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RECENSIONI

VALDUGA

PATRIZIA VALDUGA, MEDICAMENTA – GUANDA, PARMA 1982

Un libro pieno di notti, è il primo libro di poesia di una giovane autrice veneta, Patrizia Valduga, che sembra muoversi con totale sicurezza e quasi provocatoriamente nell’oscurità dei sensi rievocata dalle parole, mentre esse rimangono sospese come monadi in un’ atmosfera di alambicchi e filtri amorosi. Medicamenta,appunto, è il titolo, e da medicare sono corpo e mente con l’unico benefico rimedio dei versi. La Valduga, novella fata morgana, li amalgama con perizia quasi scientifica, attenta a non trasgredire metri classici quali il sonetto e l’ottava, ma mescolandovi contemporaneamente ingredienti quanto mai dissimili: consacrazione e dissacrazione della tradizione letteraria, recuperi del duecento e Zanzotto, ironia e pietà, ma soprattutto un’onnipresente sensualità, a volte ostentata a volte solo suggerita. “Notte” è la parola più ricorrente, e alle notti sono intitolate le tre sezioni del libro, sottintendendo che la poesia deve far riaffiorare alla luce ciò che è buio, perché passato e sprofondato nella memoria o perché taciuto per sempre. Quello che la poesia non ha mai trovato il coraggio e la gioia di raccontare, è la descrizione felice e innamorata del corpo maschile, l’esaltazione del sesso maschile. La poesia femminista ha spesso ironizzato o aspramente censurato l’argomento, la poesia omosessuale l’ha talvolta edulcorato. Patrizia Valduga, invece, rovescia i ruoli pietrificati dei duelli e delle schermaglie d’amore, si fa protagonista di una caccia che ha per oggetto il corpo dell’altro, e cerca di possederlo con crudezza e insieme dedizione: «o strascinarmi al suolo / e con lascivo assalto, anche il midollo / succhiargli…o con audaci mani a volo / provarne gli inguini». Una «vera carnale festosità» nutre la prima sezione Notte dei sensi.
Un inferno di carne, come indica l’epigrafe dantesca; e i richiami a Dante sono costanti non solo nelle immagini dei grovigli umani, quanto anche nella mimesi dello stilnovismo («Che tanto / amor non muta e muta mi trascino»; «di mie doglie, lagnanze lagne e lai») o della petrosità («E nottetempo la gente si arrapa, / s’ ingrifa, al serra serra si disgroppa»; «su ammucchiarsi d’ umano alto m’accappia»; «lor secrezioni, escrezioni contermini»). La sezione intitolata al Marino è naturalmente quella in cui l’omaggio al barocco è più vistoso, in cui i giochi di parole, le magie di rime e assonanze diventano sostanza stessa della poesia, mentre notte e giorno, morte e vitalità del sesso non sono che accidenti, pretesti poetici. Le ottave di endecasillabi sembrano le più calibrate e le più felici del volume, nel loro artificio retorico si placa anche l’agitazione formale e di contenuti della prima parte. Infine, l’ultimo capitolo del libro Notti mancate, favoleggia in un tono sospeso tra il cavalleresco e il pastorale di contese amorose, di seduzioni che ci riportano a un’atmosfera tassesca. L’allusione nega qualsiasi concretezza ai concetti, che sono gli stessi di sempre, ma sottintesi o appena accennati; così avviene che i puntini di sospensione di cui la Valduga si serve in modo ossessivo, arrivino a imitare il balletto del corteggiamento, con le attese, i preparativi e l’avvicinamento, a cui segue la concitazione di una strofa che simula la frenesia e l’improvvisa precipitazione dell’accoppiamento fino alla tranquilla e conclusiva pacatezza dell’ultimo verso («Premorienza ci quieta a maraviglia»). Ci troviamo davanti a un libro nuovo e intelligente, verrebbe da dire forse “troppo” intelligente, costruito anche nelle esitazioni, che lascia intravedere dei punti deboli, delle zone scoperte solo dove questa costruzione viene meno: nelle poesie più brevi, che dovrebbero essere una sorta di illuminazioni, o scansioni ritmiche, ma che in realtà non riescono a uscire dalla estemporaneità. Patrizia Valduga si propone quindi come poeta dal fiato lungo, dall’ampio disegno architettonico, che non lascia spazio all’impressionistico o all’abbozzo.

 

«Produzione e Cultura» n. 28, ottobre 1982

RECENSIONI

VALDUGA

PATRIZIA VALDUGA, POETI INNAMORATI – INTERLINEA, NOVARA 2011

Patrizia Valduga, probabilmente la più nota poetessa italiana, e autrice di splendidi versi d’amore, ha curato per Interlinea una piccola antologia di 50 poeti nazionali “innamorati” del sentimento per eccellenza: dal duecentesco Guittone d’Arezzo al contemporaneo Giovanni Raboni, che chiude il volume con alcune composizioni memorabili. “I poeti che amano come adolescenti sono perdutamente innamorati di se stessi”, afferma la Valduga, e si sa quanto egocentrismo e autoreferenzialità animi in genere i letterati. Per cui sembra particolarmente acuta e ironica l’esortazione manzoniana riportata nell’introduzione a occuparsi di altri sentimenti, più nobili e solidali dell’amore: “la commiserazione, l’affetto al prossimo, la dolcezza, l’indulgenza”. Comunque, qui d’amore si parla, e di amore in versi… Ma la scelta degli autori antologizzati risulta subito abbastanza discutibile, quasi provocatoria: sia per le esclusione che per le inclusioni. Sono presenti infatti nomi assolutamente marginali nella storia della nostra letteratura (Bonaccorso da Montenegro, Chiara Matraini, Francesco da Lemene…); di altri poeti eccellenti vengono presentate poesie francamente mediocri o poco rappresentative o addirittura fuori tema (Pascoli,Prati, Palazzeschi, Tessa, Giudici, Ungaretti..); su alcuni poeti importanti e volutamente – polemicamente – tralasciati, la curatrice esprime giudizi impietosi (Buonarroti, Penna, Gozzano: che pure hanno scritto versi leggendari). Non si sa se per amore del paradosso o gusto della sfida, Valduga arriva ad anteporre Monti a Leopardi, Rebora e Betocchi a Montale; con coraggio, o con presunzione e scherno. Ma alla fine il lettore, forte della conoscenza di altre ponderate antologie di poesie d’amore (Garzanti, Rizzoli, Scheiwiller) si può chiedere che senso abbia questa operazione editoriale, e se non risulti a discapito di chi l’ha promossa e pubblicata.

IBS, 23 febbraio 2011

RECENSIONI

VALERIO

ADRIANA VALERIO, ERETICHE. DONNE CHE RIFLETTONO, OSANO, RESISTONO

IL MULINO, BOLOGNA 2022

 

Adriana Valerio (Sperone, 1952), storica e  teologa, da sempre è impegnata a reperire fonti e testimonianze per la ricostruzione della memoria delle donne nella spiritualità occidentale. Tra le prime teologhe ad occuparsi di esegesi femminile, ha insegnato Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, avviando progetti internazionali per la ricostruzione dell’identità storica e religiosa delle donne, in particolare indagando il loro rapporto con i testi biblici.

Nel suo ultimo volume, Eretiche, pubblicato da Il Mulino, ricompone le vicende delle molte donne coraggiose e indipendenti che, giudicate non in linea con le direttive dell’ortodossia cattolica, hanno osato fronteggiare i tribunali ecclesiastici, venendo per tale ragione oppresse, scomunicate, imprigionate, uccise. Già nell’introduzione ne presenta stringatamente alcune: “Il primo giugno 1310 venne bruciata una giovane filosofa, la beghina di Valenciennes Margherita Porete; nel 1524 la mistica Isabel de la Cruz fu processata e successivamente condannata all’ergastolo dall’Inquisizione di Toledo; a metà del Seicento furono deportate le colte suore gianseniste di Port-Royal dall’arcivescovo di Parigi; nel 1912 fu considerato pericoloso e messo all’Indice dei libri proibiti l’opera della teologhessa inquieta Antonietta Giacomelli che voleva sollecitare una riforma liturgica nella Chiesa”.

Donne: aristocratiche, plebee, vergini, maritate, suore, dichiarate pubblicamente eretiche. La parola greca eresia (αἵρεσις) significa “scelta”, e indica la possibilità di seguire un’opinione o una dottrina tra diverse opzioni. Questo termine originariamente non possedeva alcuna caratterizzazione denigratoria. Fu con le Lettere del Nuovo Testamento che assunse connotati dispregiativi, suggerendo separazione, divisione, devianza. “Le esperienze difformi furono giudicate disgregatrici e fuorvianti da un punto di vista dottrinale, morale e disciplinare e per questo allontanate, perseguitate, distrutte”, soprattutto a partire dal II e III secolo, con i trattati di Giustino, Ireneo, Tertulliano, Ippolito.

Gli autori di testi canonici, i detentori dell’ortodossia all’interno del cristianesimo erano ovviamente di sesso maschile, mentre alle donne veniva destinato un ruolo accessorio sia nell’elaborazione teorica sia nella pratica sociale. Eppure, spunti di critica ideologica, audaci contestazioni dei ruoli di potere, esperienze di fede non tradizionali furono elaborate da menti femminili, e regolarmente, severamente occultate o addirittura derise: “donne messe al bando o condannate come deviate, eretiche, streghe, sovversive, isteriche e altro, a seconda di come sono state stigmatizzate nelle varie epoche storiche”.

Adriana Valerio analizza appunto le vicende tormentate e dolorose che hanno caratterizzato i rapporti tra l’universo femminile e il cristianesimo, già a partire dai suoi albori: se il messaggio di Gesù si definì da subito come rivoluzionario e liberante, la misoginia era già evidente in molti testi del Nuovo Testamento: “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare, né di dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo. […] Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia (1 Tim 2, 11-15)”.

Istituzionalizzandosi, il cristianesimo accentuò la rappresentazione filosofica di una trascendenza legata al potere, in cui ogni elemento di pluralità e ogni aspetto di femminilità veniva marginalizzato, con un Dio definito come sovrano assoluto, intollerante ed esclusivo. Protagoniste di una proposta intellettuale e spirituale divergente da quella egemone, le “eretiche” mettevano in discussione soprattutto quattro principi ritenuti inamovibili dalla gerarchia ecclesiastica: il principio di autorità, il ruolo profetico, l’esperienza mistica e il rapporto tra legge e libertà, proponendo nuove alternative rispetto alle scarse opportunità offerte dalla vita ecclesiale.

Già dall’epoca romana la persecuzione nei confronti del pensiero teologico femminile fu costante, inibitoria e crudele: ne furono vittime le profetesse frigie Massimilla, Priscilla e Quintilla (definite femminette e donnicciole). Il cristianesimo, riconosciuto come religione dell’impero nell’editto di Tessalonica del 380, avviò poi un rigoroso processo identificativo e di opposizione nei confronti del paganesimo, della cultura greco-giudaica e delle correnti eterodosse: di tale irrigidimento teorico fecero le spese la matematica e astronoma egiziana Ipazia, e altre filosofe e teologhe infamate con accuse di adulterio e lussuria per tacitarne il dissenso ideologico.

Dalla Francia e dal Belgio si diffuse il movimento delle beghine, che aspiravano a vivere secondo il modello evangelico nelle forme della povertà, della carità e dell’apostolato, riflettendo sulle pagine bibliche in gruppi autonomi di preghiera: anch’esse perseguitate, vennero poi ricompattate nel grembo della obbedienza romana. Tra di loro, la vittima più illustre fu Margherita Porete, bruciata nel 1310 insieme al suo libro Lo specchio delle anime semplici.

Stessa persecuzione fu destinata alle donne valdesi, alle catare, le cui comunità patirono violenze e massacri.

Molte le personalità femminili di cui Adriana Valerio esalta il coraggio, la determinazione e l’intelligente anticonformismo: Margherita Boninsegna da Trento, Guglielma di Milano, Maifreda da Pirovano, e la figura più rappresentativa e famosa, Giovanna d’Arco, morta sul rogo 1431, a diciannove anni. Tra il 1550 e il 1600, i tribunali ecclesiastici dell’Inquisizione (spagnola, portoghese e romana), istituiti a difesa della fede cattolica, accusarono centinaia di donne di stregoneria, possessione diabolica, perversioni sessuali, sacrilegi e malefici. Prese di mira furono anche le intellettuali e le aristocratiche, come Giulia Gonzaga, Renata di Francia e la poetessa Vittoria Colonna. colpevoli di aspirare a una spiritualità più interiore e libera da costrizioni dogmatiche.

Il sospetto investiva, in epoca rinascimentale e più tarda, anche le più ardenti e carismatiche esperienze di misticismo, quali quelle di Orsola Benincasa, Giulia Di Marco, Isabella Berinzaga, Madame Jeanne Guyon, Marta Fiascaris, Lucia Roveri, Maria Antonia Colle, e delle seguaci del quietismo e del giansenismo, perché irrazionali e difficilmente incasellabili nelle consuete e più innocue manifestazioni di devozione.

Oltre all’intenso e documentato capitolo dedicato alla “caccia alle streghe”, il volume si sofferma sull’ostilità espressa dalla gerarchia ecclesiastica negli ultimi due secoli contro le studiose e teologhe culturalmente più progredite. Filosofe e letterate (Marianna Bacinetti Florenzi Waddington, Cristina Trivulzio di Belgiojoso, Antonietta Giacomelli, Elisa Salerno, Valeria Paola Pignetti per arrivare alla famosa pedagogista Maria Montessori) dovettero sopportare gli interventi censori dell’Inquisizione romana per aver criticato il potere temporale dei papi, sollecitando una maggiore democratizzazione della Chiesa e un cambiamento culturale che ponesse fine alla loro emarginazione sociale e religiosa. In molti casi queste intellettuali furono scomunicate, escluse dall’eucarestia, ostracizzate al punto da venire indotte ad abbandonare la pratica religiosa, o ad abbracciare nuovi culti. Più spesso la gerarchia ecclesiastica preferiva opporre alle loro richieste “la strategia del silenzio, non dando risonanza alle posizioni della teologia femminista della liberazione, che mettono in discussione l’impostazione patriarcale e androcentrica dell’interpretazione biblica, della teologia e della tradizione, e soffocando qualunque istanza di partecipazione ecclesiale che apra all’ordine sacro”.

Alla domanda di conferire il sacerdozio alle donne, ancora oggi si oppone il diniego feroce e quasi isterico da parte di tutta l’ufficialità cattolica.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 13 luglio 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VALERY

PAUL VALERY, L’ANIMA E LA DANZA – MIMESIS, MILANO 2014

Un testo drammatico, L’anima e la danza, pubblicato in Francia nel 1923, che il grande poeta Paul Valery scrisse su imitazione dei dialoghi platonici, mettendo in scena tre personaggi (Socrate, Fedro e il medico Erissimaco) che, riuniti in un “convito implacabile”, disquisiscono del rapporto tra danza e bellezza, danza e poesia, danza e amore. Probabilmente influenzato dalla lettura di Nietzsche, secondo cui dal Caos può nascere una stella danzante, e dall’opera pittorica di Degas, Valery riflette sull’influenza benefica, salutare e inebriante che lo spettacolo della danza suscita nell’anima dello spettatore.
È la seduzione della bellezza, capace di trasformare i sentimenti umani, avvicinandoli – nella contemplazione estatica e scorporante – al divino. Così fa dire a Socrate: “La vita è una donna che danza, e che finirebbe divinamente d’esser donna se potesse obbedire allo slancio che la solleva, sino alle nuvole…Per gli Dei, che ballerine illuminate, preambolo vivo e pieno di grazia per i più perfetti pensieri! Le loro mani parlano, i loro piedi sembrano scrivere…”. Gli fa eco Fedro: “Guardatelo il vago corpo molteplice delle danzatrici, solenne e insieme leggero. Entrano come anime”. Ed Erissimaco: “Disegna rose e nodi e stelle di moto, e incantati recinti, e si slancia dai cerchi appena conclusi, e si slancia e corre inseguendo fantasmi, e coglie un fiore che in breve diventa un sorriso. Come va dichiarando la sua inesistenza con una leggerezza inesauribile!”.

I tre personaggi continuamente confrontano il loro passo terrestre, pesante, materiale all’ariosità luminosa dei volteggi di una ballerina: “Un corpo, con la sua semplice energia in atto, è tanto forte da alterare più profondamente la natura delle cose che mai l’intelletto con sogni e speculazioni vi pervenga”. Più di ogni filosofia, la danza avvicina alla verità: “In te mi trovavo, o movimento, fuori dalle cose del mondo…”.

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/L-anima-e-la-danza-Paul-Valery.html     6 marzo 2017

RECENSIONI

VALLEJO

CÉSAR VALLEJO, PIETRA NERA – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2011

L’unica antologia poetica del peruviano César Vallejo (1892-1938) attualmente disponibile in Italia è questo libriccino edito da Via Del Vento, Pietra nera, tradotto e postfato da Piera Mattei, che presenta versi tratti dalle sue tre raccolte: Braci, Trilce e Poemi umani.
“Voce originalissima, naturalmente musicale”, César Vallejo seppe contaminare echi del modernismo ispano-americano con le influenze surrealiste della Parigi dove emigrò nel 1923 e dove morì in estrema povertà: ma riuscendo sempre a mantenere un suo timbro molto personale ed emotivamente vibrante, radicato sia nell’ambiente familiare e nel paesaggio andino, sia in una cultura “paganamente” religiosa, sia nelle istanze più radicali della lotta politica e del marxismo.
Quello che sembrava più premergli era una comunicazione affettiva, diretta, empatica con l’altro: “Ci sono colpi nella vita, così forti… Io non so! / Colpi come dell’odio di Dio; come se di fronte a quelli / la risacca di tutto il sofferto / s’impaludasse nell’anima… Io non so! //… E l’uomo… Povero… povero!”

Non solo com-passione per il suo simile, nel senso cristiano di pietas, ma addirittura per Dio: “Sento Dio che cammina / così in me, con la sera e con il mare. //… Ti benedico Dio, perché tanto ami; / e mai sorridi; perché sempre / molto deve dolerti il cuore”. Il suo cristianesimo panico (“all’albero cristiano ho sospeso il mio nido”) appare indifferente a riti e dogmi, e invece sempre vicino a chi in qualsiasi modo stia soffrendo: fame, povertà, malattia, carcere, morte. All’essere umano, insomma, “che è mammifero malinconico e si pettina”, accomunato a qualsiasi altra creatura da un identico destino: “e l’esser nati così senza motivo”.
Sola salvezza è l’amore per la propria donna, per l’amico, per la madre: “Infornata ardente di quei miei biscotti, / puro tuorlo d’infanzia innumerabile, madre” e l’invito rivolto a ciascuno: “Ma prima che finisca / tutta questa felicità, sciupala, scorciala, / prendile le misure”.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Pietra-nera-Cesar-Vallejo.html              21 novembre 2016

RECENSIONI

VALLERUGO

IDA VALLERUGO, STANZA DI CONFINE – CROCETTI, MILANO 2013

«Stanza» è un sostantivo che ricorre spesso, in questi versi di Ida Vallerugo, poetessa friulana (e il Friuli è terra di confine, segnata da ferite profonde, della storia e della natura). Stanza come interno, non solo fisico, materiale, di una casa in muratura: ma anche spazio protetto dell’anima («e stanza mi faccio, silenzio»; «Ma non sono infinite le stanze del vivere. / Cosa farai in quella stanza lontana, senza porte, disanco-/ rata?»), che l’autrice esplora con la sapienza antica di tutta la sua esistenza, e cultura, sedimentata nelle radici della sua famiglia e della sua gente, ma anche dilatata in luoghi e tempi più vasti, universali. Perciò il deittico «qui»» con cui si apre il volume («Qui ho vissuto») non esclude l’apertura a un esterno altrettanto coinvolgente e imperioso, e il rimando continuo a un’ oscillazione tra dentro e fuori, presente e passato, individuazione e alterità. Le quattro sezioni in cui si articola il libro tracciano infatti un percorso da una Terra di dentro (il terreno sassoso e alluvionale chiamato Magredo, entro il cui perimetro la poetessa ha trascorso quasi tutta la vita) fino alla riscoperta di una Grecia mitica, sognata eppure concreta, attraverso una serie di viaggi mentali e fisici -alcuni in compagnia dell’amato padre- che portano l’autrice a lambire altri orizzonti, da Venezia («E tu, Venezia, argonauta a riva…») alla New York delle Torri Gemelle, da Gaza a Milano all’Acropoli, da Ostia alla Bolivia ad Amsterdam, da Stratford on Avon al Sudafrica: sempre sulle tracce di incontri rivelatori, arricchenti, con poeti e uomini comuni, rivoluzionari e artisti. L’ossatura franta e asciutta di queste poesie mantiene coerentemente alcuni stilemi in tutt’e quattro le parti in cui il libro è suddiviso. Le ripetizioni, ad esempio, talvolta a chiasmo, così frequenti a sottolineare una volontà ribadita di narrazione musicale, epicheggiante («Ma gli occhi non cambiano,  / non cambiano gli occhi»; «Ma l’aria si divide, si divide l’aria?»; «Non ora, luna / non ora»; «Chi cammina, chi cammina»; «la fiamma ardeva / la fiamma ardeva»; «Siamo sogni, siamo sogni»; «Le stelle sideree, le sideree stelle»; «L’onda, la prua; la prua, l’onda»). O le frequentissime interrogazioni, spesso retoriche, che l’autrice rivolge più a se stessa che al lettore. E ancora la predilezione per versi scanditi da tre punti fermi, a sezionare un elenco di nomi: «Il passo. Le pietre. Le acque lontane»; «Bianche. Accostate. Di ferro.»; «Gli acrobati. La tigre. Il poeta»; «Fiorita. Salda. Subito sparita». Anche le conclusioni di molte poesie si distinguono per la scelta reiterata (che può ricordare l’ Ungaretti di Sentimento del tempo) di evidenziare l’ultimo verso, staccandolo graficamente dal corpo della poesia, a ribadirne il tono asseverativo, definitorio: «Guarda un momento il mondo»; «E non è l’eternità»; «Ti torno al mare»; «E siamo ancora insieme»; «E volevo un canto»; «E in me ogni azzurro grida».
Nella prefazione, il poeta Pierluigi Cappello, amico corregionale dell’autrice («è mio fratellastro, questo poeta, / figli noi di donna trascurata») parla a proposito dello stile di Ida Vallerugo di «paradossale complessità…straordinaria evidenza delle immagini…scrittura trasparente e oracolare insieme»; a lui fa eco nella postfazione la curatrice Anna De Simone, commentando «una poesia visionaria e teatralizzante…di ossimorica violenta dolcezza». Un esempio di questo contrasto tra forza e tenerezza potrebbe forse risaltare emblematicamente nella poesia Corridoi, di cui riportiamo inizio e conclusione: «In quanti corridoi ho camminato / a luoghi di passaggio destinata. / E nei chiostri dei templi. /  Ma cosa ci facevo lì se il dio era fuori, nei volti vostri? //…E insiste l’anima unghia col suo fare misterioso. / Sì, forse anche di là c’è qualcuno a scalfire / incessantemente. Tu, Assente?// E in corridoi di vetro ho camminato, i muri più duri».

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/Stanza-di-confine-Ida-Vallerugo.html   19 agosto 2015

 

 

RECENSIONI

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA, PENSIERI DELLA MOSCA CON LA TESTA STORTA

ADELPHI, MILANO 2021

Giorgio Vallortigara (Rovereto, 1959), professore ordinario di neuroscienze all’Università di Trento e docente all’Università del New England in Australia, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche internazionali e di volumi divulgativi di successo. Collabora inoltre alle pagine culturali di varie testate giornalistiche con articoli sul comportamento animale, e più specificamente sulla cognizione numerica e sulla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati negli uccelli, nei pesci e negli invertebrati.

Nel volume recentemente pubblicato da Adelphi, Pensieri della mosca con la testa storta, Vallortigara avanza una tesi originale, in controtendenza rispetto alle formulazioni più ortodosse della filosofia della mente. Tradizionalmente si riteneva infatti che la coscienza fosse legata alla quantità e alla complessità degli elementi del sistema nervoso, cioè che a un cervello più voluminoso corrispondesse una maggiore qualità intellettiva. Confrontando i risultati di studi recenti sull’attività cognitiva di organismi dotati di cervelli miniaturizzati (api o mosche, ad esempio) l’autore di questo affascinante volume afferma che anche gli esseri viventi più minuscoli sono forniti di facoltà basilari di pensiero, determinate dalla capacità di sentire e di muoversi.

Qualcosa ci accomuna, noi esseri umani dominatori del mondo, con le bestioline tormentanti che ci infastidiscono con il loro ronzio, le zampette pelose posate sulla tovaglia, le punzecchiature brucianti. Ovviamente non hanno la nostra intelligenza complessa, ma non sono prive di una loro specifica consapevolezza: sono infatti creature che hanno esperienza del mondo, creature senzienti che nel corso della storia naturale hanno incorporato alcuni semplici stratagemmi per risolvere problemi specifici atti a garantirne la sopravvivenza.

Un’introduzione e ventitré capitoli ci immettono, attraverso una scrittura sapiente e ironica, nell’universo minimo e immenso in cui si muovono bruchi, farfalle, mosche, lumache, ragni, formiche, pidocchi, scarafaggi, api… Che dalla legislazione europea non sono nemmeno considerati animali, e pertanto non vengono tutelati nel loro diritto alla vita. Eppure, “un’ape possiede nel ganglio encefalico novecentosessantamila neuroni. Con questo bagaglio limitato riesce a compiere prodezze cognitive” di discriminazione, navigazione e memoria spaziale, apprendimento e riconoscimento di luoghi e cose.

Gli imenotteri devono queste abilità ai corpi fungiformi posti nelle porzioni dorsali del cervello, che conferiscono loro strutture nervose associative in cui convergono le informazioni provenienti dalle vie sensoriali visive e olfattive, da utilizzare per riconoscere le fonti di cibo, allontanarsi e rientrare nel nido, intessere rapporti di socialità. Vespe e api (come succede ai nostri neonati e a molte specie di primati), sottoposte a diversi test di discriminazione, riconoscono le sagome delle facce (i due punti neri degli occhi e il taglio della bocca sottostante) prima e meglio di altre figure geometriche o di fantasia, a riprova della loro predisposizione all’interazione con gruppi sociali (le galline, sono addirittura in grado di ricordare centinaia di facce di esseri umani oltre a quelle di altre galline!)

Numerose e dettagliate sono le descrizioni di esperimenti di laboratorio riportati da Vallortigara per suffragare la sua ipotesi di partenza: se anche insetti dai cervelli minuscoli evidenziano componenti basilari dell’intelligenza sociale, forse questa dote non è stato il reale motore della encefalizzazione della specie umana. Il substrato più plausibile per l’insorgere delle abilità sociali va piuttosto ricercato in una caratteristica essenziale delle cellule: la capacità di sentire. Una capacità che si sarebbe manifestata per la prima volta quando, con l’acquisizione del movimento volontario, gli organismi elementari hanno avvertito la necessità di distinguere tra la stimolazione prodotta dalla propria attività e quella procurata dal mondo esterno.

È molto interessante, in questo volume, il continuo rapportare dati ed esperienze del mondo animale a quello umano. Sapere, ad esempio, che i cervelli delle varie specie aumentano di dimensione nelle aree dedicate a funzioni specializzate (quelle uditive per pipistrelli e delfini per finalità di eco-localizzazione; quelle della memoria per gli animali che fanno provviste di cibo, da recuperare poi nei nascondigli…). Forse per questo gli esseri umani, in relazione alla maggiore complessità dei loro rapporti sociali, hanno cervelli più voluminosi (1300 cc, con ottantasei miliardi di neuroni cerebrali, sviluppatisi circa 250.000 anni fa, a partire dal Pleistocene)? Eppure il numero massimo di individui con i quali possiamo mantenere relazioni interpersonali stabili, sembra limitarsi – per l’estensione della nostra corteccia cerebrale – a circa centocinquanta. La mosca Eristalis dal collo mobile che dà il titolo al libro, il grillo a cui si strappano le zampe, il paziente schizofrenico che ode le voci e avverte alterati i confini del proprio corpo, manifestano tutti un minimo comune denominatore di reazioni cerebrali quando vengono sottoposti a stimoli esterni.

Tante le cose curiose raccontate riguardo all’encefalo di animali ed esseri umani. Per esempio, chi sapeva che il nostro cervello costituisce appena il 2 per cento del peso del corpo, ma consuma il 20 per cento delle risorse energetiche dell’intero organismo, e che al suo interno il cervelletto, pur costituendo il 10 per cento della massa cere brale, contiene l’80 per cento di tutti i nostri neuroni? E chi l’avrebbe detto che quello della megattera pesa sette chili, mentre quello del delfino dell’Indo solo un etto e mezzo? Che pappagalli e corvi hanno un numero di neuroni che è circa il doppio di quello di scimmie di peso simile? A dimostrazione che non esiste correlazione tra la grandezza dei cervelli e la loro sofisticatezza cognitiva, l’autore afferma: “cervelli piccoli, in termini di numero assoluto di neuroni, possono comunque funzionare bene se hanno dei vantaggi circuitali rispetto ai cervelli grandi, dotati di un maggior     numero assoluto di neuroni”.

Il surplus di neuroni dei grandi cervelli pare non abbia nulla a che fare con l’elaborazione delle informazioni: i neuroni “che avanzano” non servono per il pensiero, sono lì invece      per la pura gestione delle memorie. Oggi gli scienziati discutono se la grandezza del cervello risponda allo sviluppo di competenze specializzate, che si sono affinate nel corso di molto tempo, o se il cervello abbia a disposizione molto più materiale del necessario, per consentire il mantenimento di una buo na funzionalità cognitiva in età avanzata (generosità verso i nonni!).

Ma la domanda più intrigante che l’autore si pone è su quando e come sia nata la coscienza nelle creature viventi. Pare ormai certo che le cellule nei corpi primordiali abbiano iniziato a produrre una risposta localizzata, reattiva a uno stimolo esterno nocivo, attraverso due diverse modalità: la sensazione, che accade all’interno dell’organismo, e la percezione che accade all’esterno, distinguendo tra la stimolazione autoprodotta dall’attività del proprio sé e quella che gli viene invece procurata dal resto del mondo, dal non-sé. La percezione di uno stimolo esterno (una luce, un odore, una minaccia climatica), producendo una sensazione di protezione o di espansione dentro la cellula – a seconda che venga avvertita come pericolosa o benefica –, la induce a reagire modificando il suo stato corporeo, e attivando un movimento. “Per avere il genere di movimento attivo che renda possibile ‘sentire’ la stimolazione è necessario disporre di un distinto sistema recettoriale che agisca su un distinto sistema motorio. Ci vogliono insomma neuroni e muscoli”.

Le forme essenziali del pensiero, già dagli albori della costituzione dei cervelli, sono quindi le stesse in tutti gli organismi animali, nella loro manifestazione immediata e implicita, necessitando di un numero modesto di cellule nervose; e si sono perfezionate nell’arco di millenni più per quantità che per qualità.

Concludendo la sua avvincente narrazione, Giorgio Vallortigara espone (con la modestia di chi pone quesiti senza avere la presunzione di avere raggiunto una verità definitiva e incontestabile) la sua convinzione: che la coscienza non sia misteriosamente emersa solo al raggiungimento di un certo grado di complessità del sistema nervoso, come si è ritenuto comunemente finora,  ma che  “semplici computazioni condotte da poche, umili e umide cellule” le abbiano fornito un substrato plausibile nella sua manifestazione essenziale: la capacità di sentire e di avere esperienze.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 marzo 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

VAN GULIK

ROBERT VAN GULIK, IL DELITTO ALLO STAGNO DEI LOTI – OBARRAO, MILANO 2020

Lo scrittore olandese Robert van Gulik (1910-1967) era anche antropologo e musicista. Esperto conoscitore della Cina, delle sue tradizioni e dell’indole dei suoi abitanti, aveva trascorso l’infanzia a Giava, si era specializzato in sinologia all’Università di Leiden e, dopo aver conseguito il dottorato in Filosofia a Utrecht, aveva intrapreso la carriera diplomatica in India, Cina, Giappone, Malesia, in Africa e negli Stati Uniti. Tornato in Cina nel 1943, si era sposato con una ragazza di una nobile famiglia di mandarini. Definito dalla critica “un uomo occidentale con il cuore orientale”; conosceva alla perfezione varie lingue europee, asiatiche e africane. Queste sue eccezionali qualità e competenze gli diedero l’opportunità di cimentarsi non solo in una raffinata saggistica (Adelphi ha pubblicato due suoi testi fondamentali Erotic colour prints of the Ming period e La vita sessuale nell’antica Cina), ma anche con l’invenzione di numerosi romanzi e racconti gialli, ambientati appunto nel continente asiatico, e raccolti nella serie “I casi del giudice Dee”, oggi pubblicati dall’editrice milanese ObarraO.

L’ebook di cui ci interessiamo, Il delitto allo stagno dei loti, è un’elegante short story che narra di un caso avvenuto nell’anno 667 d.C. nell’antica cittadina lacustre di Han-yuan.

Il giudice Dee Jen-djieh, si ritrova a indagare su due crimini: la rapina di dodici barre d’oro al Messo del Tesoro Imperiale e l’assassinio del poeta sessantenne Meng Lan.  Costui, dopo la morte della moglie si era ritirato a vivere nella sua modesta proprietà dietro il Quartiere dei Salici, abitato promiscuamente da personaggi piuttosto equivoci. Aveva quindi comprato e sposato una cortigiana venticinquenne, con cui condivideva una tranquilla vita coniugale, frequentata da pochi amici, ma assillata dalle continue richieste di soldi del giovane fratello della donna. Il poeta era stato accoltellato al cuore mentre contemplava serenamente la luna dal padiglione del suo giardino, posto al centro di uno stagno cosparso di loti, in cui gracchiavano rumorosamente molte rane. Ed è proprio il gracidio delle rane a permettere al giudice Dee di risolvere i due misfatti, il furto e l’omicidio, che si rivelano intrecciati agli interessi economici di un rispettabile conoscente della coppia.

Il racconto, lontano dalle tipiche atmosfere di suspense dei gialli tradizionali, ha però il merito di essere scritto con raffinatezza e un sottile humor, attento alle sfumature caratteriali dei personaggi. Inoltre, introduce i lettori alla scoperta di un autore poliedrico e poco noto, e al lavoro della piccola e vivace editrice ObarraO, accurata nella grafica e innovativa nell’esplorazione delle culture orientali.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Il-delitto-stagno-loti-Dee-Gulik     3 marzo 2021

 

 

 

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, OLTRE IL CRISTIANESIMO – BOMPIANI, MILANO 2013

In questo importante saggio Marco Vannini, il più noto e stimato studioso italiano del misticismo e della tradizione spirituale cristiana, torna sui temi che va approfondendo da più di quarant’anni. Il volume, suddiviso in quattro sezioni, si apre con una puntuale e appassionata disamina delle tesi eckhartiane, il cui nucleo fondamentale si può riassumere in poche citazioni: «Nessuno è ricco di Dio, se non è completamente morto a se stesso»»; «Vigila su di te, e, non appena trovi te stesso, rinuncia a te stesso; questa è la cosa migliore che tu possa fare». La rinuncia, quindi, alla propria egoità, all’amor sui (volontà di essere e di avere), quale primo indispensabile passo verso la libertà, interiore ed esteriore, e verso il raggiungimento della gioia, della pace, della beatitudine.

«Il perfetto distacco non vuole né questo né quello… lascia essere tutte le cose davanti a sé, senza importunarle». Togliere dall’animo il desiderio di appropriazione: non solo delle cose e delle passioni, del successo e della considerazione di sé, ma anche della volontà di conoscere e persino del sentimento religioso.
«Prego Dio che mi liberi di Dio», scriveva Eckhart. Recuperando tutto un filone di pensiero spirituale che da Eraclito, Platone e Plotino, attraverso i Vangeli, S. Paolo e Sant’Agostino arriva alla mistica occidentale (Eckhart, appunto, e poi Taulero, Silesius, Margherita Porete), approdando infine ai pensatori moderni e contemporanei (Kant, Hegel, Hölderlin, Schopenhauer, Nietzsche e Simone Weil), Marco Vannini supera la concezione tradizionale di un cristianesimo corrotto dalla teologia, dai dogmi, dalle istituzioni religiose che hanno voluto impadronirsi di Dio per metterlo al servizio di una società, di una morale, di un singolo popolo, degradandolo così a falso mito da utilizzare secondo i propri bisogni e fini. Contesta anche l’idea più sentimentale e psicologica che ci facciamo della divinità, intesa solo come esperienza interiore arricchente o difensiva: un dio-ente, dio-idolo, storico e finito. Dio è invece «uno ed eterno, e perciò opposto a corpo, molteplicità, temporalità», è «spirito, che non ha un dove, non è nel tempo e nemmeno nell’estensione», non è creato né creatore: la sua esistenza «è tutta data, qui, nella luce, nella pace che è e che siamo». E’ l’inesprimibile libertà del tutto, trascendente e immanente insieme, estraneo a ogni dualità o alterità.
Quello che può aiutare l’uomo contemporaneo, sedotto dalle mille sirene dello psichismo e della realizzazione sociale (economica, culturale, sessuale…) a liberarsi dai condizionamenti di una fede fasulla e delle derive menzognere cui sono approdati i vari cristianesimi, è un’immersione nella spiritualità orientale, un “Passaggio in India”, che sappia recuperare la saggezza delle Upanishad, del brahmanesimo e del buddhismo, di cui in questo volume vengono illustrati i principi fondamentali: ancora una volta il distacco e la meditazione, per arrivare all’ illuminazione.
Esemplare in questo senso è stata la vita del monaco benedettino francese Henri Le Saux, di cui Vannini racconta nell’ultimo corposo capitolo l’appassionante vicenda umana e spirituale, usando come traccia il suo Diario. Nato in Bretagna nel 1910, Le Saux fu ordinato sacerdote nel 1935 e, dopo controverse vicende umane, si trasferì in India nel 1948, con l’intento di conciliare la regola benedettina con le forme della spiritualità hindū. Dall’India non fece più ritorno, e lì venne sepolto nel 1973. Ebbe occasione di frequentare i saggi Ramana Maharshi, Sri Poonja, Sri Gnanananda, convincendosi della superiorità delle Upanishad e della Bhagavadgita rispetto ai testi della tradizione ebraico-cristiana, fino ad arrivare a scrivere: «Ho vissuto le mie ore migliori da hindū. Il vedānta mi ha donato ciò che non mi ha mai donato la Chiesa». Combattuto da un doloroso travaglio interiore, rimase comunque cristiano: «Che lo voglia o no, io sono profondamente legato a Gesù Cristo e dunque alla koinonìa della Chiesa. E’ in lui che il ‘mistero’ si è rivelato a me dal momento del mio risveglio a me e al mondo…E’ nel suo specchio che io mi sono riconosciuto, adorandolo, amandolo, consacrandomi a lui».

Vannini ritrova in Le Saux la stessa illuminante e umile sapienza dei mistici medievali, lo stesso loro rifiuto della temporalità e della corporalità, l’esigenza del distacco dal fenomenico e dell’immersione nel fondo della propria anima: «Perché la nostra realizzazione è al di dentro. Noi non siamo per il domani, né per l’oggi, né per il futuro prossimo, ma per l’istante presente… La salvezza è ‘uscire dal tempo’. Accedere all’eternità». In nome di Dio («Amare Dio senza attaccamento») bisogna superare tutte le realizzazioni storiche della varie religioni, dei riti, delle formule, delle superstizioni, accogliendo in sé la Grazia, e l’unica vera proposta di libertà: quella dello Spirito.

 

«incroci on line», 22 luglio 2015

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, ALL’ULTIMO PAPA – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

Il filosofo e teologo Marco Vannini ha dedicato il suo più recente – intenso e coraggiosissimo – libro a Joseph Ratzinger, che definisce, con affettuoso rispetto e ammirata solidarietà, «l’ultimo papa»: il solo che abbia tentato di salvare ciò che rimane del cristianesimo dalla barbarie attuale «dell’ignoranza, della volgarità, della menzogna», scegliendo con coerenza il cammino dell’interiorità, del logos, della cultura rispetto alla religione sociale, esteriorizzata, politicizzata, di cui sono stati e sono prometeici rappresentanti i due pontefici che l’hanno preceduto e seguito. Le sue dimissioni dal soglio papale, oltreché temerarie e scandalose agli occhi dei più, sono parse inevitabili:

«Benedetto XVI si è trovato stretto nella contraddizione tra la necessità di difendere la credenza tradizionale, soprattutto per le masse popolari, e il doveroso rigetto di una religione ridotta a mitologia, cui è ignota l’esperienza dello spirito… Far passare il cristianesimo da mitologia a conoscenza dello spirito nello spirito deve essergli apparso un compito quasi impossibile, o tale comunque da richiedere forze molto superiori a quelle di un vecchio papa».

Vannini è uno dei massimi studiosi e interpreti europei della mistica medievale, traduttore e commentatore di Meister Eckhart e di Silesius, profondo conoscitore di tutta la filosofia occidentale e orientale che si richiama alla spiritualità: dalle Upanishad al Buddhismo, da Platone a Plotino e Porfirio, da S. Paolo agli gnostici a Sant’Agostino, da Margherita Porete a Sebastian Franck a Spinoza, fino ai pensatori dell’ottocento (Hegel, Schopenhauer, Nietzsche) e del novecento (Wittgenstein, Simone Weil, Etty Hillesum, Le Saux).
Le sette lettere indirizzate a Ratzinger costituiscono una summa del pensiero di Vannini, e un invito all’approfondimento di temi e verità trascurate, censurate, diplomaticamente edulcorate dalla teologia contemporanea. Nella prima sono ribadite le tesi più note del filosofo toscano: il suo richiamo appassionato a una riscoperta del ruolo fondamentale dello spirito («la conoscenza dello spirito non è solo conoscenza dell’essenza di noi stessi, ma anche la conoscenza dell’universale, e dunque la conoscenza di Dio»); la necessità di svuotarsi del proprio sé, dell’egoità, dei desideri e delle volizioni; il dovere di vivere l’assoluto nel presente, nell’istante in cui siamo immersi; la fede come distacco dal molteplice e dalle opinioni comuni; una diversa concezione di Dio, «privo di ogni attributo, pura luce, …né padre, né signore, né creatore, né provvidenza, né altro»; il rifiuto di una Chiesa «che ha imboccato la strada di una credenza esteriore, storica, sociale, scartando quella dell’interiorità, del distacco, del vuoto, senza la quale non v’è spirito». Seguendo l’insegnamento dei mistici, dovremmo tornare all’Uno, lasciar morire il nostro illusorio io, cercare in noi stessi la quiete più profonda, semplicemente scegliendo di “essere”, in sintonia con il tutto.
Queste indicazioni di principio vengono riprese anche nelle altre sei lettere, che hanno come argomento l’amore (inteso come tenerezza, intimità, amicizia, rifiuto della passione e del possesso: «Chi lega l’amore a un oggetto è in realtà un servo»), la grazia e la libertà (e qui sono forse le pagine più poeticamente ispirate del volume), la giustizia e la vita eterna (con l’invito a riscoprirsi equi, a tutto comprendere senza mai giudicare, riconsiderando poi i concetti di spazio e tempo secondo le ultime acquisizioni della fisica per meglio intendere il significato di eternità e immortalità).
Ma ci sono due lettere, la terza e la sesta, sulla verità della fede e sulla fine delle menzogne, che Vannini scrive con particolare vis polemica, con appassionato fervore in difesa della verità. In entrambe esorta i cristiani a tornare alle radici del messaggio evangelico, a riscoprire la realtà storica di Gesù al di là di ogni falsificazione. Le celebrazioni di Natale e Pasqua vengono giustamente ricondotte nell’alveo di festività pagane legate a ricorrenze stagionali, altre credenze religiose (come la resurrezione dei corpi dopo la morte) sono bollate come miti consolatori, il persistere di alcuni riti risultano frutto di ataviche superstizioni, le leggende bibliche paiono ricostruzioni menzognere funzionali a scopi politico-sociali. Sono affermazioni forti, addirittura indignate, quelle a cui il rigore intellettuale di Marco Vannini si affida per ribadire la sua condanna di un cristianesimo ormai ridotto a erede del formalismo ebraico, «tutto appiattito sul sociale, tutto rivolto alla costruzione di una sorta di regno di Dio sulla terra, …precipitato nella chiacchiera», nella falsa dogmatica, nell’idolatria del potere, in «templi, immagini, feste, sacrifici e cerimonie» che nulla hanno più a che vedere con il Dio che è da cercare nel profondo di noi, nel dio che noi stessi siamo.
Per cui, «Caro papa Benedetto», è a te che l’autore rivolge il suo plauso: «come a chi, in tempi difficili, ha compiuto il proprio dovere», scegliendo di ritirarsi in silenzio per salvare la fede cristiana.

 

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www.sololibri.net/All-Ultimo-Papa-Marco-Vannini.html     14 dicembre 2015