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RECENSIONI

VERBARO

GIUSI VERBARO, IL VENTO ARRIVA DA UNO SPAZIO BIANCO – INTERLINEA, NOVARA 2013

Con questo arioso endecasillabo che dà il titolo al libro, Giusi Verbaro introduce da subito la metafora fondante che attraversa le tre sezioni del volume: vento inteso come spirito, anima vivificatrice del mondo, turbine che scompagina, assedia e libera, «rabbioso che soffia», «che trascina le memorie», «che scompiglia i nomi», «che rinnova, a primavera, / il profumo dei tigli sul viale». Vento, quindi, come metafora della poesia, capace di permeare e travolgere cose e parole, vite e sentimenti, originata misteriosamente e misteriosamente posseduta da pochi, privilegiati, interpreti… Da questo soffio energico la poetessa si lascia penetrare e plasmare: «Affacciarsi nel vento e dal vento / lasciarsi poi scolpire / e levigare come cera molle». E’ un vento che nasce da uno spazio bianco e vergine, di silenzio e di ascolto: da un altrove non conosciuto, di sogno o di estasi, di altezza irraggiungibile o di insondabile profondità. E infatti sogno è un altro dei termini chiave di questa raccolta poetica, insieme ai paesaggi lunari, alle risacche marine, e ad altre «essenze misteriose» e quasi esoteriche. Allora echi, ombre, fiati, fantasmi, «stranite stanze», «città bianche e spettrali», «creature alate», «anime pellegrine», «sussulti del cuore», aleggiano impalpabili nei versi, animandoli e forse turbandoli: «Lunga notte d’inverno, buia come più buio / è il misterioso perdersi – negati alle presenze / e ai rovelli consueti – e dopo ritrovarsi».
E i morti, questi cari ed eterni assenti, spesso più vivi e incombenti dei vivi, parenti che hanno segnato in maniera indelebile le nostre vite, scrittori che hanno ispirato i nostri pensieri, maestri di poesia in passato vicini e ora ancora più stagliati nella memoria: «Come sospesi e teneri sono i passi dei morti / e come i morti tornano, liberi ormai dai nomi / così come dal peso degli affanni», «Li chiamo tutti piano i nostri morti», «I morti hanno una loro quieta astuzia: / trovano mille modi per rivelarsi / per restare accanto: una folata rapida di vento».
La madre della poetessa, «gravata dalla pena/ di non voler andare», «già lontana/ libera come un alito di foglia», «mia madre – adesso senza peso e senza luoghi»; ma anche teneri amici che hanno accompagnato la sua esistenza per tratti più o meno lunghi; e i grandi nomi di amati poeti novecenteschi, ricordati nelle epigrafi che introducono ogni poesia, e molto citati, assorbiti, ripetuti, imitati nelle cadenze più tipiche (Montale, Luzi e Caproni, soprattutto).
Le tre sezioni che compongono il volume (la prima, dedicata alla città della formazione, della cultura e della maturità, Firenze: con le sue atmosfere surreali e spirituali; la seconda, immersa nella fisicità della Calabria nativa: «mi abbraccia un sogno d’acque e mi sommerge»; la terza, dedicata alle presenze più intangibili, fragili e salvifiche: gli angeli, «Creature incorrotte… Ci vivono d’attorno invisibili e alteri») sono in realtà «una narrazione ininterrotta di sentimenti e di ricordi, di rievocazioni trasognate e oniriche, di omaggi e rimandi, in un unico concerto di voci e di richiami», come ben evidenzia Giuseppe Panella nella sua postfazione. Pertanto il vento che anima questi versi di Giusi Verbaro va letto, secondo il prefatore Daniele Maria Pegorari, come «l’insieme delle “parole che credevamo perse”, è il coro delle voci sparite dal dominio dell’esperibile, ma sopravvissute nello spazio della memoria e della letteratura, e che da qui continuano “a riannodare i fili” che l’insipienza umana tronca o ignora». Orgoglioso recupero della nostra tradizione letteraria, quindi, in questa poesia, e adesione convinta e riconoscente all’affettività del ricordo, così come si perpetua nei luoghi e nei sogni, nelle evocazioni e nelle attese, in ogni «spazio bianco».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

VERLAINE

PAUL VERLAINE, ROMANZE SENZA PAROLE – FELTRINELLI, MILANO 2016

Con introduzione e traduzione di Cesare Viviani, e testo originale a fronte, Feltrinelli ha pubblicato nell’Universale Economica la raccolta Romanze senza parole, che Paul Verlaine scrisse intorno al 1870, in un periodo tra i più tormentati della sua vita. «Il cielo è di rame / senza chiarore alcuno. / Sembrerebbe di vedere / la luna vivere e morire. // Bolsa cornacchia / e voi, lupi magri, / con questi venti aspri / che cosa vi succede? // Nell’interminabile / noia della pianura / la neve incerta / luccica come sabbia». Sono versi, delicati e musicali, tratti dalla sezione Ariettes oubliées, in cui si esprime al massimo grado la sensibilità del poeta per i colori e i suoni della natura, la sua ricerca di una rispondenza interna con il paesaggio e tutto ciò che lo anima. Quasi che Verlaine cercasse nella scrittura un’oasi di serenità e conforto dai turbamenti che in quegli anni lo rendevano schiavo della passione per Rimbaud, fino a condurlo al tentato omicidio e poi al carcere.

Viviani, nel sottolineare «la costruzione incerta e cauta, sostenuta e sensata, dell’esistenza e dell’affettività di Verlaine», mette giustamente in guardia il lettore dal voler leggere l’opera di qualsiasi scrittore attraverso la lente della sua biografia, caricandola di significati indebiti o prevaricanti. In effetti in queste poesie Verlaine pare volersi innalzare al di sopra di ogni dato di concretezza, per immergersi nell’assoluto della sensazione, in un oblio del sé che conduce all’armonia con il tutto: «L’ombra degli alberi nel fiume nebbioso / si dissolve come fumo / mentre nell’aria, tra i rami veri, / gemono le tortore», «Il cielo era troppo azzurro, troppo tenero, / il mare troppo verde e l’aria troppo dolce». Un eccesso di bellezza che la sensibilità del poeta sembra non riuscire a sostenere, e infatti afferma: «Bisogna, vedete, perdonarci le cose: / in questo modo saremo proprio felici».

Perdono, timore, gioia ineffabile, gratitudine religiosa, e l’amore che si manifesta in una sorta di estasi scorporante: «Ho paura di un bacio / come di un’ape. / Soffro e veglio / senza riposarmi: / ho paura di un bacio!», «Piange nel mio cuore / come piove sulla città; / che è questo languore / che penetra il mio cuore?» Nel rifiuto di ogni brutalità materiale, Verlaine aspira in queste Romanze senza parole a una spiritualità che si sappia fare puro suono e immagine, sogno e impercettibile carezza.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Romanze-senza-parole-Verlaine.html     10 ottobre 2016

 

 

 

 

RECENSIONI

VERONESI

SANDRO VERONESI, NO MAN’S LAND – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2016

No Man’s Land è un film del 2001 diretto dal bosniaco Danis Tanović, ambientato nel 1993 durante la guerra serbo-bosniaca. La pellicola conobbe un grande successo, vincendo l’Oscar e il Golden Globe per il miglior film straniero.
Sandro Veronesi ha rielaborato – non si capisce bene con quali finalità – la sceneggiatura originale, traendone un testo di impianto teatrale in due atti, in cui i dialoghi scarni e veloci dei protagonisti si alternano alle indicazioni di scena, più didascaliche e talvolta pleonastiche: “È una danza grottesca, disperata… Scende il silenzio. Un cupo e minaccioso silenzio”.

La trama narra di due miliziani bosniaci che, rimasti isolati dalla loro pattuglia, trovano rifugio in una trincea deserta, a metà strada fra il fronte serbo e quello bosniaco, nella terra di nessuno che divide gli eserciti nemici. Due soldati serbi giunti in ricognizione affrontano gli avversari non solo con le armi, ma anche verbalmente, in un crescendo di accuse rabbiose, intercalate da un turpiloquio accanito. I quattro, scambiandosi vicendevolmente i ruoli di vittima e aggressore, si sfidano con pistole e coltelli, fino a che uno di loro viene ucciso e un altro viene steso sopra una mina balzante, pronta a esplodere alla prima incauta scossa.
Le parole smozzicate e deliranti dei soldati si confondono con le canzoni dei Doors e di Springsten diffuse da una radiolina, con i lamenti dei feriti, con le esplosioni dei proiettili, in un’atmosfera feroce che ricorda l’assurdo del teatro di Artaud o di Beckett.

Intervengono nel tentativo inefficace di prestare soccorso due membri dei Caschi Blu e un artificiere, bloccati nelle loro operazioni da superiori indifferenti e preoccupati solo di evitare scandalosi strascichi polemici e a inquinare il quadro già di per sé crudelmente tragico concorre una querula giornalista dell’emittente Global News, desiderosa di trasmettere in televisione uno scoop sensazionalistico.
Alla fine, uccisi gli altri due soldati superstiti, rimane nella trincea abbandonata solo il militare bosniaco sdraiato sulla mina, condannato a una sanguinosa e inevitabile immolazione dall’egoismo di amici, nemici e osservatori ignavi di una guerra fratricida.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/no-man-s-land-sandro-veronesi.html       3 agosto 2016

RECENSIONI

VIA DEL VENTO

ANNA ACHMATOVA, FLEBILE E’ LA MIA VOCE ; MARINA CVETAEVA, IL RACCONTO DI MIA MADRE; ELISABETH VAN GOGH, MIO FRATELLO VINCENT – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2012

Via del vento è una piccola e raffinata casa editrice di Pistoia, fondata negli anni ’90 dal pittore Fabrizio Zollo, che in un ventennio è riuscito non solo a pubblicare importanti testi di narrativa e poesia di autori internazionali, costruendo un catalogo ricco e originale, aperto alla collaborazione di autorevoli studiosi e traduttori, ma anche a stimolare la vita culturale cittadina con molteplici inziative: mostre, concorsi, dibattiti. I libri che vengono offerti ai lettori hanno la particolarità di essere costituiti di poche pagine, in genere non più di quaranta: sono libriccini curati, eleganti, che propongono nomi rilevanti del nostro 900, soprattutto toscani (Bigongiari, Luzi, Manzini…), ma anche scrittori notissimi a livello mondiale e tuttavia lontani dalle mode imperanti e imposte dai media nazionali. Il prezzo dei volumetti non supera mai i quattro euro, e sono corredati da una breve postfazione critica e da una nota biografica sull’autore. Delle tre pubblicazioni di cui qui si vuole parlare, la prima è dedicata alla poetessa russa Anna Achmatova (1889-1966), e riporta ventisei liriche composte tra il 1912 e il 1963, lievi di tutta la delicata sensibilità di un timbro poetico assolutamente femminile («È flebile la mia voce… / e sono casti i miei pensieri… / Io perdono tutto»), e insieme cariche del dolore privato e politico che ha visto la Achmatova testimone e vittima di accadimenti tragici. C’è quindi la Storia, inflessibile e crudele con tutta la pesantezza di un potere che opprime («e innocente si contorceva la Russia»), ma c’è anche la leggerezza dei sentimenti che si confondono con il bianco immacolato della neve («Sulla dura cresta di un tumulo di neve / vaghiamo in un soave silenzio…»), con i trasalimenti degli amori che iniziano o stanno per finire, con gli addii ai poeti che hanno saputo regalare emozioni a un popolo sofferente («S’è azzittita ieri la voce irripetibile…»). Un secondo libriccino apparso nella collana Ocra gialla di «testi inediti e rari del novecento», raccoglie due racconti mai letti in Italia, che un’altra famosa poetessa russa, Marina Cvetaeva (1892-1941), scrisse tra il 1933 e il 1934, quando con il marito Sergej Efron viveva a Parigi, circondata dall’ostilità della colonia degli ebrei russi fuggiti dal bolscevismo. Protagoniste delle due novelle (che si differenziano dalla narrativa coeva della Cvetaeva per un loro tono vivace e gioioso, leggero e irriverente, dovuto forse alla memoria felice dell’intimità familiare vissuta dalla poetessa nell’adolescenza) sono Marina stessa – chiamata affettuosamente Musja – e la sorella minore Asja. Nel primo testo, Il racconto di mia madre, le due bambine si contendono l’amore materno in una sorta di gara dispettosa su chi sia tra le due la più amata («Mamma, a chi vuoi più bene, a me o a Musja? No, non mi dire che è la stessa cosa, non è mai la stessa cosa, ce n’è sempre una che si ama un pochino pochino di più… Un pochinino di più, una goccia, una briciola, un millimetrino di più»). E la madre si schermisce, cercando scampo nella narrazione truculenta di una favola dai contorni spaventosi… Nel secondo racconto Il fidanzato, le due ragazze, cresciute, si prendono beffe di un pretendente amorfo e goffo. Tolia era «di buona taglia e in carne, e, ahimè, tutto sudato…Era giovane, e se non bello, era per lo meno benevolo (e inoltre tutto quello che si vuole derivato dal bene: beneducato, benintenzionato, benpensante…): dagli occhi acquosi e inespressivi, girava intorno alle sorelle “come un gatto attorno al macellaio”». Il fidanzato rifiutato da entrambe si prende la rivincita diventato adulto: sposa una ragazza carina e ricca, diventa direttore di museo, assumendo Asja con un incarico umiliante, e poi scrittore di successo. Ma Marina Cvetaeva conclude crudelmente la sua narrazione con queste parole: «Solo, ecco, che genere di scrittore?». L’autrice del terzo volumetto è Elizabeth Van Gogh (1859-1936), quartogenita dei sei figli della famiglia Van Gogh. Ebbe anch’essa vita non facile, sebbene meno infelice di quella del fratello: la casa editrice Via del Vento propone ora una riduzione della breve biografia-ritratto (resoconto asciutto e oggettivo, senza particolari risonanze emotive) pubblicato nel 1910, a vent’anni dalla morte del pittore. Quasi ignorata dal celebre Vincent, primogenito di un pastore protestante, ne seguì con rispettoso ma forse poco partecipe sguardo l’esistenza tormentata e geniale, con le sue cadute, le vertiginose conquiste, le inquietudini. Così lo descrive nelle poche righe iniziali: “Corporatura tarchiata… testa bassa… capelli rossicci tagliati corti sotto il cappello di paglia, che faceva ombra a uno strano viso… occhi piccoli e infossati… dal suo aspetto sgraziato emergeva la profondità di tutto il suo essere. I suoi fratelli e sorelle gli erano estranei. La sua stessa persona gli era estranea, come lo era la sua giovinezza.” Ecco quindi che Vincent mangia poco e da solo, veste con noncuranza, evita i rapporti sociali («era a suo agio soltanto fra i poveri, i semplici e gli infelici»), fugge in continuazione da tutti i lavori e gli impieghi (commesso, commerciante d’arte, insegnante di francese, predicatore evangelico tra i minatori), cambia ansiosamente orizzonti (L’Aia, Bruxelles, Londra, Parigi, Anversa, Provenza), si accompagna a donne equivoche e a ubriaconi, soffre di disturbi mentali. Ha un’unica passione: la pittura, ancora incompresa dal pubblico e dai mercanti d’arte, a cui si applica con febbrile dedizione, disinteressandosi di qualsiasi aspetto materiale dell’esistenza. La sorella accenna ai suoi capolavori senza mai comprenderne totalmente l’assoluta novità ed eccellenza, solamente intuendo di Vincent l’eccentricità «fuori del normale», che rese la sua fine precoce assolutamente prevedibile: «Per lui, morire era più facile che vivere». Ecco quindi la testimonianza di tre donne che seppero puntare lo sguardo oltre il proprio vissuto, confrontandosi direttamente o indirettamente con la letteratura e l’arte, e diventando esse stesse parte della grande storia della cultura e del mondo: giusto e meritorio che una piccola casa editrice abbia voluto celebrarle.

 

«Leggendaria» n.106, luglio 2014

RECENSIONI

VIANI

LORENZO VIANI, NERO D’AVORIO – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2014

“Dipingi con pochi colori; tieni in grande onore il nero d’avorio, la terra rossa e gialla e verde, avrai così intonazioni sostenute e concrete”. In questa pubblicazione (a cura di Fabrizio Zollo) che raccoglie i pensieri sull’arte del pittore-incisore-scrittore viareggino (1882-1936), ed è arricchita da una documentata biografia, da immagini fotografiche e riproduzioni delle opere, numerose sono le indicazioni che Lorenzo Viani dava ai lettori riguardo alla genesi delle sue creazioni e al suo credo artistico. Una fede irriducibile e polemica nell’arte come visione spirituale, che diviene anche riflessione filosofica, impegno politico, inconciliabilità esistenziale con le mode culturali e ideologiche. Contestando esplicitamente il realismo, l’impressionismo e l’arte contemporanea (“L’impressionismo è contro lo stile. E’ la cronaca rispetto all’arte pura… resta alla superficie… la vericità è banale…), ma anche l’opulenza fastosa del Rinascimento e di ogni barocchismo, Lorenzo Viani esaltava “la luce dei primitivi, l’oro dei bizantini”, invitando i pittori a riscoprire Giotto e i medievali, e proclamando entusiasticamente che “Il bello è la rivelazione di una forma sepolta al di là del vero”. Quale fosse il destino e il compito del vero artista gli era chiarissimo: “Dipingere poco e riflettere molto”, “Il vero è relativo, la visione dell’artista è assoluta”, “Il dipinto deve essere una cosa evidente, tangibile, architettonica, logica, statica, maestosa, potente”. Diventare “costruttori” della propria arte, ignorando critici alla moda e salotti, cercando negli umili, sulla strada e tra i vagabondi la verità più solida dell’esistenza, era lo scopo della sua vita di uomo e di artista anarchico: “Col popolo e in mezzo al popolo io vivo e vivendo creo con amore i miei eroi… nella notte alta il mio lavoro andò di passo ai colpi del martello di mio fratello calzolaio… Se un’opera manca di passione manca di umanità, quindi è antinaturale, disumana, cinica, accademica…”.

IBS, 18 giugno 2014

RECENSIONI

VICHI

MARCO VICHI, LA SFIDA – GUANDA, MILANO 2014

Forse alquanto politically incorrect questo breve romanzo di Marco Vichi, per l’immagine che offre al lettore di Davide Yalta, handicappato dalla nascita, costretto su una sedia a rotelle, ebreo, ricco, colto: ma soprattutto caustico, irriverente, polemico, strafottente, rabbioso nei riguardi del mondo e di se stesso. Lo scrittore Trotti che lo incontra casualmente in un bar e che comincia a frequentarlo dapprima per curiosità, poi per noia, e poi per una sorta di inconscia rivalsa maschilista, non è molto più simpatico di lui. Vivono nella stessa “città di merda”, dove i “nativi…avevano sguardi obliqui, brutti, diffidenti, le facce offese”. Davide, essendo ebreo, ha ovviamente un sorriso diabolico, un naso impegnativo e un’intelligenza di molto superiore alla media: si diverte a mettere in imbarazzo i passanti e chiunque lo avvicini esibendo le sue gambette atrofizzate, provocando e respingendo la pietà del prossimo, inserendosi sadicamente in ambienti o situazioni difficili da gestire (davanti a scuole femminili, in ristoranti esclusivi e inamidati, nell’ufficio di un improbabile impresario teatrale), con l’unico evidente scopo di irritare il prossimo, e di svelarne il comportamento ipocrita verso la disabilità: “Mi sono rotto i coglioni della compassione, non ne posso più di essere rispettato solo perché mi manca qualcosa…”. Si innamora di una bellissima vicina, Elena, ben sapendo che il suo corteggiamento verrà rifiutato: e a questo punto si inserisce nella loro schermaglia flirtante lo scrittore Trotti, non solo per indubbia attrattiva fisica nei riguardi della donna, ma probabilmente per fare un dispetto all’amico-nemico paralitico, di cui si sente insieme superiore e inferiore. Tra i due contendenti vince però la bella Elena, che li infinocchia entrambi. Trama non appassionante, indagine psicologica piuttosto scontata, stile accattivante e curato, con qualche cedevolezza soprattutto nei dialoghi, talvolta artefatti.

IBS, 18 gennaio 2015

RECENSIONI

VIGANO’

DARIO EDOARDO VIGANÒ, IL BRUSIO DEL PETTEGOLO – EDB, BOLOGNA 2016

 

Il volumetto che Monsignor Dario Viganò ha pubblicato nel 2016 con le Edizioni Dehoniane, Il brusio del pettegolo, ha un sottotitolo esplicativo: Forme del discredito nella società e nella Chiesa. Monsignor Viganò può vantare titoli legittimi per occuparsi di questa spinosa questione in ambito sia civile sia ecclesiale, essendo intellettuale stimato a livello internazionale, autore di rilevanti pubblicazioni sul cinema e sul mondo dei media, e avendo occupato incarichi prestigiosi all’interno del Vaticano e della Pontificia Università Lateranense. Da pochi mesi è stato nominato Vice Cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, ma in passato è stato oggetto di polemiche e contestazioni che lo avevano costretto a dimettersi dal ruolo di Prefetto del Dicastero per la Comunicazione.

Già il titolo dell’introduzione al saggio (“La pietra più dura che esiste al mondo: la lingua”) mette in luce quanto sia pesante, dannosa e deprecabile l’abitudine alla mormorazione, al pettegolezzo (“figlio primogenito dell’invidia”), che finisce spesso per sfociare nella diffamazione e nella calunnia. Papa Francesco lo definisce un peccato diffuso e difficile da combattere: “Su questo punto, non c’è posto per le sfumature: se parli male del fratello uccidi il fratello. E, ogni volta che facciamo questo, imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida”.

Forza motrice, subdola e distruttiva, del pettegolezzo è appunto l’invidia, “che non desidera avere ciò che l’altro possiede; piuttosto, desidera radicalmente che l’altro non disponga di ciò che io non possiedo oppure ho perduto”. Il calunniatore, il cui perfido simbolo è il serpente, usa le armi della parola superficiale, ambigua e seduttiva per seminare sospetto e biasimo. Da studioso della comunicazione, Dario Viganò si propone di indagare in che modo la chiacchiera, la calunnia e la delazione riescano a innescare nella società, attraverso le pratiche dei rumors, strategie finalizzate a ottenere ascolto e consenso, per provocare l’esclusione e spesso l’eliminazione di un rivale o antagonista scomodo. I rumors sono sempre esistiti: ne è testimonianza il consiglio che la dea Atena diede a Ulisse, invitandolo a camuffarsi perché non si spargesse anzitempo la notizia del suo ritorno a Itaca.

“I rumors sono forme di comunicazione soggette a una continua rinegoziazione, testi aperti che possono conoscere infinite aggiunte ed elaborazioni, fin quando non vengono assorbiti dall’oblio collettivo. Vivono nello sfondo antico e diffuso dell’attività comunicativa reticolare”. All’epoca dell’oralità primaria, il passaparola utilizzava i modi della simultaneità e della compresenza: e ancora nei Vangeli la relazione tra Gesù, i discepoli, la folla dei seguaci e gli oppositori, era intessuta in questo modo, creando legami sociali di unione, riconoscibilità o di opposizione. Più tardi, con l’avvento della scrittura, la chiacchiera veniva sviluppata dai pamphlet e dai testi di parodia.

La forza strategica dei rumors si è amplificata con l’avvento dei media digitali, e soprattutto con lo sviluppo dei social, che grazie alla loro natura conversazionale alimentano in maniera esplosiva la circolazione di pratiche narrative capaci di coinvolgere progressivamente e rapidamente un numero enorme di attori sociali. La propagazione di virus comunicativi viene utilizzata economicamente nel commercio online, nelle strategie pubblicitarie, in operazioni di propaganda politica, in cui il recettore del messaggio finisce per assumere funzioni di autorialità o co-autorialità. Le fake news presenti sul web si diffondono volontariamente, con un atto autonomo e intenzionale di comunicazione che produce riverberi volutamente programmati per generare coesione e/o isolamento sociale. Quali sono le caratteristiche dei rumors? Per ciò che riguarda il contenuto “sono un genere di discorso onnivoro”, che può avere come oggetto qualsiasi argomento; dalla vita dei vip alle leggende metropolitane, dagli allarmismi delle pseudoscienze al successo di libri e film, dalla politica alla religione o allo sport. Si attivano a partire da un evento non verificato ma credibile, portatore di grande impatto emotivo, trasmesso da persone ritenute attendibili e spesso introdotto ad arte nel circuito informativo con evidenti scopi strategici.

È un processo collettivo, non lineare, che coinvolge diversi attori con differenti ruoli e responsabilità, realizzando effetti di distorsione che si autoalimentano secondo il numero dei soggetti e dei media coinvolti nella trasmissione e diffusione della notizia. Un racconto originato da un fatto presunto, si trasforma in una narrazione complessa che nel tempo si arricchisce di sempre nuovi dettagli e sottintesi, in una catena di rimandi divulgativi realizzanti coesione e consenso, psicologicamente finalizzati a produrre aggressività verso un oggetto, o difese da paure comuni. L’obiettivo ultimo di queste comunicazioni virali è comunque politico, teso a creare conformismo sociale, obbedienza acritica, ottundimento del giudizio individuale.

Il pettegolezzo, diffuso in ogni ambiente (Monsignor Viganò si sofferma particolarmente su quello ecclesiastico) ha in genere motivazioni affettive di amore/odio, o di interesse professionale, e tende a generare discredito o approvazione su un fatto o personaggio di rilievo: non avrebbe alcun successo se l’ambiente circostante non fosse recettivo, riproduttivo e malignamente interessato alla diffusione. Veicola ostilità e disprezzo, aspira a umiliare e svilire il prossimo: più subdolo, anonimo e sotterraneo dell’atto di aperto bullismo, è in grado di ottenere conseguenze socialmente devastanti, e in genere procura un sottile, indubbio piacere e un sentimento di rivalsa in chi lo pratica.

 

© Riproduzione riservata       17 gennaio 2020

https://www.sololibri.net/Il-brusio-del-pettegolo-Vigano.html

 

RECENSIONI

VILLATICO

DINO VILLATICO, PAESAGGIO – EDIZIONI DEL MEDITERRANEO, ROMA 2020

Con la silloge Paesaggio Dino Villatico ha vinto lo scorso anno il primo premio del Concorso di Poesia È un brusio la vita. Omaggio a Pier Paolo Pasolini, organizzato da EuroMed University. Le Edizioni del Mediterraneo hanno quindi pubblicato questa pregiata raccolta di dieci poesie, con la prefazione e l’icastica immagine di copertina di Paloma Criado,

Dino Villatico (Roma, 1941) è critico musicale e classicista, ed entrambe queste sue qualifiche rispecchiano la loro natura costitutiva nell’equilibrio armonioso ed elegante dei versi. Il paesaggio del titolo fa da sfondo a una pacata e malinconica meditazione sul trascorrere inclemente del tempo e sull’avvicinarsi del congedo dal mondo: dalle persone amate (“le mani, le carezze, i baci”), dagli oggetti cui si affidano le rassicuranti abitudini quotidiane, dallo spazio materiale che accoglie pensieri e gesti.

Nei dieci componimenti, l’atmosfera serena e rasserenante di ciò che attornia il poeta sembra avere vita autonoma, indipendentemente dal suo sguardo: “Eppure il sole brilla sul giardino, / scalda le foglie, e accarezza il dorso / del gatto che accucciato sul tappeto   /        del dondolo si gode il sonno lieve / degl’innocenti”. Una mosca che ronza sui vetri, il gatto “rosso, furbo e ladro”, gli uccelli che salutano nell’aria trasparente, sono creature innocue e ignare della precarietà dell’esistenza, cui aderiscono con spontanea e candida immediatezza. Esse godono del loro semplice esserci, diversamente da chi le osserva con incantato stupore, tristemente conscio di quello che perderà lasciando la propria forma mortale: “La vita che ci assedia si conclude / nel buio di un terrifico silenzio”.

Tutt’intorno, “quanta bellezza” (nelle colline verdi fuori, nei “troppi libri” dentro casa), gratuita e insieme crudele, perché rende più dolorosa l’idea del distacco. Alla visione ammirata del fulgore della natura, fa da contrappunto la meditazione sulla fine, non solo su quella personale – per quanto temuta e addolorante perché silenziosa, fredda e solitaria –, ma sulla morte cosmica di stelle e pianeti, che trascinerà nel nulla ogni respiro, sentimento ed espressione artistica a cui l’umanità intera aveva affidato il compito di preservare la sua grandezza. Musica, pittura, poesia e straordinarie opere architettoniche saranno assorbite nel buco nero del niente. La paura individuale si fonde con l’angoscia provocata dalla visione dell’inabissarsi dell’universo nel vuoto: “ma là fuori, e qua dentro, dappertutto,     /        mi terrorizza, imperturbata, sorda, / l’indifferenza stabile del tutto”. Buio e gelo, “inaffollato inferno” attendono anche chi ha sperato di lasciare traccia di sé nelle proprie opere: “Un tratto di cammino, qualche impronta / ricorderà per qualche tempo il tuo / passaggio, se la strada è di terriccio. / Ma un alito di vento, qualche goccia / di pioggia cancelleranno le impronte”.

La stessa attonita disperazione che anima la grande poesia mondiale, dai greci ai nostri Leopardi e Montale, vibra nella “calma densa / d’impreviste domande, e di risposte / impronunciate” di Dino Villatico, che in queste dieci composizioni offre, attraverso la composta dolcezza dei versi, un piccolo trattato filosofico sulla vanitas vanitatum dell’esistenza.

 

© Riproduzione riservata          «SoloLibri», 20 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VILLATICO

DINO VILLATICO, ECOGRAFIA DI UN CONGEDO – LADOLFI, NOVARA 2021

Ci si sottopone a un’ecografia per scoprire qualcosa di non rilevabile in superficie, che magari duole, ma di cui si teme l’evidenza, la manifestazione. Lo svelamento di una sofferenza taciuta, forse inconsciamente negata, ha la stessa dolorosa e cruda intensità di una diagnosi medica avversa.

Dino Villatico, con Ecografia di un congedo, si fa esploratore e analista di se stesso, raccontando di un amore giovanile, recuperato nella memoria con tutta la malinconia, i rimpianti, i sensi di colpa, ma anche l’intensa felicità vissuta e in seguito angosciosamente persa. In sedici “referti” (ancora un termine scientifico, a indicare una precisa volontà razionalizzante), un epilogo e un post-scriptum, l’autore rivive il suo rapporto con Martin, insegnante americano ventottenne conosciuto a Roma all’epoca degli studi universitari, con cui aveva stabilito una profonda amicizia e un’intesa sentimentale durata alcuni anni, cementata da arricchenti scambi culturali, distese conversazioni tra amici, sfide al pianoforte, e una casta, tormentata sensualità.

L’aver improvvisamente scoperto, attraverso una casuale ricerca su internet (“l’impotente / oracolo che ci avvelena il giorno”), la morte dell’amico avvenuta a New York nel 1997, lo induce a ripercorrere momenti di vita in comune, recuperando emozioni mai del tutto sopite. Così ammette di scriverne, non tanto per cercare consolazione, “ma per ritrovare, né so quando, / né so perché né come, conoscenza / di me stesso, quel punto in cui vacilla / la resistenza a confrontarmi nudo / con la mia nudità”, ritrovando “L’incompiuto, l’indeciso, / l’inaspettato che rimosso prende / forma”.

Una lunga confessione in endecasillabi, che hanno la cadenza pacata e colloquiale di una narrazione in prosa, quella che Dino Villatico intesse nel monologo rivolto all’assente amato (“l’assente che confonde le mie notti, / che mi devasta il giorno”), al lettore, e infine alla propria sfibrata coscienza, con lo sprone a una riflessione più vasta su cosa significhi esistere individualmente e nel rapporto con gli altri. Scampoli di episodi si rincorrono e si intrecciano nella rievocazione del legame con Martin: dalla frequentazione quotidiana a Roma (il primo incontro al Pincio, “non ancora al buio e intorno /  tra le statue altra gente che si cerca”) alla presentazione delle reciproche madri (l’una affettuosamente comprensiva, l’altra severamente censoria), dal soggiorno in America (prima in California, poi a Boston) ai libri letti e alle musiche ascoltate insieme, fino all’inevitabile addio, deciso per far sopravvivere l’amicizia rinunciando a una più coinvolgente relazione sessuale. I vent’anni di silenzio seguiti alla separazione si rivelano lacerati dal rimorso, quando l’io narrante scopre che l’amico ha posto fine volontariamente alla sua vita: ne è testimonianza il Referto 11, in cui la percussiva anafora “se avessi” esplora tutte le possibili azioni mancate (per pudore, paura, rancore) che avrebbero potuto evitargli il suicidio.

La tragica vicenda personale si iscrive allora nel quadro universale in cui i singoli destini sono determinati dal caso (la Thyche dei greci) o dalla necessità che rende gli uomini comparse inessenziali nell’indifferente ciclo cosmico, privo di qualsiasi finalità o scopo: “noi, fatui   /         pupazzi del destino, noi che stolti / ci crediamo padroni di noi stessi,   / e padroni del mondo, mentecatti!”, “tra i minerali, / tra le pietre, tra gli astri, tutto il cosmo,  / è un solo inascoltato urlo di morte”. Lo “strano animale” chiamato “sapiens sapiens” è in realtà un’ombra, “un verme, / un insetto, un batterio”: alle sue domande sul senso del vivere, del morire, del soffrire, né scienza né filosofia sanno fornire risposte. Il poeta cerca conforto nelle parole dei grandi: Omero, Saffo, Orazio, Dante, Petrarca, Shakespeare, Calderón de la Barca, Leopardi sono suoi interlocutori privilegiati, ma ormai neppure loro riescono a redimere l’insignificanza dei giorni, il tormento di notti insonni.

La “disaffezione del presente” persuade a un ritorno, non solo tematico, ma anche stilistico, al passato. Ne sono un esempio l’uso di termini inusuali e classicheggianti (indarno, sempiterni, speco…), e la frequenza di costrutti sintattici ereditati dalla lingua latina, come l’aggettivazione che precede il sostantivo (crudele Parca, invidioso dio, orbata madre, lacrimato amico, fertile valle, immoto sasso, verecondo raggio…), o la domanda di matrice leopardiana rivolta alla natura (Ode al monte Soratte) affinché indichi agli esseri umani,  con la sua offerta di gratuita bellezza, una giustificazione al vano “dolore di sopravvivenza”. Forse solo l’amore potrebbe dare significato alle ore cupe e intimorite nel silenzio: ma se anch’esso si dissolve nel niente, nel vuoto, nella morte, allora meglio sarebbe essere altrove, essere altro: “Dicono che le piante, quando sono   /       potate, non dovrebbero soffrire. / Ecco, ora vorrei essere una pianta”.

© Riproduzione riservata            «L’Indice dei Libri del Mese» n.11, novembre 2021

 

RECENSIONI

VIOLANTE

LUCIANO VIOLANTE, LA DEMOCRAZIA NON È GRATIS – MARSILIO, VENEZIA 2023

Nel 1992 i paesi democratici nel mondo erano 76, oggi solo il 20% della popolazione mondiale vive in una democrazia, mentre il 38% patisce condizioni di totale assenza di libertà e il 42% è sottoposto a regimi parzialmente autoritari. Partendo da queste scandalose e preoccupanti statistiche, Luciano Violante nel suo pamphlet La democrazia non è gratis firma una difesa vibrante dell’unica forma di governo che garantisce ai cittadini libertà e diritti, ed è in grado di correggere i propri difetti senza mutare i suoi caratteri fondamentali, assicurando la possibilità di critica e il ricambio pacifico delle classi dirigenti.

Gli stati democratici ancora esistenti, sebbene in numero sempre più minoritario, attualmente sono minacciati e vilipesi all’esterno e all’interno dei loro confini, quasi esistesse un disegno strategico volto a mettere in crisi le loro basi ideologiche. Ad attuare tale offensiva sono in primo luogo le “tirannie elettive” esercitate da uomini arrivati ai vertici del potere assoluto non attraverso un colpo di Stato ma con un’elezione. È il caso, per esempio, di Vladimir Putin, Viktor Orbán, Recep Tayyip Erdoğan, del leader indiano Narendra Modi o di Xi Jinping, che governano più della metà del mondo, aspirando a una leadership politica totalizzante. “Sono embrioni di una nuova Internazionale, integralista e reazionaria”, che ispirano formazioni politico-religiose ostili al pensiero e al modello di vita occidentale: hanno il dispotismo come regola fondamentale d’azione, respingono la laicità dello Stato, disconoscono i diritti di libertà individuale, e pongono il tradizionalismo alla base delle relazioni familiari, sociali e sessuali. Secondo Violante esiste un’effettiva aggressione culturale contro l’Occidente, anche nei metodi attuati dalla cancel culture, che tende a interpretare la nostra storia come sopraffazione e corruzione morale e intellettuale. L’autore si sofferma a esaminare soprattutto le politiche attuali di Russia e Cina che, diventate negli ultimi decenni potenze tecnologiche, militari e finanziarie, non hanno però mai adottato le regole delle liberaldemocrazie, fondate sul pluralismo, sull’equilibrio dei poteri, sulla libertà di opinione e di espressione, sulla condanna di ogni differenza etnica, religiosa e di genere tra la popolaziome-.

Eppure, anche nei paesi democratici persistono evidenti limitazioni dei diritti umani fondamentali, e inaccettabili discriminazioni tra diverse categorie di individui: la democrazia è in crisi anche là dove sembra prosperare. L’occidente capitalista paga gravi errori nella difesa del suo presunto primato etico e ideologico: si è infatti macchiato di narcisismo politico, arroganza militarista, promozione di un mercantilismo incontrollato. Si è illuso di esportare il proprio modello di sviluppo alla stregua di un qualsiasi bene di consumo, anche attraverso l’occupazione militare, fallendo clamorosamente nei suoi obiettivi di conquista.

In Italia modelli politici demagogici e populisti hanno accentuato una serie di problematiche radicate da secoli; la lunga assenza di uno Stato capace di unificare il paese ha provocato una “perenne contrapposizione non solo tra classi sociali, ma anche tra appartenenze politiche, territoriali, professionali, corporative”. La nostra nazione è oggi indebolita da tre fragilità: l’instabilità politica, la disattenzione nei confronti delle giovani generazioni, la mancanza di un adeguato senso civico, espressa sia nell’inadempienza dei doveri fiscali sia nella mancanza di solidarietà verso gli strati popolari svantaggiati. Da alcuni decenni si è inoltre interrotta la tradizionale relazione tra politica e cultura, tra chi esercita il potere e chi lavora nelle università e nella scuola, dove il ruolo degli insegnanti è stato umiliato e privato dell’autorevolezza dovuta. Il tono di Violante si fa particolarmente esacerbato quando accusa la politica italiana degli ultimi trent’anni di avere assunto “i caratteri di una spregiudicata televendita”, e mette sul banco degli imputati Berlusconi, Renzi e il Movimento 5 Stelle, trascurando però le colpe di inefficienza, immobilismo e scarsa rappresentatività del proprio partito, il PD.

Come recuperare prestigio, fiducia e orgoglio nella democrazia? Essa “è un bene costoso, perché chiede la rinuncia attuale ad alcuni egoismi individuali in vista di un futuro benessere collettivo. Le democrazie funzionano quando i cittadini si assumono sino in fondo le proprie responsabilità, superando la malattia dell’indifferenza, frutto dell’apatia di alcuni e della disillusione di altri”.

Il primo pilastro su cui si basa ogni stato democratico è il rispetto delle persone, delle istituzioni e delle cose, che non va imposto solo legalmente, ma soprattutto attraverso un incessante impegno educativo, e lo sforzo di tutti nel superare peronalismi, egoismi e indifferenza, nell’evitare una conflittualità polemica e dannosa, nel privilegiare la collaborazione rispetto all’aggressività, anche verbale, verso l’oppositore. A conclusione del volume è riportata una lettera del partigiano Giacomo Ulivi, che fucilato a diciannove anni dalla Guardia nazionale repubblicana nel novembre del 1944, aveva scritto parole toccanti, richiamando i connazionali al proprio dovere non solo di cittadini, ma di esseri umani: “Dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali… Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra… il nostro interesse e quello della «cosa pubblica» finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 aprile 2023