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RECENSIONI

VALLERUGO

IDA VALLERUGO, STANZA DI CONFINE – CROCETTI, MILANO 2013

«Stanza» è un sostantivo che ricorre spesso, in questi versi di Ida Vallerugo, poetessa friulana (e il Friuli è terra di confine, segnata da ferite profonde, della storia e della natura). Stanza come interno, non solo fisico, materiale, di una casa in muratura: ma anche spazio protetto dell’anima («e stanza mi faccio, silenzio»; «Ma non sono infinite le stanze del vivere. / Cosa farai in quella stanza lontana, senza porte, disanco-/ rata?»), che l’autrice esplora con la sapienza antica di tutta la sua esistenza, e cultura, sedimentata nelle radici della sua famiglia e della sua gente, ma anche dilatata in luoghi e tempi più vasti, universali. Perciò il deittico «qui»» con cui si apre il volume («Qui ho vissuto») non esclude l’apertura a un esterno altrettanto coinvolgente e imperioso, e il rimando continuo a un’ oscillazione tra dentro e fuori, presente e passato, individuazione e alterità. Le quattro sezioni in cui si articola il libro tracciano infatti un percorso da una Terra di dentro (il terreno sassoso e alluvionale chiamato Magredo, entro il cui perimetro la poetessa ha trascorso quasi tutta la vita) fino alla riscoperta di una Grecia mitica, sognata eppure concreta, attraverso una serie di viaggi mentali e fisici -alcuni in compagnia dell’amato padre- che portano l’autrice a lambire altri orizzonti, da Venezia («E tu, Venezia, argonauta a riva…») alla New York delle Torri Gemelle, da Gaza a Milano all’Acropoli, da Ostia alla Bolivia ad Amsterdam, da Stratford on Avon al Sudafrica: sempre sulle tracce di incontri rivelatori, arricchenti, con poeti e uomini comuni, rivoluzionari e artisti. L’ossatura franta e asciutta di queste poesie mantiene coerentemente alcuni stilemi in tutt’e quattro le parti in cui il libro è suddiviso. Le ripetizioni, ad esempio, talvolta a chiasmo, così frequenti a sottolineare una volontà ribadita di narrazione musicale, epicheggiante («Ma gli occhi non cambiano,  / non cambiano gli occhi»; «Ma l’aria si divide, si divide l’aria?»; «Non ora, luna / non ora»; «Chi cammina, chi cammina»; «la fiamma ardeva / la fiamma ardeva»; «Siamo sogni, siamo sogni»; «Le stelle sideree, le sideree stelle»; «L’onda, la prua; la prua, l’onda»). O le frequentissime interrogazioni, spesso retoriche, che l’autrice rivolge più a se stessa che al lettore. E ancora la predilezione per versi scanditi da tre punti fermi, a sezionare un elenco di nomi: «Il passo. Le pietre. Le acque lontane»; «Bianche. Accostate. Di ferro.»; «Gli acrobati. La tigre. Il poeta»; «Fiorita. Salda. Subito sparita». Anche le conclusioni di molte poesie si distinguono per la scelta reiterata (che può ricordare l’ Ungaretti di Sentimento del tempo) di evidenziare l’ultimo verso, staccandolo graficamente dal corpo della poesia, a ribadirne il tono asseverativo, definitorio: «Guarda un momento il mondo»; «E non è l’eternità»; «Ti torno al mare»; «E siamo ancora insieme»; «E volevo un canto»; «E in me ogni azzurro grida».
Nella prefazione, il poeta Pierluigi Cappello, amico corregionale dell’autrice («è mio fratellastro, questo poeta, / figli noi di donna trascurata») parla a proposito dello stile di Ida Vallerugo di «paradossale complessità…straordinaria evidenza delle immagini…scrittura trasparente e oracolare insieme»; a lui fa eco nella postfazione la curatrice Anna De Simone, commentando «una poesia visionaria e teatralizzante…di ossimorica violenta dolcezza». Un esempio di questo contrasto tra forza e tenerezza potrebbe forse risaltare emblematicamente nella poesia Corridoi, di cui riportiamo inizio e conclusione: «In quanti corridoi ho camminato / a luoghi di passaggio destinata. / E nei chiostri dei templi. /  Ma cosa ci facevo lì se il dio era fuori, nei volti vostri? //…E insiste l’anima unghia col suo fare misterioso. / Sì, forse anche di là c’è qualcuno a scalfire / incessantemente. Tu, Assente?// E in corridoi di vetro ho camminato, i muri più duri».

 

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www.sololibri.net/Stanza-di-confine-Ida-Vallerugo.html   19 agosto 2015

 

 

RECENSIONI

VALLORTIGARA

GIORGIO VALLORTIGARA, PENSIERI DELLA MOSCA CON LA TESTA STORTA

ADELPHI, MILANO 2021

Giorgio Vallortigara (Rovereto, 1959), professore ordinario di neuroscienze all’Università di Trento e docente all’Università del New England in Australia, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche internazionali e di volumi divulgativi di successo. Collabora inoltre alle pagine culturali di varie testate giornalistiche con articoli sul comportamento animale, e più specificamente sulla cognizione numerica e sulla predisposizione biologica al riconoscimento di agenti animati negli uccelli, nei pesci e negli invertebrati.

Nel volume recentemente pubblicato da Adelphi, Pensieri della mosca con la testa storta, Vallortigara avanza una tesi originale, in controtendenza rispetto alle formulazioni più ortodosse della filosofia della mente. Tradizionalmente si riteneva infatti che la coscienza fosse legata alla quantità e alla complessità degli elementi del sistema nervoso, cioè che a un cervello più voluminoso corrispondesse una maggiore qualità intellettiva. Confrontando i risultati di studi recenti sull’attività cognitiva di organismi dotati di cervelli miniaturizzati (api o mosche, ad esempio) l’autore di questo affascinante volume afferma che anche gli esseri viventi più minuscoli sono forniti di facoltà basilari di pensiero, determinate dalla capacità di sentire e di muoversi.

Qualcosa ci accomuna, noi esseri umani dominatori del mondo, con le bestioline tormentanti che ci infastidiscono con il loro ronzio, le zampette pelose posate sulla tovaglia, le punzecchiature brucianti. Ovviamente non hanno la nostra intelligenza complessa, ma non sono prive di una loro specifica consapevolezza: sono infatti creature che hanno esperienza del mondo, creature senzienti che nel corso della storia naturale hanno incorporato alcuni semplici stratagemmi per risolvere problemi specifici atti a garantirne la sopravvivenza.

Un’introduzione e ventitré capitoli ci immettono, attraverso una scrittura sapiente e ironica, nell’universo minimo e immenso in cui si muovono bruchi, farfalle, mosche, lumache, ragni, formiche, pidocchi, scarafaggi, api… Che dalla legislazione europea non sono nemmeno considerati animali, e pertanto non vengono tutelati nel loro diritto alla vita. Eppure, “un’ape possiede nel ganglio encefalico novecentosessantamila neuroni. Con questo bagaglio limitato riesce a compiere prodezze cognitive” di discriminazione, navigazione e memoria spaziale, apprendimento e riconoscimento di luoghi e cose.

Gli imenotteri devono queste abilità ai corpi fungiformi posti nelle porzioni dorsali del cervello, che conferiscono loro strutture nervose associative in cui convergono le informazioni provenienti dalle vie sensoriali visive e olfattive, da utilizzare per riconoscere le fonti di cibo, allontanarsi e rientrare nel nido, intessere rapporti di socialità. Vespe e api (come succede ai nostri neonati e a molte specie di primati), sottoposte a diversi test di discriminazione, riconoscono le sagome delle facce (i due punti neri degli occhi e il taglio della bocca sottostante) prima e meglio di altre figure geometriche o di fantasia, a riprova della loro predisposizione all’interazione con gruppi sociali (le galline, sono addirittura in grado di ricordare centinaia di facce di esseri umani oltre a quelle di altre galline!)

Numerose e dettagliate sono le descrizioni di esperimenti di laboratorio riportati da Vallortigara per suffragare la sua ipotesi di partenza: se anche insetti dai cervelli minuscoli evidenziano componenti basilari dell’intelligenza sociale, forse questa dote non è stato il reale motore della encefalizzazione della specie umana. Il substrato più plausibile per l’insorgere delle abilità sociali va piuttosto ricercato in una caratteristica essenziale delle cellule: la capacità di sentire. Una capacità che si sarebbe manifestata per la prima volta quando, con l’acquisizione del movimento volontario, gli organismi elementari hanno avvertito la necessità di distinguere tra la stimolazione prodotta dalla propria attività e quella procurata dal mondo esterno.

È molto interessante, in questo volume, il continuo rapportare dati ed esperienze del mondo animale a quello umano. Sapere, ad esempio, che i cervelli delle varie specie aumentano di dimensione nelle aree dedicate a funzioni specializzate (quelle uditive per pipistrelli e delfini per finalità di eco-localizzazione; quelle della memoria per gli animali che fanno provviste di cibo, da recuperare poi nei nascondigli…). Forse per questo gli esseri umani, in relazione alla maggiore complessità dei loro rapporti sociali, hanno cervelli più voluminosi (1300 cc, con ottantasei miliardi di neuroni cerebrali, sviluppatisi circa 250.000 anni fa, a partire dal Pleistocene)? Eppure il numero massimo di individui con i quali possiamo mantenere relazioni interpersonali stabili, sembra limitarsi – per l’estensione della nostra corteccia cerebrale – a circa centocinquanta. La mosca Eristalis dal collo mobile che dà il titolo al libro, il grillo a cui si strappano le zampe, il paziente schizofrenico che ode le voci e avverte alterati i confini del proprio corpo, manifestano tutti un minimo comune denominatore di reazioni cerebrali quando vengono sottoposti a stimoli esterni.

Tante le cose curiose raccontate riguardo all’encefalo di animali ed esseri umani. Per esempio, chi sapeva che il nostro cervello costituisce appena il 2 per cento del peso del corpo, ma consuma il 20 per cento delle risorse energetiche dell’intero organismo, e che al suo interno il cervelletto, pur costituendo il 10 per cento della massa cere brale, contiene l’80 per cento di tutti i nostri neuroni? E chi l’avrebbe detto che quello della megattera pesa sette chili, mentre quello del delfino dell’Indo solo un etto e mezzo? Che pappagalli e corvi hanno un numero di neuroni che è circa il doppio di quello di scimmie di peso simile? A dimostrazione che non esiste correlazione tra la grandezza dei cervelli e la loro sofisticatezza cognitiva, l’autore afferma: “cervelli piccoli, in termini di numero assoluto di neuroni, possono comunque funzionare bene se hanno dei vantaggi circuitali rispetto ai cervelli grandi, dotati di un maggior     numero assoluto di neuroni”.

Il surplus di neuroni dei grandi cervelli pare non abbia nulla a che fare con l’elaborazione delle informazioni: i neuroni “che avanzano” non servono per il pensiero, sono lì invece      per la pura gestione delle memorie. Oggi gli scienziati discutono se la grandezza del cervello risponda allo sviluppo di competenze specializzate, che si sono affinate nel corso di molto tempo, o se il cervello abbia a disposizione molto più materiale del necessario, per consentire il mantenimento di una buo na funzionalità cognitiva in età avanzata (generosità verso i nonni!).

Ma la domanda più intrigante che l’autore si pone è su quando e come sia nata la coscienza nelle creature viventi. Pare ormai certo che le cellule nei corpi primordiali abbiano iniziato a produrre una risposta localizzata, reattiva a uno stimolo esterno nocivo, attraverso due diverse modalità: la sensazione, che accade all’interno dell’organismo, e la percezione che accade all’esterno, distinguendo tra la stimolazione autoprodotta dall’attività del proprio sé e quella che gli viene invece procurata dal resto del mondo, dal non-sé. La percezione di uno stimolo esterno (una luce, un odore, una minaccia climatica), producendo una sensazione di protezione o di espansione dentro la cellula – a seconda che venga avvertita come pericolosa o benefica –, la induce a reagire modificando il suo stato corporeo, e attivando un movimento. “Per avere il genere di movimento attivo che renda possibile ‘sentire’ la stimolazione è necessario disporre di un distinto sistema recettoriale che agisca su un distinto sistema motorio. Ci vogliono insomma neuroni e muscoli”.

Le forme essenziali del pensiero, già dagli albori della costituzione dei cervelli, sono quindi le stesse in tutti gli organismi animali, nella loro manifestazione immediata e implicita, necessitando di un numero modesto di cellule nervose; e si sono perfezionate nell’arco di millenni più per quantità che per qualità.

Concludendo la sua avvincente narrazione, Giorgio Vallortigara espone (con la modestia di chi pone quesiti senza avere la presunzione di avere raggiunto una verità definitiva e incontestabile) la sua convinzione: che la coscienza non sia misteriosamente emersa solo al raggiungimento di un certo grado di complessità del sistema nervoso, come si è ritenuto comunemente finora,  ma che  “semplici computazioni condotte da poche, umili e umide cellule” le abbiano fornito un substrato plausibile nella sua manifestazione essenziale: la capacità di sentire e di avere esperienze.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 marzo 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

VAN GULIK

ROBERT VAN GULIK, IL DELITTO ALLO STAGNO DEI LOTI – OBARRAO, MILANO 2020

Lo scrittore olandese Robert van Gulik (1910-1967) era anche antropologo e musicista. Esperto conoscitore della Cina, delle sue tradizioni e dell’indole dei suoi abitanti, aveva trascorso l’infanzia a Giava, si era specializzato in sinologia all’Università di Leiden e, dopo aver conseguito il dottorato in Filosofia a Utrecht, aveva intrapreso la carriera diplomatica in India, Cina, Giappone, Malesia, in Africa e negli Stati Uniti. Tornato in Cina nel 1943, si era sposato con una ragazza di una nobile famiglia di mandarini. Definito dalla critica “un uomo occidentale con il cuore orientale”; conosceva alla perfezione varie lingue europee, asiatiche e africane. Queste sue eccezionali qualità e competenze gli diedero l’opportunità di cimentarsi non solo in una raffinata saggistica (Adelphi ha pubblicato due suoi testi fondamentali Erotic colour prints of the Ming period e La vita sessuale nell’antica Cina), ma anche con l’invenzione di numerosi romanzi e racconti gialli, ambientati appunto nel continente asiatico, e raccolti nella serie “I casi del giudice Dee”, oggi pubblicati dall’editrice milanese ObarraO.

L’ebook di cui ci interessiamo, Il delitto allo stagno dei loti, è un’elegante short story che narra di un caso avvenuto nell’anno 667 d.C. nell’antica cittadina lacustre di Han-yuan.

Il giudice Dee Jen-djieh, si ritrova a indagare su due crimini: la rapina di dodici barre d’oro al Messo del Tesoro Imperiale e l’assassinio del poeta sessantenne Meng Lan.  Costui, dopo la morte della moglie si era ritirato a vivere nella sua modesta proprietà dietro il Quartiere dei Salici, abitato promiscuamente da personaggi piuttosto equivoci. Aveva quindi comprato e sposato una cortigiana venticinquenne, con cui condivideva una tranquilla vita coniugale, frequentata da pochi amici, ma assillata dalle continue richieste di soldi del giovane fratello della donna. Il poeta era stato accoltellato al cuore mentre contemplava serenamente la luna dal padiglione del suo giardino, posto al centro di uno stagno cosparso di loti, in cui gracchiavano rumorosamente molte rane. Ed è proprio il gracidio delle rane a permettere al giudice Dee di risolvere i due misfatti, il furto e l’omicidio, che si rivelano intrecciati agli interessi economici di un rispettabile conoscente della coppia.

Il racconto, lontano dalle tipiche atmosfere di suspense dei gialli tradizionali, ha però il merito di essere scritto con raffinatezza e un sottile humor, attento alle sfumature caratteriali dei personaggi. Inoltre, introduce i lettori alla scoperta di un autore poliedrico e poco noto, e al lavoro della piccola e vivace editrice ObarraO, accurata nella grafica e innovativa nell’esplorazione delle culture orientali.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Il-delitto-stagno-loti-Dee-Gulik     3 marzo 2021

 

 

 

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, OLTRE IL CRISTIANESIMO – BOMPIANI, MILANO 2013

In questo importante saggio Marco Vannini, il più noto e stimato studioso italiano del misticismo e della tradizione spirituale cristiana, torna sui temi che va approfondendo da più di quarant’anni. Il volume, suddiviso in quattro sezioni, si apre con una puntuale e appassionata disamina delle tesi eckhartiane, il cui nucleo fondamentale si può riassumere in poche citazioni: «Nessuno è ricco di Dio, se non è completamente morto a se stesso»»; «Vigila su di te, e, non appena trovi te stesso, rinuncia a te stesso; questa è la cosa migliore che tu possa fare». La rinuncia, quindi, alla propria egoità, all’amor sui (volontà di essere e di avere), quale primo indispensabile passo verso la libertà, interiore ed esteriore, e verso il raggiungimento della gioia, della pace, della beatitudine.

«Il perfetto distacco non vuole né questo né quello… lascia essere tutte le cose davanti a sé, senza importunarle». Togliere dall’animo il desiderio di appropriazione: non solo delle cose e delle passioni, del successo e della considerazione di sé, ma anche della volontà di conoscere e persino del sentimento religioso.
«Prego Dio che mi liberi di Dio», scriveva Eckhart. Recuperando tutto un filone di pensiero spirituale che da Eraclito, Platone e Plotino, attraverso i Vangeli, S. Paolo e Sant’Agostino arriva alla mistica occidentale (Eckhart, appunto, e poi Taulero, Silesius, Margherita Porete), approdando infine ai pensatori moderni e contemporanei (Kant, Hegel, Hölderlin, Schopenhauer, Nietzsche e Simone Weil), Marco Vannini supera la concezione tradizionale di un cristianesimo corrotto dalla teologia, dai dogmi, dalle istituzioni religiose che hanno voluto impadronirsi di Dio per metterlo al servizio di una società, di una morale, di un singolo popolo, degradandolo così a falso mito da utilizzare secondo i propri bisogni e fini. Contesta anche l’idea più sentimentale e psicologica che ci facciamo della divinità, intesa solo come esperienza interiore arricchente o difensiva: un dio-ente, dio-idolo, storico e finito. Dio è invece «uno ed eterno, e perciò opposto a corpo, molteplicità, temporalità», è «spirito, che non ha un dove, non è nel tempo e nemmeno nell’estensione», non è creato né creatore: la sua esistenza «è tutta data, qui, nella luce, nella pace che è e che siamo». E’ l’inesprimibile libertà del tutto, trascendente e immanente insieme, estraneo a ogni dualità o alterità.
Quello che può aiutare l’uomo contemporaneo, sedotto dalle mille sirene dello psichismo e della realizzazione sociale (economica, culturale, sessuale…) a liberarsi dai condizionamenti di una fede fasulla e delle derive menzognere cui sono approdati i vari cristianesimi, è un’immersione nella spiritualità orientale, un “Passaggio in India”, che sappia recuperare la saggezza delle Upanishad, del brahmanesimo e del buddhismo, di cui in questo volume vengono illustrati i principi fondamentali: ancora una volta il distacco e la meditazione, per arrivare all’ illuminazione.
Esemplare in questo senso è stata la vita del monaco benedettino francese Henri Le Saux, di cui Vannini racconta nell’ultimo corposo capitolo l’appassionante vicenda umana e spirituale, usando come traccia il suo Diario. Nato in Bretagna nel 1910, Le Saux fu ordinato sacerdote nel 1935 e, dopo controverse vicende umane, si trasferì in India nel 1948, con l’intento di conciliare la regola benedettina con le forme della spiritualità hindū. Dall’India non fece più ritorno, e lì venne sepolto nel 1973. Ebbe occasione di frequentare i saggi Ramana Maharshi, Sri Poonja, Sri Gnanananda, convincendosi della superiorità delle Upanishad e della Bhagavadgita rispetto ai testi della tradizione ebraico-cristiana, fino ad arrivare a scrivere: «Ho vissuto le mie ore migliori da hindū. Il vedānta mi ha donato ciò che non mi ha mai donato la Chiesa». Combattuto da un doloroso travaglio interiore, rimase comunque cristiano: «Che lo voglia o no, io sono profondamente legato a Gesù Cristo e dunque alla koinonìa della Chiesa. E’ in lui che il ‘mistero’ si è rivelato a me dal momento del mio risveglio a me e al mondo…E’ nel suo specchio che io mi sono riconosciuto, adorandolo, amandolo, consacrandomi a lui».

Vannini ritrova in Le Saux la stessa illuminante e umile sapienza dei mistici medievali, lo stesso loro rifiuto della temporalità e della corporalità, l’esigenza del distacco dal fenomenico e dell’immersione nel fondo della propria anima: «Perché la nostra realizzazione è al di dentro. Noi non siamo per il domani, né per l’oggi, né per il futuro prossimo, ma per l’istante presente… La salvezza è ‘uscire dal tempo’. Accedere all’eternità». In nome di Dio («Amare Dio senza attaccamento») bisogna superare tutte le realizzazioni storiche della varie religioni, dei riti, delle formule, delle superstizioni, accogliendo in sé la Grazia, e l’unica vera proposta di libertà: quella dello Spirito.

 

«incroci on line», 22 luglio 2015

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, ALL’ULTIMO PAPA – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

Il filosofo e teologo Marco Vannini ha dedicato il suo più recente – intenso e coraggiosissimo – libro a Joseph Ratzinger, che definisce, con affettuoso rispetto e ammirata solidarietà, «l’ultimo papa»: il solo che abbia tentato di salvare ciò che rimane del cristianesimo dalla barbarie attuale «dell’ignoranza, della volgarità, della menzogna», scegliendo con coerenza il cammino dell’interiorità, del logos, della cultura rispetto alla religione sociale, esteriorizzata, politicizzata, di cui sono stati e sono prometeici rappresentanti i due pontefici che l’hanno preceduto e seguito. Le sue dimissioni dal soglio papale, oltreché temerarie e scandalose agli occhi dei più, sono parse inevitabili:

«Benedetto XVI si è trovato stretto nella contraddizione tra la necessità di difendere la credenza tradizionale, soprattutto per le masse popolari, e il doveroso rigetto di una religione ridotta a mitologia, cui è ignota l’esperienza dello spirito… Far passare il cristianesimo da mitologia a conoscenza dello spirito nello spirito deve essergli apparso un compito quasi impossibile, o tale comunque da richiedere forze molto superiori a quelle di un vecchio papa».

Vannini è uno dei massimi studiosi e interpreti europei della mistica medievale, traduttore e commentatore di Meister Eckhart e di Silesius, profondo conoscitore di tutta la filosofia occidentale e orientale che si richiama alla spiritualità: dalle Upanishad al Buddhismo, da Platone a Plotino e Porfirio, da S. Paolo agli gnostici a Sant’Agostino, da Margherita Porete a Sebastian Franck a Spinoza, fino ai pensatori dell’ottocento (Hegel, Schopenhauer, Nietzsche) e del novecento (Wittgenstein, Simone Weil, Etty Hillesum, Le Saux).
Le sette lettere indirizzate a Ratzinger costituiscono una summa del pensiero di Vannini, e un invito all’approfondimento di temi e verità trascurate, censurate, diplomaticamente edulcorate dalla teologia contemporanea. Nella prima sono ribadite le tesi più note del filosofo toscano: il suo richiamo appassionato a una riscoperta del ruolo fondamentale dello spirito («la conoscenza dello spirito non è solo conoscenza dell’essenza di noi stessi, ma anche la conoscenza dell’universale, e dunque la conoscenza di Dio»); la necessità di svuotarsi del proprio sé, dell’egoità, dei desideri e delle volizioni; il dovere di vivere l’assoluto nel presente, nell’istante in cui siamo immersi; la fede come distacco dal molteplice e dalle opinioni comuni; una diversa concezione di Dio, «privo di ogni attributo, pura luce, …né padre, né signore, né creatore, né provvidenza, né altro»; il rifiuto di una Chiesa «che ha imboccato la strada di una credenza esteriore, storica, sociale, scartando quella dell’interiorità, del distacco, del vuoto, senza la quale non v’è spirito». Seguendo l’insegnamento dei mistici, dovremmo tornare all’Uno, lasciar morire il nostro illusorio io, cercare in noi stessi la quiete più profonda, semplicemente scegliendo di “essere”, in sintonia con il tutto.
Queste indicazioni di principio vengono riprese anche nelle altre sei lettere, che hanno come argomento l’amore (inteso come tenerezza, intimità, amicizia, rifiuto della passione e del possesso: «Chi lega l’amore a un oggetto è in realtà un servo»), la grazia e la libertà (e qui sono forse le pagine più poeticamente ispirate del volume), la giustizia e la vita eterna (con l’invito a riscoprirsi equi, a tutto comprendere senza mai giudicare, riconsiderando poi i concetti di spazio e tempo secondo le ultime acquisizioni della fisica per meglio intendere il significato di eternità e immortalità).
Ma ci sono due lettere, la terza e la sesta, sulla verità della fede e sulla fine delle menzogne, che Vannini scrive con particolare vis polemica, con appassionato fervore in difesa della verità. In entrambe esorta i cristiani a tornare alle radici del messaggio evangelico, a riscoprire la realtà storica di Gesù al di là di ogni falsificazione. Le celebrazioni di Natale e Pasqua vengono giustamente ricondotte nell’alveo di festività pagane legate a ricorrenze stagionali, altre credenze religiose (come la resurrezione dei corpi dopo la morte) sono bollate come miti consolatori, il persistere di alcuni riti risultano frutto di ataviche superstizioni, le leggende bibliche paiono ricostruzioni menzognere funzionali a scopi politico-sociali. Sono affermazioni forti, addirittura indignate, quelle a cui il rigore intellettuale di Marco Vannini si affida per ribadire la sua condanna di un cristianesimo ormai ridotto a erede del formalismo ebraico, «tutto appiattito sul sociale, tutto rivolto alla costruzione di una sorta di regno di Dio sulla terra, …precipitato nella chiacchiera», nella falsa dogmatica, nell’idolatria del potere, in «templi, immagini, feste, sacrifici e cerimonie» che nulla hanno più a che vedere con il Dio che è da cercare nel profondo di noi, nel dio che noi stessi siamo.
Per cui, «Caro papa Benedetto», è a te che l’autore rivolge il suo plauso: «come a chi, in tempi difficili, ha compiuto il proprio dovere», scegliendo di ritirarsi in silenzio per salvare la fede cristiana.

 

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www.sololibri.net/All-Ultimo-Papa-Marco-Vannini.html     14 dicembre 2015

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VANNINI

MARCO VANNINI, SULLA GRAZIA – LE LETTERE, FIRENZE 2008

In questo “piccolo libro”, come viene definito dall’autore nella nota conclusiva, sono raccolti sessanta pensieri “debitori a molti autori, antichi e moderni”, dagli Evangelisti, a San Paolo, ai mistici (Eckhart in primis, ma anche san Giovanni della Croce) fino ai filosofi greci e moderni. Marco Vannini propone qui una fenomenologia della grazia, “via che conduce al divino”, “kindly light”, come la chiama John Henry Newman nella delicata poesia che funge da esergo al volume. Cos’è quindi la grazia, questa “mirabile forza che trasforma il finito nell’infinito, il relativo nell’assoluto”? E’ novità (“una vita nuova, un nuovo sguardo, un uomo nuovo, una nuova nascita, una natura nuova…”); è verità, universalità, carità e libertà; è gratuità (“è senza perché…non ha un fine estraneo e diverso dal suo essere stesso grazia, bellezza e dolcezza”); è affidamento e fiducia (“confidenza nel Bene al di sopra di ogni volizione egoistica”); è gratitudine (“è solo un grazie. Nella grazia non v’è preghiera, ma solo un rendere grazie”). Rapporto con l’eterno, amore dell’Assoluto, capacità di ascolto e attenzione a tutte le cose, distacco dal proprio volere sono altri suoi fondamentali attributi; come la letizia, eliminazione di ogni pena: “tutto diventa per così dire festivo, come se ogni giorno, ogni istante fosse una festa”. E in un senso più concettuale, “La grazia libera da ogni opinione, da ogni legame. Essa risolve, dissolve ogni contenuto… libera da ogni ‘religio’ in quanto credenza, preteso sapere che è estremo legame ed estrema affermazione dell’ego”. Vita nel presente, senza rimpianti per il passato o attese del futuro, essa “va, per Dio, oltre Dio”, il dio-idolo che divide e serve al nostro potere, dio della legge e della superstizione, dio dell’istituzione. “Oceano di luce” che oltrepassa i confini di spazio e tempo, e supera ogni individualità particolaristica: in un’eternità in cui, bernanosianamente, “tutto è grazia”.

IBS, 7 marzo 2014

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, MISTICA, PSICOLOGIA, TEOLOGIA – LE LETTERE, FIRENZE 2019

“Non ci sono date oggi che menzogne”, scriveva Simone Weil. Questa sua lapidaria e sconfortata constatazione viene riportata come esergo nell’ultimo libro di Marco Vannini, in cui si contestano due false scienze della contemporaneità, la psicologia e la teologia, assurte a mito e/o verità rivelata nell’immaginario collettivo, nei media e nella pubblicistica culturale totalizzante (o totalitaria?).

Marco Vannini (San Piero a Sieve, 1948) è oggi considerato il più importante studioso italiano di mistica cristiana e di Meister Eckhart, di cui ha curato tutte le opere, latine e tedesche. Si è occupato e ha tradotto molti autori spirituali (Agostino, Giovanni Gerson, François de Fénelon, Margherita Porete, Giovanni Taulero, Anonimo Francofortese, Martin Lutero, Angelus Silesius), indagando la fenomenologia mistica dal punto di vista teoretico e storico anche in altre religioni: induismo, buddismo, ebraismo, islamismo. Del cristianesimo ha messo in rilievo il rapporto con la fede popolare e con la ragione, collaborando a inchieste condotte con autori dichiaratamente atei, come Corrado Augias e Massimo Polidoro. L’ottica originale e innovativa con cui ha guardato all’esperienza mistica ‒ svincolandola da tutte le dottrine e pratiche religiose, e facendone invece un metodo di conoscenza e di libertà spirituale ‒ ha suscitato dibattiti e contestazioni da parte dell’ortodossia cattolica, con cui lo studioso fiorentino non ha mai cessato di confrontarsi e di polemizzare, convinto che per essere fedeli al messaggio evangelico si debba andare oltre lo stesso cristianesimo e i suoi condizionamenti storico-ideologici (cfr. Oltre il cristianesimo, Bompiani 2013): dogmi, encicliche, celebrazioni, istituzioni, riti, miracoli.

In questo nuovo volume Vannini riprende i temi che gli sono propri: il richiamo al ruolo fondamentale dello spirito, la necessità di svuotarsi della propria egoità, la fede come allontanamento dalle opinioni comuni, la concezione di un Dio privo di attributi, pura luce. Rifiutando una Chiesa che privilegia un credo esteriore, sociale, politicizzato, e una fede consolatoria e superstiziosa, ribadisce con forza la convinzione che la verità possa essere raggiunta solo attraverso lo scavo nell’interiorità e il distacco da ciò che è molteplice, vano, perituro. Se la mistica va intesa come ricerca della libertà interiore ed esteriore, al di là di ogni suggestione culturale o morale, due filosofi ne sono stati profetici portavoce: Eraclito e Nietzsche, entrambi consapevoli che non è la minima vicenda umana dell’individuo a dover essere indagata e perseguita, né ciò che nella storia è relativo e contingente, ma che è necessario trascendere materia e tempo, contingenza e finitezza, per risvegliarsi allo spirito.

Proprio lo Spirito (“l’elemento essenziale dell’anima, il più elevato e, insieme, il più profondo”) è il grande trascurato, il grande esiliato dalla cultura moderna. Invece è da esso che si deve ripartire per trasformarsi ontologicamente, per “essere l’essere”, fatto di intelligenza e amore universale. Ciò che ci distrae dall’accogliere in noi l’eterno che siamo e l’eterno che è, sono le sirene dell’egomania, gli abbagli menzogneri del prestigio personale ed economico, l’adesione a modelli imposti mediaticamente. “Due sono oggi le fonti primarie della menzogna in cui siamo immersi: psicologia e teologia. La prima in quanto falsa scienza dell’anima; la seconda in quanto falsa scienza di Dio… Fonti primarie dell’alienazione contemporanea”.

Durissime e derisorie sono le parole con cui Vannini demolisce psicologia e psicanalisi, discipline ingannevoli che illudono le persone di poter potenziare il proprio mutevole io, che in realtà è solo un agglomerato di contenuti mentali ‒ labili e condizionati dall’esterno ‒, con il miraggio di un’affermazione sociale e di un’emancipazione da complessi fisici e caratteriali, e con l’esaltazione del corpo e della sessualità. Nel ridimensionare l’invenzione novecentesca di Freud, l’autore si rifà non solo agli insegnamenti dei mistici, ma anche al pensiero di filosofi classici e moderni (Platone, Plotino, Böhme, Spinoza, La Rochefoucauld, Hegel, Kierkegaard, Wittgenstein, Weil, Guénon), con la certezza che l’ipertrofia dell’ego non porta alcun appagamento, e anzi finisce per ingabbiare nelle pastoie della soggettività e della volontà auto-affermativa. Al contrario, è proprio nell’uscire dall’amor sui, nel distacco dalle passioni e dagli accidenti esteriori, che si può ambire alla pace interiore, alla liberazione da ogni dipendenza ambientale e culturale: “Il mio regno non è di questo mondo” (Gv18,26); “Distàccati da tutto” (Plotino); “Se vuoi udire in te la Parola eterna / Devi prima del tutto sottrarti all’udire” (Pellegrino Cherubico); “La cosa migliore per l’anima è stare in un libero nulla” (Eckhart); “Non ottiene l’uomo perfetta beatitudine, / Se prima l’unità non ha risucchiato l’alterità” (Silesius); “Chiunque entri dicendo ‘io sono il Tal dei tali’, lo percuoterò sul viso” (Rūmī).

Tra i condizionamenti più pericolosi, Marco Vannini segnala quelli suggeriti o addirittura prescritti dalle religioni ufficiali, dalla teologia, dalla psico-teologia contemporanea, che hanno cercato di impadronirsi di Dio per metterlo al servizio di una società, di una morale, di un singolo popolo, degradandolo così a idolo da utilizzare secondo i propri bisogni e fini. L’uso politico della religione, finalizzato al conseguimento e al mantenimento del potere, è evidente sia nell’ebraismo che nell’islamismo, nati entrambi da un’idea di conquista e dalla pretesa di essere gli unici depositari della verità.  Dopo aver creato artificiosamente leggende fondative “per porsi al riparo dalla ragione”,  queste dottrine hanno parlato con presuntuosa arroganza di Dio (che è inconoscibile) o addirittura a nome di Dio.

Anche il cristianesimo, che pure si manifesta in una dimensione più umana, con un Dio Padre che offre la vita del Figlio per la salvezza delle creature, mantiene in sé caratteri di affermatività dell’ego, di appropriazione e attaccamento: nella preghiera di esaudimento, nel desiderio di sopravvivenza ultraterrena, nel concetto di una divinità personale pronta all’ascolto e all’intervento, nella speranza di resurrezione come ripristino della corporeità, nel miracolismo come evento magico.  Se Gesù predicava il distacco dalla carne e dalla psiche e la rinuncia a sé stessi per nascere a una nuova vita, il cristianesimo odierno si è invece ridotto a filantropia, melenso sentimentalismo e generico moralismo, poiché privilegia l’aspetto sociale e temporale del messaggio evangelico, anziché il superamento della particolarità che, come insegna la mistica, libera lo Spirito in un assoluto luminoso e lieve, nell’eternità del tutto.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 14 maggio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VANNINI

MARCO VANNINI, SULLA RELIGIONE VERA. RILEGGERE AGOSTINO – LINDAU, TORINO

 Il filosofo Marco Vannini (San Piero a Sieve, 1948) ha curato la traduzione italiana di tutte le opere, tedesche e latine, di Meister Eckhart, nonché di altri mistici antichi, medievali e moderni, dedicando loro numerosi studi. Autore di un’edizione bilingue del De vera religione di Agostino (2012) e di un Invito al pensiero di sant’Agostino (2014), nella sua ultima pubblicazione edita da Lindau si occupa ancora del Padre della Chiesa di Tagaste, con un volume intitolato Sulla religione vera. Rileggere Agostino, rielaborazione de La religione della ragione, uscito da Bruno Mondadori nel 2007.

Due sono le tesi fondamentali di questo nuovo saggio: che la Verità risieda all’interno dell’animo umano e che la fede cristiana coincida con la filosofia. Esaminiamo quindi questi concetti-base del volume, così come Vannini va analizzandoli nel corso delle pagine. Nell’estesa introduzione, l’autore stigmatizza il relativismo contemporaneo che induce le persone a crearsi delle credenze, sia in ambito religioso che in quello filosofico, sulla base di inclinazioni, valori e bisogni personali, avendo a progetto di vita esclusivamente la ricerca di una aleatoria felicità individuale, come viene suggerito da un diffuso ed effimero psicologismo, che non riconosce altre realtà se non il raggiungimento del benessere fisico e mentale della persona. Da questa rincorsa alla soddisfazione materiale derivano non solo le inquietudini e le fragilità che caratterizzano la società contemporanea (nonostante il proliferare di terapie, addestramenti e dottrine di ogni tipo), ma anche “lo svilimento del cristianesimo verso un banale umanesimo e filantropismo, con la perdita progressiva dell’elemento suo proprio di rinascita nello spirito”.

Parlare nel contesto attuale di “religione vera” e di “filosofia vera”, può richiamare negativamente un’idea di fondamentalismo, di fideismo acritico e intollerante. In realtà religione e filosofia sono attività rivolte allo stesso fine, cioè alla saggezza e conoscenza di sé, che esige una radicale conversione per la ricerca del Bene, da perseguire attraverso il rientro in sé stessi, nel distacco da ciò che è accidentale e molteplice, da ogni elemento legato al tempo e allo spazio, dalla dittatura del corpo e dalle esigenze esteriori imposte dalle mode sociali. Il raggiungimento della verità non dipende dall’obbedienza ai testi sacri e alle autorità ecclesiali, da liturgie e cerimonie formali, ma si ottiene con la rimozione dell’inessenziale, per recuperare la luce interiore, quella dello spirito, dell’Uno e dell’Eterno, seguendo la via che l’insegnamento neoplatonico, attraverso Agostino, ha introdotto nel mondo cristiano.

Il primo capitolo del volume, dedicato alla filosofia antica, presenta un denso excursus sul pensiero classico. Tutti i filosofi greci, dai Presocratici fino ai Neoplatonici, si proposero di indicare, più che un sistema teorico, un modello e un indirizzo di vita in grado di condurre alla saggezza, alla serenità, alla contemplazione dell’Eterno, impegnando l’intera esistenza in vista di una sua trasformazione. A partire dalle dottrine di purificazione di Pitagora, attraverso il severo richiamo socratico alla giustizia posta al di sopra di ogni contingenza storico-politica, si arriva a Platone che insegnava come filosofare fosse “esercitarsi a morire”, lontano da tutti i legami materiali e concettuali, per ascendere gradatamente dalla bellezza sensibile a quella intelligibile, fino alla contemplazione della luce immutabile che è il Bene in sé. Anche tutte le scuole post-aristoteliche ellenistiche e romane (epicurea, stoica, cinica, scettica, neoplatonica) declinarono in modi diversi la stessa esperienza: attraverso la pratica di esercizi spirituali e l’uso della temperanza e della continenza, si procede da una visione delle cose dominata dalle passioni individuali a una rappresentazione del mondo governata dall’universalità e dall’oggettività del pensiero. Plotino ammoniva “distàccati da tutto” (Áphele pánta) per approfondire la conoscenza interiore, che conduce alla comunione con tutti gli uomini e le cose, e attraverso l’ékstasis, all’Uno, fine ultimo, luce e perfezione.

Il secondo capitolo del volume esplora il concetto di religione nel suo duplice aspetto di mitologia e di mistica, da quando essa si confondeva con la magia e la superstizione, e veniva praticata per ricavarne benefici individuali o collettivi, fino a quando il cristianesimo dei primi secoli entrò in contatto con il mondo greco, assorbendone il concetto di filosofia intesa come meditazione, insegnamento e guida per l’esistenza. Di questo traghettamento dalla credulità popolare a un concetto più spirituale del divino fu artefice soprattutto Agostino (Tagaste, 354-Ippona, 430), negli anni giovanili profondamente influenzato dal pensiero scettico e neoplatonico che esortava a cercare nella propria interiorità la luce eterna di Dio. Nel testo De vera religione (389-391) scriveva infatti: “non uscire fuori di te, rientra in te stesso, la verità abita nel profondo dell’uomo”, ricalcando una terminologia decisamente plotiniana. In età più matura e rivestendo l’incarico di vescovo, Agostino privilegiò un’interpretazione della Bibbia e delle lettere di Paolo più fedelmente vicina alle proposizioni teologiche del cattolicesimo a lui contemporaneo, ergendosi ad accanito difensore della Scrittura. Non considerò più la religione subalterna alla filosofia, ma essa stessa Logos, essa stessa unica e vera filosofia. L’esperienza neoplatonica dell’identità spirituale uomo-Dio-cosmo, animata dal desiderio di unione mistica con il divino, venne così abbandonata in favore della visione biblica dell’alterità di Dio, secondo un’interpretazione puramente scientifico-teologica della Parola che ridusse il cristianesimo a dogmatismo, formalità rituali e pura esegesi dei testi sacri.

La critica di Marco Vannini alla pretesa storicità della Bibbia è implacabile, poiché ritiene i fatti in essa raccontati (a partire dalla Creazione) suggestive creazioni letterarie, la cui attendibilità è inficiata da incongruenze e contraddizioni, evidenziate in rigorosi studi epistemologici degli ultimi due secoli. L’Antico e il Nuovo Testamento sono il risultato di rielaborazioni create a partire dal VII secolo a.C. e protrattesi fino al II d.C, per imporre politicamene l’unicità di un dio, di un culto, e di un unico centro religioso, attraverso regole comportamentali, leggi sociali e fantasie apocalittiche che hanno finito per nutrire intolleranza e fanatismo, mettendo in secondo piano l’idea di spiritualità, di unione con il divino, di immortalità dell’anima. Le tesi coraggiose dell’autore, che molti esegeti ortodossi non esiterebbero a definire eretiche (un plauso alle edizioni di ispirazione cattolica Lindau che hanno pubblicato il volume), sottolineano come l’allontanamento dal pensiero filosofico greco abbia relegato il cristianesimo in una concezione materialistica e utilitaristica, immiserente anziché liberante.

Sarà il misticismo speculativo medievale a recuperare la preziosa eredità del pensiero classico, e appunto al misticismo Vannini dedica l’appassionata ultima parte del libro. Massimo esperto italiano degli scritti di Meister Eckhart, qui lo studioso toscano inizia invece la sua esposizione presentando la figura del castigliano San Giovanni della Croce (1542-1592), anch’egli profondamente debitore del neoplatonismo: solo dopo aver sperimentato la “notte oscura” del nulla, del vuoto, l’anima può risalire alla luce, connaturandosi a Dio che non è più oggetto di conoscenza, alterità alienante, idolo antropomorfico, ma puro spirito, unica identità con l’anima umana che si divinizza, diventando Dio e partecipando della sua luce. Tale percorso di salvezza per il carmelitano spagnolo può attuarsi solo con la rinuncia e il distacco da tutto, esattamente come insegnava Plotino: “la sostanza dell’anima, unita a Dio, assorbita in lui, è Dio per partecipazione di Dio”.

Nella storia del cristianesimo i mistici, accusati di sopprimere la distinzione tra uomo e Dio, furono emarginati, poco compresi e guardati con sospetto: eppure eliminando l’opposizione tra soprannaturale e naturale, tra divino e umano, hanno insegnato una verità riconosciuta anche dalle religioni orientali e dalla filosofia, cioè l’identità del Tutto, e dunque del divino nel cosmo e in tutti gli esseri, che tutti esistono in Dio. Lontana dal panteismo che appiattisce la trascendenza divina sulla natura, la religione vera supera l’alterità di Dio e il dualismo soggetto-oggetto, unificando tutte le creature in un solo essere, spiritualmente eterno, scevro dai vincoli della materia e della carne nell’unità relazionale con il Tutto. Libera dalla volontà, libera dall’attaccamento, e dunque libera dall’opinione, la luce dell’intelligenza illumina il Tutto. La mistica ha mantenuto viva questa verità, con l’esperienza di un modello di vita filosofico, del distacco, della grazia, della libertà, opposto alla vita nella servitù, nella forza, nella volontà e nel desiderio. Non occorrono perciò rivelazioni o visioni particolari, dogmi o encicliche, perché è il quotidiano, il qui e l’ora, con le cose presenti di fronte a noi, a costituire il divino così come si mostra al nostro sguardo e al nostro amore.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 20 novembre 2023

 

RECENSIONI

VANNUCCI

GIOVANNI VANNUCCI, IL LIBRO DELLA PREGHIERA UNIVERSALE – LIBRERIA EDITRICE FIORENTINA, FIRENZE 1991

Giovanni Vannucci (Pistoia,19131984), presbitero e teologo italiano dell’Ordine dei Servi di Maria, professore di esegesi, ebraico e greco biblico, collaborò in diverse esperienze comunitarie con don Zeno Saltini (fondatore di Nomadelfia) e con David Maria Turoldo. Nel 1967 diede vita a una nuova comunità – dedita al lavoro, all’accoglienza e alla preghiera – all’Eremo di San Pietro a Le Stinche, nel Chianti. Autore di numerosi testi di meditazione e di ricerca spirituale, dal 1970 la sua attenzione si focalizzò sul momento della preghiera, intesa come rapporto vivido e pacificante con il mistero divino.

Il libro della preghiera universale, pubblicato nel 1970 e più volte ristampato, era nato nelle intenzioni dell’autore “dall’esigenza di conoscere, pregando, il cuore delle tradizioni religiose cristiane e non cristiane”. Vannucci si diceva convinto che la preghiera addolcisse i cuori, fecondandoli di nuove speranze e visioni, arricchendoli e dilatandoli in uno sguardo partecipe e generoso su ogni verità e realtà della vita. Il corposo volume è suddiviso secondo i giorni della settimana, ciascuno dedicato a una fede particolare: il lunedì ai credenti Indù, il martedì ai Musulmani, il mercoledì ai cercatori del pensiero Magico e Occulto, il giovedì ai Buddhisti e ai Taoisti, il venerdì alle varie Chiese Cristiane, il sabato agli Ebrei e infine la domenica al Cattolicesimo. Ma a un cattolicesimo ecumenico, comprensivo e rispettoso di ogni voce che si alzi nella ricerca della spiritualità.

A me non credente sembra bello poter offrire a chi legge una preghiera per ciascuna di queste fedi, proprio con l’umiltà e la considerazione che ha guidato Padre Vannucci a raccoglierle, senza esibire alcun senso di superiorità nei riguardi di nessuna di esse, ma consapevole della loro legittimità e rettitudine.

Indù: “Tu sei la via, l’irraggiungibile mèta, l’unico Signore. In te le leggi muoiono come fiumi nel mare”.

Musulmani: “Dio ha creato il genere umano in un solo uomo, e la resurrezione universale. Gli sarà ugualmente facile. Egli ascolta e osserva tutto”.

Occultisti: “Estrai dalle difficoltà un lievito di perfezione, trasformalo in forze vive”.

Buddhisti: “Abolendo le passioni, espandendomi nel vero pensiero, voglio avanzare silenziosamente nella pura saggezza, raggiungere il Risveglio perfetto”

Protestanti e Ortodossi: “Fa’ che io senta fin dal mattino la tua amabile bontà, mostrami la via per innalzare l’anima verso di te”.

Ebrei: “Perché ogni notte tu scendi verso di me, e al levar della stella del mattino mi abbandoni solo?”

Cattolici: “Sii lodato per tutto quello che vive nella terra e nel cielo”.

Se l’autore non avesse posto rigide distinzioni tra i vari capitoli, citando le fonti e gli autori delle preghiere, avremmo difficoltà a distinguere una religione dall’altra, in quanto ciascuna invocazione esprime, in qualsiasi epoca e latitudine, e con parole simili: lode, gratitudine, speranza, rimorso, timore, gioia, fedeltà, mansuetudine, clemenza, fiducia, desiderio. Un breviario universale, questo proposto da padre Giovanni Vannucci, a cui attingere quotidiana sapienza e dolcezza: il fatto che me l’abbia regalato il parroco del paesino in cui vivo, depone in favore del necessario abbattimento di ogni steccato ideologico, di ogni intollerante pregiudizio.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/Il-libro-della-preghiera-universale-Vannucci.html             26 ottobre 2018

 

 

 

RECENSIONI

VARGAS LLOSA

MARIO VARGAS LLOSA, LA CITTA’ E I CANI – EINAUDI, TORINO 2016

Mario Vargas Llosa (autore peruviano nato nel 1936, e Premio Nobel nel 2010) scrisse questo che forse rimane il suo romanzo più famoso La città e i cani nel 1963. Il volume conobbe varie vicissitudini: in patria venne censurato e bruciato in piazza dai militari, all’estero fu tradotto piuttosto tardi, e in Italia solo nel ’98. Oggi Einaudi (2016) lo ripresenta nella traduzione di Enrico Cicogna.
Si tratta di un libro che parla della violenza insita nel cuore umano e nell’ambiente sociale, nell’apparato educativo scolastico e nei rapporti familiari, nella sessualità e nelle schermaglie amorose tra uomini e donne. «A questo mondo la violenza è una sorta di fatalità», chiosa l’autore in una sua dichiarazione: soprattutto in paesi economicamente sottosviluppati e politicamente illiberali quali era il Perù all’epoca dei fatti narrati.
La vicenda ruota intorno al collegio militare Leoncio Prado di Lima, e ai giovani cadetti che lo frequentano per un triennio, costretti a una disciplina durissima e ottusa, a esercitazioni massacranti, vessati da sopraffazioni continue da parte di commilitoni, sorveglianti e superiori.
E’ un romanzo corale, che usa sapientemente diverse prospettive di narrazione, alternando capitoli in prima e in terza persona, dialoghi, monologhi, brani di diario, descrizioni paesaggistiche e confessioni meditative.
Protagonisti sono gli adolescenti di una stessa camerata, che devono superare sia i rituali di iniziazione imposti loro dagli allievi più grandi (scherzi osceni, umiliazioni, pestaggi, furti), sia le corvée delle marce e delle manovre, delle punizioni fisiche, delle consegne in isolamento: «Qui sei militare anche se non vuoi. E quello che importa nell’Eesercito è essere un duro, avere un paio di coglioni d’acciaio, capisci? O fotti o ti fottono, non c’è rimedio. E a me non piace lasciarmi fottere».

In questo clima di rigore disumano che ricorda le atmosfere del film Ufficiale e gentiluomo, i ragazzi tentano una loro resistenza individuale e collettiva, fatta a sua volta di violenze contro i più deboli, di fughe dal collegio, di ruberie e di esibizioni sessuali al limite della depravazione. Tra di loro si chiamano con soprannomi allusivi: Boa, Giaguaro, Chiavica, Schiavo… C’è anche un Alberto, definito “il poeta” perché in grado di scrivere lettere d’amore e storielle pornografiche da vendere ai compagni. In quest’ultimo Vargas Llosa cela il suo alter-ego giovanile: «Ero un bambino viziatissimo, presuntuosissimo, cresciuto, faccio per dire, come una bambina… Mio padre pensava che il Leoncio Prado avrebbe fatto di me un uomo, ma per me fu come scoprire l’inferno». Vittime di tale inferno sono soprattutto Alberto, il Giaguaro e lo Schiavo, in uno scontro di sensibilità, codardia, forza bruta che si conclude in tragedia. Vittima è anche l’unico educatore intelligente e responsabile, il tenente Gamboa, che paga con un trasferimento punitivo la sua coraggiosa rettitudine «Non sono diventato militare per avere la vita facile». Nemmeno l’esistenza fuori dal collegio risulta aliena da difficoltà e cattiverie per i cadetti, sia nei rapporti con i vecchi amici rimasti a vivere di espedienti nei quartieri più poveri, sia nelle famiglie sfasciate che non li accolgono volentieri durante le licenze, sia nei tentativi abortiti di esperienze amorose o nel sesso vissuto squallidamente.
Sarà solo Alberto, alias Varga Llosa, a salvarsi, fuggendo da Lima e dal Perù, per tentare un riscatto in una nuova vita di cui essere l’unico padrone.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/La-citta-e-i-cani-Mario-Vargas.html             4 febbraio 2016