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RECENSIONI

WALCOTT

DEREK WALCOTT, DEMOCRAZIA E POESIA –  MEDUSA, MILANO 2017

Le tre interviste che il poeta caraibico Derek Walcott (1930-2017), premio Nobel nel 1992, ha concesso nel 1988, nel 2001 e nel 2005 negli Stati Uniti in occasione di festival letterari o conferenze universitarie, vertono non solo sulla sua produzione in versi, ma anche sul rapporto che intercorre tra scrittura e impegno sociale.

Particolarmente reattive e polemiche sono le sue parole riguardo agli stereotipi radicati nell’immaginario collettivo sui Caraibi, sfruttati turisticamente e tenuti in considerazione solo per gli splendidi panorami da cartolina o abusati da un pietismo retorico per la povertà degli indigeni, “in un ruolo prestabilito, una sorta di schiavitù benigna”. In realtà, la culla in cui si è forgiata la poesia di Walcott è un melting pot di culture diverse (africane, inglesi, olandesi, con una forte immigrazione cinese e indiana), che hanno contribuito alla formazione di rituali, linguaggi, musiche, religioni e miti differenti e sempre stimolanti, arricchenti. L’aver poi studiato in Europa e negli USA, e  l’aver insegnato per molti anni ad Harvard, ha messo in grado il poeta di confrontare la sua indole e la sua cultura di nero delle Antille (sono rimasti famosi questi suoi versi: «Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, / ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell’olandese del negro e dell’inglese, / sono nessuno, o sono una nazione») con la colonizzazione capitalistica della superpotenza americana, che con il miraggio della ricchezza e del benessere ha ipnotizzato intere popolazioni, asservendole acriticamente alle imposizioni del suo potere. Critico nei confronti della politica dell’Impero, e dei modelli culturali dominanti, Derek Walcott demanda proprio alla poesia il compito di pungolare le menti e le coscienze della gente, perché «i poeti muovono sempre le acque», instillando nei lettori dubbi e domande che non possono venire esaudite con soluzioni materiali, ma riguardano la condizione umana più in generale, la sua finitudine che si scontra con l’ansia di infinito, il quotidiano che aspira all’assoluto. Platone bandiva i poeti dalla Repubblica ideale, poiché ne intuiva la pericolosità e la capacità di resistenza e ribellione.

In questo libriccino, Democrazia e poesia, introdotto da un’esemplare prefazione di Luana Salvarani, Walcott espone tesi coraggiose e controcorrente, sfidando i luoghi comuni e i pregiudizi che comunemente si nutrono nei confronti della composizione in versi. La quale non può e non deve risultare da un facile spontaneismo, da una superficiale improvvisazione: si basa invece sullo studio approfondito della tradizione, e va esercitata con l’esercizio tecnico, usando il labor limae dell’imitazione e della traduzione. E se la fruizione della poesia e dell’arte è un diritto di tutti, promosso doverosamente da ogni democrazia, la produzione dell’arte e della poesia non spettano a tutti. Che chiunque possa auto-definirsi poeta, senza esprimere una reale qualità formale o di contenuto, risulta dannoso e illusorio sia per chi scrive sia per chi legge.

«Non si può democratizzare il genio, non si può democratizzare il talento e dire che nella misura in cui qualcuno scrive, o ha il diritto di pensare, allora è automaticamente uguale al migliore di ogni letteratura. In altre parole, il diritto che ho di esprimermi non mi rende Shakespeare, non mi rende un grande scrittore». Se il poeta vuole farsi portavoce di un sentire universale, deve per prima cosa conoscere se stesso, «scivolare dentro la propria voce», renderla più forte e sicura, in un continuo e mai facile sforzo di ricerca e di superamento dei suoi limiti.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Democrazia-e-poesia-Derek-Walcott.html                21 novembre 2017

RECENSIONI

WALLACE

DAVID FOSTER WALLACE, CONSIDERA L’ARAGOSTA – EINAUDI, TORINO 2015 (ebook)

L’ebook Considera l’aragosta, pubblicato da Einaudi qualche anno fa, offre ai lettori unicamente il saggio omonimo, un lungo articolo scritto da David Foster Wallace nel 2004, e non tutti gli interventi antologizzati nel volume comprensivo uscito in Italia nel 2006. Eppure, questo pezzo basta da solo a dare l’idea di quale fosse l’intelligenza critica, l’ironia, la sensibilità e la preparazione culturale di Wallace, autore di culto americano, nato nel 1962 e morto suicida nel 2008, «il più fine ritrattista dell’America contemporanea… una penna dotata di un’intelligenza e di una sensibilità inarrivabili… geniale , capace di innovare e reinventare tutte le forme con le quali si è cimentato, dal romanzo al racconto, al saggio», come viene definito in appendice.

Lo scrittore era stato invitato dalla rivista culinaria Gourmet a partecipare e a redigere un reportage sul Festival dell’aragosta («immenso, pungente ed estremamente ben pubblicizzato») organizzato ogni anno a fine luglio nel Maine, regione che basa la sua economia sul turismo e, appunto, sulla pesca e la lavorazione industriale delle aragoste.  Il sarcasmo, ma anche l’irritazione beffarda verso questa manifestazione di massa, risultano evidenti già dalle prime battute dello scritto: le centomila persone che l’affollano, gaudenti e affamate, vengono intrattenute da concorsi di bellezza, concerti musicali, gare podistiche e di cucina amatoriale, giostre e giochi vari, ammassate nei numerosissimi stand chiassosi e scarsamente puliti, ma soprattutto nel «tendone-ristorante, dove sono consumati qualcosa come più di undicimila chili di aragosta del Maine appena pescata, cotti nella “Pentola per aragoste più grande del mondo”… Qui vengono serviti anche panini all’aragosta, involtini di aragosta, sauté di aragosta, insalata di aragosta, vellutata di aragosta, ravioli all’aragosta e fagottini fritti all’aragosta… Ci sono magliette con l’aragosta e statuine caricaturali a forma di aragosta e aragoste gonfiabili con cui giocare in piscina e cappelli a forma di aragosta con grosse chele scarlatte che ballonzolano su molle».

La vittima sacrificale viene descritta analiticamente da Wallace dal punto di vista scientifico-tassonomico, (« è un crostaceo marino della famiglia Homaridae»), alimentare («la polpa di aragosta ha meno calorie, meno colesterolo e meno grassi saturi del pollo»), culinario («portata à la carte può essere cotta al forno, sulla fiamma, al vapore, alla griglia, rosolata, saltata in padella o al microonde»), etimologico-linguistico, storico-paleontologico, e della trasformazione nella produzione commerciale e nei consumi. Se risulta evidente il fine promozionale ed economico del Festival, altrettanto chiaro è il suo intento pubblicitario di contrastare l’idea che l’aragosta sia una pietanza di lusso o malsana o costosa, “democratizzandone” e giustificandone persino culturalmente l’utilizzo. Infatti questo festival gastronomico, tanto famoso e reclamizzato, ha conosciuto negli ultimi anni forti contestazioni, non solo da parte degli ecologisti e degli animalisti, ma anche negli ambienti medici e scientifici.

David Foster Wallace, nel definirsi non tanto «petulante e moraleggiante», quanto «confuso», si sofferma in particolare sull’agonia del crostaceo, che come si sa viene generalmente bollito vivo per garantirne la freschezza: «Vi basta una grossa pentola con coperchio, che riempite fino circa a metà di acqua (il criterio generale è due litri e mezzo d’acqua per ogni aragosta). L’ideale è l’acqua marina, oppure potete aggiungere due cucchiai di sale per ogni litro di acqua del rubinetto».

Di fronte alla sofferenza dell’animale, che nei quaranta minuti della cottura si dibatte ferocemente, aggrappandosi con le chele agli orli della pentola, e tentando di saltarne fuori, Wallace si chiede: «È giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?». Basta sapere che il sistema nervoso di un’aragosta è decentralizzato, che non ha un cervello ed è priva di corteccia cerebrale, per assolverci da qualsiasi scrupolo e senso di colpa, «dal momento che il dolore è un’esperienza mentale totalmente soggettiva, e non abbiamo accesso diretto al dolore di niente e nessuno a parte il nostro?». Wallace lo domanda a se stesso e a noi, spingendoci a riflettere su molte cose a cui forse non pensiamo abbastanza, pronti ad assolverci da abitudini inammissibili solo perché generalizzate e condivise dai più.

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Considera-l-aragosta-Foster-Wallace.html       8 febbraio 2018

 

 

 

 

 

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WATT SMITH

TIFFANY WATT SMITH, ATLANTE DELLE EMOZIONI UMANE – UTET, TORINO 2017

Il sottotitolo di questo curioso volume della storica inglese Tiffany Watt Smith recita «156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai»: l’Atlante delle emozioni umane le cataloga attraversando varie scienze (antropologia, arte, letteratura, musica…) per spiegarci in quali e quanti modi diversi le varie popolazioni del mondo, in tutte le epoche, hanno definito i loro sentimenti: paura e rancore, gratitudine e rabbia, odio e imbarazzo. Alcuni tra gli stati emotivi presi in considerazione dall’autrice possono risultare perlomeno stravaganti: cosa significhino e in cosa consistano la basoressia, l’ambiguofobia, la cybercondria, la filoprogenitività, la pronoia, io l’ho imparato solo leggendo. Per non prendere in considerazione alcuni termini stranieri: in giapponese “ijirashii” indica la commozione provata di fronte allo sforzo premiato di una persona svantaggiata; i finlandesi chiamano “kaukokaipuu” la nostalgia per un posto dove non si è mai stati; gli spagnoli, quando si vergognano delle figuracce altrui, usano il termine “vergüenza ajena”. E in Nuova Guinea, se un ospite lascia la casa creando un vuoto improvviso, la tribù baining parla di “awumbuk”, e gli inglesi si confessano “cheesed off”, cioè ammuffiti come il formaggio, quando sono costretti a un’attesa prolungata, mentre crudelmente tedesco appare lo”schadenfreude”, la soddisfazione per le  calamità altrui.

La cosa interessante di questo volume, oltre alla ricchissima bibliografia finale, sono i rimandi intertestuali, che collegano i vari lemmi tra loro, e soprattutto i riferimenti culturali con citazioni filosofiche o letterarie che ampliano la prospettiva in cui vengono inquadrate le emozioni descritte. Alcune della quali possono sembrarci decisamente tortuose: si prova “compersione” quando scopriamo che la persona da noi amata è attratta da qualcun altro, o si è affetti dalla “sindrome dell’impostura” se si teme di occupare una posizione prestigiosa senza averlo davvero meritato.

Nell’estesa introduzione, Tiffany Watt Smith tratteggia una storia delle passioni umane a partire dall’antichità, iniziando dagli umori elementari individuati da Ippocrate (sangue, bile gialla, bile nera, flemma), che avrebbero influenzato personalità e stati d’animo individuali. Per arrivare alle teorie meccanicistiche del 1700, all’evoluzionismo darwiniano, agli epifenomeni di William James, all’interpretazione psicanalitica di Freud e alla neurobiologia contemporanea: teorie che tutte sembrano tendere a una definizione valida universalmente su cosa dobbiamo intendere per “emozione”.

La considerazione finale che possiamo trarre dalla lettura di questo curioso Atlante delle emozioni umane è che in fondo siamo tutti molto simili: ci vergogniamo e ci esaltiamo, ci deprimiamo o siamo felici per gli stessi motivi, a qualsiasi latitudine, in ogni epoca, indipendentemente dalla cultura che abbiamo, dal nostro sesso e dal colore della pelle. Con qualche sfumatura accidentale, e divertente.

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/Atlante-emozioni-umane-Watt-Smith.html         30 dicembre 2017

 

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WEIL

SIMONE WEIL, LETTERA A UN RELIGIOSO – ADELPHI, MILANO 1996

«Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, o vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia…». Così si apre la celebre Lettera a un religioso che Simone Weil scrisse al padre domenicano Couturier nel 1941, e che oggi Adelphi ripropone nella sua Piccola biblioteca. Il desiderio di adesione al cattolicesimo fu nella Weil intensissimo sin dall’infanzia («Da anni penso a queste cose con tutta l’intensità di amore e attenzione di cui sono capace»), nutrito di una nostalgia più sentimentale che razionale per i sacramenti, in particolare per l’eucarestia. Eppure, con il rigore adamantino che la contraddistinse, si negò sempre il battesimo, sapendo di non riuscire a condividere in toto dogmi e insegnamenti ecclesiali.
Nella sua lettera elenca quindi «un certo numero di pensieri» che abitano in lei da anni e che sono di ostacolo al suo dichiararsi cattolica, e chiede al suo corrispondente una «risposta chiara, certa, categorica» sulla compatibilità di ciascuna delle sue opinioni con l’appartenenza alla Chiesa.
Avrà, dai padri spirituali che man mano avvicinerà negli anni, risposte monche e inadeguate alle attese, forse anche imbarazzate di fronte a una divorante ansia di spiritualità ma anche all’incapacità di mediare tra assoluto e relativo, tra libertà di pensiero e obbedienza ai dettami conciliari.
Ciò che la Weil rimprovera al cattolicesimo è soprattutto la sua concezione della storia, l’asserita superiorità dell’ebraismo e del cristianesimo sui popoli pagani riguardo alla conoscenza di Dio, l’unicità dell’incarnazione del Verbo nel Cristo. Le tesi da lei espresse sono trentacinque, e rivelano una profonda conoscenza delle religioni antiche e orientali, insieme con un dominio sicuro dei testi sacri, unito però alla volontà di non soprassedere su alcuni aspetti formali della ritualità sacra.
E’ un cristianesimo viscerale e settoriale, quello di Simone Weil: predilige il S.Paolo della Lettera ai Filippesi, il Canto del Servo di Isaia, il racconto della Passione: «Se il Vangelo omettesse ogni menzione della resurrezione di Cristo, la fede mi sarebbe più facile. La Croce da sola mi basta».

Un Vangelo della sofferenza, quindi, quello da lei amato, e non del trionfo. Un po’ come i santi senza Dio di cui scriveva Camus, Simone Weil si ostina a proporsi come cristiana fuori dalla Chiesa, quasi che proprio il suo rifiuto del battesimo sia la vera testimonianza della sua fede. Divorata dall’intelligenza e dallo spirito critico, così come aveva rifiutato il suo ebraismo, le sue origini borghesi, un lavoro puramente intellettuale, e come finirà per rifiutarsi ogni affettività e fisicità (fino a morire di inedia a 34 anni), respinge ogni blando accomodamento, ogni passiva sudditanza a indicazioni imposte dall’alto, inascoltata profeta di un secolo XX spesso profano anche nella religiosità.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Lettera-a-un-religioso-Simone-Weil.html

14 novembre 2011

RECENSIONI

WELLS

H.G. WELLS, NEL PAESE DEI CIECHI – ADELPHI, MILANO 2008

“Tra le più selvagge solitudini delle Ande ecuadoriane, giace, separata dal mondo degli uomini, quella misteriosa vallata montana, il Paese dei Ciechi”. Pochi termini (solitudini, selvagge, misteriosa, montana) immettono il lettore nell’atmosfera straniante di questo racconto scritto nel 1904 da H.G.Wells (1866-1946), tra i più noti e prolifici scrittori di fantascienza della prima metà del ’900 (La macchina del tempo, La guerra dei mondi, L’uomo invisibile), che seppe delineare nuovi orizzonti immaginativi con pungente ironia critica sulla società e la politica della sua epoca.

Il protagonista de Nel paese dei ciechi, “uomo acuto e intraprendente”, scalatore esperto di nome Nuñez e di professione guida turistica, precipita accidentalmente da una cima rocciosa e innevata in una valle dall’aspetto idilliaco, che “aveva tutto ciò che un cuore umano può desiderare: acqua dolce, pascoli, clima costante, declivi di fertile suolo bruno con macchie di arbusti che davano un frutto eccellente, e su un lato grandi boschi scoscesi di pini che trattenevano le valanghe”. Osservando più acutamente il paesino situato all’interno della verde conca, si accorge stupito che case e strade sono dipinte e tracciate in maniera informe e arbitraria, quasi gli abitanti avessero la vista offuscata. Avvicinatosi ad alcuni di loro scruta “le loro palpebre chiuse e incavate, come se, sotto, i globi oculari fossero disseccati e svaniti”. Gli torna alla mente una leggenda centenaria riguardante un paese di ciechi, la cui popolazione era stata colpita da un morbo sconosciuto o da una malattia genetica che la privava della capacità di vedere, probabilmente a causa di una maledizione per una colpa o trasgressione commessa collettivamente. Introdotto nella comunità, tra paura e diffidenza reciproca, accarezza l’idea di poter approfittare della propria superiorità di vedente rispetto ai suoi ospiti, secondo il noto proverbio: “In terra di ciechi il monocolo è re”, che continua a ripetere a sé stesso come un mantra. In realtà, la sua presunta supremazia è presto sconfitta dall’eccellenza sensoriale degli indigeni, che sanno muoversi nel loro ambiente con più naturalezza e ingegnosità.

Da aspirante dominatore, Nuñez diventa ostaggio degli abitanti, e i suoi racconti del mondo esterno e delle bellezze di una natura che essi non possono osservare, vengono considerati stravaganze deliranti di un pazzo. Nemmeno l’amore per una giovane del luogo riesce a farlo accettare dalla cittadinanza, che gli propone l’unica possibile “normalizzazione”, e il solo adeguamento sociale possibile, attraverso l’asportazione dei bulbi oculari, “questi corpi irritanti” che lo rendono folle e di “rango inferiore”. Quasi convinto a farsi operare al fine di poter sposare la bella Medina, in un’improvvisa reviviscenza dello stato privilegiato di vedente, Nuñez decide di scappare, inerpicandosi faticosamente attraverso i pendii montani da cui era precipitato, per addormentarsi serenamente (per sempre o fino a una nuova alba di salvezza? H.G.Wells non lo rivela): “giaceva immobile, sorridendo come fosse semplicemente soddisfatto di essere scampato dalla valle dei Ciechi, dove aveva creduto di essere re. Il bagliore del tramonto si spense, e scese la notte, ed egli giacque contento, pacificato, sotto le fredde stelle”.

Nella postfazione al piccolo volume adelphiano, Sandro Modeo dà conto delle tre principali interpretazioni che i critici hanno offerto di questo famoso racconto: “quello storico-antropologico (il rapporto tra la «civiltà» dei coloni spagnoli e la presunta «barbarie» dei nativi, coi ciechi a incarnare pregi e limiti del relativismo culturale); quello specificamente politico (sul carattere utopico, nel bene e nel male, di ogni comunità autarchica e isolazionista); e quello (più azzardato) delle irradiazioni metaforiche, che può portare a leggere nella vista di Nuñez un correlato dell’immaginazione artistico-poetica (non a caso in parte compresa solo dalla donna che lo ama) e nel villaggio l’ottusità anti-intellettualistica delle società borghesi”. Anche se la morale pare essere di un’evidenza quasi banale: coloro che si pretendono “monoculi in terra caecorum” sono destinati al dileggio, alla persecuzione e nel migliore dei casi all’esilio. Nuñez pertanto, nella sua presunzione di superiorità e dominio, è costretto ad ammettere la propria cocente sconfitta.

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Nel-paese-dei-ciechi-Wells.html

28 febbraio 2019

 

 

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WELLS

H.G. WELLS, L’UOMO INVISIBILE – FANUCCI, ROMA 2017

Con un’esaustiva prefazione di Carlo Pagetti, che fornisce al lettore tutte le coordinate culturali, storiche ed interpretative del testo, l’editore Fanucci ha ripubblicato nel 2017 il terzo tra gli scientific romance di H.G.Wells, scritto nel 1897: L’uomo invisibile. Il libro, che l’autore definì “una fantasia umoristica”, racchiude in sé i caratteri della letteratura gotica, arricchiti da una feroce critica al progressivo conformismo spersonalizzante della società e dall’ interesse per le più recenti sperimentazioni della medicina: temi rivisitati con un gusto esplicito del sarcastico, del grottesco, della suspence e della parodia antiborghese.

Ambientato nei sobborghi di Londra e del Sussex, il romanzo ha come protagonista un ambizioso e delirante scienziato, il cui nome allude sinistramente al grifone, torvo animale fantastico. Griffin aspira, nella sua follia anarcoide e vendicatrice, a punire attraverso le sue invenzioni gli individui in cui si imbatte, ritenuti ignoranti, ostili e persecutori. La vicenda ha inizio con il protagonista che, imbozzolato come una mummia per non far distinguere i lineamenti del viso e del corpo, si presenta in una locanda del paesino di Iping, chiedendo di affittare una stanza, e sottolineando fermamente la sua volontà di non essere disturbato in alcuna maniera. Ha con sé molti bagagli, contenenti alambicchi, provette e liquidi misteriosi. Sia il suo aspetto fisico sia i suoi bizzosi e scostanti comportamenti incuriosiscono il personale della taverna e la piccola comunità del posto, persone semplici da subito insospettite e in seguito decisamente avverse alla presenza aliena e perturbante dell’ospite. Su di lui aleggiano ipotesi fantasiose e drammatiche, che si consolidano quando in paese si intensificano apparizioni misteriose, furti, spostamenti di mobili e oggetti vari senza che si possa individuare il responsabile di tali atti. Bambini e donne sono i più ferocemente contrari alla presenza dello sconosciuto, che agli occhi di molti pare voler nascondere dietro il pesante camuffamento l’inesistenza di un corpo materiale.

Nel corso di un’improvvisa colluttazione con i compaesani, Griffin rivela la sua natura di uomo in carne e ossa, ma invisibile, rilevabile dagli altri solo attraverso la voce, gli starnuti e i colpi di tosse, o il rivestimento di indumenti mistificatori. Sotto le bende, sotto i vestiti trafugati qua e là, c’è il niente, il vuoto, in cui H.G. Wells intravede ed evidenzia l’inconsistenza e la fragilità di ogni essere umano. Dopo una serie incredibile di avventure rocambolesche, di violenze esercitate contro gli oggetti e le persone, in un crescendo di furia incontenibile che nel respiro ansante della narrazione assume contorni farseschi, Griffin ferito e affamato si rifugia nella casa di un vecchio compagno di università, il dottor Kemp, stimato professionista ligio al dovere e rispettoso delle istituzioni. Gli racconta di essersi specializzato in fisica molecolare, e di aver ideato esperimenti al limite della liceità, inseguendo l’obiettivo di trasformare la materia, rendendola trasparente e quindi invisibile: “Realizzare un’impresa del genere significava invadere il campo della magia, e mi fu ben chiara l’inebriante visione di ciò che può rappresentare per un uomo l’invisibilità. Mistero, potere, libertà”. Dopo aver conseguito i primi successi sulle cose inanimate e sugli animali, era riuscito nell’abominevole intento di modificare anche la propria natura corporea.

Il suo scopo non era solo il raggiungimento della fama e della ricchezza, e la vittoria sulle umiliazioni subite come ricercatore, ma soprattutto l’instaurazione di un Impero del Terrore che potesse renderlo padrone delle esistenze altrui. Svuotandosi di sé, aveva però ottenuto solamente di crearsi il vuoto intorno, in un parossismo di distruzione e autodistruzione. Braccato dalla polizia, ferito e calpestato dal traffico cittadino, circondato da gente terrorizzata e inferocita, nudo nel gelo dell’inverno, estenuato dalla ricerca infruttuosa di cibo e di soldi, Griffin prende coscienza dell’assurdità del suo progetto delirante, e preda della folla che lo vuole linciare, pronuncia le sue ultime parole “Pietà, pietà!”, prima di morire straziato da colpi di bastone e calci, mentre il suo corpo invisibile riprende lentamente ma inesorabilmente la sua forma umana e cadaverica.

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/L-uomo-invisibile-Wells.html

8 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

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WHARTON

EDITH WHARTON, ETHAN FROME – RIZZOLI, MILANO 2018

Con l’introduzione di Harold Bloom e la bella traduzione di Greti Ducci, le edizioni BUR hanno riproposto a un prezzo modico, nella collana Grandi Classici, uno dei più meritatamente famosi romanzi di Edith Wharton, scritto nel 1911: Ethan Frome.

La Wharton, nata a New York nel 1862 e morta in Francia nel 1937, fu la prima donna a vincere nel 1921 il Premio Pulitzer con  L’età dell’innocenza. Discendente di un’antica e ricca famiglia di New York, dopo la separazione dal marito (un banchiere colpito precocemente da disturbi psichici), si trasferì in Francia nel 1907, dedicandosi alla letteratura su consiglio e incoraggiamento dell’amico Henry James. La sua copiosa produzione narrativa ebbe prevalentemente come oggetto i rapporti tra il singolo individuo e la società di appartenenza, regolata da rigidi schemi di comportamento e da una mentalità conservatrice e classista. Nel corso della prima guerra mondiale, la scrittrice si adoperò in favore dei disoccupati e dei rifugiati, ottenendo il riconoscimento della Legion d’Onore francese.

Da Ethan Frome è stato tratto nel 1993 un film diretto da John Madden e interpretato da Liam Neeson e Patricia Arquette.

Harold Bloom nell’introduzione afferma che questo romanzo breve è “la più americana” tra le storie raccontate da Edith Wharton, la più riuscita e certo la più letta: da essa sprigiona il senso tragico di un ambiente immerso non solo nel gelo e nel bianco indifferente dell’inverno, ma nell’apatia dei movimenti al rallentatore dei personaggi, nello squallore di una povertà immodificabile degli interni abitativi, nella “sofferenza cupa, insopportabile e, nel vero senso della parola, inutile” dei due protagonisti. Un dolore che permea il racconto e a cui non ci si può ribellare, trattato dall’autrice con pacato fatalismo, senza alcuna concessione alla retorica e al pietismo.

Ethan Frome si staglia nella narrazione come una figura scultorea, indimenticabile, nella sua muta rassegnazione a un destino feroce: il suo silenzio, la sua disperazione repressa e tormentata ha tuttavia la forza prometeica di una protesta contro il cielo: inascoltata proprio perché disumana. Già nelle prime pagine viene presentato nella sua consistenza fisica, cui si contrappone una reticenza verbale che produce sospetto e timore: “Anche allora, sebbene non fosse più che una rovina di uomo, egli era la figura più imponente e impressionante di Starkfield. Non era solamente la sua altezza che lo distingueva, perché i nativi del luogo si riconoscevano facilmente per la dinoccolata, longilinea figura dalla razza straniera, più tarchiata: era l’aspetto possente e noncurante che aveva quantunque fosse zoppo e ciò gli impedisse ogni passo come lo strappo di una catena. Vi era qualcosa di lugubre e scostante sul suo volto, ed era talmente irrigidito e brizzolato che pensai fosse un vecchio, e rimasi sorpreso di sentire che non aveva più di cinquantadue anni”. L’aspetto inquietante di Ethan non ne rispecchia la scalfibile emotività, la delicatezza dei sentimenti, l’espressa volontà di mettere in secondo piano i propri desideri di fronte a quelli altrui. Le vicende della sua triste esistenza vengono raccontate dai compaesani con reticente pudore, ma anche con rispettosa solidarietà: “malattie e dispiaceri: ecco cosa è stata la porzione ben colma di Ethan, fin dalla prima portata… viveva in una profondità di isolamento morale troppo vasta per potervi accedere casualmente… sembrava far parte del muto, malinconico paesaggio, una incarnazione del suo gelido dolore, con tutto ciò che di caldo e di sensibile vi era in lui ben sepolto sotto la superficie; ma non vi era nulla di ostile nel suo silenzio”.

Ethan da giovane avrebbe voluto studiare ingegneria, si interessava alla tecnica e a ogni aspetto delle scienze cui riusciva ad avvicinarsi con i pochi mezzi messigli a disposizione dall’ambiente contadino e arretrato in cui viveva, nel New England; dapprima la morte del padre, poi la demenza della madre e le difficoltà dell’azienda agricola di famiglia, l’avevano indotto a sposare una lontana parente, più anziana di lui, Zeena ‒ acida, malaticcia e rancorosa ‒, obbligandolo a rinunciare ai suoi sogni di riscatto sociale e culturale. La sua esistenza opaca e rassegnata sembrò improvvisamente rischiararsi con l’arrivo in famiglia di una giovane cugina della moglie, Mattie, tanto gentile e affettuosa quanto incapace di muoversi nella rude concretezza della cerchia parentale in cui era stata accolta. Il sentimento di attrazione reciproca che inevitabilmente nasce tra Ethan e Mattie è avvertito come colpa e trasgressione, quindi negato interiormente e contrastato negli atteggiamenti: si esprime in improvvisi trasalimenti, in impercettibili sguardi incantati, in frasi troncate sul nascere, in involontari ed emozionati contatti di mani. Quando la moglie megera, improvvisamente messa in allerta dalla propria gelosia e malignità, fingendo un aggravarsi della sua salute impone alla ragazza di andarsene da casa per lasciare il posto a una nuova domestica, i due giovani decidono di sacrificare il loro amore davanti all’invincibile dominio della cattiveria. Il loro immolarsi non si risolverà, come sperato, in un definitivo scomparire insieme nella morte, ma in un ulteriore e ancora più tragico destino comune di sofferenza.

Questa vicenda sentimentale, di un’intensità ascetica (come giustamente suggerisce Harold Bloom) trova nello sfondo sociale e naturale in cui si situa una rispondenza che la rende ancora più drammaticamente suggestiva. L’inverno e la neve del paesino di Starkfield congelano i rapporti umani, rendendoli più lenti e più consapevoli, nella maestosità silenziosa e bianca del paesaggio, nella luce implacabile del giorno, nella vastità dei boschi, nella cupezza delle notti: “Dall’altra parte della cinta di abeti si stendeva ondulata dinanzi a loro la campagna aperta, grigia e solitaria sotto le stelle. A volte il sentiero li portava sotto l’ombra di una scarpata o attraverso la sottile oscurità di un gruppo di alberi spogli. Qua e là si vedeva, lontana nei campi, una fattoria, muta e fredda come una pietra tombale. La notte era così silenziosa che sentivano la neve gelata scricchiolare sotto i loro piedi. Il rumore della neve che cadeva da un ramo carico lontano nei boschi echeggiava come un colpo di moschetto, e a un certo punto una volpe abbaiò, e Mattie si strinse vicino a Ethan e accelerò il passo”. Un passo accelerato che porterà entrambi a una rovinosa sciagura, più desiderata che involontaria.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 20 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

WIECHERT

ERNST WIECHERT, MISSA SINE NOMINE – ANCORA, MILANO 2011

Ernst Wiechert, nato nel 1887 nella Prussia orientale, conobbe durante il nazismo la deportazione a Buchenwald per opposizione al regime, e ne trasse sofferta e profonda ispirazione per la sua produzione letteraria. L’ultimo romanzo,questa “Missa sine nomine“, uscita postuma nel 1950, e riproposta al pubblico italiano in diverse edizioni fino ad oggi, riassume un po’ tutti i temi cari al suo autore: la spiritualità intrisa di misticismo, il senso della giustizia e della solidarietà tra gli esseri umani, la lotta contro ogni violenza e sopruso, la contemplazione stupefatta e grata della natura. E il paesaggio che fa da sfondo a questa saga familiare e storica è quello della Germania settentrionale, con le sue nebbie e acquitrini, boschi e canneti, aironi e gru, picchi e civette; mentre le figure che si muovono intorno ai protagonisti rappresentano tutto il mondo che brulicava nel paese tedesco devastato dalla guerra: ex-deportati e collaborazionisti, banditi e parroci, poveri affamati e reduci, costretti a mendicare e a uccidere, a vendicarsi o a perdonare. I personaggi principali sono tre fratelli, i baroni Liljecrona, nobili di stirpe e d’animo, dispersi e divisi da diversi tragici destini nel corso del conflitto mondiale, che ritrovatisi nella loro tenuta e tra i loro contadini alla fine della guerra, cercano in modi differenti di ricostruire la loro esistenza, chi attraverso il lavoro e l’impegno quotidiano e fattivo, chi nella meditazione e nella preghiera. Accanto ad essi, tre figure di donne che, pur nei loro limiti caratteriali e nelle diverse vicende, anche colpevoli, trascorse, li aiutano in questa riscoperta di sé e del mondo. Ma il senso più vero del romanzo, intriso di antica sapienza cristiana (anzi, di pietismo protestante, come suggerisce giustamente nella postafazione il vescovo Diego Coletti) vive tutto in questa volontà di redenzione dal male, di riassorbimento del peccato nel bene, di comprensione e giustificazione talvolta anche troppo ingenuamente edificante.

IBS, 22 gennaio 2012

RECENSIONI

WILDE

OSCAR WILDE, IL DELITTO DI LORD ARTHUR SAVILE – IL GRANO, MESSINA 2016

Nel racconto di Oscar Wilde, pubblicato nel 1891, sembra prevalere “il fascino dell’abisso” (come scrisse Mario Praz), celato all’interno della vivace rappresentazione di uno spaccato di società futile, ambiziosa, volubile, i cui protagonisti si muovono come inconsapevoli e insignificanti pedine del tragico gioco del destino. «Il mondo è un teatro, ma le parti del dramma sono assai mal distribuite… Non saremmo dunque che pezzi di scacchi, mossi da un potere occulto? Non saremmo se non vasi di argilla che il vasaio modella a suo talento per l’onore o per l’onta?».

Lady Windermere, durante uno degli abituali ricevimenti serali a Bentink House, chiede al suo chiromante personale di leggere la mano agli invitati. Lei rifulge di un indiscusso fascino: «Abbagliava con la sua bellezza, col latteo seno opulento, l’azzurro floreale dei grandi occhi, l’oro dei capelli inanellati… Aveva ora quarant’anni, niente figli, e quella disordinata brama del piacere che è il segreto di chi si conserva giovane». I suoi ospiti, garruli e frivoli, sono finanzieri e politici della Londra che conta, dame di alta classe, prelati libertini, artisti e uomini di scienza, fanciulle e giovanotti aspiranti a nozze convenienti: «maschere della rappresentazione sociale», insomma. Tra di loro, il giovane patrizio Lord Arthur Savile, fidanzato con la nobile (d’animo e di lignaggio) Sibilla Merton, osserva nel chiromante a cui porge in lettura la mano, un turbamento evidente, che presto si tramuta in terrore. Ottenute le spiegazioni richieste, fugge nella notte perdendosi tra le strade brulicanti di vizio e povertà della City più povera. «Assassino! Ecco quel che vi aveva letto il chiromante. Assassino! La stessa notte pareva saperlo e il vento desolato glielo ripeteva».

Sconvolto dal nefasto vaticinio che gli preannunciava la prossima attuazione di un omicidio, Arthur rompe il fidanzamento con Sibilla, e decide di sfidare il fato, avvelenando una vecchia zia ed evitando così misfatti più gravi. Quindi lascia Londra e fugge in Italia, per distrarsi e insieme procurarsi un alibi. La vecchia zia nel frattempo muore davvero, ma di morte naturale: pertanto rimane inesaudita e sospesa sul capo di Arthur, che fa rientro in Inghilterra, la terribile profezia del chiromante. Una Londra indaffarata e indifferente appare agli occhi del tormentato protagonista mutevole come i suoi sentimenti, oscillanti tra paura e speranza: «C’era nella delicata gaiezza dell’alba non so che ineffabile emozione; e pensò a tutti i giorni che spuntano in bellezza e tramontano in tempesta. Quei rozzi uomini, dalle voci aspre, dalla grossolana allegria, dal portamento spensierato, che strana Londra vedevano! Una Londra libera dai delitti notturni, sgombra dal fumo del giorno, una città pallida, spettrale, tristemente seminata di tombe. Si domandò che cosa ne pensassero, e se sapessero dei suoi splendori, e delle sue vergogne, delle gioie sonanti e vistose, della fame orrenda, di tutto ciò che vi si distilla, ribolle e rovina nel breve corso d’un giorno… Eppure, non già il mistero lo colpì, bensì la commedia del dolore, la sua assoluta inutilità, la grottesca assenza di senso comune. Come tutto ciò era incoerente, disarmonico! Che discordia stridente fra l’ottimismo superficiale dei tempi correnti e i fatti reali dell’esistenza».

Arthur tenta nuovamente un secondo omicidio, cercando di far saltare in aria con l’esplosivo un anziano e dotto parente appassionato di collezionismo. Sconfitto ancora da circostanze avverse, riuscirà nell’impresa con la vittima meno prevedibile, liberandosi finalmente dal funereo pronostico e impalmando in gloria la sua amata Sibilla. L’ironia feroce di Oscar Wilde suggella la vicenda con il sogghigno divertito rivolto a maghi, astrologi, truffatori di ogni sorta, e ai loro ingenui o sciocchi seguaci.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/IL-DELITTO-DI-LORD-ARTHUR SAVILE.html        6 ottobre 2018

RECENSIONI

WILLIAMS

WILLIAM CARLOS WILLIAMS, A UN DISCEPOLO SOLITARIO – BOMPIANI, MILANO 2023

Nato, vissuto e morto (1883-1963) a Rutherford, una cittadina industriale del New Jersey a una ventina di chilometri da New York, William Carlos Williams esercitò per cinquant’anni la professione di pediatra e ostetrico, dedicandosi alla poesia nel tempo libero dai pressanti impegni lavorativi e familiari, soprattutto scrivendo di notte, mentre nei fine settimana frequentava l’intellighenzia letteraria e artistica statunitense: Ezra Pound, Hilda Doolittle, Wallace Stevens, Marianne Moore, Marcel Duchamp, Francis Picabia. Figlio di immigrati portoricani – il padre era di origini inglesi e iberiche mentre la madre di origini basche ed ebraicoolandesi – parlò spagnolo fino all’adolescenza, e sia il meticciato culturale nativo sia il plurilinguismo diede alla sua scrittura e al suo carattere una particolare vivacità e apertura mentale, incoraggiata dai frequenti viaggi in Europa, dagli studi scientifici così come dagli approfonditi interessi letterari.

Il primo ventennio del ’900 fremeva di nuovi impulsi nell’arte, nella musica, nella letteratura; il modernismo sancì un cambiamento epocale, promuovendo lo stravolgimento delle forme, distruggendo la retorica del romanticismo e abbandonando la prospettiva storicista in favore di un rafforzamento dell’espressività, anche a scapito dell’ideale estetico dell’armonia e della compostezza. In tutte le sue varie correnti (dal simbolismo all’ermetismo, dall’acmeismo al surrealismo) si definì come iconoclasta, anti-decorativo, perseguendo il percorso delle li bere associazioni mentali (lo “stream of consciousness”), la frantumazione della figura e della personalità attraverso il moltiplicarsi dei punti di vista, l’abbandono della sintassi nell’accostamento di termini incongrui, stranieri o de-temporalizzati.

Williams aderì inizialmente alla corrente imagista, e alcune sue poesie furono inserite da Pound nell’antologia Des Imagistes (1914), in cui figuravano Ford Madox Ford, Amy Lowell e James Joyce. Ma anche se questa collaborazione finì per incasellare tutta la sua carriera nell’ambito ristretto dell’imagismo, in realtà si svincolò presto e radicalmente dai temi e dalle forme che più caratterizzavano questo movimento. L’antologia pubblicata da Bompiani raccoglie testi tratti da diversi volumi: da The Tempers del 1913 a Pictures from Brueghel del 1962, premiato con il Pulitzer. Proprio nelle prime sezioni troviamo le tracce più evidenti dell’insegnamento poundiano (visionarietà, concisione, ritmo): “C’è un uccello tra i pioppi! / È il sole! / Le foglie sono pesciolini gialli che nuotano nel fiume. / L’uccello plana e li sfiora, porta il giorno sulle ali. / Febo! / È lui che crea / l’incredibile bagliore tra i pioppi!”

Nelle raccolte successive Williams si distanziò sempre di più da questa eredità primo-novecentesca, facendo della realtà quotidiana (la natura, la presenza femminile, le cose materiali, la propria esperienza di medico, gli ironici autoritratti) l’oggetto principale della sua poesia, anche nella scelta linguistica, che privilegiava un lessico più sensibile alla parlata quotidiana, ai toni e alle cadenze americane, allontanandosi dalla letterarietà britannica, e invece scegliendo strutture più originali, vicini alla tensione poliritmica della musica jazz. La polemica contro l’intellettualismo di Joyce e Eliot si fece pungente, al punto da spingerlo a definire The Waste Land “the great catastrophe”, una reale minaccia per l’identità e lo spirito del Nuovo Mondo. Sia la sua professione, esercitata con dedizione e generosità soprattutto nei confronti degli strati popolari e degli immigrati, sia l’immersione nella vita concreta della sua città, offriva al suo talento poetico naturale materia e ispirazione per osare nuove modalità espressive, estranee alle seduzioni culturali europee, che fornissero “una replica a pugni nudi al greco e al latino”, e un ideale di poetica sintetizzato  nel motto “No ideas  / but in things”, in A sort of a song del 1944: “Che il serpente attenda sotto / la malerba / e la scrittura / sia di parole, lente, svelte, acuminate / nello sferrarsi, mute nell’attesa, / insonni. // – a riconciliare grazie alla metafora / persone e pietre. / Componete. (Niente idee / se non nelle cose) Inventate! / La sassifraga è il mio fiore, spacca / le rocce”.

Fedele a un progetto liberal-democratico della società, e vicino a posizioni di sinistra, la collaborazione alla Partisan Review, trimestrale del Partito Comunista, e ad altre riviste radicali (Blast e New Masses) gli costò nel 1953 la perdita della consulenza alla Library of Congress. A poesie politicamente schierate, talvolta venate di sarcasmo (Proletarian Portrait, Raleigh Was Right, Russia, The Pink Church), dalla metà degli anni ’30 in poi si affiancarono composizioni che esprimevano empatia e rispetto per la sofferenza degli umili (To a Poor Old Woman, The Gentle Negress, To a Dog Injured in the Street, The Mental Hospital Garden, The Dead Baby).

Gli era specialmente consona la descrizione di ambienti e oggetti (“Alla brillante luce del gas / apro il rubinetto in cucina / e guardo l’acqua schizzare / nel lindo lavandino bianco. / Sullo scanalato scolapiatti / da una parte c’è / un bicchiere pieno di prezzemolo / – fresco verde crespo”) quanto quella di personaggi comuni, presi dalla strada (“Intanto, / il vecchio che va in giro / a raccogliere cacche secche di cane / cammina nel canalino di scolo / senza alzare lo sguardo / e il suo incedere / è più maestoso di / quello del Vescovo / che si dirige al pulpito / la domenica”). L’osservazione della natura non scadeva mai nell’idillio retorico: “Vibranti rami arcuati / spingono verso il basso, risucchiando il cielo / che trabocca da dietro, intonacandosi / sul loro sfondo in spiragli stipati, azzurro lapideo / e arancione sporco!”

Dedicava a se stesso ironici autoritratti: “se io nella mia stanza a nord / ballo nudo, grottescamente / davanti allo specchio / sventolando la camicia sulla testa, / cantando sottovoce tra me e me: / “Sono solo, solo. / Sono nato per essere solo, / per me è il massimo così! / Se ammiro le mie braccia, la faccia, / le spalle, i fianchi, il sedere, / sullo sfondo delle tende gialle, chiuse – // Chi potrà mai dire che non sono il genio felice della mia casa?”. E la quotidianità domestica veniva raccontata in toni spiritosamente colloquiali: “i piccoli favori / ricambiati, io e te, una camicia / passata a un uomo nudo dalla / moglie che mostra le gambe, grattami la schiena / per favore, oh e vuota il bugliolo / quando scendi – e avvicinami / quel fiore, io non c’arrivo”,

“SOLO PER FARTI SAPERE // che ho mangiato / le prugne / nella / ghiacciaia // che / probabilmente avevi / serbato / per la colazione // Perdonami / erano squisite / così dolci / e così fresche”.

Massima espressione del coinvolgimento umano di William Carlos Williams nell’ambiente sociale a lui circostante è la pubblicazione di un poema epico in cinque libri, edito tra il 1946 e il 1958, intitolato Paterson, resoconto biografico quasi documentaristico di una città industriale del New Jersey, distante una decina di chilometri dal suo luogo di nascita, con diverse generazioni di abitanti alle prese con la modernizzazione neocapitalista.

Se con Paterson giunse finalmente l’agognato riconoscimento del valore letterario con l’attribuzione nel 1950 del National Book Award for Poetry, fu solo dopo la morte che la critica si decise a prendere finalmente sul serio la sua produzione, con la medaglia d’oro per la poesia del National Institute for Arts and Letters. Una gratificazione dovuta al lavoro saggistico, narrativo, teatrale, oltreché poetico, e all’attività di promozione svolta in favore della nuova generazione di poeti americani della San Francisco Renaissance e della New York School (Allen Ginsberg, Frank O’Hara, John Ashbery, Kenneth Koch…), a testimonianza di quanto la generosità del poeta e dell’uomo si sia prodigata fino all’ultimo in aiuto degli altri. Ne è una riprova anche l’ammonimento offerto al discepolo solitario –aspirante poeta – a osservare le cose (cielo, luna, case, chiese) nella loro reale concretezza, senza abbellimenti artificiosi.

Negli ultimi anni, segnati dalla sofferenza fisica e psichica, i versi di Williams assunsero talvolta i toni della preghiera, con frequenti accenni alla simbologia cristiana, e richiami al bene universale anche nel sentimento erotico privato (Viaggio verso l’amore si intitola la raccolta del 1955), espresso in sentenze moraleggianti: “Siamo miseri mortali / ma l’essere mortali / può opporre resistenza al nostro fato. / Potremmo / grazie a una remota possibilità / persino vincere!”, “Quello che abbiamo sofferto / ci era destinato / perché lo soffrissimo”, “Era l’amore per l’amore, / l’amore che ingoia tutto il resto, / amore riconoscente, / amore della natura, delle persone, / animali, / un amore che dà vita a / gentilezza e bontà / che mi ha commosso / ed è quello che ho visto in te”.

Amore, appunto, è ciò che il curatore del volume Luigi Sampietro sottolinea come elemento più caratterizzante la vita e l’opera di William Carlos Williams. Amore inteso come carità e compassione, che accetta e comprende anche gli aspetti impoetici della realtà, e ne fa oggetto di interesse e bellezza nei versi.

 

© Riproduzione riservata                  «Gli Stati Generali», 29 maggio 2023