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RECENSIONI

VOLODINE

ANTOINE VOLODINE, ANGELI MINORI – L’ORMA, ROMA 2016

Antoine Volodine è un autore francese di origini russe, nato nel 1950, che vent’anni fa ha esordito pubblicando romanzi di fantascienza, per passare poi a una scrittura da lui stesso definita «post-esotica»: non tanto (o non solo) nel senso di dislocata geograficamente in un’ambientazione extraeuropea, quanto invece fluttuante in universi ed epoche «dell’altrove», in grado di superare le barriere del tempo e dello spazio, combinando storia e mito, utopia e tragedia, sogno e realtà. Le edizioni romane de L’Orma propongono ora un romanzo di Volodine (principale pseudonimo dell’autore, conosciuto anche con gli eteronimi Litz Bassmann e Manuela Draeger), uscito in Francia nel 1999, celebrato dalla critica più raffinata e vincitore di importanti premi.

Angeli minori è un testo di non facile lettura, molto giocato sull’impalpabilità delle atmosfere, sulla visionarietà, sull’inconsistenza fisica e caratteriale dei personaggi, le cui vicende continuamente si intrecciano e si sovrappongono, creando conflitti emozionali, rispolverando memorie universali, o proiettandosi in un futuro angosciosamente apocalittico.
In effetti, i paesaggi descritti da Volodine sembrano essere stati stravolti e deturpati da una qualche inconoscibile invasione aliena, o da una distruzione nucleare, o da una indefinita catastrofe bellica: animati da ectoplasmi umani – zombie vaganti, sciamani, fantasmi che continuamente si dissolvono e si ricompongono – e disseminati di fabbriche in disuso, macerie, stazioni abbandonate, cimiteri. Nel deserto subsahariano come nella steppa russa, tra i ghiacci dell’Antartide e nelle pampas sudamericane, nella Parigi dei bistrot e nelle metropoli statunitensi, sotto un sole accecante o in una nebbia avvolgente vagano animali diversi (lama, avvoltoi, bucerotidi, orsi, lupi, renne, cammelli, formiche, bisonti) e fioriscono vegetali esotici (cocco, banani, alghe, rabarbari, licheni…). Il tempo si misura sia in secondi che in secoli, eoni ed ere cosmiche, visitato da figure angeliche «minori», cioè a dire imperfette, inquiete e allarmanti. Sono i personaggi ritratti in 49 «istantanee romanzesche» (possiamo forse intravedervi, per contrasto, un richiamo ai 49 racconti hemingwayani, tanto differenti nella loro concretezza e vitalità?), uomini e donne da nomi stravaganti accompagnati a cognomi improbabili (turchi, spagnoli, ebrei, africani, cinesi), che narrano avventure senza trama, sospese tra cronaca e leggenda, in «minuscoli territori d’esilio» dove sono state respinte dalle coscienze ordinate di un occidente letterario ormai privo di immaginazione e desideri.

Affabulazioni oniriche nate dalla voce di uno dei protagonisti stessi, Will Scheidmann, creatura diabolica o celeste, a metà tra Frankenstein, Mister Hyde e Sheherazade, creata artificialmente con degli stracci ricuciti a punto croce da un manipolo di vegliarde immortali (alcune bicentenarie, altre millenarie), rinchiuse in un maleodorante ospizio chiamato Grano Volpato. Tali megere, per vendicarsi della congiura capitalistico-mafiosa internazionale, avevano deciso in un’epoca imprecisata di insufflare vita organica a questo loro orrido e incolpevole nipotino, per poi condannarlo a morte tramite fucilazione, sentendosi da lui tradite ideologicamente. Will Scheidmann si salva dall’esecuzione, proprio offrendo alle vecchie questi 49 «narrat»: prose immaginose scandite da una musicalità ipnotizzante, in cui cela scampoli di memorie personali e collettive, dialoghi e silenzi, amori e violenze, sullo sfondo desolato di un’umanità che vaga verso il nulla.

Troviamo in questi racconti echi delle metamorfosi kafkiane e delle leggende yiddish, profezie bibliche e gli oceani di Melville, le invenzioni di Borges e le allucinazioni di Cormac McCarthy, le galassie di Philip K. Dick e gli orrori dei lager di Solženicyn. Ma riformulati in uno stile originale, che sa addentrarsi nei dettagli più minuziosi come in metafore di un barocchismo immaginoso (credo che il capitolo 23, dedicato alla descrizione degli effluvi olfattivi esalanti dalla polverosa casa di riposo in cui soggiornano le anziane maliarde, sia degno di antologia), sempre mantenendo però una sorta di indifferenza denotativa, che si vieta qualsiasi sentimentalismo o empatia con i protagonisti delle vicende narrate. Così infatti Volodine mette in guardia il lettore sulle sue intenzioni narrative:

Adesso ascoltatemi bene. Non scherzo più. Non si tratta di stabilire se quel che racconto è Soloo no, abilmente evocato o no, surrealista o no, se si inscrive o meno nella tradizione post-esotica, o se è mormorando di paura, arrossendo di indignazione che metto in fila queste frasi, o con tenerezza infinita verso tutto ciò che vive, o se si distingue o no, dietro la mia voce, dietro quel che si è convenuto di chiamare la mia voce, un’intenzione di lotta radicale contro la realtà o una semplice debolezza schizofrenica di fronte alla realtà, o ancora un tentativo di canto di uguaglianza, incupito o meno dalla disperazione e dal disgusto davanti al presente o davanti al futuro. Non è questo il punto. Insomma, una scrittura che si nutre di se stessa e delle proprie allucinazioni. Esemplarmente resa da Albino Crovetto, che è anche un poeta, oltreché un traduttore.

«Lo Straniero» n. 193, luglio 2016

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Angeli-minori-Volodine.html       18 agosto 2016

RECENSIONI

VOLPONI

PAOLO VOLPONI, POESIE GIOVANILI – EINAUDI, TORINO 2020

Paolo Volponi (Urbino, 1924-Ancona 1994) è stato uno dei più importanti romanzieri italiani del dopoguerra (Memoriale, La macchina mondiale, Corporale, Le mosche del capitale, La strada per Roma…), ma ha iniziato la sua carriera letteraria come poeta, e ha continuato a frequentare la poesia per tutta la vita. Aveva esordito infatti pubblicando tre libri di versi: Il ramarro (1948), L’antica moneta (1955) e Le porte dell’Appennino (1960, premio Viareggio), che da una prima inclinazione pascoliana e simbolista, si erano evoluti verso temi più biografici e una maggiore pregnanza realistica.

Alla composizione poetica Volponi era tornato nella maturità con altre raccolte, uscite nel 1980-1986-1990 e riunite da Einaudi in un unico volume del 2001. Ora lo stesso editore propone queste Poesie giovanili, risalenti agli anni ’40-’50, rinvenute in tre fascicoli manoscritti e autografi nella casa di Urbino. Si tratta in massima parte di testi inediti, di cui nella nota finale vengono trascritte e commentate dalla curatrice Sara Serenelli le numerose varianti, le versioni depennate, le ricomposizioni e le correzioni apportate dall’autore nei decenni successivi.

Nell’epigrafe all’introduzione di Salvatore Ritrovato, viene riportato quanto lo stesso Volponi ebbe a chiarire nel 1988 a proposito della sua produzione giovanile (“Perché scrivevo poesie allora, non ancora ventenne? Perché ero incerto, perché avevo paura, perché avevo ansia di conoscere, perché non capivo esattamente dove mi trovassi, in che posizione, quale potesse essere il mio rapporto con il mondo”), definendosi folgorato da visioni e letture che lo ancoravano a “fatti lontani e magici perenni quali gli astri, il paesaggio, le stagioni, le giornate o le ragazze”. Fatti non ancora direttamente collegati alla passione morale e alla vocazione politica che sempre lo ha animato da adulto (ricordiamo che Volponi fu a lungo dirigente all’Olivetti, attivamente interessato alle questioni economiche e alla realtà sociale del lavoro in fabbrica, e ricoprì importanti incarichi istituzionali nel PCI), ma già espressione di un’interiorità combattiva e lucida, capace di sdegni e ribellioni, seppure circoscritte nell’ambito dell’esistenza privata.

Questi versi giovanili, per alcuni tratti ancora acerbi ma già segnati da una notevole intensità espressiva, vanno letti come introduzione e apprendistato al lavoro poetico e narrativo posteriore, forse proprio nella scostante rigidità di alcuni contenuti, propedeutica alla severità etica dello scrittore maturo. Scontroso e insofferente, il ragazzo Paolo si mostrava nel relazionarsi alle figure familiari: “Mia madre / mi vede solo / come mi ha fatto. / Non cerca di più. / Ho messo ieri / una cappa incappucciata, / fra gli altri / non mi trovava. / Prese una smorfia / fissa / come un pupazzo di terracotta”.

La paura e l’ansia di conoscere da lui stesso attribuite alla propria inquieta giovinezza, hanno caratterizzato principalmente i primi rapporti amorosi e le donne incontrate (come recentemente ha suggerito Adriano Sofri su “Il Foglio”), che vengono spesso tratteggiate non solo con scarsa empatia, ma addirittura con una repulsione sbilanciata fino all’offesa volgare, sintomo di un’angoscia incontrollata e temuta: “Quel peso di piombo / nel ventre / ti salda alla terra. / Il corpo ti cola tutto / e le gambe gonfie / sono incredibilmente aperte. / Ti slarghi come un frutto maturo, / ed io sento lo schifo / di vederti dentro”, “Muoiano / l’un dietro l’altro / i figli tuoi. / Io rido / dietro pascendo / la mia maledizione. / Tu rimarrai / con il ventre / acido. / Tu che t’offristi / piena / a quell’uomo”, “Quella tua carne / con un rigo di sangue. / Nel taglio della ferita / garza gengivosa. / L’acutissimo vetro / t’ha aperta / con una naturalezza spaventosa. / Come se il sangue / annoiato / godesse d’uscire”, “Volevi ingannarmi. / Stringevi / le cosce, / e smaniavi / per la tua verginità. / T’ho tirata giù / dal letto / per i capelli, / nuda sul pavimento. / Mi sono rivestito / senza più guardarti”, “È colpa tua. / Mi ricordo dell’odore / perché eri poco pulita”, “Sei la croce dei campanili, / il tetto delle case, / la cupola dell’ombrello. / Vuoi stare / sempre sopra”, “C’è sempre qualcosa / in te, fisso, che non partecipa”, “Hai riso, / ed io avrei sputato / dentro la tua gola / aperta. //… Il cielo / non ti dia / ombra, né luce. / Ti salti una vipera / dentro la bocca aperta”.

Poesie del disamore, in cui non si legge nessuna dolcezza, nessuna descrizione di sorrisi dolci, guance delicate, capelli morbidi: e invece cicatrici rossastre, venine verdi sul collo, occhi affogati, gambe gonfie, ventri ansanti, pesantissimo fiato, bocca devastata… Versi prossimi all’invettiva, alla maledizione, al disprezzo, che mettono in luce la ripugnanza per i corpi fatti di carne, sangue e umori: una fisicità violenta poco conciliabile con l’ideale di liricità e astrazione esibita nelle raccolte poetiche successive. Anche il gusto della ricerca lessicale qui mantiene qualcosa di volutamente aspro, dissonante, provocatorio, nella proposta di termini scelti sulla base di un suono coriaceo, rappreso: gengivosa, ingaientato, smanati, appiccicosa.

Questa sfrontata improntitudine giovanile è indice forse di una ribellione alla claustrofobica mansuetudine dell’ambiente marchigiano (curato, gentile, verdeazzurro), avvertito come fastidiosamente retorico e soporifero. Secondo quanto recita la quarta di copertina, “anche gli elementi naturali, molto frequenti (fiumi, colline, alberi, animali, campi lavorati), non sono mai pacificanti ma partecipano di un tumulto interiore, tanto più forte quando il poeta non sa trovarne una ragione e un bersaglio prestabiliti”. I corsi d’acqua sono assordanti (“O fiume, smetti d’andare. / Fra le tue canne / fra i tuoi limpidi sassi / mai porterei una donna. / Come gli occhi, / me la ruberebbe / questo tuo sicuro andare / rumoroso”), la luna “muore / e perde sangue chiaro”, il cielo è vuoto, la strada consunta, i cani accecati, l’erba pallidissima, il pastore onanista.

In queste prime prove, Salvatore Ritrovato intuisce “una parola ancora saldamente posizionate sull’io, egocentrica, ma senza alcun compiacimento, affatto priva di autocommiserazione narcisistica, percorsa da una punta di gelida e feroce desublimazione”. L’esplicita volontà di evitare ogni sentimentalismo, di smorzare qualsiasi elegiaca liricità, non risulta evidente solo dall’ostentata degradazione delle esperienze sessuali, e dal rifiuto dell’idillio paesaggistico e di atteggiamenti consolatori, ma anche dalla scelta formale di un verseggiare scarno, frantumato, paratattico: lontano sia dall’ermetismo sia dal classicismo, e semmai propenso a ereditare le formule prosastiche che dall’America iniziavano a influenzare la poesia italiana del dopoguerra.

Paolo Volponi, pur continuando a rivedere e correggere queste composizioni giovanili, non le ha volute pubblicare in vita, adeguandosi nella produzione successiva a esiti meno aggressivi e polemici, in linea con la tradizione letteraria vigente. L’iniziativa einaudiana di recuperare gli inediti del suo primo affacciarsi alla creazione poetica permette al lettore di scoprire un carattere diverso e ignorato della sua produzione, rivelatore di un’inasprita inquietudine, e di un puntuto, risentito spirito dissidente.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 7 luglio 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

VOLPONI

PAOLO VOLPONI, POESIE – EINAUDI, TORINO 2024, p. 481

Einaudi pubblica l’intero corpus poetico di Paolo Volponi a cura di Emanuele Zinato, professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Padova, con una densa introduzione (L’eroismo della volpe), una bibliografia ragionata, una puntuale nota biografica, e una nota finale di Giovanni Raboni. Il volume, già uscito nel 2001 con il titolo Poesie 1946-1994, presenta due importanti novità, oltre alla segnalazione dei contributi critici dell’ultimo ventennio: la pubblicazione integrale della prima raccolta di versi dello scrittore urbinate, Il Ramarro, e l’inclusione di nove testi inediti.

Paolo Volponi deve la sua fama in particolare alla produzione narrativa (otto romanzi dal 1962 al 1991, vincitori di due Premi Strega), che però è sempre stata accompagnata dalla scrittura in versi, scandita in sei libri dal 1948 al 1990.

Nella prima opera, Il ramarro – composto da quaranta frammenti pubblicati in una plaquette di 120 esemplari, con introduzione di Carlo Bo –, era prevalente la misura breve, il dettato semplice, l’assenza di rime, l’eredità dei lirici greci filtrata dagli echi dell’ermetismo italiano e dalla lirica contemporanea spagnola. Temi prevalenti erano l’eros e il corpo, descritti con sentimenti ambivalenti tra attrazione e repulsione (“Mi fa schifo / tenerti in bocca”), e l’attenzione per l’ambiente animale e vegetale, vibrante di acuta recettività sensoriale (“Io sento / il rumore dell’ossatura delle cose”).

La seconda raccolta del 1955, L’antica moneta, vincitrice del Premio Carducci ex aequo con Pasolini, manteneva l’interesse per le stesse tematiche, arricchite da una maggiore considerazione verso paesaggi differenti, come quelli romani e meridionali, che il poeta aveva imparato a conoscere dopo aver lasciato Urbino ed essere stato assunto da Adriano Olivetti, con l’incarico di effettuare una serie di inchieste nell’Italia del sud. Emergono inoltre spunti di esplorazione autoanalitica in costante riferimento alla vastità dello spazio siderale, oscillanti tra rigore logico e rapimento inebriato: “È una notte / facile ed inconsueta, così luminosa / che una cometa s’indovina / dietro l’orizzonte. / Tu sei di vetro, / io vedo le mie mani / dietro la tua nuca”.

Le porte dell’Appennino (1960), premiata al Viareggio, accentuava invece una disposizione di stampo sociale e antropologico – probabilmente incoraggiata dalla frequentazione dell’autore con gli impegnati redattori della rivista “Officina” –, indirizzando i contenuti in senso epico e narrativo, e la struttura formale nella direzione del poemetto. Qui Volponi valutava soluzioni destinate a essere recuperate nella composizione dei romanzi più noti. Ad esempio gli elementi biografici e familiari (“Quando io sono nato / mio padre non c’era”), collocati in uno scenario storico-collettivo, e addirittura cosmico, nella volontà di distanziarsi dal privato per assumere valenze universali. Non solamente l’ambiente domestico viene descritto con la tecnica del racconto e del saggio in versi, ma anche il persistente dissidio tra l’attaccamento ai luoghi originari e il desiderio di allontanarsene, inserito nella condizione più generale dell’abbandono delle campagne e dell’inurbamento, tipica degli anni ’60: “l’immagine di Urbino / che io non posso fuggire, / la sua crudele festa, / quieta tra le mie ire. // Questo dovrei lasciare / se io avessi l’ardire”.

Passeranno quattordici anni, durante i quali andava consolidandosi la fama del Volponi romanziere, prima della pubblicazione di Foglia mortale (1974), contenente cinque componimenti scritti tra il ’62 e il ’66, stilisticamente connotati non solo da un recupero di tonalità leopardiane, ma soprattutto da un’intenzionalità pedagogica, con l’invenzione di un destinatario adolescente, fortemente autobiografico (il “por bordel”), da avvicinare mediante l’uso di termini dialettali, fiabeschi e cantilenanti: “Tu te rovini, tu te rovini, bordel, tu te rovini / se non scarpini”, “Burdel, né orto né porto, / niente ti potrà salvare / se  tu non rompi il sigillo / che imprime la tua pena”.

Nel 1980 Einaudi riproponeva tutto il corpus poetico volponiano in un unico volume, Poesie e poemetti 1946-1966, con postfazione di Gualtiero De Santi, riguardo a cui diversi critici espressero giudizi concordi nel sottolineare le varie stratificazioni linguistiche e formali, dal timbro elegiaco a quello prosastico, insieme al motivo esistenziale dell’esilio dalle radici natali, fecondante tutta la produzione narrativa posteriore.

Con testo a fronte, quinto volume di poesia fortemente caratterizzato teoricamente, apparve nel 1986, e fu subito accolto dai pareri favorevoli di Bo, Ramat, Santato, Papini, De Santi, Raboni, Asor Rosa, Fortini, che ne evidenziarono il lirismo visionario animato da robusti accenti corali e arcaici, leggibile sia attraverso categorie psicologiche e introspettive, sia ancora utilizzando la motivazione sociologica del contrasto tra mondo rurale (con la presenza insistita di figure ornitologiche) e mondo aziendale-cittadino: “aquila è nel linguaggio industriale / l’imprenditore il presidente il capo”.

Infine, la svolta rappresentata dall’ultimo libro di versi Nel silenzio campale (1990) consisteva nel prevalere dell’allegorismo e della tematica politica, con l’impiego martellante della rima utilizzata in maniera talvolta parodistica, a segnare l’approdo coerente della ricerca letteraria ed etica dell’autore, in un generoso lascito intellettuale: “Se qualcosa di me ancora vale / debbono tale cosa prenderla gli altri, / impiegarla e trarne profitto presente e reale”.

Nel centenario della nascita di Paolo Volponi, questo corposo volume einaudiano rende omaggio a un poeta che ha saputo traghettare in un’esemplare e celebrata narrativa le sue “inquietudini da selvatico” e da “devoto dirigente”, esprimendo il dramma antropologico novecentesco dell’alienazione produttivistica e dell’urbanizzazione, attuata a discapito dell’ambiente naturale.

 

© Riproduzione riservata                «L’Indice dei Libri del Mese» n. VI, giugno 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VUONG

OCEAN VUONG, IL TEMPO È UNA MADRE – GUANDA, MILANO 2023

Sono circa una trentina le composizioni raccolte in Il tempo è una madre, ultima pubblicazione italiana di Ocean Vuong, poeta e narratore statunitense di origini vietnamite. Nato a Ho Chi Minh nel 1988, emigrato con la famiglia nel Connecticut nel 1990, si è affermato giovanissimo nel panorama letterario americano affrontando temi autobiografici e sociali (la famiglia, l’omosessualità, lo sradicamento culturale, il consumismo) attraverso un linguaggio fortemente innovativo, che utilizza con intelligenza lo slang e la sperimentazione sintattica, la visionarietà di stampo cinematografico e la provocazione verbale.

Già la prima bellissima poesia introduttiva al volume, Il toro, contiene molti elementi identificativi del suo stile: dall’atmosfera onirica (la visione allucinata del bestione nero dagli occhi azzurro-kerosene), all’autoritratto di un sé stesso sfasato nel rapportarsi agli altri (“io ero un ragazzo – / il che vuol dire che ero l’assassino / della mia infanzia. & come per tutti gli assassini, il mio dio / era l’immobilità”), ai versi graficamente scomposti, al vezzo grafico di usare come congiunzione il carattere “&”, all’uso sapiente della metafora (“Come una cosa pregata / da un uomo senza bocca”), all’attenzione per i particolari ambientali (la lampada nel portalampada), all’esibita necessità di comprensione e tenerezza (“avevo bisogno che la bellezza / fosse più che un dolore mansueto / abbastanza da poterlo abbracciare”), fino allo scavo psicologico interiore (“Arrivai – non al toro – ma agli abissi”).

Sono requisiti che troviamo sparsi in tutti i testi della raccolta, insieme ad altri, come la fortissima e sdegnata denuncia sociale contro il razzismo, i pregiudizi sessuali, l’esclusione di indigenti, malati, anziani, oppositori politici. In Caro Peter, ad esempio, racconta in forma epistolare di una ospedalizzazione psichiatrica a base di Xanax, costrizioni fisiche, colloqui mirati a un’improbabile “normalizzazione”. “Dentro la mia testa la guerra è dappertutto”, afferma, confessando il suo perpetuo disagio, nutrito da incubi, confusione, fantasie oscene, proiezioni suicidarie, intrecci martellanti di brani musicali e scene da film: un lungo elenco di infelicità, rabbia, sensi di colpa, desideri di vendetta.

Ma anche intensità di sentimenti ricambiati con chi gli è vicino: l’ultimo ragazzo amato, la nipotina, i genitori. Il ricordo della madre morta è fatto di nostalgia, recriminazioni, fantasie incestuose: “La silhouette secca di mia madre / Promettimi che non svanirai di nuovo, ho detto / Lei è rimasta là sdraiata per un po’, ripensando / A una a una alle case ha spento tutte le luci / Io mi sdraio sulla sua silhouette, per mantenerla vera / Insieme abbiamo fatto un angelo”. Della mamma recupera un’antica ricetta, desideroso della sua approvazione postuma: “Io sono / un figlio passabile… // Il piatto si annebbia dei propri / spettri”. Il rapporto col padre, operaio in una fabbrica di calze con cui non c’è mai stata alcuna confidenza o manifestazione d’affetto, viene esplorato in una delle poesie più commoventi del libro, Leggenda americana, in cui Ocean racconta di come abbia volontariamente provocato un terribile incidente automobilistico per avere l’opportunità di baciare e abbracciare per la prima volta il suo vecchio, e di liberare il cane malato che entrambi stavano portando dal veterinario per la soppressione.

Troviamo nei racconti in versi di Ocean Vuong tracce del cinema di Spike Lee, della scrittura depressa e incazzata di Raymond Carver e Charles Bukowski, e il ricordo urlato della beat generation. Ma con una consapevolezza nuova, in cui l’emarginazione sociale si trasforma in sfida e orgoglio di un’intera generazione immigrata nel regno del capitalismo mondiale, e insieme diventa sprone a una maggiore conoscenza di sé, dei propri limiti come delle proprie ambizioni e privilegi. “Finalmente, dopo anni e anni, sono diventato un perdente / professionista. / Sono imbattibile a perdere”, “Una volta ero frocio ma adesso sono un fico. Ah”. L’essere vietnamita americano, gay, poeta non ha fatto di lui “L’ultimo dinosauro”, non l’ha penalizzato intellettualmente ed emotivamente, perché gli ha permesso di sottrarsi ai condizionamenti soffocanti di sovrastrutture culturali che disprezza e rifiuta: “Quando mi chiedono come ci si sente, rispondo / immaginatevi di essere nati in una casa di riposo / in fiamme. Mentre i miei parenti fondevano, io me ne stavo / su una gamba, alzavo le braccia, chiudevo gli occhi & pensavo: / albero albero albero mentre la morte passava oltre – / lasciandomi illeso”. Al di là di ogni sofferenza e gioia privata, Ocean Vuong sa proiettarsi in un oltre spaziale e temporale, nella Germania nazista come nel Vietnam bombardato dei suoi nonni, con la sensibilità che lo rende vicino e solidale alle sorti di una pianta, di un pesce, di un supermercato, della neve destinata a sciogliersi: ovunque insomma il suo sguardo sappia farsi partecipe del fuori da sé, tra cose minime e universali: “Be’, eccolo qui / il mondo, piccolo / & grande come un padre”.

Un plauso ai traduttori di questo ottimo libro, Damiano Abeni e Moira Egan.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 6 marzo 2023

 

 

RECENSIONI

WAGNER

JAN WAGNER, VARIAZIONI SUL BARILE DELL’ACQUA PIOVANA – EINAUDI, TORINO 2019

Jan Wagner, berlinese di adozione, è nato nel 1971 ad Amburgo. Vincitore del prestigioso premio Büchner nel 2017, in Germania ha pubblicato sette raccolte di poesia. Variazioni sul barile dell’acqua piovana, del 2014, esce ora nella collana bianca di Einaudi con la puntuale (ma anche coraggiosamente inventiva) traduzione di Federico Italiano.

A una prima superficiale lettura, subito si evidenzia l’accentuato interesse dell’autore per la natura e l’habitat vegetale e animale, persino superiore a quello rivolto al soggetto umano. Sono numerose le piante e le erbe citate da Wagner, da quelle domestiche o infestanti a quelle tropicali, con un vocabolario botanico che utilizza termini sia conosciuti sia specifici e desueti: gelso, faggio, sambuco, mandarino, muschio, ficus, anemone, veronica, menta, rosa canina, agata, castalda, amento, braida, prugnolo, farinaccio, carlina, eucalipto, mangrovia, bambù, araucarie, waratah. Anche la zoologia è molto frequentata dal poeta, negli esemplari più comuni come in quelli esotici o mitologici: api, zanzare, falene, cavolaie, aironi, merli, corvi, gufi, rondini, cacatua, asini, mucche, cavalli nelle tipologie di brabanti o lipizzani, bisonti, volpi, lontre, alci, focene, megattere, koi, mante, koala, caimani, lorichetti, nettarinie, kookaburra, cacatua, dodi, armadilli, jabiru, hippocampus.

Un’enciclopedia variopinta, bisbigliante o ululante, che evoca colori e suoni esorbitanti l’ambiente antropico, e ad esso addirittura indifferente. Come nelle esemplari poesie dedicate a un cavallo, a tre asini siciliani e a un koala, che decisi a radicarsi solo in ciò che li circonda, oppure semplicemente assonnati,  rimangono testardamente incuranti degli esseri umani, impassibili ai loro richiami (“ma non si muove, sta lì e si guarda il panorama”, “ci sbracciammo, strepitammo, li punzecchiammo – loro / fermi, / solamente impegnati nell’essere asini”, “prima che si stirino e con uno sbadiglio / sprofondino in un sogno d’eucalipto”).

Poca introspezione, quindi, nella poesia di Jan Wagner (vivaddio! visto quanto del proprio minimo e inessenziale vissuto ci propina la letteratura contemporanea…): piuttosto uno sguardo, sospeso tra ironia e nostalgia, rivolto ad alcuni fatti aneddotici dell’infanzia, o ad avventurose esperienze di viaggio. Wagner bambino precipitato in un pozzo (“sei, sette metri di caduta libera / e mi ritrovai più distante / che mai, un cosmonauta / nella sua capsula rocciosa”), o alle prese con una legnosa e noiosa maestra di pianoforte, oppure coinvolto da adulto in incontri estemporanei e casuali. Nelle rare poesie di memoria personale, la messa a fuoco del poeta cela qualcosa di sé e delle proprie emozioni, appuntandosi invece su dettagli esterni che si animano, assumendo sembianze estranianti, osservate dal protagonista con stupito candore. Così il metronomo che scandisce il ritmo sul piano diventa un feretro di quercia da cui esce “il secco dito di un morto”, la luna intravista dal fondo del pozzo si trasforma in “un occhio indagatore sul microscopio”, gli zoccoli dell’alce ucciso in una battuta di caccia e riverso a terra sembrano “le mani di un campione sulla coppa”, il faggio che si erge in un prato ricorda un dormiente che si alza da un sogno, l’enorme montone che lo fissa “dalla sua maschera / d’ebano e aspetta” è il dio della torba davanti a cui inginocchiarsi in lacrime.

Qualsiasi episodio avvenuto (l’ascolto di un brano di Bach, l’osservazione di una tela di Canaletto, la morte di un parrucchiere) diventa per il poeta evento spirituale e arricchimento interiore, dando luogo a una vibrante risonanza emotiva. L’attenzione prestata agli oggetti  li vivifica, li antropomorfizza, rendendoli messaggeri di significati che li trascendono: i lenzuoli bianchi lanciati da “insospettate altezze” come paracaduti, la tazza di ceramica modellata da un allievo buddhista che aspira alla perfezione, un chiodo nel muro destinato a durare oltre ogni fugace presenza mortale, i tovaglioli con “l’orgoglio dei velieri”, le biblioteche visitate da fantasmi, i barili d’acqua in giardino che inghiottono le nuvole con la serenità di un maestro zen. Maestro nell’analogia, scienziato della metafora, Jan Wagner quando narra di persone si orienta soprattutto verso figure lontane, nel tempo e nello spazio: un uomo morto congelato nella sua auto in Svezia, il bisnonno con la mantella militare, la zia Mia che da bambina si era infilata un’infiorescenza nel naso, il barbone deriso insieme ai compagni di scuola, la misteriosa vicina di casa che in un difetto fisico nascondeva un inconfessabile segreto… Mentre un Lazzaro redivivo puzzolente imbarazza e impaurisce parenti e compaesani con la sua apparizione di miracolato. In ogni storia raccontata un particolare minimo diventa universale, trasfigurandosi in qualcosa d’altro: la realtà sconfina nel fantastico, e il fantastico rivela la sua assoluta, evanescente insignificanza.

Oltre che nei contenuti così vari, ricchi e avvincenti, anche stilisticamente JanWagner esprime una interessante originalità. La sua lingua suona infatti “crepitante”, come viene giustamente suggerito dalla quarta di copertina e come può evincere il lettore, anche se digiuno di tedesco, da questi pochi esempi di allitterazioni, ripetizioni, dissonanze fonetiche: knirschenden kies, der kirsche; ganzen garten giersch; wie er rackert, rackert, / am bach, dem katarakt aus eis; doch ach, / doch  ach, / doch ach, yak, ach, yak, ach; dann der wald. der wald. der wald; ein schweben, schwelen; weiter wachsen, weiter wuchern… Altra tipicità formale è la totale assenza in questo libro di lettere maiuscole, in controtendenza rispetto all’uso che ne fanno oggi molti poeti, esibendole a ogni capoverso. Da sottolineare inoltre la totale discrezionalità nell’utilizzo della punteggiatura, con i frequentissimi punti fermi posti là dove non ce li aspetteremmo, quasi a voler imporre pause di voce e di lettura altrimenti trascurate.

Gli imprevedibili accostamenti di situazioni e di riflessi emotivi all’interno di uno stesso componimento, creano in chi legge un effetto di sorpresa, e sembrano divertire o quantomeno stupire lo stesso autore, che nei suoi contrasti umorali vaganti tra comicità e commozione, incanto e repulsione, riesce a toccare tutte le corde dello strumento poetico, con una sapiente e felice padronanza esecutiva.

 

© Riproduzione riservata      «Il Pickwick», 25 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

WALCOTT

DEREK WALCOTT, MAPPA DEL NUOVO MONDO – ADELPHI, MILANO 2012

Derek Walcott, scrittore caraibico nato nell’isola di Saint Lucia nel 1930, Premio Nobel nel 1992, è stato definito dal suo più importante critico, Josif Brodskij, un “realista metafisico”. Ma anche un “naturalista, espressionista, surrealista, imagista, ermetico, confessionale”, come a dire tante cose in una, tante vite in una, tanti linguaggi in uno.
Nato “nell’incandescenza di un crogiolo di razze e culture”, Derek Walcott è un nero svezzato in un dialetto delle Indie Occidentali, professore a Harvard, scrittore in un elegante e limpido inglese. In una sua poesia così si definisce: “Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese, / sono nessuno, o sono una nazione”.

Nella sua opera si compenetrano visionarietà fantastica, meditazioni metafisiche, considerazioni sociali e, soprattutto, descrizioni della natura: il mare, l’Oceano, costituiscono il fondale onnipresente – negli odori, nei colori e nei profumi – di tutte le sue raccolte poetiche. Pittore di paesaggi descritti attraverso azzardate metafore: “Sabbia che vola, esile come fumo, / Annoiata, sposta le sue dune», «La pianta d’arancio, in varia luce, / Proclama perfezionate favole ora / Che il culmine estivo della sua ultima stagione / Si piega da ogni ramo sovraccarico”, in ogni composizione di questo volume, Mappa del nuovo mondo, avvertiamo quanto la sua sensibilità poetica patisca il fascino dirompente degli elementi naturali, in tutta la loro esibita potenza: vento, pioggia, nuvole, sole e luna si concretizzano tangibilmente, animandosi in modo magico e misterioso.

“Qualcosa di rimosso rimbomba nelle orecchie a questa casa, / Fa pendere le tende senza vento, tramortisce gli specchi / Finché i riflessi perdono sostanza”, “O stella, doppiamente compassionevole, venuta / troppo presto per il crepuscolo, troppo tardi / per l’alba, possa la tua pallida fiamma / dirigere il peggio in noi / attraverso il caos / con la passione del / semplice giorno”. Il mare, soprattutto, assume una personificazione a volte minacciosa a volte maternamente tranquillizzante (“L’amen di calme acque”, “le onde represse fanno il giro dei loro stazzi / come pecore matte”, “Il mio primo amico fu il mare. Ora, è il mio ultimo”), e nello splendido poemetto semi-autobiografico La goletta Flight recupera temi ed echi narrativi conradiani, raccontando di una turbinosa traversata oceanica in cui il protagonista combatte con i suoi peggiori incubi e istinti, minacciato dall’equipaggio ignorante e ostile, e consolato dal ricordo della famiglia e del colpevole amore per una sensuale Maria Concepción.

Ma la poesia di Derek Walcott non è solo descrittiva: è anche consapevole riflessione sulla sua inevitabile schizofrenia linguistica tra il dialetto creolo materno e la lingua inglese dei colonizzatori, tra la solidarietà per la sua gente nera che non lo riconosce più e l’ambizione di appartenere a una ufficialità culturale che lo subisce con malcelata sopportazione. “Dove mi volgerò diviso fin dentro nelle vene? / Io che ho maledetto / L’ufficiale ubriaco del governo britannico come sceglierò / Tra quest’Africa e la lingua inglese che amo? / Tradirle entrambe o restituire ciò che danno?”, “Ora non avevo altra nazione che l’immaginazione. / Dopo l’uomo bianco, i negri non mi vollero / quando il potere girò dalla loro parte. / Il primo mi incatena le mani e si scusa: ‘La storia’; gli altri non mi giudicavano nero abbastanza per il loro orgoglio”. Tuttavia il poeta sa qual è il suo compito: vivere con pienezza di meraviglia, cantare i suoi versi, testimoniare: “io sono soddisfatto / se la mia mano ha dato voce al dolore di un popolo”.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Mappa-nuovo-mondo-Walcott.html      6 ottobre 2016

RECENSIONI

WALCOTT

DEREK WALCOTT, DEMOCRAZIA E POESIA –  MEDUSA, MILANO 2017

Le tre interviste che il poeta caraibico Derek Walcott (1930-2017), premio Nobel nel 1992, ha concesso nel 1988, nel 2001 e nel 2005 negli Stati Uniti in occasione di festival letterari o conferenze universitarie, vertono non solo sulla sua produzione in versi, ma anche sul rapporto che intercorre tra scrittura e impegno sociale.

Particolarmente reattive e polemiche sono le sue parole riguardo agli stereotipi radicati nell’immaginario collettivo sui Caraibi, sfruttati turisticamente e tenuti in considerazione solo per gli splendidi panorami da cartolina o abusati da un pietismo retorico per la povertà degli indigeni, “in un ruolo prestabilito, una sorta di schiavitù benigna”. In realtà, la culla in cui si è forgiata la poesia di Walcott è un melting pot di culture diverse (africane, inglesi, olandesi, con una forte immigrazione cinese e indiana), che hanno contribuito alla formazione di rituali, linguaggi, musiche, religioni e miti differenti e sempre stimolanti, arricchenti. L’aver poi studiato in Europa e negli USA, e  l’aver insegnato per molti anni ad Harvard, ha messo in grado il poeta di confrontare la sua indole e la sua cultura di nero delle Antille (sono rimasti famosi questi suoi versi: «Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, / ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell’olandese del negro e dell’inglese, / sono nessuno, o sono una nazione») con la colonizzazione capitalistica della superpotenza americana, che con il miraggio della ricchezza e del benessere ha ipnotizzato intere popolazioni, asservendole acriticamente alle imposizioni del suo potere. Critico nei confronti della politica dell’Impero, e dei modelli culturali dominanti, Derek Walcott demanda proprio alla poesia il compito di pungolare le menti e le coscienze della gente, perché «i poeti muovono sempre le acque», instillando nei lettori dubbi e domande che non possono venire esaudite con soluzioni materiali, ma riguardano la condizione umana più in generale, la sua finitudine che si scontra con l’ansia di infinito, il quotidiano che aspira all’assoluto. Platone bandiva i poeti dalla Repubblica ideale, poiché ne intuiva la pericolosità e la capacità di resistenza e ribellione.

In questo libriccino, Democrazia e poesia, introdotto da un’esemplare prefazione di Luana Salvarani, Walcott espone tesi coraggiose e controcorrente, sfidando i luoghi comuni e i pregiudizi che comunemente si nutrono nei confronti della composizione in versi. La quale non può e non deve risultare da un facile spontaneismo, da una superficiale improvvisazione: si basa invece sullo studio approfondito della tradizione, e va esercitata con l’esercizio tecnico, usando il labor limae dell’imitazione e della traduzione. E se la fruizione della poesia e dell’arte è un diritto di tutti, promosso doverosamente da ogni democrazia, la produzione dell’arte e della poesia non spettano a tutti. Che chiunque possa auto-definirsi poeta, senza esprimere una reale qualità formale o di contenuto, risulta dannoso e illusorio sia per chi scrive sia per chi legge.

«Non si può democratizzare il genio, non si può democratizzare il talento e dire che nella misura in cui qualcuno scrive, o ha il diritto di pensare, allora è automaticamente uguale al migliore di ogni letteratura. In altre parole, il diritto che ho di esprimermi non mi rende Shakespeare, non mi rende un grande scrittore». Se il poeta vuole farsi portavoce di un sentire universale, deve per prima cosa conoscere se stesso, «scivolare dentro la propria voce», renderla più forte e sicura, in un continuo e mai facile sforzo di ricerca e di superamento dei suoi limiti.

 

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www.sololibri.net/Democrazia-e-poesia-Derek-Walcott.html                21 novembre 2017

RECENSIONI

WALLACE

DAVID FOSTER WALLACE, CONSIDERA L’ARAGOSTA – EINAUDI, TORINO 2015 (ebook)

L’ebook Considera l’aragosta, pubblicato da Einaudi qualche anno fa, offre ai lettori unicamente il saggio omonimo, un lungo articolo scritto da David Foster Wallace nel 2004, e non tutti gli interventi antologizzati nel volume comprensivo uscito in Italia nel 2006. Eppure, questo pezzo basta da solo a dare l’idea di quale fosse l’intelligenza critica, l’ironia, la sensibilità e la preparazione culturale di Wallace, autore di culto americano, nato nel 1962 e morto suicida nel 2008, «il più fine ritrattista dell’America contemporanea… una penna dotata di un’intelligenza e di una sensibilità inarrivabili… geniale , capace di innovare e reinventare tutte le forme con le quali si è cimentato, dal romanzo al racconto, al saggio», come viene definito in appendice.

Lo scrittore era stato invitato dalla rivista culinaria Gourmet a partecipare e a redigere un reportage sul Festival dell’aragosta («immenso, pungente ed estremamente ben pubblicizzato») organizzato ogni anno a fine luglio nel Maine, regione che basa la sua economia sul turismo e, appunto, sulla pesca e la lavorazione industriale delle aragoste.  Il sarcasmo, ma anche l’irritazione beffarda verso questa manifestazione di massa, risultano evidenti già dalle prime battute dello scritto: le centomila persone che l’affollano, gaudenti e affamate, vengono intrattenute da concorsi di bellezza, concerti musicali, gare podistiche e di cucina amatoriale, giostre e giochi vari, ammassate nei numerosissimi stand chiassosi e scarsamente puliti, ma soprattutto nel «tendone-ristorante, dove sono consumati qualcosa come più di undicimila chili di aragosta del Maine appena pescata, cotti nella “Pentola per aragoste più grande del mondo”… Qui vengono serviti anche panini all’aragosta, involtini di aragosta, sauté di aragosta, insalata di aragosta, vellutata di aragosta, ravioli all’aragosta e fagottini fritti all’aragosta… Ci sono magliette con l’aragosta e statuine caricaturali a forma di aragosta e aragoste gonfiabili con cui giocare in piscina e cappelli a forma di aragosta con grosse chele scarlatte che ballonzolano su molle».

La vittima sacrificale viene descritta analiticamente da Wallace dal punto di vista scientifico-tassonomico, (« è un crostaceo marino della famiglia Homaridae»), alimentare («la polpa di aragosta ha meno calorie, meno colesterolo e meno grassi saturi del pollo»), culinario («portata à la carte può essere cotta al forno, sulla fiamma, al vapore, alla griglia, rosolata, saltata in padella o al microonde»), etimologico-linguistico, storico-paleontologico, e della trasformazione nella produzione commerciale e nei consumi. Se risulta evidente il fine promozionale ed economico del Festival, altrettanto chiaro è il suo intento pubblicitario di contrastare l’idea che l’aragosta sia una pietanza di lusso o malsana o costosa, “democratizzandone” e giustificandone persino culturalmente l’utilizzo. Infatti questo festival gastronomico, tanto famoso e reclamizzato, ha conosciuto negli ultimi anni forti contestazioni, non solo da parte degli ecologisti e degli animalisti, ma anche negli ambienti medici e scientifici.

David Foster Wallace, nel definirsi non tanto «petulante e moraleggiante», quanto «confuso», si sofferma in particolare sull’agonia del crostaceo, che come si sa viene generalmente bollito vivo per garantirne la freschezza: «Vi basta una grossa pentola con coperchio, che riempite fino circa a metà di acqua (il criterio generale è due litri e mezzo d’acqua per ogni aragosta). L’ideale è l’acqua marina, oppure potete aggiungere due cucchiai di sale per ogni litro di acqua del rubinetto».

Di fronte alla sofferenza dell’animale, che nei quaranta minuti della cottura si dibatte ferocemente, aggrappandosi con le chele agli orli della pentola, e tentando di saltarne fuori, Wallace si chiede: «È giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?». Basta sapere che il sistema nervoso di un’aragosta è decentralizzato, che non ha un cervello ed è priva di corteccia cerebrale, per assolverci da qualsiasi scrupolo e senso di colpa, «dal momento che il dolore è un’esperienza mentale totalmente soggettiva, e non abbiamo accesso diretto al dolore di niente e nessuno a parte il nostro?». Wallace lo domanda a se stesso e a noi, spingendoci a riflettere su molte cose a cui forse non pensiamo abbastanza, pronti ad assolverci da abitudini inammissibili solo perché generalizzate e condivise dai più.

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Considera-l-aragosta-Foster-Wallace.html       8 febbraio 2018

 

 

 

 

 

RECENSIONI

WATT SMITH

TIFFANY WATT SMITH, ATLANTE DELLE EMOZIONI UMANE – UTET, TORINO 2017

Il sottotitolo di questo curioso volume della storica inglese Tiffany Watt Smith recita «156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai»: l’Atlante delle emozioni umane le cataloga attraversando varie scienze (antropologia, arte, letteratura, musica…) per spiegarci in quali e quanti modi diversi le varie popolazioni del mondo, in tutte le epoche, hanno definito i loro sentimenti: paura e rancore, gratitudine e rabbia, odio e imbarazzo. Alcuni tra gli stati emotivi presi in considerazione dall’autrice possono risultare perlomeno stravaganti: cosa significhino e in cosa consistano la basoressia, l’ambiguofobia, la cybercondria, la filoprogenitività, la pronoia, io l’ho imparato solo leggendo. Per non prendere in considerazione alcuni termini stranieri: in giapponese “ijirashii” indica la commozione provata di fronte allo sforzo premiato di una persona svantaggiata; i finlandesi chiamano “kaukokaipuu” la nostalgia per un posto dove non si è mai stati; gli spagnoli, quando si vergognano delle figuracce altrui, usano il termine “vergüenza ajena”. E in Nuova Guinea, se un ospite lascia la casa creando un vuoto improvviso, la tribù baining parla di “awumbuk”, e gli inglesi si confessano “cheesed off”, cioè ammuffiti come il formaggio, quando sono costretti a un’attesa prolungata, mentre crudelmente tedesco appare lo”schadenfreude”, la soddisfazione per le  calamità altrui.

La cosa interessante di questo volume, oltre alla ricchissima bibliografia finale, sono i rimandi intertestuali, che collegano i vari lemmi tra loro, e soprattutto i riferimenti culturali con citazioni filosofiche o letterarie che ampliano la prospettiva in cui vengono inquadrate le emozioni descritte. Alcune della quali possono sembrarci decisamente tortuose: si prova “compersione” quando scopriamo che la persona da noi amata è attratta da qualcun altro, o si è affetti dalla “sindrome dell’impostura” se si teme di occupare una posizione prestigiosa senza averlo davvero meritato.

Nell’estesa introduzione, Tiffany Watt Smith tratteggia una storia delle passioni umane a partire dall’antichità, iniziando dagli umori elementari individuati da Ippocrate (sangue, bile gialla, bile nera, flemma), che avrebbero influenzato personalità e stati d’animo individuali. Per arrivare alle teorie meccanicistiche del 1700, all’evoluzionismo darwiniano, agli epifenomeni di William James, all’interpretazione psicanalitica di Freud e alla neurobiologia contemporanea: teorie che tutte sembrano tendere a una definizione valida universalmente su cosa dobbiamo intendere per “emozione”.

La considerazione finale che possiamo trarre dalla lettura di questo curioso Atlante delle emozioni umane è che in fondo siamo tutti molto simili: ci vergogniamo e ci esaltiamo, ci deprimiamo o siamo felici per gli stessi motivi, a qualsiasi latitudine, in ogni epoca, indipendentemente dalla cultura che abbiamo, dal nostro sesso e dal colore della pelle. Con qualche sfumatura accidentale, e divertente.

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/Atlante-emozioni-umane-Watt-Smith.html         30 dicembre 2017

 

RECENSIONI

WEIL

SIMONE WEIL, LETTERA A UN RELIGIOSO – ADELPHI, MILANO 1996

«Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, o vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia…». Così si apre la celebre Lettera a un religioso che Simone Weil scrisse al padre domenicano Couturier nel 1941, e che oggi Adelphi ripropone nella sua Piccola biblioteca. Il desiderio di adesione al cattolicesimo fu nella Weil intensissimo sin dall’infanzia («Da anni penso a queste cose con tutta l’intensità di amore e attenzione di cui sono capace»), nutrito di una nostalgia più sentimentale che razionale per i sacramenti, in particolare per l’eucarestia. Eppure, con il rigore adamantino che la contraddistinse, si negò sempre il battesimo, sapendo di non riuscire a condividere in toto dogmi e insegnamenti ecclesiali.
Nella sua lettera elenca quindi «un certo numero di pensieri» che abitano in lei da anni e che sono di ostacolo al suo dichiararsi cattolica, e chiede al suo corrispondente una «risposta chiara, certa, categorica» sulla compatibilità di ciascuna delle sue opinioni con l’appartenenza alla Chiesa.
Avrà, dai padri spirituali che man mano avvicinerà negli anni, risposte monche e inadeguate alle attese, forse anche imbarazzate di fronte a una divorante ansia di spiritualità ma anche all’incapacità di mediare tra assoluto e relativo, tra libertà di pensiero e obbedienza ai dettami conciliari.
Ciò che la Weil rimprovera al cattolicesimo è soprattutto la sua concezione della storia, l’asserita superiorità dell’ebraismo e del cristianesimo sui popoli pagani riguardo alla conoscenza di Dio, l’unicità dell’incarnazione del Verbo nel Cristo. Le tesi da lei espresse sono trentacinque, e rivelano una profonda conoscenza delle religioni antiche e orientali, insieme con un dominio sicuro dei testi sacri, unito però alla volontà di non soprassedere su alcuni aspetti formali della ritualità sacra.
E’ un cristianesimo viscerale e settoriale, quello di Simone Weil: predilige il S.Paolo della Lettera ai Filippesi, il Canto del Servo di Isaia, il racconto della Passione: «Se il Vangelo omettesse ogni menzione della resurrezione di Cristo, la fede mi sarebbe più facile. La Croce da sola mi basta».

Un Vangelo della sofferenza, quindi, quello da lei amato, e non del trionfo. Un po’ come i santi senza Dio di cui scriveva Camus, Simone Weil si ostina a proporsi come cristiana fuori dalla Chiesa, quasi che proprio il suo rifiuto del battesimo sia la vera testimonianza della sua fede. Divorata dall’intelligenza e dallo spirito critico, così come aveva rifiutato il suo ebraismo, le sue origini borghesi, un lavoro puramente intellettuale, e come finirà per rifiutarsi ogni affettività e fisicità (fino a morire di inedia a 34 anni), respinge ogni blando accomodamento, ogni passiva sudditanza a indicazioni imposte dall’alto, inascoltata profeta di un secolo XX spesso profano anche nella religiosità.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Lettera-a-un-religioso-Simone-Weil.html

14 novembre 2011