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RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, SULLA GRAZIA – LE LETTERE, FIRENZE 2008

In questo “piccolo libro”, come viene definito dall’autore nella nota conclusiva, sono raccolti sessanta pensieri “debitori a molti autori, antichi e moderni”, dagli Evangelisti, a San Paolo, ai mistici (Eckhart in primis, ma anche san Giovanni della Croce) fino ai filosofi greci e moderni. Marco Vannini propone qui una fenomenologia della grazia, “via che conduce al divino”, “kindly light”, come la chiama John Henry Newman nella delicata poesia che funge da esergo al volume. Cos’è quindi la grazia, questa “mirabile forza che trasforma il finito nell’infinito, il relativo nell’assoluto”? E’ novità (“una vita nuova, un nuovo sguardo, un uomo nuovo, una nuova nascita, una natura nuova…”); è verità, universalità, carità e libertà; è gratuità (“è senza perché…non ha un fine estraneo e diverso dal suo essere stesso grazia, bellezza e dolcezza”); è affidamento e fiducia (“confidenza nel Bene al di sopra di ogni volizione egoistica”); è gratitudine (“è solo un grazie. Nella grazia non v’è preghiera, ma solo un rendere grazie”). Rapporto con l’eterno, amore dell’Assoluto, capacità di ascolto e attenzione a tutte le cose, distacco dal proprio volere sono altri suoi fondamentali attributi; come la letizia, eliminazione di ogni pena: “tutto diventa per così dire festivo, come se ogni giorno, ogni istante fosse una festa”. E in un senso più concettuale, “La grazia libera da ogni opinione, da ogni legame. Essa risolve, dissolve ogni contenuto… libera da ogni ‘religio’ in quanto credenza, preteso sapere che è estremo legame ed estrema affermazione dell’ego”. Vita nel presente, senza rimpianti per il passato o attese del futuro, essa “va, per Dio, oltre Dio”, il dio-idolo che divide e serve al nostro potere, dio della legge e della superstizione, dio dell’istituzione. “Oceano di luce” che oltrepassa i confini di spazio e tempo, e supera ogni individualità particolaristica: in un’eternità in cui, bernanosianamente, “tutto è grazia”.

IBS, 7 marzo 2014

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, MISTICA, PSICOLOGIA, TEOLOGIA – LE LETTERE, FIRENZE 2019

“Non ci sono date oggi che menzogne”, scriveva Simone Weil. Questa sua lapidaria e sconfortata constatazione viene riportata come esergo nell’ultimo libro di Marco Vannini, in cui si contestano due false scienze della contemporaneità, la psicologia e la teologia, assurte a mito e/o verità rivelata nell’immaginario collettivo, nei media e nella pubblicistica culturale totalizzante (o totalitaria?).

Marco Vannini (San Piero a Sieve, 1948) è oggi considerato il più importante studioso italiano di mistica cristiana e di Meister Eckhart, di cui ha curato tutte le opere, latine e tedesche. Si è occupato e ha tradotto molti autori spirituali (Agostino, Giovanni Gerson, François de Fénelon, Margherita Porete, Giovanni Taulero, Anonimo Francofortese, Martin Lutero, Angelus Silesius), indagando la fenomenologia mistica dal punto di vista teoretico e storico anche in altre religioni: induismo, buddismo, ebraismo, islamismo. Del cristianesimo ha messo in rilievo il rapporto con la fede popolare e con la ragione, collaborando a inchieste condotte con autori dichiaratamente atei, come Corrado Augias e Massimo Polidoro. L’ottica originale e innovativa con cui ha guardato all’esperienza mistica ‒ svincolandola da tutte le dottrine e pratiche religiose, e facendone invece un metodo di conoscenza e di libertà spirituale ‒ ha suscitato dibattiti e contestazioni da parte dell’ortodossia cattolica, con cui lo studioso fiorentino non ha mai cessato di confrontarsi e di polemizzare, convinto che per essere fedeli al messaggio evangelico si debba andare oltre lo stesso cristianesimo e i suoi condizionamenti storico-ideologici (cfr. Oltre il cristianesimo, Bompiani 2013): dogmi, encicliche, celebrazioni, istituzioni, riti, miracoli.

In questo nuovo volume Vannini riprende i temi che gli sono propri: il richiamo al ruolo fondamentale dello spirito, la necessità di svuotarsi della propria egoità, la fede come allontanamento dalle opinioni comuni, la concezione di un Dio privo di attributi, pura luce. Rifiutando una Chiesa che privilegia un credo esteriore, sociale, politicizzato, e una fede consolatoria e superstiziosa, ribadisce con forza la convinzione che la verità possa essere raggiunta solo attraverso lo scavo nell’interiorità e il distacco da ciò che è molteplice, vano, perituro. Se la mistica va intesa come ricerca della libertà interiore ed esteriore, al di là di ogni suggestione culturale o morale, due filosofi ne sono stati profetici portavoce: Eraclito e Nietzsche, entrambi consapevoli che non è la minima vicenda umana dell’individuo a dover essere indagata e perseguita, né ciò che nella storia è relativo e contingente, ma che è necessario trascendere materia e tempo, contingenza e finitezza, per risvegliarsi allo spirito.

Proprio lo Spirito (“l’elemento essenziale dell’anima, il più elevato e, insieme, il più profondo”) è il grande trascurato, il grande esiliato dalla cultura moderna. Invece è da esso che si deve ripartire per trasformarsi ontologicamente, per “essere l’essere”, fatto di intelligenza e amore universale. Ciò che ci distrae dall’accogliere in noi l’eterno che siamo e l’eterno che è, sono le sirene dell’egomania, gli abbagli menzogneri del prestigio personale ed economico, l’adesione a modelli imposti mediaticamente. “Due sono oggi le fonti primarie della menzogna in cui siamo immersi: psicologia e teologia. La prima in quanto falsa scienza dell’anima; la seconda in quanto falsa scienza di Dio… Fonti primarie dell’alienazione contemporanea”.

Durissime e derisorie sono le parole con cui Vannini demolisce psicologia e psicanalisi, discipline ingannevoli che illudono le persone di poter potenziare il proprio mutevole io, che in realtà è solo un agglomerato di contenuti mentali ‒ labili e condizionati dall’esterno ‒, con il miraggio di un’affermazione sociale e di un’emancipazione da complessi fisici e caratteriali, e con l’esaltazione del corpo e della sessualità. Nel ridimensionare l’invenzione novecentesca di Freud, l’autore si rifà non solo agli insegnamenti dei mistici, ma anche al pensiero di filosofi classici e moderni (Platone, Plotino, Böhme, Spinoza, La Rochefoucauld, Hegel, Kierkegaard, Wittgenstein, Weil, Guénon), con la certezza che l’ipertrofia dell’ego non porta alcun appagamento, e anzi finisce per ingabbiare nelle pastoie della soggettività e della volontà auto-affermativa. Al contrario, è proprio nell’uscire dall’amor sui, nel distacco dalle passioni e dagli accidenti esteriori, che si può ambire alla pace interiore, alla liberazione da ogni dipendenza ambientale e culturale: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv18,26); “Distàccati da tutto” (Plotino); “Se vuoi udire in te la Parola eterna / Devi prima del tutto sottrarti all’udire” (Pellegrino Cherubico); “La cosa migliore per l’anima è stare in un libero nulla” (Eckhart); “Non ottiene l’uomo perfetta beatitudine, / Se prima l’unità non ha risucchiato l’alterità” (Silesius); “Chiunque entri dicendo ‘io sono il Tal dei tali’, lo percuoterò sul viso” (Rūmī).

Tra i condizionamenti più pericolosi, Marco Vannini segnala quelli suggeriti o addirittura prescritti dalle religioni ufficiali, dalla teologia, dalla psico-teologia contemporanea, che hanno cercato di impadronirsi di Dio per metterlo al servizio di una società, di una morale, di un singolo popolo, degradandolo così a idolo da utilizzare secondo i propri bisogni e fini. L’uso politico della religione, finalizzato al conseguimento e al mantenimento del potere, è evidente sia nell’ebraismo che nell’islamismo, nati entrambi da un’idea di conquista e dalla pretesa di essere gli unici depositari della verità.  Dopo aver creato artificiosamente leggende fondative “per porsi al riparo dalla ragione”,  queste dottrine hanno parlato con presuntuosa arroganza di Dio (che è inconoscibile) o addirittura a nome di Dio.

Anche il cristianesimo, che pure si manifesta in una dimensione più umana, con un Dio Padre che offre la vita del Figlio per la salvezza delle creature, mantiene in sé caratteri di affermatività dell’ego, di appropriazione e attaccamento: nella preghiera di esaudimento, nel desiderio di sopravvivenza ultraterrena, nel concetto di una divinità personale pronta all’ascolto e all’intervento, nella speranza di resurrezione come ripristino della corporeità, nel miracolismo come evento magico.  Se Gesù predicava il distacco dalla carne e dalla psiche e la rinuncia a sé stessi per nascere a una nuova vita, il cristianesimo odierno si è invece ridotto a filantropia, melenso sentimentalismo e generico moralismo, poiché privilegia l’aspetto sociale e temporale del messaggio evangelico, anziché il superamento della particolarità che, come insegna la mistica, libera lo Spirito in un assoluto luminoso e lieve, nell’eternità del tutto.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 14 maggio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, SULLA RELIGIONE VERA. RILEGGERE AGOSTINO – LINDAU, TORINO

 Il filosofo Marco Vannini (San Piero a Sieve, 1948) ha curato la traduzione italiana di tutte le opere, tedesche e latine, di Meister Eckhart, nonché di altri mistici antichi, medievali e moderni, dedicando loro numerosi studi. Autore di un’edizione bilingue del De vera religione di Agostino (2012) e di un Invito al pensiero di sant’Agostino (2014), nella sua ultima pubblicazione edita da Lindau si occupa ancora del Padre della Chiesa di Tagaste, con un volume intitolato Sulla religione vera. Rileggere Agostino, rielaborazione de La religione della ragione, uscito da Bruno Mondadori nel 2007.

Due sono le tesi fondamentali di questo nuovo saggio: che la Verità risieda all’interno dell’animo umano e che la fede cristiana coincida con la filosofia. Esaminiamo quindi questi concetti-base del volume, così come Vannini va analizzandoli nel corso delle pagine. Nell’estesa introduzione, l’autore stigmatizza il relativismo contemporaneo che induce le persone a crearsi delle credenze, sia in ambito religioso che in quello filosofico, sulla base di inclinazioni, valori e bisogni personali, avendo a progetto di vita esclusivamente la ricerca di una aleatoria felicità individuale, come viene suggerito da un diffuso ed effimero psicologismo, che non riconosce altre realtà se non il raggiungimento del benessere fisico e mentale della persona. Da questa rincorsa alla soddisfazione materiale derivano non solo le inquietudini e le fragilità che caratterizzano la società contemporanea (nonostante il proliferare di terapie, addestramenti e dottrine di ogni tipo), ma anche “lo svilimento del cristianesimo verso un banale umanesimo e filantropismo, con la perdita progressiva dell’elemento suo proprio di rinascita nello spirito”.

Parlare nel contesto attuale di “religione vera” e di “filosofia vera”, può richiamare negativamente un’idea di fondamentalismo, di fideismo acritico e intollerante. In realtà religione e filosofia sono attività rivolte allo stesso fine, cioè alla saggezza e conoscenza di sé, che esige una radicale conversione per la ricerca del Bene, da perseguire attraverso il rientro in sé stessi, nel distacco da ciò che è accidentale e molteplice, da ogni elemento legato al tempo e allo spazio, dalla dittatura del corpo e dalle esigenze esteriori imposte dalle mode sociali. Il raggiungimento della verità non dipende dall’obbedienza ai testi sacri e alle autorità ecclesiali, da liturgie e cerimonie formali, ma si ottiene con la rimozione dell’inessenziale, per recuperare la luce interiore, quella dello spirito, dell’Uno e dell’Eterno, seguendo la via che l’insegnamento neoplatonico, attraverso Agostino, ha introdotto nel mondo cristiano.

Il primo capitolo del volume, dedicato alla filosofia antica, presenta un denso excursus sul pensiero classico. Tutti i filosofi greci, dai Presocratici fino ai Neoplatonici, si proposero di indicare, più che un sistema teorico, un modello e un indirizzo di vita in grado di condurre alla saggezza, alla serenità, alla contemplazione dell’Eterno, impegnando l’intera esistenza in vista di una sua trasformazione. A partire dalle dottrine di purificazione di Pitagora, attraverso il severo richiamo socratico alla giustizia posta al di sopra di ogni contingenza storico-politica, si arriva a Platone che insegnava come filosofare fosse “esercitarsi a morire”, lontano da tutti i legami materiali e concettuali, per ascendere gradatamente dalla bellezza sensibile a quella intelligibile, fino alla contemplazione della luce immutabile che è il Bene in sé. Anche tutte le scuole post-aristoteliche ellenistiche e romane (epicurea, stoica, cinica, scettica, neoplatonica) declinarono in modi diversi la stessa esperienza: attraverso la pratica di esercizi spirituali e l’uso della temperanza e della continenza, si procede da una visione delle cose dominata dalle passioni individuali a una rappresentazione del mondo governata dall’universalità e dall’oggettività del pensiero. Plotino ammoniva “distàccati da tutto” (Áphele pánta) per approfondire la conoscenza interiore, che conduce alla comunione con tutti gli uomini e le cose, e attraverso l’ékstasis, all’Uno, fine ultimo, luce e perfezione.

Il secondo capitolo del volume esplora il concetto di religione nel suo duplice aspetto di mitologia e di mistica, da quando essa si confondeva con la magia e la superstizione, e veniva praticata per ricavarne benefici individuali o collettivi, fino a quando il cristianesimo dei primi secoli entrò in contatto con il mondo greco, assorbendone il concetto di filosofia intesa come meditazione, insegnamento e guida per l’esistenza. Di questo traghettamento dalla credulità popolare a un concetto più spirituale del divino fu artefice soprattutto Agostino (Tagaste, 354-Ippona, 430), negli anni giovanili profondamente influenzato dal pensiero scettico e neoplatonico che esortava a cercare nella propria interiorità la luce eterna di Dio. Nel testo De vera religione (389-391) scriveva infatti: “non uscire fuori di te, rientra in te stesso, la verità abita nel profondo dell’uomo”, ricalcando una terminologia decisamente plotiniana. In età più matura e rivestendo l’incarico di vescovo, Agostino privilegiò un’interpretazione della Bibbia e delle lettere di Paolo più fedelmente vicina alle proposizioni teologiche del cattolicesimo a lui contemporaneo, ergendosi ad accanito difensore della Scrittura. Non considerò più la religione subalterna alla filosofia, ma essa stessa Logos, essa stessa unica e vera filosofia. L’esperienza neoplatonica dell’identità spirituale uomo-Dio-cosmo, animata dal desiderio di unione mistica con il divino, venne così abbandonata in favore della visione biblica dell’alterità di Dio, secondo un’interpretazione puramente scientifico-teologica della Parola che ridusse il cristianesimo a dogmatismo, formalità rituali e pura esegesi dei testi sacri.

La critica di Marco Vannini alla pretesa storicità della Bibbia è implacabile, poiché ritiene i fatti in essa raccontati (a partire dalla Creazione) suggestive creazioni letterarie, la cui attendibilità è inficiata da incongruenze e contraddizioni, evidenziate in rigorosi studi epistemologici degli ultimi due secoli. L’Antico e il Nuovo Testamento sono il risultato di rielaborazioni create a partire dal VII secolo a.C. e protrattesi fino al II d.C, per imporre politicamene l’unicità di un dio, di un culto, e di un unico centro religioso, attraverso regole comportamentali, leggi sociali e fantasie apocalittiche che hanno finito per nutrire intolleranza e fanatismo, mettendo in secondo piano l’idea di spiritualità, di unione con il divino, di immortalità dell’anima. Le tesi coraggiose dell’autore, che molti esegeti ortodossi non esiterebbero a definire eretiche (un plauso alle edizioni di ispirazione cattolica Lindau che hanno pubblicato il volume), sottolineano come l’allontanamento dal pensiero filosofico greco abbia relegato il cristianesimo in una concezione materialistica e utilitaristica, immiserente anziché liberante.

Sarà il misticismo speculativo medievale a recuperare la preziosa eredità del pensiero classico, e appunto al misticismo Vannini dedica l’appassionata ultima parte del libro. Massimo esperto italiano degli scritti di Meister Eckhart, qui lo studioso toscano inizia invece la sua esposizione presentando la figura del castigliano San Giovanni della Croce (1542-1592), anch’egli profondamente debitore del neoplatonismo: solo dopo aver sperimentato la “notte oscura” del nulla, del vuoto, l’anima può risalire alla luce, connaturandosi a Dio che non è più oggetto di conoscenza, alterità alienante, idolo antropomorfico, ma puro spirito, unica identità con l’anima umana che si divinizza, diventando Dio e partecipando della sua luce. Tale percorso di salvezza per il carmelitano spagnolo può attuarsi solo con la rinuncia e il distacco da tutto, esattamente come insegnava Plotino: “la sostanza dell’anima, unita a Dio, assorbita in lui, è Dio per partecipazione di Dio”.

Nella storia del cristianesimo i mistici, accusati di sopprimere la distinzione tra uomo e Dio, furono emarginati, poco compresi e guardati con sospetto: eppure eliminando l’opposizione tra soprannaturale e naturale, tra divino e umano, hanno insegnato una verità riconosciuta anche dalle religioni orientali e dalla filosofia, cioè l’identità del Tutto, e dunque del divino nel cosmo e in tutti gli esseri, che tutti esistono in Dio. Lontana dal panteismo che appiattisce la trascendenza divina sulla natura, la religione vera supera l’alterità di Dio e il dualismo soggetto-oggetto, unificando tutte le creature in un solo essere, spiritualmente eterno, scevro dai vincoli della materia e della carne nell’unità relazionale con il Tutto. Libera dalla volontà, libera dall’attaccamento, e dunque libera dall’opinione, la luce dell’intelligenza illumina il Tutto. La mistica ha mantenuto viva questa verità, con l’esperienza di un modello di vita filosofico, del distacco, della grazia, della libertà, opposto alla vita nella servitù, nella forza, nella volontà e nel desiderio. Non occorrono perciò rivelazioni o visioni particolari, dogmi o encicliche, perché è il quotidiano, il qui e l’ora, con le cose presenti di fronte a noi, a costituire il divino così come si mostra al nostro sguardo e al nostro amore.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 20 novembre 2023

 

RECENSIONI

VANNUCCI

GIOVANNI VANNUCCI, IL LIBRO DELLA PREGHIERA UNIVERSALE – LIBRERIA EDITRICE FIORENTINA, FIRENZE 1991

Giovanni Vannucci (Pistoia,19131984), presbitero e teologo italiano dell’Ordine dei Servi di Maria, professore di esegesi, ebraico e greco biblico, collaborò in diverse esperienze comunitarie con don Zeno Saltini (fondatore di Nomadelfia) e con David Maria Turoldo. Nel 1967 diede vita a una nuova comunità – dedita al lavoro, all’accoglienza e alla preghiera – all’Eremo di San Pietro a Le Stinche, nel Chianti. Autore di numerosi testi di meditazione e di ricerca spirituale, dal 1970 la sua attenzione si focalizzò sul momento della preghiera, intesa come rapporto vivido e pacificante con il mistero divino.

Il libro della preghiera universale, pubblicato nel 1970 e più volte ristampato, era nato nelle intenzioni dell’autore “dall’esigenza di conoscere, pregando, il cuore delle tradizioni religiose cristiane e non cristiane”. Vannucci si diceva convinto che la preghiera addolcisse i cuori, fecondandoli di nuove speranze e visioni, arricchendoli e dilatandoli in uno sguardo partecipe e generoso su ogni verità e realtà della vita. Il corposo volume è suddiviso secondo i giorni della settimana, ciascuno dedicato a una fede particolare: il lunedì ai credenti Indù, il martedì ai Musulmani, il mercoledì ai cercatori del pensiero Magico e Occulto, il giovedì ai Buddhisti e ai Taoisti, il venerdì alle varie Chiese Cristiane, il sabato agli Ebrei e infine la domenica al Cattolicesimo. Ma a un cattolicesimo ecumenico, comprensivo e rispettoso di ogni voce che si alzi nella ricerca della spiritualità.

A me non credente sembra bello poter offrire a chi legge una preghiera per ciascuna di queste fedi, proprio con l’umiltà e la considerazione che ha guidato Padre Vannucci a raccoglierle, senza esibire alcun senso di superiorità nei riguardi di nessuna di esse, ma consapevole della loro legittimità e rettitudine.

Indù: “Tu sei la via, l’irraggiungibile mèta, l’unico Signore. In te le leggi muoiono come fiumi nel mare”.

Musulmani: “Dio ha creato il genere umano in un solo uomo, e la resurrezione universale. Gli sarà ugualmente facile. Egli ascolta e osserva tutto”.

Occultisti: “Estrai dalle difficoltà un lievito di perfezione, trasformalo in forze vive”.

Buddhisti: “Abolendo le passioni, espandendomi nel vero pensiero, voglio avanzare silenziosamente nella pura saggezza, raggiungere il Risveglio perfetto”

Protestanti e Ortodossi: “Fa’ che io senta fin dal mattino la tua amabile bontà, mostrami la via per innalzare l’anima verso di te”.

Ebrei: “Perché ogni notte tu scendi verso di me, e al levar della stella del mattino mi abbandoni solo?”

Cattolici: “Sii lodato per tutto quello che vive nella terra e nel cielo”.

Se l’autore non avesse posto rigide distinzioni tra i vari capitoli, citando le fonti e gli autori delle preghiere, avremmo difficoltà a distinguere una religione dall’altra, in quanto ciascuna invocazione esprime, in qualsiasi epoca e latitudine, e con parole simili: lode, gratitudine, speranza, rimorso, timore, gioia, fedeltà, mansuetudine, clemenza, fiducia, desiderio. Un breviario universale, questo proposto da padre Giovanni Vannucci, a cui attingere quotidiana sapienza e dolcezza: il fatto che me l’abbia regalato il parroco del paesino in cui vivo, depone in favore del necessario abbattimento di ogni steccato ideologico, di ogni intollerante pregiudizio.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/Il-libro-della-preghiera-universale-Vannucci.html             26 ottobre 2018

 

 

 

RECENSIONI

VARGAS LLOSA

MARIO VARGAS LLOSA, LA CITTA’ E I CANI – EINAUDI, TORINO 2016

Mario Vargas Llosa (autore peruviano nato nel 1936, e Premio Nobel nel 2010) scrisse questo che forse rimane il suo romanzo più famoso La città e i cani nel 1963. Il volume conobbe varie vicissitudini: in patria venne censurato e bruciato in piazza dai militari, all’estero fu tradotto piuttosto tardi, e in Italia solo nel ’98. Oggi Einaudi (2016) lo ripresenta nella traduzione di Enrico Cicogna.
Si tratta di un libro che parla della violenza insita nel cuore umano e nell’ambiente sociale, nell’apparato educativo scolastico e nei rapporti familiari, nella sessualità e nelle schermaglie amorose tra uomini e donne. «A questo mondo la violenza è una sorta di fatalità», chiosa l’autore in una sua dichiarazione: soprattutto in paesi economicamente sottosviluppati e politicamente illiberali quali era il Perù all’epoca dei fatti narrati.
La vicenda ruota intorno al collegio militare Leoncio Prado di Lima, e ai giovani cadetti che lo frequentano per un triennio, costretti a una disciplina durissima e ottusa, a esercitazioni massacranti, vessati da sopraffazioni continue da parte di commilitoni, sorveglianti e superiori.
E’ un romanzo corale, che usa sapientemente diverse prospettive di narrazione, alternando capitoli in prima e in terza persona, dialoghi, monologhi, brani di diario, descrizioni paesaggistiche e confessioni meditative.
Protagonisti sono gli adolescenti di una stessa camerata, che devono superare sia i rituali di iniziazione imposti loro dagli allievi più grandi (scherzi osceni, umiliazioni, pestaggi, furti), sia le corvée delle marce e delle manovre, delle punizioni fisiche, delle consegne in isolamento: «Qui sei militare anche se non vuoi. E quello che importa nell’Eesercito è essere un duro, avere un paio di coglioni d’acciaio, capisci? O fotti o ti fottono, non c’è rimedio. E a me non piace lasciarmi fottere».

In questo clima di rigore disumano che ricorda le atmosfere del film Ufficiale e gentiluomo, i ragazzi tentano una loro resistenza individuale e collettiva, fatta a sua volta di violenze contro i più deboli, di fughe dal collegio, di ruberie e di esibizioni sessuali al limite della depravazione. Tra di loro si chiamano con soprannomi allusivi: Boa, Giaguaro, Chiavica, Schiavo… C’è anche un Alberto, definito “il poeta” perché in grado di scrivere lettere d’amore e storielle pornografiche da vendere ai compagni. In quest’ultimo Vargas Llosa cela il suo alter-ego giovanile: «Ero un bambino viziatissimo, presuntuosissimo, cresciuto, faccio per dire, come una bambina… Mio padre pensava che il Leoncio Prado avrebbe fatto di me un uomo, ma per me fu come scoprire l’inferno». Vittime di tale inferno sono soprattutto Alberto, il Giaguaro e lo Schiavo, in uno scontro di sensibilità, codardia, forza bruta che si conclude in tragedia. Vittima è anche l’unico educatore intelligente e responsabile, il tenente Gamboa, che paga con un trasferimento punitivo la sua coraggiosa rettitudine «Non sono diventato militare per avere la vita facile». Nemmeno l’esistenza fuori dal collegio risulta aliena da difficoltà e cattiverie per i cadetti, sia nei rapporti con i vecchi amici rimasti a vivere di espedienti nei quartieri più poveri, sia nelle famiglie sfasciate che non li accolgono volentieri durante le licenze, sia nei tentativi abortiti di esperienze amorose o nel sesso vissuto squallidamente.
Sarà solo Alberto, alias Varga Llosa, a salvarsi, fuggendo da Lima e dal Perù, per tentare un riscatto in una nuova vita di cui essere l’unico padrone.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/La-citta-e-i-cani-Mario-Vargas.html             4 febbraio 2016

RECENSIONI

VARGAS LLOSA

MARIO VARGAS LLOSA, ELOGIO DELLA LETTURA E DELLA FINZIONE – EINAUDI, TORINO 2011

Peruviano ma cittadino del mondo, il premio Nobel Mario Vargas Llosa in questo suo famoso discorso non si è risparmiato giudizi politici di largo respiro: dall’abbandono del marxismo alla fede nella democrazia liberale, dalla condanna di ogni terrorismo alla riprovazione per lo sfruttamento degli indios ancora in atto in tutta l’America latina, per finire con le sacrosante parole contro il nazionalismo: «perché trasforma in valore supremo,in privilegio morale e ontologico,la casuale circostanza del luogo di nascita.Assieme alla religione,il nazionalismo ha rappresentato la causa delle peggiori carneficine della storia». Viaggiatore instancabile, esploratore di mondi e società diverse, romanziere acclamato, giornalista, drammaturgo e persino attore, combattente in difesa di tutte le libertà, marito riconoscente di Patricia e padre di tre figli, Vargas Llosa non si è mai risparmiato,come uomo e come scrittore. E in questo breve scritto esprime tutta la sua gratitudine alla missione e all’ambizione della sua intera esistenza: la letteratura, «la maniera più efficace che abbiamo trovato per alleviare la nostra condizone mortale, per sconfiggere il tarlo del tempo e trasformare in possibile l’impossibile». Leggere ci aiuta a uscire dalla quotidianità spesso mortificante,a costruirci vite migliori, insegnandoci la riflessione, l’anticonformismo, l’inquietudine, la disubbidienza, la comprensione verso gli altri:a uscire da noi stessi e a moltiplicare le nostre esperienze umane. La lettura e la finzione sono necessità imprescindibili per proseguire nel progresso comune, ci risarciscono delle umiliazioni che patiamo, ci vaccinano contro stupidità, ignoranza, fanatismo, ci spingono a cercare nell’immaginazione quello che non abbiamo nella realtà. Per questo i dittatori sono diffidenti e cauti nei riguardi della letteratura, degli scrittori e dei lettori, come verso qualsiasi apertura della mente. Nei libri dobbiamo cercare i nostri maestri, per trasformare «il sogno in vita e la vita in sogno».

IBS, 28 giugno 2016

RECENSIONI

VASALIS

M.VASALIS, VISIONI E VOLTI – ENSEMBLE, ROMA 2020

La casa editrice romana Ensemble ha pubblicato nel maggio di quest’anno l’opera completa della poetessa olandese M. Vasalis, con testo a fronte. Vasalis (1909-1998) è lo pseudonimo di Margaretha Leenmans, neuropsichiatra attiva professionalmente ad Amsterdam, e autrice di quattro raccolte di versi (Parchi e deserti, La fenice, Visioni e volti, La vecchia linea costiera), composte a partire dagli anni ’30, molto popolari e pluripremiate nei Paesi Bassi. Apparentemente semplici, dal linguaggio sobrio e diretto, le poesie antologizzate si connotano sia per un deciso, ma certamente non autocelebrativo, biografismo, sia per una forte tensione speculativa e spirituale.

Il primo esile volume, pubblicato nel 1940, è improntato a una visione leggera e garbata dell’ambiente naturale e umano che circonda la giovane autrice, con descrizioni di animali (asini, anatre, tacchini, ragni) e della vegetazione, nei colori mutanti del volgere delle stagioni. Ma si accenna anche ai turbamenti adolescenziali di chi deve affrontare i primi impegni della vita adulta: “Ho avuto paura di quasi tutto: / del buio, di figure sulla coperta, / del silenzio, del grido rauco / dell’ambulante della sera, di una festa, / del guardare sul tram e di me stessa”.

Sette anni dopo, la tragedia della guerra, il matrimonio e la perdita di un figlio di appena un anno, avevano già indirizzato la scrittura della Vasalis verso tematiche più complesse e coinvolgenti: il dolore di un distacco, l’amore che sconvolge o delude, la consolazione della preghiera: “Ben sapevo che l’apparenza tradisce / e le candele ardevano bianche e rette / come la differenza tra il bene e il male”, “Odo solo, che tutto soffre, / ammalata della moltitudine delle cose, / della loro assoluta solitudine”.

I versi compresi nelle ultime due raccolte, del 1954 e del 2002 (postuma), appaiono al lettore decisamente più articolati e formalmente sorvegliati. Il titolo Visioni e volti della prima indica appunto la predilezione per lo sguardo capace di intuire aldilà delle apparenze la tormentata realtà che si cela nelle espressioni e negli atteggiamenti delle persone, nelle emozioni ferite da un abbandono. “Così tanti tipi di dolore, non li nomino. / Ma uno, distanziare e scindere. / E non il recidere fa così male, / ma l’essere recisi”, “Tristezza fondi le mie forze, / cosicché io diventi immota come pietra”.

Figure rattrappite e stanche di vecchi, bambini che hanno perso spontaneità e sorrisi, l’uomo amato lontano, il cielo coperto, gli alberi grondanti pioggia: chi guarda e scrive tenta di anestetizzare la propria empatia, ricorrendo a una forzata estraneità dalla vita: “Sedevo vicino alle mie magre ed escoriate ginocchia / e guardavo oltre il lento scorrere dell’acqua, / senza pensare o sognare. / Il mio capo non spuntava per niente fuori dal tempo”.

Lo stile si fa più franto e conciso, le metafore più asciutte, la rispondenza tra turbamento interiore e contesto esterno più puntuale, in atmosfere che rievocano quelle tratteggiate da altre due grandi poetesse, Dickinson o Achmatova: “Uscì di casa nel primo imbrunire, / il marciapiede era bianco e dal cielo affiorava / brillante e fine e come ritagli di ciglia scure / ancora neve, che rimase sospesa a turbinare”, “L’inverno e il mio caro sono via. / C’è un merlo sul tetto, / la sua gola si muove, il suo becco trema / come parlando con se stesso”.

Giusto rendere merito alla piccola casa editrice Ensemble che ci ha fatto apprezzare una notevole poetessa pressoché sconosciuta da noi, proponendo un prodotto librario elegante e curato.

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Visioni-volti-Vasalis.html  5 ottobre 2020

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VELADIANO

MARIAPIA VELADIANO, IL TEMPO E’ UN DIO BREVE – EINAUDI, TORINO 2012

In questa sua seconda prova narrativa, sempre edita da Einaudi dopo il successo ottenuto con La vita accanto, la scrittrice trentina Mariapia Veladiano torna ad esplorare con attenta sensibilità e generosa empatia l’animo femminile: i suoi trasalimenti e la scalfibile partecipazione alla vita, gli abbandoni e le caute adesioni alla fisicità, l’immersione nella natura e l’aspirazione a una ansiosa spiritualità. Protagonista del romanzo è una giornalista laureata in teologia, che lavora nella redazione di una rivista cattolica: stimata dal direttore, ma osservata con qualche diffidenza dai colleghi a causa della sua mai placata inquietudine religiosa. Il dubbio che angustia Ildegarda (nome che esplicitamente fa riferimento alla nota mistica tedesca medievale) riguarda l’esistenza del male nella vita degli esseri umani, e la sua giustificazione divina: rifacendosi all’ “unde malum?” agostiniano, alla teodicea di Leibniz, alla riflessione filosofica contemporanea (così pienamente indagata dal nostro Luigi Pareyson), l’interrogazione che lacera la coscienza della donna riguarda l’impotenza o la non volontà di Dio di opporsi alla sofferenza innocente, al dolore incolpevole dei giusti e dei bambini («Il silenzio di Dio davanti al male mi devastava»). E questo assillo della protagonista viene in continuazione messo alla prova dalle circostanze, decisamente tormentate e infelici, della sua esistenza. In primo luogo dal matrimonio con l’aristocratico e anaffettivo Pierre («la sua tristezza inviolabile», «il suo pessimismo doloroso e intoccabile»), incapace di provare qualsiasi sentimento nei confronti della moglie e del figlio, costretto a scegliere una fuga indecorosa e silenziosa a Londra, pur di non affrontare le sue responsabilità. Ildegarda scoprirà molto tardi e fortuitamente che l’assenza del marito andava attribuita, più che a rovelli intellettuali ed esistenziali, a una mai confessata relazione con una collega di lavoro e amica di famiglia. La stessa convivenza con i parenti di lui, in una gelida e nebbiosa tenuta della pianura lombarda, è fonte per la protagonista di continui soprassalti di muto e inesprimibile dolore, di fredda incomunicabilità, di rabbioso rancore. A questa sofferenza di Ildegarda, che permea ogni pagina della sua vita e della narrazione stessa, non sa proporre alcuna tregua nemmeno l’esistenza del bambino Tommaso, tormentato alla nascita da una crudele dermatite («guardavo Tommaso e mi sembrava che la sua pelle rovinata fosse la prova straziante dell’inconsistenza di Dio»), quindi da una sorta di epilessia genetica che incombe sui suoi pochi anni indifesi come una minaccia invincibile. Ogni prova viene vissuta da Ildegarda con riferimenti costanti alla vita religiosa, ai testi sacri, ai riti, che sempre offrono consolazione, portando però anche nuovi interrogativi. Di fronte al suo bambino malato riappare la sofferenza della Vergine sotto la croce; nelle sue preghiere a Dio la contrattazione che Abramo propone all’altissimo per la salvezza di Sodoma; nei sogni ricorrenti l’eco dei sogni biblici; nell’aspirazione alla conoscenza la maledizione del Qoèlet… E quando finalmente la vita sembra poter tornare a fiorire, nell’incontro in montagna con un pastore protestante di Heidelberg (pure segnato da una storia di morte e abbandoni), ecco che di nuovo torna l’incubo del male ingiusto e inspiegabile, con la diagnosi di un inoperabile tumore annidatosi da tempo nel cervello della donna. La cifra narrativa del romanzo sembra tutta da leggersi in questa incombente atmosfera di angoscia, di lutto, di morte, a cui nessuno spiraglio di leggerezza e di serena partecipazione alla naturalità e alla bellezza dell’esistente sembra poter offrire tregua. Un dolore antico, pervasivo, connaturato quasi alla scrittura stessa dell’autrice: sorvegliata ed elegante, che tuttavia sfiora talvolta il manierismo, e sembra sempre vietarsi qualsiasi apertura alla gioia, al desiderio, all’invenzione o alla scoperta di quanto c’è di buono, dentro e fuori di noi.

«Il bilancio del bene e del male della mia vita è negativo…Al male non bisogna mai dare principio. Quando lo si è svegliato vive di vita propria, si moltiplica in proporzione dei buoni sforzi che si fanno per fermarlo, è una tenia che rinasce da ogni suo frammento».

E’ inquietante e malinconico osservare come anche il cristianesimo appassionato di Mariapia Veladiano tenda a circoscrivere fede, speranza e carità nei confini di un’illusione che non lascia scampo di fronte alle tenaglie del dubbio, alle seduzioni della negatività.

 

«Incroci» n.28, dicembre 2013

RECENSIONI

VENDITTO

SERENA VENDITTO, MALÙ SI ANNOIA – MONDADORI, MILANO 2020 (ebook)

Con l’ebook di recente pubblicazione {{Malù si annoia}}, {{Serena Venditto}} (Napoli, 1980) prosegue nella serie di racconti di successo dedicata al gatto detective Mycroft e ai 4+1 di via Atri 36, serie che ha ricevuto numerosi riconoscimenti e segnalazioni.

I quattro inquilini che condividono l’interno 5 di Via Atri sembrano tutti ugualmente tediati e in ansia per il prolungarsi della reclusione forzata causata dalla pandemia da Covid 19: in pigiama o in tuta, guardano partite di calcio alla TV, o fiction su Netflix, puliscono ossessivamente ogni superficie e mettono in ordine gli armadi, cucinano e litigano, punzecchiandosi a vicenda. La voce narrante in prima persona è quella di Ariel, che essendo traduttrice è abituata a lavorare da remoto e in solitudine: tuttavia ogni tanto le prende il magone per la nostalgia dei parenti e degli amici lontani, e allora si rifugia sul terrazzo a singhiozzare tra le lenzuola stese. Il suo fidanzato Samuel si ingegna ad aiutare i vicini portando a casa loro la spesa, il musicista Kobo si finge sereno, ma in realtà è preoccupato per la sua compagna che vive a Cremona, in piena zona rossa. Poi c’è Malù, archeologa in perenne ricerca di stimoli intellettuali e di brividi esistenziali, inquieta e curiosa, che soffre più di tutti per la noia e l’inattività.

Malù aspira ad avere sempre “{un problema da risolvere, un dato da apprendere ed elaborare, qualcosa da fare}”, altrimenti rischia di impazzire. Decide quindi di chiedere all’amico commissario Timoteo De Iuliis se per caso abbia tra le mani qualche caso da risolvere, per cui potersi valere della sua collaborazione.

Il poliziotto sottopone allora a tutti i coinquilini, e a Malù in particolare, l’indagine sull’omicidio di un giovane programmatore informatico, incensurato, introverso e solitario, di cui si era ritrovato nascosto nel materasso un hard disk esterno, protetto da una password alfanumerica. Malù, offrendosi eccitata di decriptarla, tenta di immaginare a cosa la vittima si fosse ispirata nell’inventarla, magari osservando un particolare del suo studio. Così, esaminando le foto inviatole dal commissario, scorge nell’arredamento tipico da nerd cinefilo dell’ucciso, un poster di un film di Tarantino e la riproduzione dell’uomo vitruviano di Leonardo. Ricostruisce quindi vittoriosamente la password attraverso una citazione filmica del profeta Ezechiele riletta al contrario, per arrivare a comprendere in conclusione che tutto il suo fiuto poliziesco era servito al commissario burlone per regalarle un diversivo anti-noia nella clausura collettiva.

Come morale del racconto, Serena Venditto suggerisce che l’antidoto alla depressione e all’indifferenza risiede nel mantenere rapporti affiatati e benevolenti con chi ci sta vicino: inquilini, fidanzati, poliziotti e gatti. Magari aiutando con una piccola offerta volontaria l’Ospedale Cotugno di Napoli, come invita a fare nella nota conclusiva dell’ebook a costo zero.

 

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RECENSIONI

VENEZIANI

MARCELLO VENEZIANI, ALLA LUCE DEL MITO – MARSILIO, VENEZIA 2017

«Gloria dell’inutile e specchio di un destino superiore, il mito è la lettura del mondo che permette alla vita di entrare in un disegno più grande fino a elevarsi a impresa eroica e racconto epico. Il mito crea la leggenda e muove la storia». Con queste parole Marcello Veneziani, nel preludio al volume edito da Marsilio Alla luce del mito, introduce il suo omaggio – vero e proprio inno, peana e rullo di tamburi – a quella particolare e sorgiva forma di pensiero e di narrazione che è il mito. Con uno stile spesso aforistico, ricco di sentenze gnomiche, illuminazioni poetiche e metafore liriche, l’autore intende celebrare una struttura teoretica che ha caratterizzato la forma mentis dell’umanità a partire dalle sue origini. Non tanto, quindi, una rassegna dei miti, antichi e contemporanei, che hanno fecondato le letterature mondiali (da quella greca a quella ebraica, dalle celtiche alle asiatiche…), quanto un’approfondita riflessione sulla natura e sull’essenza del mito come fondamento e radice dell’immaginario universale.

Le definizioni che Veneziani offre del mito sono molteplici e originali: magia, saga, parabola, meraviglia, manifestazione divina, visione, esperienza del sublime, metamorfosi, trascendenza, apoteosi dell’indelebile, mimesis, sublimazione, musica, poesia, resurrezione, rinascita… Altrettanto immaginifiche e proverbiali paiono, nella loro perentorietà, altre formulazioni: «Il destino è l’albero della necessità, il mito è la sua fioritura; Entrare nel mito significa uscire dalla mortalità; Nel mito facciamo visita agli dei; Uscire dal mito è vivere spenti». Se «la nostra epoca è contrassegnata da fenomeni di seconda mitologia», falsi miti quali il successo economico, la forma fisica, il sesso ridotto a libido, l’astrologia, l’occultismo, il cinema, la pubblicità, l’ideale di purezza e genuinità (nei rapporti sociali, nell’alimentazione, nell’ambiente), Veneziani è ferocemente critico riguardo ad essi.

«Nella società cieca, priva di visione del mondo, la prospettiva di ciascuno è nella sua feritoia o nel suo campo d’accesso alla rete… Ciascuno ha la sua collezione di figurine… Mille visioni del mondo, private, superficiali e cangianti, a cui votare la solitudine di spettatore… Il mondo sono io, e il selfie lo certifica». In questa desolante prospettiva di solipsismo individualistico, di mancanza d’interesse per la comunità e i suoi bisogni non solo materiali, per la tradizione e per il futuro, l’unica universalità rimasta in ogni latitudine del globo è quella della tecnica, delle merci, della finanza, dei media. Spetta allora forse al mito, alla sua rifondazione e riscoperta, offrire agli esseri umani nuova linfa vitale e sostegno, volontà di tornare alle origini del pensiero.

«Nel mito è la vita ulteriore che esce dalla dimensione soggettiva, temporale e occasionale per entrare nella sfera del destino, dell’origine, della comunità. Nel mito avviene la liberazione dall’ego, l’eutanasia del soggetto». Esso è l’unica immortalità concessa ai mortali, capace di oltrepassare le situazioni presenti, predisponendo alla bellezza e al dono, al sacro e al divino, senza diventare dogmatico, prescrittivo, didascalico come molte fedi religiose o ideologie politiche. L’unica possibilità che abbiamo (e qui la tesi di Marcello Veneziani diventa provocatoriamente interessante) di opporci sia al tecnicismo globalizzato, funzionale alla finanza e al capitalismo disumanizzante, sia a una filosofia ormai esangue, svuotata di valori e significati, dominata dallo scientismo e dal pragmatismo, è il recupero di un orizzonte spirituale e universale, sovratemporale e simbolico. «Alla filosofia resta il tragico ruolo di abitare l’intervallo tra la notte mistica e il neon della tecnica, tra gli dei e gli algoritmi».

Il riferimento esplicito da cui traggono spunto queste tesi è ovviamente il pensiero idealistico, mistico, trascendentale da Platone a Jung, attraverso i più noti studiosi del mito e del sacro, dell’illuminazione artistica e del sacrificio eroico: Otto, Eliade, Kerenij, Malinowski, Frazer, Kerény, Levi Strauss, riletti insieme a Borges e Jünger, a Tolkien e Eliot, a Hillman e Girard, a Evola e Sorel, a Bachelard e Zambrano; in compagnia dei nostri Giorgio Colli, Roberto Calasso, Cristina Campo, Andrea Emo, Furio Jesi, Elémire Zolla. Stranamente non vengono citati, nemmeno in bibliografia, altri grandissimi contemporanei, Emanuele Severino, Pierre Hadot e Jean Pierre Vernant, studiosi dell’Essere e del Tempo, del pensiero classico in antitesi alla contemporaneità. Il messaggio di Veneziani rimane comunque scolpito nella sua evidenza: «La civiltà avrà un futuro se riprenderà a mitificare, ossia a generare simboli, riti e racconti e a proiettarli nell’avvenire. Viceversa la decadenza si farà estinzione. Non c’è aspettativa di vita senza proiezione, senza trascendere il momento in corso».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Alla-luce-del-mito-Veneziani.html    15 febbraio 2017