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RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, LA SPARIZIONE DELL’ARTE – ABSCONDITA, MILANO 2012

«Si pretende che la grande impresa dell’Occidente sia quella della mercantilizzazione del mondo, di aver abbandonato tutto al destino della merce. È vero, ma bisogna vedere come la grande impresa dell’Occidente sarà stata piuttosto quella dell’estetizzazione del mondo, della sua messa in scena cosmopolita, della sua messa in immagine, della sua organizzazione semiologica… Tutto, anche il più insignificante, il più marginale, il più osceno, si culturalizza, si museifica, si estetizza».

In La sparizione dell’arte il filosofo e semiologo francese Jean Baudrillard (1929-2007) ribadisce la sua provocatoria tesi riguardante la minaccia che incombe sulla nostra contemporaneità: l’estetizzazione di tutto il reale. Ogni cosa prodotta viene utilizzata, sfruttata, sacralizzata nell’arte. Non solo nei musei e nelle gallerie, nei luoghi deputati della cultura: ma ovunque, nelle strade, sui muri, nella banalità degli oggetti più comuni. Assistiamo a «una proliferazione di segni all’infinito, riciclaggio all’infinito di forme passate o attuali (il grado Xerox della cultura), ma dove non esiste più alcuna regola fondamentale, alcun criterio di giudizio, alcun piacere». In queste due conferenze tenute nel 1987, e rivolte soprattutto ad utenti-artisti, o comunque al mondo culturale che gravitava intorno al mercato dell’arte, Baudrillard sottolineava il paradosso a cui assistiamo da alcuni decenni: a un sostanziale immobilismo, a un’inerzia, a una mancanza di ispirazione e alla mancanza di profondità e di originalità di chi opera artisticamente, corrisponde una frenesia produttiva, un movimento convulsivo e proliferante dei prodotti artistici. Tutto diventa arte, «tutto è estetico, niente è più bello né brutto, e l’arte stessa sparisce».

La stessa cosa succede nella politica e nella sessualità, che si estetizzano nello spettacolo, nella pubblicità e nella pornografia, perdendo l’effettivo contatto con la realtà, nella nostra era «del simulacro e della simulazione», delle fake news imperanti, in cui il vero non si distingue più dal falso, e il veicolo del messaggio diventa più importante del contenuto. Forse il simbolo più rappresentativo di questa nuova funzione dell’arte è stato Andy Warhol: «Warhol non appartiene alla storia dell’arte. Appartiene al mondo, molto semplicemente. Non lo rappresenta, ne è un frammento, un frammento allo stato puro. Ecco perché, visto nella prospettiva dell’arte, egli può essere deludente. Visto come rifrazione del nostro mondo, è di un’evidenza perfetta». L’arte, perduta la sua autonomia creativa, sembra destinata a sparire, o a definirsi come pura tecnica, industria, artigianato rituale, diventando «solo una parentesi nella storia dell’umanità». Se nella mistificazione orgiastica di ciò che appare finisce per sparire la realtà, forse sarà necessario tornare all’evidenza del mondo.

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23 gennaio 2018

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, PAROLE CHIAVE – ARMANDO, ROMA 2002

Quali sono i termini chiave che introducono alla filosofia di Jean Baudrillard, uno dei pensatori più originali e provocatori del postmodernismo? Li elenca lui stesso in questo piccolo volume, che non ha alcuna ambizione esaustiva, ma tenta di “traghettare” il lettore verso una proliferazione di concetti e di immagini continuamente in trasformazione, senza mai rivendicare un approdo definitivo. Una prospettiva dinamica, dunque, di collegamento e scambio tra le varie idee che hanno animato l’interpretazione filosofica del semiologo francese.

La prima delle quindici Parole-chiave presentate è quindi “l’oggetto”, fondamentale nella riflessione sul consumismo e sull’egemonia della merce nel mondo contemporaneo. L’oggetto si oppone al predominio assolutizzante del soggetto, rivendicando quasi una propria autonomia attraverso la sua immanenza concreta, immediata, non riducibile alla volontà o al desiderio umano: appaga e insieme inganna ogni aspettativa, si oppone a ogni relazione. Alla riflessione sull’oggetto, Baudrillard lega quella sul valore e sullo scambio simbolico, non più vincolati esclusivamente ai concetti economici e commerciali, bensì anche alla sfera – ormai prevalente ‒ dell’estetica, della comunicazione, della creatività, del gioco.

Qui entrano in discussione i termini che più hanno caratterizzato il pensiero del filosofo: la seduzione, l’osceno, il virtuale, l’aleatorio. Insomma, tutto ciò che sembra mancare di concretezza ma finisce per influenzare moltissimo il comportamento dell’uomo contemporaneo, legando le sue scelte ideologiche ed etiche alla soddisfazione del piacere, svincolandolo dal dominio necessitante della produzione e dell’accumulazione. Gioco, godimento, spettacolo, simulazione, rendono il reale più flessibile e meno coercitivo, superabile in un’iper-realtà che finisce per diventare dominante. La tecnologia rende il virtuale più “riuscito” e funzionante del reale: “La realtà virtuale, la quale è perfettamente omogeneizzata, numerizzata, si sostituisce all’altra perché è perfetta, controllabile e non contraddittoria”.

Le nuove tecnologie, pur caratterizzate dall’inumanità, finiranno per liberarci dal mondo dei valori, del giudizio, di ogni “pesante cultura morale e filosofica”? Spersonalizzati, epurati, ci dirigeremo verso un futuro non prevedibile e non controllabile, che potrebbe costituirsi come catastrofe o salvifica rinascita. In conclusione del suo dizionario, Baudrillard elenca appunto termini quali fine, caos, male, morte, in un raffronto metafisico e fatale tra Eros e Thanatos. Poiché la nostra cultura occidentale ha avuto “l’ambizione, l’esigenza e l’illusione di possedere il mondo, di analizzarlo per poi dominarlo”, patisce ora la minaccia di una sparizione, assorbita completamente dall’irrealtà del virtuale.

 

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5 febbraio 2018

RECENSIONI

BAUDRILLARD

JEAN BAUDRILLARD, LA TRASPARENZA DEL MALE – SUGARCO, MILANO 2018

Nel 1990 Jean Baudrillard (1929-2007) pubblicò in Francia una raccolta di saggi, come sempre acuti e provocatori, intitolata La trasparenza del male, più volte riproposta in Italia fino a quest’ultima edizione di Sugarco del 2018.

In questo volume, è l’articolo iniziale ad assumere un rilievo filosofico fondamentale, nel suo porre quesiti ineludibili alla riflessione etica sulla società contemporanea. L’orgia come momento esplosivodella modernità, determinato dalla liberazione (avvenuta a partire dagli anni ’60) di tutti gli impulsi consci e inconsci, individuali e collettivi. Liberazione politica, sessuale, artistica, con la conseguente sovraproduzione di modelli materiali e comunicativi, ideologici ed edonistici, svincolati dal reale. Tutte le varie categorie della modernità arrivarono alla deflagrazione, aprendosi a un cambiamento continuo, e quindi all’indeterminazione e all’incertezza. Il crollo dei valori, delle fedi e delle ideologie, comportò un disorientamento nei comportamenti individuali e collettivi, poiché lo stesso senso della realtà risultava diluito e fortemente ridimensionato. Un’orgia, quindi, di sensazioni e condotte individuali non più sottoposte al vaglio della razionalità, ma obbedienti alle direttive fornite dai media mondiali, direzionati da interessi economici sovranazionali che hanno mercantilizzato anche le relazioni umane.

Se tutto è per tutti simultaneamente politico, sessuale ed estetico, ecco che non esiste più politica come mediazione, sesso come amore e piacere, arte come bellezza. Non esiste più avanguardia perché non c’è nulla da anticipare, né informazione obiettiva poiché ogni avvenimento si trasforma in spettacolo, non produzione ma solo ri-produzione. Qualsiasi espressione supera sé stessa, arriva all’oltre, al “trans” e al “post”. L’arte e la critica dell’arte sono scomparse proliferando i loro segni all’infinito, riciclando forme passate e attuali, eliminando qualsiasi criterio di giudizio: tutto è arte, quindi niente è più arte.

Alla stessa maniera, tutto è sessualizzato e indifferenziato nel rapporto fisico tra i corpi: al desiderio si è sostituito il consumo della pornografia (anch’esso arrivato all’eccesso bulimico), alla cura dell’aspetto l’idolatria del look. E nella gestione del potere finanziario si è arrivati allo stesso sdoppiamento, tra economia reale e economia fittizia; intrappolati come siamo tra speculazioni bancarie, debiti insolvibili, nazioni intere in deficit, inflazione e disoccupazione. Persino lo sport non è più un’attività disinteressata, ma programmata per superare record, per distruggere gli avversari, per esaltare fino all’ossessione la propria forma fisica.

Quale ruolo rivestono, a questo punto, internet e la rete, nella creazione dei modelli culturali? “Il successo fantastico dell’intelligenza artificiale non proviene forse dal fatto che essa ci libera dall’intelligenza reale, dal fatto che, rendendo ipertrofico il processo operativo del pensiero, ci libera dall’ambiguità del pensiero e dell’enigma insolubile del suo rapporto col mondo?” La macchina pensa per noi, decide per noi.

Cos’è allora, oggi, il male? Da dove viene, come agisce, con quali finalità? Sulla malattia (tema oggi attualissimo!) e sul terrorismo, Baudrillard scrive pagine addirittura profetiche, quando afferma che le difese messe in atto dalle società progredite sono addirittura controproducenti. I “fenomeni estremi”, come li definisce, sono i soli capaci di attirare l’interesse della gente. Per vincerli, per superarli, per disarmarli, dobbiamo rimettere in gioco tutti gli scenari possibili, reali o virtuali, riproponendo l’utopia di una liberazione dal male capace di usare le sue stesse armi, spuntandole.

“Abbiamo portato nel resto del mondo abbastanza germi, abbastanza malattie, epidemie e ideologie nei confronti delle quali era privo di difese; sembra ora che con un rivolgimento ironico delle cose siamo noi oggi senza difese di fronte e un infame piccolo morbo arcaico”.

Negando il male, espellendolo dai suoi confini, l’occidente l’ha reso più contagioso: candeggiando la propria violenza, mimetizzandola retoricamente in un farisaico buonismo generalizzato, l’ha in realtà potenziato. E in qualche modo, ora il male si vendica, in totale trasparenza.

 

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//www.sololibri.net/La-trasparenza-del-male-Baudrillard.html           10 marzo 2020

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BAUMAN

ZYGMUNT BAUMAN, MEGLIO ESSERE FELICI – CASTELVECCHI, ROMA 2017

Di Zygmunt Bauman (1925-2017), sociologo e filosofo polacco di origini ebraiche, Castelvecchi pubblica, nella sua meritoria collana economica di saggistica breve “Irruzioni”, un libriccino introdotto da Massimo Arcangeli, che affronta un argomento discusso e indagato dagli albori della civiltà e della cultura umana. Teorico e critico dei fasti nefasti della globalizzazione, della modernità liquida, della sessualità estetizzante e della piovra consumistica, Bauman in Meglio essere felici non vuole additarci la via per raggiungere e afferrare saldamente la felicità, obiettivo quanto mai incerto e sfocato. Ci invita invece, proponendoci “molte più domande che risposte”, a riflettere sulle cose positive che abbiamo, piuttosto che a tormentarci per ciò che non possediamo e probabilmente non possederemo mai.

Partendo dalla considerazione condivisa universalmente che è “meglio essere felici che infelici”, afferma che le definizioni di cosa sia la felicità si sprecano, anche se sostanzialmente nell’opinione comune sembrano ridursi alla promessa di una vita con meno disagi e svantaggi, priva di preoccupazioni (come ci illude la modernità, nell’avanzamento del progresso tecnico e scientifico), impantanata in una quotidianità appagata ma noiosa. In realtà, noi non siamo mai felici in modo continuativo, ma solo nel momento in cui superiamo il dolore, il fastidio fisico, una delusione o un disappunto. Felici per poco tempo, però intensamente, proprio quando lottiamo contro le difficoltà e riusciamo a superarle. Verissimo che “c’è un effetto diretto tra la situazione in cui siamo nati, la nostra cosiddetta sorte, e l’abilità di perseguire e conquistare la felicità”: ognuno di noi è delimitato da condizioni fisiche, sociali, economiche di partenza, su cui è arduo se non impossibile intervenire. Però possiamo modificare il nostro carattere, in modo da indirizzare la nostra esistenza verso condizioni migliori di quelle stabilite per noi dal fato. Ma perché, se non riusciamo a raggiungere lo stesso successo dei modelli che ci vengono imposti culturalmente, diventiamo infelici, scontenti di noi, complessati? Molti filosofi, da Max Scheler a Alexis de Tocqueville, hanno attribuito proprio all’illusione democratica dell’uguaglianza questo diffuso senso di inadeguatezza che rende le persone insoddisfatte, in quanto spalanca davanti ai loro occhi un enorme ventaglio di possibilità di realizzazione che tuttavia rimangono spesso un miraggio irraggiungibile. Ne nascono invidie, rivalità, sensi di colpa e di inferiorità paralizzanti. Attraverso internet tutti possono spiare nelle esistenze degli altri, valutare i loro standard di vita, vedere dove abitano, dove vanno in vacanza, come si vestono: ne deriva un’ansia continua di confronto e il timore di non essere all’altezza delle aspettative proprie e altrui.

Bauman così commenta: finiamo per “comprare con i soldi che non si sono guadagnati cose di cui non abbiamo bisogno per fare una buona impressione – che non durerà – a persone di cui non ci importa nulla”. Vivere assorbiti in una spirale ansiogena che ci ossessiona con la seduzione del potere, dell’acquisto, della moda, del successo, ci rende proni agli imperativi consumistici del mercato che ci vuole insoddisfatti e sempre più desideranti, quindi potenziali clienti di prodotti innovativi. Bisogni indotti, infelicità immotivata, assuefatta all’idea che tutto si possa comperare: amicizia, amore, successo, compagnia. C’è Amazon, c’è Facebook, ci sono i talent show che promettono fama e soldi: ma, ci ammonisce Bauman, se vogliamo veramente stare bene, con noi stessi e con il mondo che ci circonda, la felicità dobbiamo cercarla in quello che abbiamo già: in casa nostra, con la nostra famiglia, con gli amici veri non casualmente incontrati sui social.

 

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www.sololibri.net/Meglio-essere-felici-Bauman.html       30 ottobre 2017

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BELLET

MAURICE BELLET, INCIPIT O DELL’INIZIO – SERVITIUM, 2001

Attraverso una scrittura semplice e accattivante, il sacerdote e psicanalista francese Maurice Bellet offre al lettore queste sue riflessioni sulla miopia spirituale della contemporaneità, sulla solitudine e incomunicabilità che contraddistinguono l’esistenza nelle nostre città alienanti, sulla carenza di risposte credibili alla angosciate richieste di senso da parte di chi è in ricerca di se stesso e di un ruolo sociale. Undici capitoletti scritti all’insegna della speranza, di un cauto ottimismo nel futuro, dell’apertura a una vita vissuta nella fede e nella solidarietà. “Cosa resta quando non resta niente? Questo: di essere umani verso gli umani, che fra di noi dimori il ‘fra noi’ che ci rende uomini”. Bisogna che torniamo tutti ad affidarci, secondo Bellet, al banale e all’ordinario della vita, a ciò che avevamo trascurato, presi da mille distrazioni e paure: a monte di ogni morale o politica, c’è l’attenzione verso ciò che è fuori di noi. Prima ancora di pensare il divino, “noi siamo questa primitiva tenerezza gli uni per gli altri… questa sobria tenerezza senza misura”. La parola d’ordine allora suona inusuale sulla bocca di un uomo di chiesa: “Disfare gli appoggi!”, “Nessuna barriera, nessuna frontiera”. Incontrare l’altro nel singolare, non nell’astrazione; nella sua fisicità e concretezza: “in tutto ciò che abita l’uomo, ivi compreso l’oscuro e il basso, ripreso, trasfigurato, trasmutato”. Un inno alla gioia e alla pienezza, al risveglio, alla premura e alla partecipazione, pronunciato con gaiezza quasi francescana, in una nuova aurora capace di superare ogni malinconia e crudeltà. Bellet è consapevole di quanto ci divida sempre dal prossimo: invidia, concorrenzialità, rancore. Ma invita ad abbandonare il rigore del Tempio, l’asprezza della condanna, la speculazione ascetica. Saremo giudicati non per ciò che siamo, ma per ciò che desideriamo di essere. Più nell’orizzontalità del rapporto umano che nella verticalità del rapporto con Dio.

IBS, 24 febbraio 2014

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BELLINTANI

UMBERTO BELLINTANI, NELLA GRANDE PIANURA – MONDADORI, MILANO 2023

Sono passati più di trent’anni da quando venni a sapere dell’esistenza di un poeta schivo e originale, che viveva e scriveva lontano dai circuiti letterari ed editoriali, Umberto Bellintani, di cui subito cercai tracce, leggendo con commossa ammirazione i pochi versi allora recuperabili.

Bellintani è nato, vissuto e morto (1914-1999) a San Benedetto Po, in provincia di Mantova, e al suo paese, alla pianura e al fiume che lo ha accolto e nutrito, ha dedicato versi sanguigni e delicati, furenti e nostalgici. Dopo aver frequentato da ragazzo una scuola d’arte a Monza, con maestri prestigiosi (Marino Marini, Arturo Martini, Raffaele De Grada…), specializzandosi in scultura, nel 1940 fu richiamato alle armi, combatté in Grecia e Albania, e fu imprigionato in campi di lavoro tedeschi e polacchi dal ’43 al ’45. Tornato a casa, lavorò per tutta la vita come segretario nella scuola media del suo comune. Dopo le prime raccolte poetiche, uscite con notevole successo di critica nel 1953 e nel 1955, non pubblicò nient’altro per trentacinque anni, pur continuando a scrivere e a esporre disegni e sculture. Solo poco prima di morire diede alle stampe due raccolte di versi, la più importante delle quali, Nella grande pianura, viene oggi riproposta da Mondadori nella sua integrità, dagli esordi fino alle ultime composizioni e ad altri inediti. Nel 2004 il regista Franco Piavoli gli ha dedicato il lungometraggio Affettuosa presenza, i cui testi sono tratti dalla corrispondenza, allora inedita, con il poeta fiorentino Alessandro Parronchi, da sempre suo estimatore e  attento critico letterario.

Estraneo allo sperimentalismo e alla neoavanguardia degli anni ’60, ma altrettanto distante dal cronachismo neorealista e dal descrittivismo pacato della linea lombarda, Umberto Bellintani era più orientato verso un lirismo classicheggiante (risuonano in lui echi di Dante, Leopardi, D’Annunzio), capace sia di usare registri bassi e popolareschi, sia di proiettarsi “in una dimensione aperta all’ «immenso della vita», in un’avventura poetica segnata da una violenta, insolita forza espressiva, capace di increspare di continuo il verso e la pagina”, secondo Maurizio Cucchi, curatore del volume di cui ci occupiamo. Fu poeta irregolare, fuori dagli schemi, guardato con qualche sufficienza  dall’establishment letterario e accademico, come si evince dalle parole che gli dedicò Eugenio Montale nel 1954: “Bellintani, che vive in campagna, è un raffinato uomo di popolo, uno di quei poeti che sembrano essere saltati dalla Bibbia e da Omero ai più astrusi lirici stranieri conosciuti solo attraverso le traduzioni… spesso la poesia si rifugia in uomini come lui, non professionisti, senza le carte in regola”. Poeta di paese, quindi, addirittura campestre e terragno, alla pari del suo concittadino Virgilio amante della natura, degli animali, del paesaggio. Materia dei suoi versi fu essenzialmente la frazione di Gorgo in cui abitava, e che chiamava “il guscio”: tana, ovile, culla protettiva ma anche prigione e limite, vero e proprio gorgo di passioni contrastanti e scrigno di ricordi (“O mia Gorgo, / amici arrampicati sopra i pali, / allodole nel cuore, canto lieto / alle rive dei fiumi, amici, / salviamo la memoria, la memoria / almeno del riso, la memoria”.

Scriveva dei suoi compaesani, redigendo una cronaca malinconica di nascite, malattie, tradimenti, lutti. Tra i vivi, avvertiva una solidarietà sociale e politica – visceralmente “di classe” –, per gli sfruttati, i contadini e gli operai (“Poveri affaticati nelle membra, / servi della gleba, paria, / per noi la morte è riposo”), esprimendo inoltre un coinvolgimento turbato nei riguardi degli infelici nel corpo e nella mente, come il ragazzino che di notte, terrorizzato dai rumori e dalle ombre nel buio, aveva perso la parola “e il senso naturale delle cose”. Verso i morti nutriva una familiarità pietosa e stizzita; la sua Spoon River padana abbraccia con uguale indulgenza buoni e cattivi, vittime e carnefici: “I poveri morti sono i miei fratelli / passeggio con loro per il cimitero, / non vi è nessuno che abbia il cuore felice. / Chi ha ucciso, rubato, o disprezzato / in questa vita così fatta per gli uomini; / chi è penetrato nottetempo nel campo del vicino / e ha distrutto le colture, e chi la donna / dell’amico ha condotta a perdizione”. In questa dedizione al ricordo, alla memoria collettiva e personale, è presente uno sguardo complice alla storia universale, delle trasformazioni geologiche e dei grandi eventi politici: “Amo il passato. In esso mi ritrovo / nell’unno forte, nell’ominide che balza / sopra la preda, nell’urlar del dinosauro”.

Il senso profondo di fratellanza che lo accomunava a tutto l’esistente, si riflette in particolare nel mondo animale, non solo in quello a lui prossimo, ma anche nell’universo delle creature fantastiche create dalla sua visionaria immaginazione. Il gatto e la rana, “voci dell’arcano”, e poi mucche, uccelli, pesci, cani, in una metamorfosi che lo rendeva loro uguale: “Sono un topo di campagna, sono il grillo / che nel cuore mi ricanta ogni sera / se l’ascolto dal paterno focolare”, “Il grande ragno che mi sta nel cuore, / la tarantola maligna della mia sofferenza”. Un bestiario medievale e futuristico, onnivoro e consolatorio, a cui dedicava espressioni di gratitudine: “Le mie parole sono capra / ed erano capra e pecora / le mie parole sono zappa / e asino vanga e pietra / per affilare la falce erba / medica farfalla e ragno / nella ragnatela al sole / nel granturco e mulo erano / e cavalla scrofa carretto / le mie parole amate”. Dall’immersione visiva nelle savane e nelle foreste africane, popolate da gorilla, giraffe, bufali, iene, gazzelle ed elefanti, passava al panorama apocalittico de “La terra spenta”, rinsecchita e disabitata, con i calabroni ronzanti su ossa umane dissepolte, in un paesaggio dominato da insetti: “E fu il tempo e lo spazio inondato dai ragni. / Orrendo a dirsi coprivano ogni cosa, / e non fu posa nel mondo sinché / d’esseri alfine non rimase che lo scheletro”, sempre tornando poi alle stalle, ai canili, ai fossi della sua terra. Così fa anche la mucca che in cima all’altura spaventa il paese col suo potente muggito (“e si poteva ben crederla il più grandioso dio”), ma all’arrivo del buio rientra nel recinto “come sempre aveva fatto col suo silenzio bovino”.

All’animalità del proprio corpo, negli aspetti più materiali, sono dedicati i versi di All’aperto, in cui “L’uomo che sta accucciato nella vecchia latrina”, nella più prosaica soddisfazione dei suoi bisogni, appena tornato fuori si riconosce “padrone di tutto ciò che vede / e sente attorno a sé e lontano: / sia la distesa di campi, sia il bosco del barone / proprietario di pianure e di montagne; / sia la tana del topo, sia il gorgo impetuoso / del fiume che agguanta e annega un temerario / o sfortunato nuotatore; / e sia la nube del cielo e il sole e lo spazio / e tutto il passato e futuro giro del tempo”.

In versi di fuoco malediceva chi vigliaccamente si divertiva a distruggere i nidi degli uccelli, facendone cadere i piccini “ancora ignudi”, e chiunque – uomo o animale – recasse violenza agli indifesi, ai deboli, come nella poesia bellissima e crudele, che forse meglio racchiude lo spirito indocile della sua scrittura: “Poiché veramente sono fratello / del topo nella bocca della gatta / che svelta se ne corre via / e sopportare non posso il ragazzo / scemo che inchioda al tronco / dell’acero la lucertola // ecco che uccido il ragazzo / con il cuore e gli tronco le mani, / poi rendo la testa della gatta / in poltiglia con colpi di pietra / ed è davvero perché sono fratello del fossato / della latta arrugginita e dei ciottoli / della strada e di ogni essere che vive o non vive / ecco che amo e odio follemente il mondo”.

Bellintani aderiva con furore mistico all’amore francescano per tutte le creature, all’ingiusto sacrificio del Golgota e a un senso paganeggiante e panteistico del divino, lontano dalla ritualità del messaggio clericale, e invece intriso dell’animismo primitivo che rende l’uomo un’unica cosa con l’esistente non-umano, bestie, piante, nuvole, terra: “Forse non esiste Dio. Forse / solo il rapporto / fra noi esiste e gli alberi / annosi o appena d’anni / uno e le erbe / e i coccodrilli e il buon tepore / della sera”, “Quest’albero era / quando ancora non erano / i nostri padri i nostri avi. / Ed ecco io sento che qualcosa gli devo, / ma non so cosa, amici, ma la mano / mia ecco lo accosta e lo carezza, / e tutta trema la mia mano, amici”. La terra, quindi, quella umida o inaridita che patisce le piene e le secche del Po, la pianura millenaria sempre uguale a sé stessa nella sua distesa uniforme è la vera nutrice e ispiratrice della sua poesia: “E ditemi voi se non è bella una pianura verde / tutta gremita di margherite e bianchi scheletri”, “case morte della mia pianura / vite spente della gioia / aie al sole della luce / mia tristezza che non taci mai”, “Io cara mi espando nella grande pianura / ed estasiato l’ammiro…. // È la mia pianura ancor più vasta e sonora d’un gran mare”.

La grande pianura padana, oggi resa uniforme e grigia dalla cementificazione, privata dei suoi profumi dai miasmi industriali, attraversata da corsi d’acqua sempre più sofferenti e umiliata da rivendicazioni sovraniste, si staglia nei versi di Umberto Bellintani nella sua antica bellezza, di natura primigenia e profonda umanità.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 27 aprile 2023

 

 

 

 

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BELPOLITI

MARCO BELPOLITI, PIANURA – EINAUDI, TORINO 2021, pp. 296

La suggestiva immagine di Luigi Ghirri sulla copertina di Pianura, ultimo saggio einaudiano di Marco Belpoliti, recupera e rende l’atmosfera magica di alcune celebri inquadrature di Amarcord, sfocate nell’impalpabilità della nebbia, fluttuanti sulle note malinconiche di Nino Rota. La fotografia di Ghirri attenua nel grigio brumoso i profili di un’edicola sacra e di un cipresso appena individuabili attraverso il velo appannato e cinereo dell’atmosfera nordica. Nebbia incanto, perché sfuma e confonde i contorni delle case, delle cose, delle sagome umane, attenuandone i contrasti.

Alla nebbia ci viene da pensare quando ci figuriamo la pianura Padana, come suo primo e ineludibile carattere, e insieme metafora di altro: “La nebbia ha a che fare forse con la noia? Una delle domande suggerite dalla nebbia non è: dove sono? Ma piuttosto: dove sono gli altri? E anche: cosa lega i miei pensieri alle cose che ci sono? La nebbia consente di immaginare, di guardare, di vedere quello che non si riesce a vedere quando tutto è completamente visibile”. Illusione che scherma, nella sua “opacità e trasparenza”, i perimetri tangibili del reale. Nebbia è un termine che ricorre più di quaranta volte nel libro di Belpoliti, dove però di realtà, ce n’è in abbondanza: ci sono paesaggi, fiumi e strade, fabbriche e campagne, uomini e donne concreti, con le loro storie, musiche, poesie, ribellioni, fughe e ritorni. Ma tutti in qualche modo sospesi, avvolti in una patina vaga e indefinita, resa labile proprio dalla nostalgia del ricordo.

Il fascino della pianura anima il lungo viaggio percorso dall’autore, i suoi incontri ritrovati nella memoria, e altri attuali, vivaci. Piatta, piatta a perdita d’occhio, come viene definita dalla prima frase del volume, la Padania è stata suddivisa dagli agrimensori romani nel I secolo a.C. in ordinate centurie quadrate di cinquanta ettari, e con la stessa struttura è rimasta per duemila anni. Una robusta regolarità materiale che sembra aver modellato anche l’indole dei suoi abitanti, solido, pratico, sebbene umorale, “ansiosamente malinconico”.

Il primo dei personaggi raccontati da Belpoliti, con un affetto e una gratitudine che travalicano l’ammirazione, è proprio il fotografo Luigi Ghirri, che ha saputo descrivere con “inquietante tranquillità” le periferie urbane, l’innocenza dell’infanzia, l’ordinarietà del quotidiano, avvicinandosi al consueto con accenti di profonda spiritualità: “La sua era una attenzione fatta di cose antiche, ma sempre nuove, quelle che vedono gli abitanti della campagna emiliana da secoli: pezzi di cielo, oggetti di casa, muri sbrecciati, vecchie cascine, cose di nessuna importanza per cui mai nessuno prima di lui s’era fermato a ritrarle”.

Poi Gianni Celati, magistrale narratore delle pianure, imprevedibile, distratto, affettuoso, trasandato ma di “un’eleganza trascurata”, gran camminatore, sempre a rincorrere una propria misteriosa ansia. E ancora il cantautore Giovanni Lindo Ferretti, i poeti Corrado Costa e Giulia Niccolai, gli scrittori Giuliano Scabia e Pier Vittorio Tondelli, l’attrice Ermanna Montanari, il drammaturgo Marco Martinelli, il pittore Giuliano Della Casa, lo psicologo Sandro Vesce…

Percorsi preferenziali, in questo lungo viaggio fatto in auto, in treno, in corriera, sono quelli che circondano i luoghi natali di Marco Belpoliti, luoghi fisici e dell’anima: Reggio Emilia e Modena, tra paeselli, paesotti, cittadine intorno: Scandiano, Rubiera, Carpi, Correggio, Mirandola, rettilinei asfaltati che tagliano appezzamenti di colture intensive, vigneti, pioppeti, paludi, fiumi melmosi, “l’interminabile Po”, capannoni industriali, fabbriche di piastrelle. In questo paesaggio uniforme, appaiono improvvise epifanie di chiese romaniche, solitarie figure di ciclisti, facce scolpite di anziani, osterie ormai poco frequentate.

La Padania si estende anche al Veneto, al Piemonte, alla Lombardia: ed è quindi anche l’hinterland milanese, anonimo e indistinto, che ha ospitato gli anni maturi di Belpoliti, a nutrire tuttora le sue memorie. “Gli anelli delle superstrade lambiscono i campi coltivati e qua e là qualche sperduta cascina a fare da riferimento, intorno palazzoni e villette a schiera con nuove strade tracciate di fresco. In questa periferia della Brianza tutto invecchia rapidamente, e dopo qualche anno è già una rovina, come se l’umidità mangiasse gli edifici, li invecchiasse e li rendesse decrepiti e squallidi anzitempo”.

Nel libro, puntellato da disegni dello stesso autore, sono frequenti gli excursus storici (regni, invasioni, epidemie, guerre), commenti artistici e architettonici (dettagliate descrizioni del Duomo di Modena, di musei, bastioni, castelli, palazzi signorili), dissertazioni geologiche e note di gastronomia: perché la pianura è ricca di una cultura stratificata in tanti diversi aspetti, naturali o determinati dall’intervento dell’uomo. Sono però soprattutto le memorie private a vivacizzare le pagine del volume einaudiano: incontri, letture, piatti e vini tipici, cortei studenteschi, lezioni universitarie a Bologna con professori eccezionali (Anceschi, Camporesi, Eco). Pianura di Marco Belpoliti è un libro “intimo e collettivo”, come recita il risvolto di copertina: esplorazione di un passato privato che diventa storia comune, e invita ad approfondire la conoscenza di un paesaggio, di un habitat, di una gente nei suoi aspetti più intriganti e meno esplorati.

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Pianura-Belpoliti22 febbraio 2021

 

 

 

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BEMPORAD

GIOVANNA BEMPORAD, ESERCIZI VECCHI E NUOVI – SOSSELLA, BOLOGNA 2011

L’editore Luca Sossella rende un doveroso e meritato omaggio alla poetessa Giovanna Bemporad, nota e stimata traduttrice, pubblicando i suoi versi sparsi in diverse e ormai non più recuperabili raccolte, alcune risalenti a più di sessant’anni fa. Poesie di una raffinata e preziosa classicità, eleganti e misurate, di limpidissima e controllata sapienza. Già scorrendo l’elenco delle pluripremiate traduzioni dell’autrice, si prova un reverenziale rispetto: Omero, Virgilio, Goethe, Novalis gli autori più importanti di cui si è nutrito il suo timbro poetico, pervaso nella produzione personale dalla severa consapevolezza di chi è «alla perpetua ricerca del suono della perfezione», come suggerisce la postfazione. Quindi, una poesia intrisa di tradizione, nei suoi incipit quasi sempre votati all’endecasillabo, mai scontato e troppo cantabile, ma sempre denso di significati, che subito introduce il lettore al senso più intimo del verso: «Mia compagna implacabile, la morte», «Nelle mie vene, un tempo ebbre di vita», «Gioventù, mio rammarico inesausto», «L’anima mia che ha tristezze d’aurora». Alcuni versi sono limpidamente e apertamente modulati su quelli famosissimi dei nostri lirici: di Montale, per esempio, «Non domare, implacabile, il mio riso / mentre il fiore del melo incanutisce; / non recidermi il filo dei pensieri…», o di Leopardi: «E come il vento / su per roseti rampicanti in fiore…», e ancora «meglio piegarsi a immagine di un fiore / che docilmente all’urto dell’inverno / si spoglia dei suoi petali», «sarebbe dolce / svanire in questa immensità serena». Leopardiane sono senz’altro le atmosfere di questi idilli contemporanei: con la luna (bianchissima, casta, dolce, insensibile, perfida, sola e dolorosa), il mare ( giovane, clamoroso, pigramente verde), il vento ( blando, di antiche età, rude ), la notte ( eterna e chiara). Ma soprattutto l’ombra, l’ombra che si diffonde in moltissime poesie, accompagnando il calar del sole o dilagando sotto le fronde degli alberi, metafora del tempo che si consuma, e di un implacabile avvicinarsi della morte. La fine della giovinezza viene cantata con rassegnata malinconia, e l’attesa di un dissolvimento nel nulla non ha niente di tragico, e assomiglia invece a un placido abbandonarsi al sonno: «come s’infrange un’onda nella calma», «La luna va calando all’orizzonte / dove si perde la pianura, e dice / che trapassare al nulla non è male», «Dolore, che mi seguiti immortale / e indomabile fino al limitare / della morte, avrò gioia dagli spazi?»
Quest’impressione di «ariosa calma», questo tranquillo e fiducioso affidarsi ai silenzi della natura e del cosmo, nei paesaggi notturni e acquatici che tanto ricordano l’immobile serenità delle stampe cinesi, rifuggono dall’esibizione di qualsiasi sfrontato richiamo autobiografico. Anche le poesie d’amore, pervase da una sensualità delicata e da un’armonia lontana da ogni smodata passione, si offrono al lettore con lo stesso pudore e incantata gratitudine con cui descrivono le fanciulle amate: «o ninfa, o baiadera, / non che adirarmi col vento d’amore / sospendo ai tuoi squillanti braccialetti / e alle tue lunghe mani una bianchezza / di mute solitudini, e il tuo collo / sfioro con disarmati occhi indolenti». L’eco di Saffo è dichiarata, ma si sente tutta l’eredità maturata nei secoli dai lirici latini fino ai provenzali e forse al nostro Penna: «Conduci al convegno quella ch’io amo / e non trapassi inconsumata l’ora / o notte. // In solitudine confusa, / dimentico tra me ch’ella è partita / e al luogo del convegno aspetto sola». Una voce purissima, dunque, che ha taciuto a lungo negli anni urlati degli sperimentalismi recenti, e che pure prova strategie compositive nuove e coraggiose, come nella ricerca degli attributi, spesso stranianti: fronte smemorata, insondabile azzurro, divieto acerbo, trionfanti primavere, bellezza acquatica, bruno languore, sabbia mortuaria, ora aggravata, volante cuore, alba abortita, oggetti quieti e sedentari…
Questa altissima poesia di Giovanna Bemporad rappresenta un severo ammonimento, un insegnamento consapevole della sua grandezza per la poesia italiana di oggi, così presuntuosamente soddisfatta di esibire obiettivi minimi, atmosfere banali, impoverimenti lessicali, ed è di sprone a una più impegnata profondità.

 

«Leggere Donna» n.154,  gennaio 2012

RECENSIONI

BENEDETTI

MARIO BENEDETTI, TUTTE LE POESIE – GARZANTI, MILANO 2017

Garzanti ha da poco pubblicato Tutte le poesie di Mario Benedetti (Udine, 1955), poeta schivo e non conosciuto quanto merita, che dagli anni ’70 ha seguito un suo percorso autentico e originale di scrittura, fedele a una interpretazione umile e partecipe della realtà e del proprio vissuto. Il volume raccoglie per la prima volta le sue opere più rappresentative, da Umana gloria (2004) a Pitture nere su carta (2008), fino a Tersa morte (2013) e all’inedito Questo inizio di noi (2015), ed è prefato da tre illustri poeti e amici (Antonio Riccardi, Stefano Dal Bianco, Gian Mario Villalta), che sottolineano con affetto e stima non solo la qualità letteraria dei versi di Benedetti, ma anche la tensione etica che li anima, radicata nei dati sofferti della sua vicenda biografica.

La madre originaria di una Slovenia impoverita, il padre invalido, il mondo contadino di Nimis con la sua lingua non esportabile, il terremoto del’76, gli studi a Padova e il trasferimento in una Milano proletaria e indifferente, la malattia autoimmune che si aggraverà nel corso di tutta l’esistenza per evolvere poi in sclerosi e infine nell’ictus che lo costringe oggi a una vita dimidiata, solitaria, impossibilitata a esprimersi: motivi sufficienti a spiegare “l’energia fredda e compressa e mista di intransigenza” di questo autore, i “sentimenti di inadeguatezza, inappartenenza e precarietà”, la “durezza” e lo “smarrimento” di cui parlano i suoi commentatori. In un’intervista radiofonica del 2012, Mario Benedetti diceva di sé “Sono nato malato… anche da bambino… avevo sempre qualcosa»: ma la sua pare al lettore una malattia più dell’anima che del corpo, l’impossibilità di adattarsi al reale, il sentirsi eternamente fuori luogo, in uno stato di perenne provvisorietà”.

Se leggiamo le poesie tratte da Umana gloria (quale gloria, c’è da chiedersi, se non quella sconfortata e avvilita della pura sopravvivenza), troviamo ripetuto il simbolo del muro: scrostato, “strappato”, che più che a proteggere serve a rinchiudere, a limitare, a imprigionare. Intorno, erbe, sassi, campi da dissodare, la fatica di un lavoro pesante e senza parole. L’infanzia, regno mitico del ricordo, è malinconia e stupore, un domandarsi impauriti perché si è sulla terra, a fare cosa e come, maldestri nei gesti e nell’espressione: “non so come dire”, “Dove sono? / io dove sono?”, “perché sono qualcuno?”, “Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda. / Pieno un pomeriggio di dormiveglia voglio stare”, “Mattine senza sapere di essere in un posto, dentro una vita / che sta sempre lì”. Le persone si muovono con lentezza e rassegnazione; sono i nonni, i genitori, il fratello, e altre comparse di cui si citano i nomi, tanti nomi paesani oggi in disuso (Dino, Vanni, Agostino, Ernesta, Rina, Giacomino…) quasi fossero a disagio anche nel solo sentirsi chiamare. Se il poeta si allontana dal paese per andare in altre città più grandi, o all’estero (la Bretagna e il mare del Nord tornano spesso, con i loro freddi) rimane comunque estraneo ai luoghi, confuso, in attesa di una identificazione che non arriva mai, senza alcuna volontà introspettiva o di scavo psicologico. Il lessico semplicissimo, lo stile volutamente dimesso, la sintassi sconvolta, con frequenti anacoluti e tautologie, sembrano voler sottolineare l’incapacità di adeguarsi alle aspettative di chi legge. Questa volontà spiazzante e provocatoria della lingua è tanto più evidente in Pitture nere su carta, in cui Benedetti approda a una scrittura sincopata, scarnificata, quasi celaniana, che denuncia l’assurdità del vivere, poiché è la morte che alla fine vince, e tutto si dissolve nel turbinoso rincorrersi di anni, secoli, millenni, di cui solo i musei, i cimiteri e i reliquari manterranno testimonianza: “Ma nessuno è qualcuno, niente la notte, nessun mattino”, “Infinite mattine, infinite notti. / Va dolce il nulla, // il dolcissimo nulla”, “Non l’ascolto, sta la veglia, senza. / Carriole di muri, non raccontate”. Il verso diventa balbettio, chiede soccorso a termini stranieri, alla pittura di Goya, di Cézanne, di Mondrian, alla storia e alla preistoria, alla teologia: “Rinnegato il canto. / Gli altari. / Perché tutti possano udire”.

La riflessione sul tempo cede il passo, nell’ultima raccolta Tersa morte, al pensiero ossessivo della morte, al disfacimento dei corpi che diventano ossa, teschi, putridume, assediati in ospedali e case di riposo, tra personale impaziente, cateteri, diarree. Il poeta, o il suo sosia (poiché non è lui davvero che fa visita al padre, alla madre malati, agonizzanti: il dolore lo costringe a uscire da sé, a costruirsi una controfigura), si muove come sonnambulo, in una incomunicabilità totale con gli altri per pudore e vergogna della propria fisicità, aspettando una liberazione o una condanna: “Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole”, “Il gas dei corpi, / i vestiti smangiati, i femori, / le mascelle, i denti, il loro sorriso, / il bacio dei denti, senza labbra”, “Non è valsa la pena affaccendarsi”.

Siamo sostituibili, irrilevanti, e nemmeno la poesia ci salva, come ammoniscono questi versi testamentari e purtroppo profetici: “Non saprai di essere morto, / non sarai, quel nulla che nella vita diciamo / non sarai, non ci sarai più, non saprai di te. / Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere / la pura inconcepibile assenza, non distrarti”, “Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta”.

 

© Riproduzione riservata        «Nazione Indiana», 12 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BENEDETTI

TARCISIO BENEDETTI, ALBORADA. LA TIPOGRAFIA DELLA LIBERTÀ – EDIZIONI LAVORO, ROMA 2021

Il colpo di Stato dell’11 settembre 1973, che in Cile portò alla fine dell’utopia socialista di Salvador Allende e al suo suicidio, provocando la salita al poter del regime dittatoriale di Pinochet, aveva provocato nel mondo e in particolare nel nostro paese un’emozione fortissima. In Italia trovarono rifugio e concreta solidarietà migliaia di profughi cileni, mentre cresceva l’interesse per la cultura della nazione sudamericana attraverso la diffusione della poesia e della musica di artisti impegnati quali Victor Jara, Violeta Parra, Pablo Neruda, gli Inti Illimani, i Quilapayún. Furono soprattutto le confederazioni sindacali a mobilitarsi per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla violazione dei diritti democratici del popolo cileno, sulle torture inflitte agli oppositori, sulle disastrose condizioni economiche in cui il golpe aveva ridotto il paese. Vennero avviati fattivi progetti di formazione politica e ricostruzione materiale: tra questi suscitò grande interesse e partecipazione la creazione di un centro grafico ed editoriale cui fu dato il nome augurale di Alborada (Nuova Alba), gestito da una ong della Cisl, la Iscos, che avviò l’installazione di una tipografia utilizzata per stampare manifesti, riviste e quotidiani di opposizione. Tra i più incisivi furono il “Fortín Mapocho”, “La Epoca”, “El Siglo”, che partendo da una situazione di semi o totale clandestinità, raggiunsero presto una straordinaria popolarità tra i lettori, contribuendo così alla ripresa delle libertà costituzionali. Queste testate giornalistiche, spesso prese di mira dal regime con boicottaggi e censure, giocarono un ruolo fondamentale sia nel favorire la campagna per il No a Pinochet nel referendum del 1988, sia nell’appoggiare l’elezione di Patricio Aylwin Azocar alla Presidenza della Repubblica nel 1990.

In questa difficile contingenza storica si inserisce la vicenda umana e politica di Tarcisio Benedetti, che alla sua esperienza di vita e di lotta in Cile ha ora dedicato un libro di memorie e testimonianze: Alborada. La tipografia della libertà. Benedetti, nato in provincia di Verona nel 1947, appena sposato si trasferì in Cile con la moglie pochi mesi dopo il colpo di Stato, per fare il servizio civile in sostituzione di quello militare, insegnando per quattro anni (1974-1978) in una scuola professionale della cittadina mineraria di Curanilahue, nella provincia di Arauco. Braccato dalla polizia del regime per aver stampato bollettini clandestini, fu costretto a lasciare il paese sudamericano per rientrare a Verona, tornando al suo lavoro di grafico alla Mondadori. Nel 1987 partì nuovamente per il Cile proprio per contribuire alla realizzazione del Progetto Alborada, dirigendo la tipografia impegnata a stampare materiale di lotta e resistenza.

Grazie alla sua abilità, alle sue conoscenze tecniche e all’acquisto di una nuova rotativa, i giornali pubblicati raggiunsero presto tirature nazionali, centrando in pieno gli obiettivi programmati di propaganda libertaria e opposizione alla dittatura fascista, e incoraggiando la transizione verso la democrazia. Solo dopo la caduta del regime militare, Benedetti tornò in Italia con la famiglia, continuando nel suo impegno costruttivo di sindacalista e operatore sociale.

Il volume di cui trattiamo prende avvio da una suggestiva e commovente ricostruzione della saga familiare dell’autore: l’infanzia poverissima, sesto tra otto figli, cresciuto in un ambiente rurale e fortemente marchiato dal cattolicesimo; la scuola professionale e il lavoro di apprendista meccanico; la decisione di entrare diciottenne in seminario con il desiderio di diventare missionario in America Latina; il fascino esercitato da figure importanti del cattolicesimo sudamericano (i vescovi Hélder Câmara e Pedro Casaldáliga, il sociologo Paulo Freire… ); l’impegno sindacale e l’obiezione di coscienza; la decisione di abbandonare gli studi teologici e di sposare una giovane fisioterapista, salpando con lei verso Valparaíso nel 1974.

Aldilà delle pur interessanti vicissitudini biografiche, risulta coinvolgente per il lettore seguire lo sviluppo della coscienza civile e intellettuale di Tarcisio Benedetti, la sua dedizione all’ideale di libertà e sviluppo dei paesi sottosviluppati, il coraggio di abbracciare scelte ideologiche ed etiche non scontate, e spesso drammatiche. Vibranti di indignazione appaiono le pagine che raccontano le torture a cui i militari sottoponevano i civili negli anni della sua doppia permanenza in Cile, le perquisizioni e le minacce subite a livello personale e familiare, l’orgoglio per l’attività generosa svolta dalle ong italiane nel soccorrere situazioni di emergenza sanitaria, alimentare e produttiva del paese, i rapporti di amicizia e collaborazione intessuti con singoli e istituzioni.

Ai quindici capitoli in cui si articola il volume, si aggiungono i commenti introduttivi e conclusivi di Alberto Cuevas e Andrea Gandini, l’ultimo discorso di Salvador Allende, una poesia di Mario Benedetti e una bibliografia orientativa.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 23 febbraio 2021