figlia, spesso conflittuale, colpevolizzante, ricattatoria. Tommasi ne approfondisce le dinamiche studiando le pagine di Irène Némirowsky e Marie Cardinal.  “L’oscuro materno”, il nodo “enigmatico, inquietante e intrattabile” che lega ogni figlia alla madre viene reso da Némirowsky con rancorosa e irrimediabile ostilità. “L’odio senza riparazione” nutrito dalla scrittrice ebrea russa, l’aveva indotta a tratteggiare un ritratto “abominevole” della genitrice: “affettivamente arida, avida di denaro, di gioielli e di amanti, preoccupata solo della propria bellezza”. Nel 1992, cinquant’anni dopo la morte di Irène avvenuta ad Auschwitz, è stata la figlia secondogenita di lei Élisabeth Gille ad assumersi il pesante compito di rielaborare il rapporto di sua madre con la nonna, attraverso il romanzo biografico Mirador, con una coraggiosa operazione che, rimuovendo il rimosso, non solo offriva una riparazione postuma a un irrisolto conflitto generazionale, ma riconciliava lei stessa con l’ingombrante figura materna.

A differenza della Némirowsky, Marie Cardinal riesce a superare l’avversità verso la madre (colpevole di aver tentato di abortirla e di non averla mai amata), non solo grazie a un lungo percorso di scavo psicanalitico, ma soprattutto servendosi della scrittura. “La carognata” di sua madre (non solo i ripetuti tentativi di aborto, ma soprattutto la sadica rivelazione fattane alla figlia adolescente), colpevole di averle procurato una serie di gravi malattie fisiche e psichiche, viene infine perdonata dopo la morte di lei, dapprima vissuta con sollievo, e in seguito accettata pietosamente, in una riconciliazione ottenuta riattraversando il nucleo più profondo della sofferenza.

La battaglia combattuta da Cardinal non si situa solo all’interno della sua storia personale, ma agita coraggiosamente le acque immobili del linguaggio patriarcale: “Se vinceremo questa battaglia […], potremo anche inventare delle parole per tappare gli spazi lasciati vuoti nella nostra lingua da quegli immensi dominii dell’inespresso, ed essenziale, che, guarda caso, sono dei dominii femminili. Dominii che appartengono da sempre all’umanità, e il fatto di arricchirli, e di occuparli, deve poter arricchire  tutti, uomini e donne”. Parlare e scrivere, quindi, per rimarginare ferite, inventando spazi simbolici da occupare, nella fantasia e nel sogno, nella pratica politica, filosofica, artistica.

Lo ha fatto egregiamente Ágota Kristóf, ungherese riparata in Svizzera, che attraverso la scrittura ha trovato modo di esprimere il dramma dello sradicamento dal paese nativo e dalla lingua materna (“Al di fuori della scrittura io non vivo”, diceva). A lei Wanda Tommasi, e al dolore di un sopruso “inassumibile”, dedica la seconda tappa della sua riflessione. Kristóf scrisse i suoi capolavori narrativi in francese, “una lingua nemica” imparata con sforzo e avversione, perché la allontanava inesorabilmente dall’infanzia, dai ricordi, dal modo con cui aveva imparato a nominare il mondo. Tornando sempre nei romanzi al trauma fondamentale dell’esilio, la scrittrice costeggiava la sofferenza senza mai liberarsene, facendo assumere ai suoi personaggi la propria solitudine, lo spaesamento, la rabbia.

Dalla scrittura esplorativa e mai catartica di Ágota Kristóf, Tommasi passa a raccontare l’esperienza esistenziale e intellettuale completamente diversa dell’americana Flannery O’Connor, “fiera claudicante”, costretta all’invalidità da una grave malattia reumatica, capace di accettare la menomazione fisica e la sofferenza che ne derivava in nome di un cattolicesimo in cui l’irruzione violenta e inaspettata della grazia riesce a sconfiggere l’agire malefico del diavolo. In questo senso, la malattia si rivela come evento salvifico, che non sminuisce il valore della persona, ma accentuandone la fragilità aiuta a condividere con gli altri il limite insito in ogni condizione creaturale.

O’Connor fa dell’imperfezione e della propria dolorosa claudicanza un punto di forza, uno stimolo a partecipare al processo creativo di Dio attraverso la scrittura: “Non sono mai stata altrove che malata. In un certo senso la malattia      è un luogo, più istruttivo di un viaggio in Europa, e un luogo dove non trovi mai compagnia, dove nessuno ti può seguire. La malattia prima della morte è cosa quanto mai opportuna e chi non ci passa perde una benedizione del Signore”.

L’ultimo capitolo del volume, dedicato ad Anna Maria Ortese, “pensatrice del negativo”, invita a riflettere sulla possibilità di trasformare il rancore per la sofferenza innocente (l’indigenza, le ingiustizie sociali, l’abbandono, il lutto) in un sentimento di solidarietà e compassione universale e inclusiva verso ogni aspetto della vita. L’angoscia provata per la morte di un fratello amato poteva essere lenita dalla Ortese solamente utilizzando “parole di luce”: “Queste espressività, e solo queste espressività, mi calmavano. Dicendo la pena, la pena se ne andava.  Perciò sentivo lo scrivere come una benedizione”. “L’autrice si fa carico di una pietas femminile, sorretta da una ragione visionaria, capace di penetrare al di là dello schermo del visibile per scorgere i segni di  una realtà altra, più vera”. La sua “teologia della perdita” apriva all’interno della negazione spiragli di consapevolezza responsabile, incoraggiando in lei l’amore partecipe per tutti gli esseri umani, gli animali e la natura sfregiata da interessi economici miopi e distruttivi. Solo ac cogliendo fino in fondo il patire comune a tutti, con umiltà, tenerezza, empatia, si può riuscire a stemperare il male patito, a renderlo più sopportabile,

Ciascuna delle autrici trattate in Le parole per scriverlo “percorre un itinerario personale, che attraversa il negativo elaborandolo e offrendogli uno sbocco nella scrittura”. Wanda Tommasi commenta i testi citati con puntuale competenza e sensibilità, proponendo in conclusione del volume una ricca bibliografia di riferimento.

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 10 giugno 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TONI

ALBERTO TONI, DEMOCRAZIA – LA VITA FELICE, MILANO 2011

Secondo la prefatrice e il postfatore di questo poemetto di Alberto Toni (Gabriela Fantato e Elio Pecora), molto esaurienti ed elogiativi nei loro interventi, il lettore si trova di fronte a un “poemetto unitario”, in cui “tutto pare fremere… in versi intensi e ritmati”, che fondono insieme “riflessione ed emozione”, animati da “una pietà sorgiva, una intensa, vera compassione”. Il titolo è lapidario, asseverativo, declamato: Democrazia. Quasi un manifesto programmatico, che da subito dichiara l’alta intenzione di denuncia civile di tutta la composizione, voce di uno solo che si fa di tutti, e diventa corale, sociale, politica. In un’epoca, la nostra, in cui versi e prosa si confessano orgogliosamente in esibizioni impudiche del privato più privato, del solipsismo più glorificato, del disimpegno più superficialmente divertito, questa di Toni appare un’operazione culturale decisamente controcorrente e coraggiosa.

Si articola in cinque sezioni, formalmente molto omogenee e sorvegliate, di strofe per lo più di cinque versi, con un respiro narrativo che non si avvale di rime, allitterazioni, artifici retorici. La poesia va cercata nel susseguirsi incalzante delle immagini, che sono soprattutto immagini di guerra: fango, puzzo insopportabile nelle tende, urina e filamenti di tabacco, braccia e gambe che fanno male, fronti che scottano, giacche a brandelli, madri silenziose, lunghe scie di automezzi, messaggeri, dispacci: insomma, tutto quello che fa di un conflitto una tragedia. Ma il poeta non rende esplicito o retorico il suo racconto: lo mimetizza in scenari diversi, distribuendolo nelle diverse sezioni del poemetto, che il lettore deve poi ricostruire. E la democrazia nasce dalla resistenza, dalla liberazione, è un’opera di pazienza e dignità collettiva, con nuovi eroi e nuove vittime, di altre lotte civili, o di incidenti sul lavoro, nell’intento di far progredire la comunità tutta: «educarsi alla / legge degli uomini: abbattere / il silenzio… // Allora parlare sarà un mattino / di sole ritrovato…».

IBS, 4 febbraio 2012

RECENSIONI

TORCHIO

MAURIZIO TORCHIO, CATTIVI – EINAUDI, TORINO 2015

Storia terrificante narrata in prima persona da un senza nome, un “captivus”, un ergastolano in cella di isolamento, inchiavardato senza scampo e remissione all’interno di un mondo di cattivi, dove tra carcerati e carcerieri scorre uno stige infernale di odio e brutture, di sevizie e vendette atroci, ma anche di reciproca dipendenza emotiva.

Maurizio Torchio narra con un pathos privo di retorica, e con una lucidità che sa farsi partecipazione empatica, la vicenda di un uomo che dopo un’infanzia e un’adolescenza normale (“I miei hanno sempre firmato il diario e controllato i compiti. Messo la merendina in cartella”) viene catturato a venticinque anni per aver sequestrato una donna, madre di due figli, e dopo due anni di carcere ammazza la guardia che lo scortava, guadagnandosi la “fine pena mai” in un buco di due metri, buio, gelido, con una latrina come unico suppellettile. Racconta la prigione, descrivendola analiticamente nella sua struttura interna ed esterna. Racconta i secondini, abbrutiti, rabbiosi, frustrati fisicamente e intellettualmente. Le umilianti perquisizioni fisiche e nelle celle, il vitto vomitevole, il silenzio tombale o le urla assordanti, la merda e il sangue, le ribellioni e i pestaggi, i commoventi e imbarazzati colloqui coi parenti, gli amori fittizi, i rimorsi e le nostalgie, i suicidi e i processi. “Il carcere non serve a restituire al mondo. E’ fatto per chiudere, coprire, cicatrizzare”.

Se si può trovare un limite a questo romanzo, peraltro interessante e meritevole, è quello comune a molta narrativa italiana odierna: cioè l’insistenza a far esprimere il protagonista in prima persona, con la stessa sensibilità macerata di un seminarista, con lo stesso eloquio raffinato e la consapevolezza culturale di un intellettuale di radio3, anche quando si tratti di un pluriomicida, di un drogato all’ultimo stadio o di un semianalfabeta. Troppa empatia, insomma, o troppo imbozzolamento nel proprio io travestito in altri panni.

IBS, 24 febbraio 2015

RECENSIONI

TORREGROSSA

GIUSEPPINA TORREGROSSA, ADELE – NOTTETEMPO, ROMA 2012

Con questo sapido e intrigante monologo teatrale, ambientato in una rigorosa e oppressa Sicilia degli anni ’60, Giuseppina Terragrossa ha vinto il Premio Roma 2008  Donne e teatro. Protagonista è Adele, una sessantenne sciatta e rancorosa, che ha vissuto e sprecato la sua esistenza nelle mura domestiche, assediata da presenze maschili mal sopportate, ondeggiando tra nevrosi e sadismo.
Rimasta incinta diciottenne di un uomo che l’ha abbandonata, sposa «’u manciato», un chimico violento, marchiato da una disgustosa malattia cutanea, che tuttavia riconosce come suo il bambino di lei, Ciccio, e anzi si lega a lui con un affetto protettivo e paterno. Adele vive il rapporto con il figlio e il marito con una sorta di nauseata e imposta dedizione, odiando se stessa, i corpi maschili che la circondano, e senza riuscire ad ammorbidire il suo livore nemmeno con la nascita del secondogenito, Gabriele. «’U manciatu s’era fatto pretenzioso, voleva trovare la tavola conzata, il picciriddo curcatu, un silenzio di chiesa e la pasta nel piatto…».

Con un ritmo narrativo incalzante, e un linguaggio reso assolutamente vivido ed espressivo dalle numerose interferenze dialettali («ammucciavano il sole con il crivo!»), Giuseppina Torregrossa riesce a rendere senza pietismi e con partecipe adesione l’abbattimento morale di questa donna, che si riduce e parlare con i suoi fantasmi mentali, chiusa nelle sua cucina, spettinata e ciabattona, ammorbando l’esistenza soprattutto al figlio maggiore, mai desiderato eppure profondamente amato, fino a fargli del male fisicamente, ad allontanarlo da casa, per poi perderlo definitivamente con un’ultima, crudele, ferita quando pensava di averlo riconquistato.

 

«Leggendaria» n.97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

TORRINI

VALENTINA TORRINI, LADY CINEMA – LE PLURALI, MORLUPO (RM) 2021

La giovanissima e intraprendente casa editrice femminista Le Plurali ha pubblicato un vivace saggio di Valentina Torrini dedicato ai film girati, prodotti, e fruiti dalle donne: Lady Cinema. Guida   pratica   per   attivare   le   tue   lenti   femministe, con prefazione di Marina Pierri.

È evidente che nessuna/o può pretendere di cancellare un secolo di cinema maschilista, ma sarebbe oltremodo opportuno imparare a guardare i film attraverso occhi più consapevolmente disincantati, più razionalmente analitici, più intuitivamente solidali con una lettura di genere. Valentina Torrini, forte della sua più che decennale esperienza nel settore dello spettacolo, propone quindi un percorso critico che attraversi la storia del cinema delle donne (per, su, contro le donne) a partire dai suoi albori, cioè da Alice Guy, regista del primo film narrativo nel 1896, La fée au choux, fino al New Queer Cinema, passando per la Feminist Film Theory. Il volume (corredato da una ricca filmografia, una puntuale bibliografia, indirizzi internet e una trentina di schede di approfondimento su film, attrici, sceneggiatrici, montatrici, produttrici e registe famose o di nicchia), si presenta come un’ironica e provocatoria guida alla storia delle donne che hanno agito o sono state agite dietro e davanti allo schermo, con la precisa volontà di scardinare pregiudizi e di ridicolizzare gli stereotipi più scontati. Il cinema è stato, dalla sua nascita fino ad ora, il frutto del cosiddetto male gaze, lo sguardo maschile: generalmente di maschio etero, bianco, per lo più americano. Ne sono derivate alcune ovvie e ribadite tipicità nella descrizione di virtù e difetti femminili: dolcezza, timidezza, contegno, capacità di curare e accudire, mitezza, remissività, debolezza, eleganza, oppure (al contrario) perfidia, infedeltà, doppiezza, pusillanimità, curiosità, ocaggine, sciatteria, avidità, gelosia, seduzione. Principessa o strega, Cenerentola o Crudelia, novizia o dark lady.

A questi luoghi comuni non si sono sottratte anche altre figure rese “in modo macchiettistico, marginale e stigmatizzato, con caratteri poco definiti e molto estremizzati”. Donne non conformi ai canoni estetici, con disabilità fisiche o mentali, androgine o lesbiche, afro o sudamericane, orientali, indiane: relegate a ruoli di supporto, grotteschi, servili. Come si sa, “Il male gaze si manifesta su tre diversi piani: lo sguardo di chi sta dietro la macchina da presa, quindi il regista; lo sguardo diegetico, cioè quello dei personaggi maschili all’interno della trama; lo sguardo extradiegetico, cioè quello dello   spettatore che osserva la rappresentazione”.

Il libro di Valentina Torrini si articola in due sezioni: la prima, più teorica, ripercorre la storia del cinema dal punto di vista delle protagoniste, delle spettatrici e della critica, a partire dagli anni Venti fino ad oggi. Quindi le grandi dive (da Marlene Dietrich a Audrey Hepburn a Susan Sarandon, ad Angelina Jolie…), le registe più impegnate nella descrizione di una complessità e problematicità del pensiero, del carattere e della quotidianità femminile (tra le tante nominate, Ida Lupino, Agnès Varda, Chantal Akerman, Marguerite Duras, Sally Potter, Kathryn Bigelow, Chloé Zhao, Anna Biller,  Ava Marie Du Vernay,  Safi Faye, Petra Costa), le più agguerrite critiche cinematografiche femministe (Julia Lasage, Laura Mulvey, Katha Pol litt), impegnate a denunciare il sessismo oltre che nella forma e nei contenuti dei film, anche nei meccanismi dell’industria cinematografica e della distribuzione, rivalutando nel contempo le opere di autrici colpevolmente trascurate.

La seconda parte del volume, più leggera ed empirica, analizza alcuni strumenti pratici da applicare per giudicare il grado di adesione al femminismo dei vari lungometraggi, con una quotazione simbolica che varia da zero a cinque. Almeno sei i metodi utilizzati per valutare con criteri precisi la presenza e la rappresentazione dei   personaggi femminili, non come mere appendici di quelli maschili, ma con un loro specifico rilievo nello svolgimento della vicenda narrata. Il più noto e utilizzato da decenni è il Bechdel test, improntato però su criteri più quantitativi che qualitativi, e quindi non del tutto attendibile.

Nella classifica dei primi della classe proposta da Torrini, svettano Persepolis (2007) e Rafiki (2018), seguiti da molti altri: Joy, Camille Claudel, A private war, The United States vs. Billie Holiday, Tonya, Una giusta causa, Maria regina di Scozia, Malala, Miss Potter, Suffragette, Frida, Una canta l’altra no, Caramel, Le meraviglie, Piccole donne, Whip it!, Una donna promettente.

Non solo Puffette, Miss Piggy e Minnie; non solo insipide presenze di appoggio a super eroi, geni, campioni sportivi o banditi, né eccitanti lusinghe di godimento sessuale o lacrimevoli ricatti affettivi. Esiste un cinema in cui le donne sono caratterizzate da reale complessità, esibiscono le loro ambizioni, soffrono di conflitti interiori, lottano per ottenere il giusto riconoscimento al proprio valore.  Il libro di Valentina Torrini ne mette in luce la troppo sottovalutata rilevanza, nella consapevolezza che il cinema non avendo solo funzione di intrattenimento, necessita di venire analizzato attraverso “lenti femministe” che aiutino a percepirne il fondamentale compito formativo.

Quest’anno è nata Lynn, nuova divisione della casa di produzione cinematografica Groenlandia, intesa a promuovere    e a sovvenzionare esclusivamente progetti audiovisivi di donne. Si tratta di un’iniziativa coraggiosa e da incoraggiare, perché scommette sull’ideazione e fruizione di una settima arte davvero inclusiva.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 10 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TOSCANO

ANNA TOSCANO, DOSO LA POLVERE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Anna Maria Carpi, nella prefazione a questa plaquette di circa trenta poesie, definisce la giovane autrice «disadorna Anna», sottolineando di lei l’uso parco di artifici retorici, e il disincanto emotivo che accompagna i suoi versi. E veramente Anna Toscano sembra voler controllare molto sensazioni e sentimenti, eludere coloriture ed effetti speciali, come è già possibile intravedere dalla scelta indovinata del bel titolo Doso la polvere: quasi a indicare una severa regola di vita e di estetica, tesa a liberarsi da scorie, inessenzialità, eccessi. L’autrice, studiosa di Scienze del Linguaggio a Ca’ Foscari, è anche appassionata fotografa, e predilige gli scatti in bianco e nero. Così sono anche le poesie, che descrivono con tratti recisi, mai ammorbiditi da allegrezza o vivaci entusiasmi, ambienti, città, persone, affetti. La sua Venezia è raccontata nella lentezza di un passato celebrato e immobile («Il futuro non esiste / il futuro non arriva / nella mia città…// Noi si sta, felici, in uno specchietto retrovisore»), i passi che la portano in giro per il mondo non conoscono la spavalda gioia di vivere che meriterebbero i suoi giovani anni («Ho contato i passi, / passi lunghi cauti orizzontali»), il domani non sembra indicare possibilità di salvezza («i sogni / li ho infranti tutti / con una lancia sola»). La poesia di Anna Toscano esibisce una continua e malinconica constatazione di precarietà, come in questi espliciti versi tratti da Tutto è in affitto: «siamo grucce per cappotti / manichini per cappelli / forme per i guanti», e nemmeno l’amore concede scampo a questa negativa prospettiva di vita futura: «Fantastico, mi dicevi. / Fantastico, mi dico, / come non mi preservo, / come mi scialacquo»; «Non vi è nessuna sortita / questa è la fine della vita». A questa disposizione morale di immobile resistenza al tempo, l’ autrice fa corrispondere scelte formali raramente innovative, “dosate” su un minimalismo descrittivo di pura decifrazione dell’esistente.

 

«Leggere Donna» n.162, gennaio 2014