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RECENSIONI

TUROLDO

DAVID MARIA TUROLDO, NEL LUCIDO BUIO – RIZZOLI, MILANO 2002

Vent’anni fa l’editore Rizzoli ha dedicato alla figura di Padre David Maria Turoldo un prezioso volumetto, Nel lucido buio, ormai recuperabile solo tra i Remainders o negli outlet di qualche libreria online. Vi sono raccolte brevi prose liriche e i versi scritti dal frate poeta pochi mesi prima della morte, avvenuta a Milano il 6 febbraio del 1972 per un tumore al pancreas.

Il libro offre un’accurata ricostruzione biografica della non facile esistenza dell’autore, una dettagliata bibliografia delle sue pubblicazioni di poesia, narrativa, teatro e saggistica, e un’interessante antologia dei più acuti commenti di chi si è occupato di lui a partire dal dopoguerra. Tra i religiosi: Ravasi, De Piaz, Fabbretti. Tra i poeti: Ungaretti, Betocchi, Bo, Erba, Clementelli, Finzi, Porta, Ramat, Giudici, Bandini, Luzi, Zanzotto. Proprio di Ungaretti è opportuno trascrivere la perspicace e profetica valutazione, risalente al 1948: “La poesia di Davide Turoldo è poesia che scaturisce da maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno, presenza in tortura di desiderio, assenza poiché dall’Eterno ci separa l’effimero nostro stato terreno, al quale tiene tanto la nostra stoltezza”.

L’approfondita e appassionata prefazione di Giorgio Luzzi non si limita a inquadrare i testi presentati entro i confini della produzione letteraria del poeta, ma ne fa una disamina dal punto di vista formale, ricostruendo le correnti del pensiero estetico del secondo Novecento, propenso a ridimensionarne la novità. Lontano dallo sperimentalismo e da qualsiasi complessità semantica o metrica, Turoldo era più interessato a cosa dire che a come dire, orgoglioso del proprio inattuale differenziarsi dall’ autoreferenzialità del testo poetico allora proclamata ed esibita. Lo ammetteva esplicitamente in uno dei brani riportati nel libro: “Gli altri scrivono di ‘altipiani’, in forme stupende, parlano con tutti… sanno tutte le malizie della mente, le sante malizie, sono dentro il grande fiume delle lettere, del discorso umano: e sono certo che hanno ragione. Ma io non riesco, non riesco, sono un maniaco di Dio. È come se avessi la fronte un chiodo”.

Viveva quindi con diffidenza il predominio dell’estetica sull’etica, quasi fosse un tradimento (ornamentale, mondano e superfluo) al suo mandato di testimone del Vangelo. L’orizzonte dei lettori a cui si rivolgeva era quello del popolo dei credenti, sebbene credenti particolari, in perpetua, inquieta ricerca del senso della vita e dell’oltre-vita. “Dio non è la risposta, è la Domanda; e non tanto se Dio c’è, quanto chi sia, come pensarlo, quali rapporti intessere e sapere delle sue responsabilità circa il male: se è o non è onnipotente”.

Tutta la poesia turoldiana si situa all’interno della riflessione sulla teodicea, avvicinandosi più alla teologia che alla letteratura, più alla preghiera che alla filologia o alla linguistica, nel tentativo di indagare il Mysterium iniquitatis, pur accettando l’inconoscibilità razionale del divino. E ha come mezzo espressivo la fonte biblica, come fine la comunicabilità dell’esperienza religiosa in ansia di conversione. Lo stile, fortemente fondato sull’oralità e su tonalità accese, predicatorie, arcaicamente terragne, è dettato dall’adesione viscerale a un cristianesimo originario, pauperistico, minoritario, forse addirittura ereticale e trasgressivo.

La vita intera di David Maria Turoldo fu testimonianza della militanza dalla parte dei vinti, degli oppressi, con un imperioso richiamo all’uguaglianza e alla giustizia sociale, anche contro ogni ragionevole prudenza politica, contro ogni acquiescenza e connivenza delle gerarchie ecclesiastiche.

Nato nel 1916, ultimo di nove figli di una poverissima famiglia di contadini friulani, nel 1940 fu ordinato sacerdote, entrando nel convento di Santa Maria dei Servi in San Carlo a Milano. Qui sperimentò subito la difficoltà di rapportarsi con il carattere rigido e conformistico dell’istituzione, soprattutto quando l’impegno politico lo portò ad affiancare la Resistenza insieme a un gruppo di studenti e intellettuali, riuniti intorno al foglio L’Uomo, organo dell’antifascismo cattolico milanese. Dopo essersi laureato in filosofia, iniziò a predicare in Duomo, raccogliendo intorno alla sua carismatica figura l’interesse della borghesia milanese e il sospetto delle autorità, acuito dalla sua partecipazione al progetto della Città di Nomadelfia con Don Zeno Saltini. Nel 1948 pubblicò da Bompiani il primo libro di poesie, Io non ho mani: ne seguirono molti altri, fino a quello postumo di cui ci stiamo occupando. Nel 1951 fondava il centro culturale la Corsia dei Servi. Invitato a lasciare l’Italia, si rifugiò in Svizzera, trasferendosi in seguito a Firenze, dove condivise le esperienze toscane del cattolicesimo progressista. Un nuovo esilio lo portò poi a Londra, in Canada e in Sudafrica. Nel 1960 si spostò presso la comunità dei Servi di Udine, dove scrisse la sceneggiatura del film Gli ultimi, ambientato nel Friuli della sua infanzia. Dal 1963 alla morte si stabilì nel paese natale di Papa Giovanni, a Sotto il Monte in provincia di Bergamo, creando un centro di studi ecumenici aperto alla collaborazione di teologi e credenti internazionali, e continuando la sua intensa attività di conferenziere, saggista, coordinatore spirituale.

I testi raccolti in Nel lucido buio (il cui titolo ossimorico sembra alludere sia all’oscurità dei mistici illuminata dalla fede, sia all’attesa della fine imminente, affrontata con consapevole rassegnazione)

precedono di pochi mesi la morte dell’autore, e sono caratterizzati da un più accentuato intimismo rispetto alla produzione precedente. Il lettore vi avverte il senso umanissimo di solitudine e abbandono di chi si appresta a lasciare persone e luoghi amati:

“E nel lucido buio, uguale / a un luminoso vuoto, pensare, / ma non sai a che cosa: poi / la dolcezza del dormire: // sarà così la sua venuta? … E celare il bisogno di compassione / desiderare presenze amiche / voglia di solitudine e sentirsi / triste fino al pianto / perché nessuno è venuto: / così giorno dopo giorno / sempre in attesa…”, “Anch’io in questi lunghi giorni e lunghissime notti ho sentito il taedium vitae…Non pensare, fingere di non pensare, di non sentire. Ad esempio, non è che mi sia assente la paura di impazzire”.

Tuttavia, ancora più dolorose e assillanti dei versi sulla propria sofferenza fisica e mentale, sono le riflessioni sui grandi temi dell’essere: la presenza del Male, l’abisso del Nulla, il silenzio di Dio, tutte modulate ricorrendo all’incandescente linguaggio delle Scritture, e in particolare dei Salmi.

Il Deus absconditus di Isaia torna qui a tormentare il credente, che lo supplica di rivelarsi: “mi prende paura di notti più oscure, / le nostre notti, o mio Signore! / Nel mentre tu crei e ti riveli / ecco che appari come un Dio notturno”, “Ma il mistero perdura, / fino a dire qualcuno: / ‘neppure il suo Dio lo salva!’ // Perché, Signore? // Mio Dio della notte e del giorno…”, “Navighiamo nel mare del Nulla / senza raggiungere mai / le tue sponde, Signore”, “Fino a quanto continuerà / a ingoiarmi la Notte? / E tu a nasconderti: perché?”, “Ognuno vive con il suo roditore / notturno: che tu non esista… // male è quel tuo tombale silenzio / che urla sulla tua assenza”.

Il dubbio sull’esistenza stessa di Dio, il timore di non venire ascoltato, si fa a volte grido disperato di ribellione, volontà di disobbedienza. E tornano alla mente gli interrogativi di Meister Eckhart, di Silesius, di San Juan de la Cruz, le invocazioni di Angela da Foligno e Caterina da Siena, la rivolta eterodossa di Ferdinando Tartaglia.

“Male sono le molte cose che ti denunciamo / quando pare che Tu non intervenga / e il giusto è divorato come un tozzo di pane. // O Dio dei privi di Dio, / segreto tormento del disperato”, “abbi pietà anche dell’empio, Signore”, “La tua ira ti rende forse un guadagno? / Forse aumenti in grandezza nel tuo furore?”, “Il pentimento di averci creato / fu il segno certo che sei più infelice di noi”, “Da quando creasti, fosti tu mai, Signore, felice? // …il serpente, creato da te, e sapevi!… // – E allora, crearlo, perché? E a non crearlo / saresti creduto un Dio onnipotente? / ma se onnipotente, è in te anche il Male?”

Sono le domande, terribili e destinate a non ricevere risposta, che si pone il Turoldo teologo portavoce di una teologia negativa che si è votata all’afasia, alla non definizione della trascendenza. Ma il David Maria Turoldo “maniaco di Dio”, così risponde al sé stesso incredulo, dubbioso, deluso: “più l’anima è deserta / più tu m’invadi”, “Tu sei sempre vicino, / tu incombi e ci avvolgi, / ma sono io che sono lontano”.

© Riproduzione riservata         «La Poesia e lo Spirito», 17 novembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

TUROLO

ANTONIO TUROLO, A PARTE IL LATO UMANO – VALIGIE ROSSE, PISA 2016

Quando, nel 2010, i fondatori della piccola casa editrice toscana Valigie Rosse istituirono il Premio Ciampi – dedicato allo chansonnier loro concittadino – intendevano segnalare autori letterari che fossero «diretti, amari e poco rileccati», e che aspirassero «a una bellezza formale originata da una personale schiettezza senza sconti». In quest’ottica, il Premio Ciampi 2016 è stato attribuito a un piccolo volume di versi e prose, A parte il lato umano, di Antonio Turolo, poeta veneto nato nel 1962. La plaquette, illustrata con le opere di Riccardo Bargellini che radunano «in un impasto ironico e agghiacciante, decontestualizzate insegne di aggressività, pericolo e sbilanciamento», si definisce (secondo l’approfondita postfazione di Paolo Maccari) attraverso una sua «asciuttezza e nudità» tendente «all’indagine di sé dentro un individuato contesto sociologico oltre che psicologico». I personaggi descritti dai versi di Turolo (di una disarmata semplicità, secchi e immediati) sono proletari o piccolo-borghesi, sempre disillusi, vinti e disperati: colti in un frangente particolare della loro esistenza, che spesso coincide con l’attimo fatale della morte, oppure con il momento rivelatore che li inchioda alla loro sconfitta.

Così leggiamo di infermiere di un pronto soccorso indifferenti all’agonia dei pazienti («Chi xe morto, chi xe morto? // Alle sei del mattino, primo turno / le garrule infermiere si informavano / con allegria»). Del prete che si imbosca nel cinema porno di una città lontana e, colto da infarto, viene riconosciuto come religioso per il colletto del clergyman dimenticato sotto il cappotto. Dell’anziana pensionata che si rifiuta ai parenti e al mondo, nel suo Evitamento, ma il cui cadavere in decomposizione è ritrovato dai vicini insospettiti per l’accumularsi della sua posta: più che altro bollette non pagate e reclami («chi le scriveva più?»). Del pugile sudamericano gay che uccide il suo avversario sul ring perché offeso da un insulto omofobo di lui. Dell’ex carabiniere caduto in disgrazia sociale ed economica, animato da odio razziale e di classe, che quando tenta un gesto eclatante contro le autorità sbaglia mira e obiettivo, fallendo anche nella sua ultima impresa. E poi dell’indifferenza della gente – che siamo noi tutti -, dell’omertà, dell’egoismo che permette alla collettività di sopravvivere anche a se stessa.

I versi di Antonio Turolo, così piani e di facile presa sul lettore, tendenti a mimare la secca prosa giornalistica, sono intercalati da brani di contro-commento esplicativi, pezzi diaristici in cui i protagonisti delle poesie offrono una loro verità alternativa, con inserti di dialogo, talvolta multilingue, o monologhi al limite della fantasticheria psicotica. Turolo, in un suo autoritratto a stampa, si definiva «un crepuscolare nostrano, un Corazzini poniamo, con qualche velleità pasoliniana». Maccari allude a influenze di Sbarbaro, Nelo Risi e Giovanni Giudici. A me pare evidente, invece, una qualche eredità con i personaggi perdenti e rassegnati al margine di Elio Pagliarani, anche nel tono risentito e pietoso con cui il poeta li avvicina, comprendendoli e giustificandoli, in un j’accuse sociale più amaro che indignato: e nell’abilità quasi cinematografica dei primi-piani di notevole intensità descrittiva.

 

© Riproduzione riservata            www.sololibri.net/A-parte-il-lato-umano-Turolo.html

15 gennaio 2017

 

 

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TWAIN

MARK TWAIN, L‘UOMO CHE CORRUPPE HADLEYBURG – MATTIOLI 1885, 2012

In questo racconto che Mark Twain pubblicò nel 1900, oltre alla feroce ironia che caratterizza sempre i suoi scritti, è evidente una sorta di risentito sarcasmo etico con cui l’autore del Missouri sferza l’ipocrisia farisaica di una comunità che si vantava irreprensibile, rivelandosi invece alla fine più corruttibile e meschina di altri nuclei sociali a lei vicini. “Fu molti anni fa. Hadleyburg era la cittadina più onesta e integra di tutta la regione. Aveva conservato questa fama immacolata per tre generazioni, e andava più fiera di essa che di qualunque altro suo bene”. Ma un bel giorno un forestiero “assai suscettibile e cattivo” a cui la città aveva malauguratamente recato offesa decide di vendicarsi, colpendola nella sua dignità collettiva, e smascherandone quindi la fittizia facciata di rispettabilità. A un cittadino ritenuto tra i più probi viene consegnato un pacco con una donazione di 40.000 dollari da regalare a chi in passato aveva inconsapevolmente compiuto una buona azione, senza specificare chi siano donatore e destinatario di quel denaro. Si apre quindi una indecorosa corsa, fatta di sotterfugi, reciproche accuse, calunnie, mistificazioni tra i notabili del luogo (il farmacista, il banchiere, il proprietario terriero… persino il parroco non rimane indenne da quell’infernale sarabanda di tentazioni) per accaparrarsi il denaro. Come saggiamente confessa la stimata e devota moglie di uno dei protagonisti: “Io sono convinta che l’onestà di questo paese è marcia come lo è la mia, e come lo è la tua. E’ un paese gretto, duro e avaro, e non ha altra virtù al mondo che questa onestà così decantata, e di cui tanto si riempie la bocca; e sono convinta, giuro, che se mai verrà un giorno in cui la sua onestà sia messa seriamente alla prova, allora la sua gran reputazione crollerà come un castello di carte”. La beffa micidiale messa in atto dallo sconosciuto rivela che “non c’è nulla di più fragile di una virtù che non ha passato la prova del fuoco”.

IBS, 13 marzo 2014

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ULBAR

MARIAGIORGIA ULBAR, GLI EROI SONO GLI EROI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2015

Anche senza conoscere la data di nascita di Mariagiorgia Ulbar, che non viene riportata nella terza di copertina, sono certa di non sbagliare attribuendole trent’anni o poco più: e lo faccio con il vago senso di colpa dettatomi dalla mia età, che non è stata capace di assicurare ai giovani come lei più convinte certezze. Perché le poesie qui raccolte esprimono la rassegnazione, l’impotenza, l’impossibilità di progettare un futuro (e non la rabbia, non una più salutare ribellione) di tutta la sua generazione. Non vorrei dare una lettura sociologica, o solo attenta ai contenuti, dei versi di Mariagiorgia; ma forse è il caso di partire proprio da questa considerazione. La sua scrittura esprime un sofferto, lacerato disorientamento, senz’altro più esistenziale che culturale. Perché i mezzi espressivi ci sono tutti, a iniziare da una tradizione novecentesca – soprattutto mitteleuropea – ben assimilata (da Rilke, con il suo angelo terribile, gli amanti, gli acrobati… fino a Mann), e c’è anche un’evidente sensibilità pittorica (penso ai paesaggi industriali di Sironi, alle marine di Carrà, a qualche incubo magrittiano…) e filmica (Bergman,Truffaut). Troviamo in lei una consapevolezza formale già matura, il dominio di formule retoriche collaudate (anafore, ellissi, sinestesie), l’attenzione descrittiva al paesaggio. Tuttavia, di che paesaggio si tratta? Marino, soprattutto, o meglio: marittimo. Non spiagge assolate, estati turistiche, tuffi, passeggiate romantiche; ma città costiere (Ancona, Pescara, Livorno, Trieste, Palermo,Venezia…) nei loro porti fumosi, litorali ingombri di rifiuti: raffinerie, piattaforme, lamiere, tubi.

«Ciò che lascia fuori la risacca / gli oggetti strani, dimenticati o rotti / quello che resta, lo scarto, i pezzi»; «È solo acqua ora sopra e sotto / così non c’è modo di tirare  / su le àncore, sapere/ se è bonaccia o burrasca in queste ore»; «Andrò sul fondo, sulla sabbia / dove vivono le salme e i relitti»; «Se non è marino, il paesaggio diventa campestre, e brullo, desolato, sporco»; «Qui mi sporcano la polvere, il catrame / gli incarti di pasti già mangiati…// la terra, i balsami, le bende»; «Torno dove termina la strada / dove resta solo il bivio / dove trovo i calcinacci…// un solco, una crepa»; «asfalti e bar bollenti / tavoli di plastica rossi e bianco avorio / con il buco al centro senza ombrello»; «Sotto le rotaie e sotto il fiume / vivono i topi…».

Un esterno sempre squallido e minaccioso, da cui bisogna scappare per salvarsi, ma senza sapere dove trovare scampo, in che modo sfuggire a incendi dolosi distruttivi, ricorrenti come incubi, e a scenari di persecuzione bellica: «mettere in un sacchetto il nostro oro  / se dovesse servirci all’improvviso  / per mangiare, lasciare un posto troppo buio, / salvarti da qualcuno, passare le frontiere nottetempo / fare uno scambio: un mio anello, un mio ricordo / per una indicazione e acqua fredda in cambio».

Il fatto è che Mariagiorgia e la sua generazione, una guerra non l’hanno mai vissuta («e a noi è mancata una guerra / mondiale, ti ho detto all’improvviso»): le loro catastrofi, le tragedie e i terremoti sono sempre individuali, mai collettivi, e assumono dimensioni squassanti da cui non ci si può, o non ci si sa, difendere («noi siamo quelli che non disturbano mai»). Per questo il j’accuse silenzioso e tanto più doloroso e ricattante verso la generazione matura diventa nei versi pesantissimo, quasi insostenibile: riflettendo però anche un’implorante richiesta di aiuto, come nell’intensa sezione Mio padre era un re, in cui l’autrice supplica regole e indicazioni, un appoggio sicuro, un insegnamento severo e illuminante per riuscire a resistere, per non soccombere di fronte all’indifferenza crudele della vita: «Di metodo ho bisogno per passare, / di metodo, di ordine, così invoco». Il padre tace, i padri tacciono, e Mariagiorgia Ulbar diventa portavoce di una collettività letteraria giovane, spaesata, intimorita ma solidale e affine anche nella scelta dello stile poetico, intimista, mai urlato, più consapevole di memorie che desideroso di futuro: «I cani andavano felici sulle spiagge, / io in ultima carrozza / col futuro alle mie spalle, dove vado / mentre guardo le rotaie del passato / che si allontanano».

 

«Nazione Indiana», 8 luglio 2015

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VACCA

NICOLA VACCA, COMMEDIA UBRIACA – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2017

Basterebbe forse evidenziare sei termini contenuti negli undici versi della poesia che apre la Commedia ubriaca di Nicola Vacca (amputare, sangue, massacro, dolore, terrore, uccidere) per individuare il leitmotiv dell’intera raccolta. Che è indubbiamente la violenza: quella patita e quella esercitata dall’uomo, dalla storia, dalla natura, da un dio irascibile e oscuro. Violenza ingiustificata e mai giustificabile, ribadita ossessivamente nei sostantivi (guerra, orrore, mattanza, inferno, odio, squartamenti, carneficina, strage, necrosi, macelleria, ferocia, annientamento, crollo, ammazzatoio…), nei verbi (azzannare, annegare, sanguinare…), negli aggettivi (orribile, crudele, straziato, osceno, feroce, sporco, agghiacciante…). Allo scandalo del male il poeta può opporre solo una denuncia indignata, ferita, rabbiosa. Lo fa usando uno stile prosaico, sentenzioso, a tratti declamatorio, che può ricordare il timbro apocalittico dei profeti biblici, nella sua perentoria assertività: «Quello che manca oggi è l’imperativo di uno schianto», «Siamo niente in un paesaggio di rovine», «Ognuno ha la sua terra desolata», «La realtà è un museo dell’orrore».

La sua è una vox clamans che disdegna rime, assonanze e qualsiasi artificio letterario, quasi avvertisse lo scrivere in versi inadeguato, o addirittura immorale («Dopo Auschwitz, nessuna poesia», ammoniva Adorno) rispetto alle atrocità commesse quotidianamente dagli uomini contro i propri simili: «I poeti non sono innocenti / perché sanno che la poesia è un’occasione persa / come la vita che ogni essere spreca / quando uccide ciò che ama». Diffidenza, quindi, anche verso gli stessi strumenti che usa, perché persino le parole mentono, e risultano inefficaci, spuntate: «le parole precipitano in un’ora di buio», «La penna scortica le parole», «Le parole assassine / non temono i pensieri di cemento», «Questo non è più il tempo delle parole», «Non resta altro da fare / che essere becchini delle parole». Di fronte al sangue innocente versato in guerre efferate, alle stragi terroristiche, ai kamikaze che si fanno esplodere (particolarmente sofferto è il ricordo dei recenti attentati parigini), Nicola Vacca reagisce con impetuoso sdegno, schernendo ogni ipotesi utopistica di riscatto, ogni illusione di fraternità o speranza di pace futura. Siamo nati per soffrire e per far soffrire, come già sosteneva pessimisticamente Leopardi: e non è un caso che le citazioni scelte dall’autore ad esergo del libro appartengano a Emil Cioran e Michel Houellebecq, disincantati cantori della fine dell’umanità, della impossibilità di qualsivoglia solidale empatia con il prossimo. “Commedia”, quella che viviamo: finzione “ubriaca”, illusione di contare nella mente degli altri o almeno di un dio, quando invece non serviamo a nulla, se non a danneggiarci a vicenda: «noi siamo già morti».

Come giustamente afferma Alessandro Vergari nella sua colta prefazione al volume, Vacca descrive il degrado antropologico della nostra contemporaneità con «urgenza e inquietudine», con una perpetua «sensazione di accerchiamento e controllo», affidandosi a un’analisi spietata del reale che ci stritola nei suoi impietosi ingranaggi: «Nessuno passa attraverso nessuno / e tutti calpestano il deserto di tutti», perché «siamo spacciati in un ammazzatoio». Se il massacro reciproco è la regola, come insegnava Hobbes, allora è evidente che anche la poesia diventa un inutile passatempo per anime belle, e pertanto va sconfessata, scardinata, derisa nelle sue pretese di intangibile nobiltà.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 15 ottobre 2017

 

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VAGLIO

LUCA VAGLIO, MILANO DALLE FINESTRE DEI BAR – MARCO SAYA, MILANO 2013

Il bel titolo di questo volumetto di poesie di Luca Vaglio (Dervio 1973) introduce a un ambiente metropolitano e grigio, quello piuttosto anonimo dei bar di una Milano indifferente e insieme magica (“attorno ciao e niente e silenzio”), vissuta tra Lambrate e Via Solari, Città Studi e Via Torino, e osservata nel muoversi vuoto, impersonale di avventori disillusi, che bevono vodka o birra, mangiano fusilli sconditi, ascoltando musica jazz in un’atmosfera di assoluta incomunicabilità, all’interno di locali tristi. Questa Milano “così bella e ruvida” è abitata da individui impauriti, tra cui l’autore si muove come un osservatore prosciugato (“mi sento quasi un evaso / da non so bene dove”; “tutte queste cose, / incluso l’amore sprecato e quello mancato, / mi fanno poco male”; “sono quasi felice / ma non sono sicuro / se questa liberazione dagli altri / questa vita mercuriale / è tutto quello che devo fare”), tracciando tuttavia nei versi un percorso discreto, gentile, di avvicinamento a sé e al mondo. Un tentativo di recupero di significato (dell’esistenza, del dolore, del sentimento) che sembra più riuscito là dove si esprime con la stessa amara oggettività delle due belle fotografie in bianco e nero di Ugo Mulas che corredano il libro (e che ricorda forse lo stile pacatamente constatativo di un altro poeta vivente a Milano, Umberto Fiori), e invece rischia di perdere intensità quando tenta registri più ispirati e metafisici (“della dissolvenza / della fine che tiene dentro il germe / primordiale del principio che sarà / soltanto se il sé si riconosce / e poi ammette di essere diverso da sé…”). La striminzita nota finale di Guido Oldani risulta invece alquanto superficiale e supponente, nel suo “pensare quasi shackespirianamente (sic!!!) intorno all’esistere o invece no”: una caduta di stile per chi da poco si è espresso criticamente nelle elevatezze de Il realismo terminale e de La faraona ripiena.

IBS, 24 dicembre 2013

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VAGLIO

LUCA VAGLIO, CERCANDO LA POESIA PERDUTA ‒ MARCO SAYA, MILANO 2016

Il giornalista Luca Vaglio, autore di alcuni volumi di poesia e di inchieste letterarie, ha pubblicato un breve saggio esplorativo sulla rilevanza della poesia nella cultura italiana attuale: la sua produzione e il suo consumo, la diffusione e l’incidenza delle vendite nel mercato editoriale, il prestigio e l’interesse che ancora conserva la scrittura in versi. I dati raccolti sembrano addirittura allarmanti: solo lo 0,60 del settore librario (per un totale di circa 7.000.000 di euro di fatturato annuo) è occupato da libri di poesia, per lo più di autori stranieri considerati “classici” (Neruda, Rilke, Eliot, Salinas…); i poeti italiani contemporanei sono pressoché ignorati anche dal pubblico con formazione universitaria; il calo dei lettori e fruitori di questo genere letterario sembra costante e irreversibile.

Quali possono essere i motivi alla base della marginalizzazione della poesia, che pure nel nostro paese ha goduto in passato di una collaudatissima tradizione celebrativa? Vaglio ne elenca alcuni, tratti sia da considerazioni personali, sia da apporti critici e interviste con studiosi e docenti. In primo luogo, quindi, il fatto che il mandato sociale per secoli demandato alla scrittura in versi sia stato raccolto dalla canzone rock e pop, capace di raggiungere pubblici più vasti e indifferenziati, esprimendo emozioni comuni in maniera meno criptica ed elitaria. Non è un caso che lo scorso anno il Nobel sia stato attribuito a Bob Dylan, e che i Beatles e gli U2 siano conosciuti e imparati a memoria universalmente, a differenza di quanto avviene per i poeti.

Inoltre, la poesia moderna è spesso autoreferenziale e narcisistica, tende a esprimere la soggettività di chi la scrive più che a farsi portavoce di un sentire collettivo, utilizzando ancora troppo spesso stili lirici ed elegiaci, piuttosto lontani dal parlato. La ricezione del linguaggio poetico, più ricercato e sperimentale rispetto a quello quotidiano, richiede poi particolari competenze linguistiche e culturali, che certo non vengono approfondite dagli attuali programmi scolastici. Infine, il proliferare di blog e pubblicazioni a pagamento, di spettacoli di improvvisazione attraverso cui chiunque si può auto-definire poeta e rivolgersi a una cerchia ristretta ma gratificante di fruitori-conoscenti, rischia di confondere il pubblico, incidendo negativamente sulla qualità dei testi prodotti.

Quindi, per La poesia ai tempi di internet – titolo del primo dei due saggi che compongono il volume – sembrano prospettarsi tempi difficili: ne dà fede anche il secondo intervento, che trascrive una conversazione con Paolo Giovannetti, Professore di Letteratura italiana allo Iulm di Milano. Autore di un libro sulla metrica pubblicato da Carocci nel 2010, Giovannetti considera la produzione in versi contemporanea troppo concettualizzata, fondata su teorie critiche spesso ideologizzanti che la precedono o la accompagnano, richiedendo così abilità interpretative che non molti utenti possiedono. Si tratta di una caratteristica comune anche ad altre attività artistiche: cinema e pittura, quando non si rivolgono a un pubblico popolare ma lavorano in una nicchia di ricerca, richiedono nei fruitori conoscenze specifiche. Oltre a ciò, avendo sostituito a forme metriche rigide il verso libero, la poesia moderna si è trovata meno vincolata e difesa dalla tradizione, e più esposta a un’ambiguità formale, definendosi come «un macrogenere dentro il quale convivono esperienze diversissime… in una condizione babelica». Cinque le tendenze metriche individuate dal Professor Giovannetti nella produzione poetica odierna: esse giocano sugli accenti o sull’innovazione degli endecasillabi, utilizzano versi nominali o discorsivi, a volte privilegiano forme prosastiche. La vera novità sembra però poter arrivare dai rapper e dagli slammer, gli unici in grado di recuperare una dimensione orale e performativa del fare poetico, catalizzando nuovi interessi ed entusiasmi.

 

© Riproduzione riservata           

https://www.sololibri.net/Cercando-la-poesia-perduta-Vaglio.html                 10 gennaio 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

VAGLIO

LUCA VAGLIO, COSMOLOGIE – MARCO SAYA, MILANO 2022

Luca Vaglio (1973), giornalista, narratore e poeta, vive a Milano occupandosi di cultura letteraria e di viaggi. In questo suo ultimo libro, Cosmologie, affronta temi diversi con tonalità diverse, ma sempre con lo stesso pacato respiro emozionale, e una costante profondità meditativa.

Nella colta e penetrante prefazione, Lorenzo Cardilli giustamente sottolinea la capacità del poeta di affrontare un percorso di esplorazione interiore, con il relativo inabissamento nell’inconscio, riuscendo poi ad affiorare lucidamente in superficie attraverso l’osservazione puntuale dell’esterno collettivo. “Si articola così un continuo negoziato tra slancio uranico e schiacciamento sulla contingenza, le due istanze si scontrano, flirtano e mercanteggiano, seguendo le oscillazioni dell’io, i suoi sbalzi. Un io tanto disperatamente attratto dal qui e ora quanto pronto a disfarsene, come di una prigione”.

La dialettica instaurata da Vaglio tra dentro e fuori, vive la stessa antinomia, lo steso contrasto ideologico e filosofico registrato tra realtà e utopia, razionalità e irrazionalità, soggetto e oggetto, luce e buio, discorso e silenzio, grande e piccolo, bene e male, cielo e inferi. “L’anima bipolare / di ogni materia, il bianco e il nero, / il pensiero, il logos che siamo, / la forma-parola che, forse, ci crea”.

Tale dicotomica contrapposizione di possibilità differenti nell’agire quotidiano e nel porsi intellettuale, si riflette anche nelle scelte stilistiche adottate dal poeta, che vanno dalla narratività riflessiva all’esposizione dettagliata, dall’argomentazione scientifica alla confessione introspettiva.

Il viaggio è scoperta e liberazione, ma nello stesso tempo fuga e tradimento. I mille taxi, i treni, gli aerei che portano in Francia, in Portogallo, in Irlanda non riescono tuttavia ad allontanare il poeta da se stesso: “fuori c’è solo un mondo senza vita / e nessun tempo da abitare, tutto è / qui e altrove; non so se ho mai voluto lasciare questa stanza, / se mi ha sfiorato il desiderio / di stare bene da un’altra parte”. Infatti, “Milano esplosa e abbandonata” ritorna sempre, nei suoi bar vivaci (l’Hemingway, il Jamaica, il Caffè Luna), nella “Brera pulita, levigata, artificiale e irreale”, negli incontri casuali con coppie giovani e mature, mamme e bambini, studiate e commentate con attenta volontà di comprensione e classificazione. La realtà quotidiana, il cappuccino con croissant da consumare tra altri avventori, la partita di calcio guardata con simulato interesse in un locale pubblico, sono punti di avvio verso un altrove cosmico, o un riflusso nelle memorie personali: “una sorta di teletrasporto / chimico e improvviso della coscienza, / e forse un’eco psichica, un flashback / che rimandi all’infanzia più profonda”.

Gli interessi culturali di Luca Vaglio vengono esplicitati in assidui riferimenti agli autori più amati (scrittori come Pessoa, filosofi dai presocratici a Wittgenstein, epistemologi come Ernst Mach), in richiami sia alla fisica contemporanea sia alla cosmogonia dell’antico Egitto, con escursioni verso la tradizione astrologica e le festività religiose romane, nel desiderio di scrutare la realtà da prospettive differenti. Sempre con la consapevolezza dei limiti in cui è iscritta ogni particolare vicenda umana: “Riconoscere / che idea e materia, e quindi soggetto e oggetto, / particolare e generale e, se si vuole osare di più, / mente ed esperienza sono parti uguali del tutto, / schegge indivise dello stesso lembo del mondo”, “il senso / del cosmo deve essere cercato fuori / dal mondo”, “ci chiediamo perché le cose accadano, / il punto da dove cadono gli eventi, / se si tratti di un caso, di un moto / di atomi lungo il vuoto della materia…”.

L’indagine poetica di Luca Vaglio si definisce appunto in questo interrogarsi sul proprio destino creaturale, sul destino dell’umanità, su cause e finalità dell’esistenza, cercando uno spazio e una giustificazione al proprio esibirsi come scrittura, meditativa ma priva di qualsiasi assertività o boria, piuttosto umile e cauto intendimento di scrutare l’ignoto aldilà di ogni futile apparenza.

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 24 luglio 2022

 

 

RECENSIONI

VAGNOLI

CARLOTTA VAGNOLI, POVERINE – EINAUDI, TORINO 2021 (ebook)

Come non si racconta un femminicidio, è il sarcastico sottotitolo dell’ebook che Carlotta Vagnoli ha recentemente pubblicato con Einaudi: Poverine. Classe 1987, fiorentina, Vagnoli ha collaborato con i magazine GQ e Playboy; sex columnist e scrittrice, utilizza le piattaforme social per fare divulgazione sui temi della parità, del consenso e della violenza di genere. Con stile asciutto e determinato, lancia il suo j’accuse verso gli organi di stampa nazionali, quando riferiscono i femminicidi che avvengono quasi quotidianamente nel nostro paese con farisaico pietismo, se non addirittura con colpevoli censure e omissioni, scegliendo spesso punti di vista parziali, ricorrendo a fonti non sempre attendibili, ribadendo cliché scontati e obsoleti, ma soprattutto utilizzando una terminologia fuorviante e semplificatoria.

Attraverso un suo personale percorso di ricerca, l’autrice analizza la struttura narrativa di articoli, titoli e documentazioni fotografiche riguardanti gli omicidi di donne, spesso basati su repertori retorici di impianto fiabesco, in cui realtà e fantasia finiscono per sovrapporsi. In generale, nei giornali prevale la descrizione morbosa o romanzata dell’assassino, ridotto frequentemente alla figura del folle ottenebrato dalla gelosia o dal troppo amore, portato a delinquere a causa di una situazione familiare depauperata e violenta. Il male viene stereotipizzato: “I motivi ricorrenti e il profilo psicologico dei personaggi delle favole tradizionali, traslando di storia in storia, dopo un po’ diventano elementi ripetitivi e riconoscibili. I cattivi si tramutano puntualmente in maschere teatrali, personaggi da commedia riproposti all’infinito… gli schemi dell’universo favolistico vengano spesso importati nella realtà per poter giustificare i comportamenti umani che ci rifiutiamo di imputare ai nostri simili”. La vittima invece (ragazzina, donna, fidanzata, moglie, madre, sorella) interessa meno, le viene negata l’attenzione anche da morta. Se va bene, “la reazione unanime è sempre quella di un composto, sommesso, quasi imbarazzato: ‘poverina’”. Poverina soprattutto quando l’uccisa ha i caratteri della giovane bella, seria, decisa a non concedersi sessualmente. Altrimenti, scatta l’accusa: se l’è cercata, non ha saputo o voluto difendersi, ha tradito, provocato, umiliato, esasperato. Per l’omicida si cercano attenuanti, per la vittima colpe o imprudenze.

L’autrice fa riferimento ad alcuni recenti e crudeli femminicidi: quelli di Elisa Pomarelli, Chiara Ugolini, Barbara Gargano, Aurelia Laurenti, Jennifer Sterlecchini, Maryna Novozhylova, in cui al “mostro” si è attribuito un movente passionale o un raptus sessuale per legittimarne la brutalità, annullandone ogni responsabilità sociale e culturale. In tale maniera si occultano i perversi meccanismi determinati da millenni di dominio patriarcale che hanno concorso non solo a perdonare con indulgenza l’abuso maschile, ma anche a indurre le donne a una pericolosa romanticizzazione della violenza, a una sua rassegnata o impaurita accettazione. Davanti a “uomini cresciuti nella cultura sessista fondata sul possesso e sulla prevaricazione” spesso anche le forze dell’ordine appaiono conniventi, e i parenti dell’assassino sono indotti a discolpare l’atto efferato.

Carlotta Vagnoli propone un decalogo deontologico cui i media dovrebbero affidarsi nelle cronache dei femminicidi: evitare il sensazionalismo, la morbosità nella descrizione dei particolari, la pornografia del dolore, la colpevolizzazione della vittima, l’incoraggiamento di qualsiasi emulazione. Si dovrebbe invece assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate, affidandosi a fonti certe, imparziali e precise e citando più spesso i database ufficiali sui fenomeni di violenza di genere. I femminicidi non vanno raccontati dal punto di vista del colpevole, ma partendo da chi subisce la violenza, nel rispetto solidale e convinto della sua persona: perché è la vittima che va tutelata, non il carnefice.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 7 gennaio 2021

RECENSIONI

VALDUGA

PATRIZIA VALDUGA, LIBRO DELLE LAUDI – EINAUDI, TORINO 2012

Questo nuovo, esile, volumetto di poesie di Patrizia Valduga, con dedica iniziale a Giovanni Raboni, «infinitamente amato», è suddiviso in tre sezioni, formalmente del tutto omogenee ( si tratta sempre di distici in endecasillabi), ma diverse nei temi, nei toni e nei destinatari cui la poetessa si rivolge. La prima parte, che ricalca modalità delle litanie e delle laudi medievali, fino ad imitare le giaculatorie popolari della devozione cattolica a noi più vicina, è tutta dedicata alla malattia e alla morte del suo compagno, che viene scongiurata, maledetta, temuta, ricattata, in versi che talvolta raggiungono l’altezza della perfezione («che tu sei il mio permesso di soggiorno / per dovunque, non solo per Milano», «Hai raddrizzato questo cuore storpio / restando muto, immobile e lontano», «Io sempre al limitare del mio niente»), altre volte si limitano a risultati un po’ troppo facili e banali: «Signore di ogni tempo di ogni vita, / per la sua vita ti dò la mia vita», «Sono preghiere, versi veri e vivi, / perché tu viva, amore. Amore, vivi!». La seconda parte scandaglia le ragioni di un’angoscia esistenziale che attanaglia l’autrice dalla primissima infanzia, e che ha trovato requie e scampo solo nella solidità rassicurante del suo amore per Raboni : «Adesso, amore, metti insieme tutto :  / angoscia e rabbia, panico e piacere», «Ma questo male impresso nella mente / mi ha portato da te, vero?, Giovanni…», salvandola da memorie di violenze, malattie, sessualità precocemente vissuta e patita, più di qualsiasi terapia psicanalitica. La terza sezione del libro ritrova l’amaro sarcasmo e l’invettiva di prove precedenti di Patrizia Valduga, quando depreca «la prosaglia di tutti i giornalisti», e la cultura modaiola, effimera, superficiale che ormai domina Milano e l’Italia, escludendo dai suoi giri verità e grandezza. Ma da tutto il libro il lettore ricava il sospetto di un compiaciuto concedersi a una sorta di atteggiato manierismo, assolutamente scaltrito nei suoi esiti formali, ma alla fine simile a un collaudato esercizio di retorica, che perciò suona poco autentico, poco sincero.

 

«Leggendaria» n.93, maggio 2012