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RECENSIONI

YOSHIMOTO

BANANA YOSHIMOTO, IL DOLCE DOMANI – FELTRINELLI, MILANO 2022

Sayoko e Yōichi sono i due giovani protagonisti dell’ultimo libro di Banana Yoshimoto pubblicato in Italia, nella Universale Economica Feltrinelli: Il dolce domani. Ambientato fra i templi e gli onsen di Kyoto, il romanzo, scritto poco dopo il terremoto e lo tsunami di Fukushima, racconta una storia d’amore quasi banale, interrotta tragicamente dalla morte del ragazzo, in un incidente stradale che lascia la fidanzata ferita gravemente. Si tratta quindi della narrazione di un lutto e della sua elaborazione, da parte di chi rimane in vita, ma con la vita stessa fatta a pezzi.

La voce narrante è quella della ventottenne Sayoko, che inizia il suo racconto dalla ricostruzione dell’incidente, avvenuto in una tiepida giornata primaverile, mentre i due, di ritorno in auto da una gita alle terme di Kurama, vengono investiti da un’altra macchina guidata da un ubriaco. Yōichi, giovane e promettente scultore d’avanguardia, muore sul colpo, mentre la ragazza ha l’intestino trapassato da un bastone di ferro. Il suo recupero fisico è lento, quello emotivo pare da subito ancora più problematico.

Sayoko si aggrappa alle poche certezze che le rimangono: il ricordo affettuoso del nonno e di un cane amato nell’infanzia, il rapporto recuperato con i suoi genitori e le visite ai genitori del fidanzato, l’impegno a catalogare e diffondere le opere artistiche di lui. Ma trascorre il primo anno successivo alla tragedia chiudendosi al mondo, imbozzolata nel dolore, incapace di reagire. Inizia a bere: frequenta il locale di un barista gentile, Shingaki, che la incoraggia a ritrovare il suo mabui, l’anima, là dove le è accaduto di perderla, e intanto controlla fraternamente che i bicchieri di awamori tracannati non abbiano effetti troppo nocivi su di lei. La tristezza prende forme strane: induce la protagonista ad assumere sembianze maschili per mortificare la propria femminilità, le fa balenare davanti agli occhi vaghe allucinazioni, fantasmi o personaggi dei fumetti manga, le rende difficili i rapporti con tutte le persone di cui intuisce l’insensibilità o la grettezza: “Ognuno di noi vive la propria vita portandosi dietro il peso del dolore che ha provato. Ci sono anche quelli che non provano niente e che non portano alcun peso: basta un’occhiata per capire chi sono. Sembrano automi, sono diversi dagli altri. Quelli che portano un peso li riconosci dal colore, dall’incedere pieno di grazia. Ecco perché sono contenta di avere un peso da portarmi dietro. Finché avrò giorni da vivere, voglio viverli con grazia”.

Sayoko è consapevole del proprio cambiamento, fisico a caratteriale, decisa ad accettarlo accontentandosi di vivere giorno per giorno nel presente, senza preoccuparsi di quello che il futuro le prospetta, senza averne più paura, e anzi apprezzando le minime premure e gentilezze quotidiane di conoscenti e sconosciuti, che le costruiscono intorno “fortezze di fiducia”. Oltre al barista, stringe amicizia con un giovane gay, Ataru, che come lei soffre la perdita di una presenza amata, e insieme godono di ritrovare nella memoria il ricordo dei cari scomparsi, riflettendo sulla bellezza di ogni istante vissuto, provando compassione per se stessi e per ogni essere vivente.

Un racconto scritto con garbo, Il dolce domani, senza la pretesa di affrontare temi profondi o di esibire particolari abilità di stile: l’autrice stessa, nella postfazione, ne parla con umile consapevolezza: “Io non scrivo opere colossali, che mettano tutti d’accordo: posso solo, nel mio piccolo, rivolgermi a quei pochi che, per un motivo o per un altro, si sentono aiutati, o confortati, leggendo i miei romanzi”. Banana Yoshimoto, figlia di Takaaki Yoshimoto (uno dei più importanti poeti giapponesi degli anni sessanta), è nata a Tokyo nel 1964. Lo pseudonimo Banana è stato scelto dalla scrittrice, a sostituire il vero nome Mahoko, per il suono volutamente androgino...Sposata con il musicista Hiroyoshi Tahata, da cui ha avuto un figlio, è convinta sostenitrice dei diritti LGBT, e nella sua narrativa, sempre attenta alle problematiche sociali e psicologiche e alle esperienze emotive giovanili, molti personaggi fanno parte della comunità gay.

Tra i suoi quindici romanzi, i più famosi Kitchen, (best seller internazionale, con oltre 60 ristampe nel solo Giappone), e Tsugumi, sono stati trasposti in film  di successo. La critica ritiene la scrittura di Yoshimoto piuttosto superficiale, prevalentemente mirata a conquistare il mercato commerciale. In realtà i temi trattati, per quanto tradizionali (amore, amicizia, famiglia, dolore, morte) riescono a interessare milioni di lettori in tutto il mondo, e rappresentano un fenomeno culturale da non sottovalutare.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 22 aprile 2022

 

 

RECENSIONI

ZAGAJEWSKI

ADAM ZAGAJEWSKI, PROVA A CANTARE IL MONDO STORPIATO  – INTERLINEA, NOVARA 2019

Di Adam Zagajewski l’editore Adelphi ha pubblicato due volumi: Tradimento e Dalla vita degli oggetti, il primo di prose, il secondo di poesie. Ora Interlinea propone un’antologia di versi, Prova a cantare il mondo storpiato, curata da Valentina Parisi, che ha firmato anche un’acuta presentazione.
Zagajewski, uno dei più noti e premiati poeti polacchi, è nato a Leopoli nel 1945. Costretto nello stesso anno a lasciare la città occupata dai sovietici, con la famiglia è vissuto a lungo in Slesia, per poi trasferirsi a Parigi, a Berlino, a Cracovia e quindi in America, dove oggi insegna letteratura all’University of Chicago.

La sua scrittura risente ovviamente del dramma storico vissuto in prima persona, che ne ha fatto un perenne esiliato e transfuga dal mondo. Come uomo ha infatti patito una pesante persecuzione politica da parte della Stasi per la sua opposizione al regime, come poeta ha condiviso il destino di chi pensa e parla in una lingua fatta di simboli e immagini, lontana dalla concretezza dell’esistenza materiale, incompresa e mal tollerata dai più. La raccolta uscita da Interlinea presenta testi inediti in italiano insieme a poesie già note, come la più celebre che dà il titolo al libro. Scritta nel 1999 e dedicata all’Ucraina, è stata però pubblicata sul New Yorker nei giorni successivi all’11 settembre 2001, in quanto il tono dolente dei suoi versi sembrava poter ben adattarsi ai tragici avvenimenti americani, nel suo invito a cantare sia il dolore sia la bellezza, sia la distruzione sia la rinascita: “Canta il mondo storpiato / e la penna grigia perduta dal tordo, / e la luce delicata che erra, svanisce / e ritorna”.

La scrittura di Zagajewski si è posta sin dagli esordi l’obiettivo di testimoniare i drammatici avvenimenti che hanno afflitto la contemporaneità, provocando guerre e lutti, perseguitando individui e interi popoli, condannando ideologie e fedi religiose. La sua sensibilità ferita si è espressa soprattutto in difesa degli ebrei polacchi, alcuni deportati nei campi di concentramento, altri umiliati per tutta la vita, individuando figure particolari che assurgessero ad esempi universali di innocenza calpestata. Così Ruth, avvocatessa costretta a vivere nel ghetto di Cracovia, la cui gattina ‒ ignara di divisioni di razze ‒ di notte si inoltrava nei quartieri ariani. O il parrucchiere Władziu, «gracile e delicato», con l’unica passione della pesca. O i tanti polacchi come lui deportati nel 1945: «ci siamo lasciati alle spalle le fosse comuni / e un dolore senza casa / adesso siamo noi senza casa», «Arrivati con le valigie in mano, come turisti ‒ / siamo rimasti a lungo». Storie minime di donne e uomini minimi, sopraffatti dalla crudeltà della storia. Ma anche destini tragici di personalità eccezionali, che si sono dovute confrontare con l’ostilità di un destino feroce, indifferente o troppo pesante da sopportare: Blake, Hölderlin, Delacroix, Marx, Mandel’štam, Husserl, Brecht, Brodskij…

Consapevole che «la bellezza fugge dal mondo irrimediabilmente», Adam Zagajewski affida alla poesia il compito di salvarne almeno una traccia. I poeti sono per lo scrittore di Leopoli i nuovi santi dell’umanità, perché dediti a un’arte gratuita e forse inutile, ma senz’altro non nociva: «I poeti, invisibili come minatori, / nascosti sottoterra, / costruiscono per noi una casa: // erigono alti soffitti / bifore veneziane, / splendidi palazzi, / ma loro non possono, / non possono abitarli: // Norwid all’ospizio, Hölderlin nella torre; / il pilota solitario di un caccia / canticchia una ninna nanna: svegliati, Terra». Poeti poco letti, trascurati, dimenticati in questa nostra «terra sbadata», che hanno saputo preservare tenerezza e sorrisi, mentre altri «smarriti, smarriti in corridoi grigi» coltivavano con interesse solo «la nostra memoria nera».

Tutta l’arte ha l’immenso compito di aiutare l’umanità a sopravvivere, superando sofferenze e tragedie. Ma ogni attimo di serena e anonima contemplazione della bellezza ha lo stesso grandioso scopo, e bastano quattro versi a ricordarcelo: «Certo, difendere la poesia, lo stile elevato, ecc., / ma anche le sere d’estate in una bella cittadina, / dove profumano gli orti e i gatti siedono tranquilli / sulla soglia di casa come filosofi cinesi».

 

https://www.sololibri.net/Prova-a-cantare-il-mondo-storpiato-Zagajewski.html           19 novembre 2019

© Riproduzione riservata

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ZAGREBELSKY

GUSTAVO ZAGREBELSKY, GIUDA. IL TRADIMENTO FEDELE – EINAUDI, TORINO 2019

Gustavo Zagrebelsky (1943), già presidente della Corte costituzionale, professore emerito dell’Università di Torino e firma del quotidiano «La Repubblica», ha pubblicato da Einaudi un volume dedicato alla controversa figura di Giuda.

Si tratta di un libro nato da una serie di colloqui realizzata per la trasmissione Uomini e profeti di Rai Radio 3 curata da Gabriella Caramore, che qui incalza intelligentemente il suo interlocutore non solo sul ruolo rivestito da Giuda nel Vangelo, bensì su la questione che è alla base di ogni riflessione filosofica, cioè l’opposizione tra male e bene, nelle sue varie declinazioni: colpa e innocenza, odio e amore, vendetta e perdono, condanna e salvezza, libertà e predestinazione.

Alla luce di una considerazione che indica la chiave di lettura dell’intero volume (“Le cose umane sono ambigue, aperte al bene e al male… la storia di Giuda è un inestricabile intreccio di questa duplicità”), Zagrebelsky si interroga sul fascino che la figura del traditore per antonomasia ha esercitato per duemila anni non solo tra i cristiani, ma in ogni settore della cultura occidentale. Si è descritta e interpretata la sua personalità in molteplici maniere, divergenti e spesso contrapposte: individuo abietto e disperato, umile e avido, intimo di Gesù e posseduto da Satana, capro espiatorio e complice del potere, dissimulatore e sprovveduto. Giuda è stato strumento del diavolo o artefice di un piano divino, ha agito obbedendo al Principe degli inferi o nell’obbedienza del Signore? Nel suo rifiuto del messaggio di Cristo si è fatto portavoce dell’opposizione del popolo ebraico oppure ha collaborato con il Messia nell’opera della salvezza? Era un iniziato alla conoscenza delle verità ultime o un sordido individuo attratto solo dal miraggio di un guadagno?

Zagrebelsky insinua nel lettore il sospetto che Giuda sveli a ognuno di noi un lato della nostra personalità che non vogliamo vedere ed esibire, la parte in ombra della coscienza che abbiamo paura  affiori svelandoci quello che temiamo di riconoscere. Nello stesso tempo si chiede se esista “più verità nell’abiezione e nella disperazione che nella santità e nella pacificazione con se stessi”, e se solo attraversando il territorio del peccato si possa arrivare alla verità.

L’agire colpevole di Giuda è stato raccontato, in maniera diretta o traslata, in letteratura (Goethe, Dostoevskij, Mann, Borges…), in musica (Bach e decine di Passioni), in pittura (dal Medioevo a Rembrandt e in tutta l’arte sacra), in una serie infinita di saghe popolari: ne è nata una tradizione culturale diffusa che ha fatto di lui un essere spregevole, con sembianze demoniache, escluso dal consorzio umano. Molti sono i quesiti che la sua drammatica scelta propone a chi voglia indagarla in profondità: gli autori del volume mettono a confronto i quattro Vangeli e gli Atti degli Apostoli, esaminandone contraddizioni e convergenze. Giuda fu strumento inconsapevole di un disegno provvidenziale di redenzione, o invece vittima di rivalità e invidie tra i discepoli? Fu ostaggio di un’ingenua illusione di insurrezione politica mai attuata da Gesù, o al contrario il più fedele alleato del Messia nel decidere di liberarlo dalla sua limitante natura corporea, assolutizzandone così la spiritualità? Qualsiasi lettura si voglia dare della sua condotta (psicologica, politica, escatologica), essa rimane un mistero insondabile e di ardua decifrazione teologica.

Una questione fondamentale per il credente è posta soprattutto dal suo suicidio. Condannandosi a morte, egli ha mostrato di non sperare o credere nel perdono di Dio, smentendone l’attitudine indulgente e benevola, quasi che la proclamata misericordia divina non fosse in grado di accogliere e compatire il colpevole più esecrabile. Impiccandosi, Giuda ha impedito a Dio la possibilità di assolverlo. È stata questa forse la sua colpa più grande.

Ma esiste un tratto comune nella morte di Giuda e di Gesù, “che potrebbe assurgere a simbolo della comunanza di destino: pendono entrambi dal legno. Il legno potrebbe rappresentare la convergenza delle vie di entrambi e l’unità del disegno in cui, a diverso titolo, sono stati coinvolti”. Tutti e due capri espiatori, perché se “Gesù ha preso su di sé tutto il male del mondo per renderlo libero, così Giuda ha preso su di sé tutto il tradimento del mondo, per renderlo fedele”: immolandosi e abbracciando fino in fondo la missione che era stata loro affidata, hanno adempiuto le profezie. Si potrebbe addirittura arrivare a considerare Giuda “un martire della libertà, che per devozione a Dio si è prestato a essere satana… come il santo necessario, che, con la sua rivolta, rivela la grandezza dell’uomo anche rispetto a Dio”.

Con questa riflessione finale che parrebbe indicare un’assoluzione, o perlomeno una comprensiva apertura verso le ragioni di chi ha tradito, Zagrebelsky suggerisce che nella colpa e nella disperazione Giuda è nostro fratello, simbolo per eccellenza della tribolata condizione umana.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 26 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ZANIER

LEONARDO ZANIER , IL CÂLI – AMADEUS, MONTEBELLUNA 1989
CAMUN DI DIMPEÇ – ED. LE PAROLE GELATE, ROMA 1989

Due volumi di poesia pubblicati nello stesso mese dello stesso anno sono senz’altro spia di una vitalità di pensiero e di una fertilità di vena indubbiamente e invidiabilmente felice, esuberante. La stessa felicità ed esuberanza che Leonardo Zanier esprime col suo modo di aggredire la vita, di impastoiarsi nel lavoro, di spostarsi da un capo all’altro dell’Europa si evincono infatti dai suoi versi: chi li ha letti dal loro primo ufficiale e meritatamente famoso manifestarsi (Libers…di scugni là, 1960-1962) sa di questa passione politica, vis polemica, ma anche di quanta purezza di canto e limpidezza teorica essi siano pregni. Confrontarsi ora, in questo decennio che ormai ci separa dal duemila, con le utopie di una vita, è tanto impervio quanto stimolante per un sindacalista affermato e accreditato come Zanier; più difficile e intrigante ancora affrontare la sfida, da poeta, proposta dalla nuova poesia che oggi tanto si pratica e si esalta: impersonale, eterea e, quando in dialetto, addirittura elegiaca. Con questi suoi due nuovi libri,  Il câli  e  Camun di Dimpeç, Zanier ha accettato questa duplice sfida, affrontandola con il piglio baldanzoso che gli è proprio e approdando ad un risultato di sicura rilevanza e positività. Il câli (Il Caglio), pubblicato a Treviso, per i tipi di  Amadeus, è un testo complesso articolato in diversi livelli di scrittura, con una scissione ben netta tra prosa e poesia, documenti, saggi e interventi, italiano e friulano, senza tuttavia risultare ambiguo o discontinuo. Il caglio, che si aggiunge al latte scremato e scaldato per farne formaggio, è ingrediente in qualche modo magico, in qualche modo miracoloso, imparentato al lievito di evangelica memoria: serve a trasformare una materia, grezza, in un’altra, più elaborata, un prodotto naturale in uno più artificiale. Prosa in versi, pensiero in poesia, impegno politico in fermento poetico. I personaggi, gli ambienti, quelli tipici dello Zanier che già conosciamo (l’oste di Povolaro, Bortul dal Negro, cui duole la gamba amputata; la vecchia Mabile guaritrice di paese, mezza strega mezza luminare di una scienza alternativa e antichissima; Jacum, operaio della Sulzer di Winterthur, «Cipputi / furlan e svizzer»; i marocchini, nuovi emigrati sulle orme degli emigrati carnici…), protagonisti di un’epopea degli ultimi cui Zanier ha sempre dedicato la sua attenzione di politico e il suo amore di poeta. Ma ci sono anche altre atmosfere da osservare, altre somme da trarre: fare i conti con l’età che avanza e con il corpo che funziona meno bene: «e in ogni caso ci si troverà confrontati ad assumere una fase che ha davanti meno futuro. Insomma preparati a morire, entrare nella terza età, ridimensionare il campo d’azione, iniziare un nuovo ciclo, l’ultimo, non è faccenda semplice…».

«lu cjâf / l’é plui lambri / mi samea- // lu cuarp / mancul sbûrit / – no s’imbardea-», «I ciati ogni buinora / ch’a mi spieta / ‘tal armarut di formica / dal bagno / un quart di ridada / in porcelana / sul so telâr di azâr / arian e aur».

Abituarsi all’assenza, ai vuoti lasciati da persone amate o amiche, agli ambienti di lavoro e alle case cambiate, al venir meno della propria indispensabilità: «s’alzin / voi no mi lodin / arlevament / a mancjanza», «sôra / muruz e spaltadas / raminas e cunfins // jo cun lôr / spia e contrebandîr / (dai miei destins)», «par nasci / arbui o lerbas / in t’un âti forest / o finî ta lavatric / a less». Il poeta cambia dentro, cambiano anche i luoghi intorno, prostituiti al dio soldo («E poi stagioni e turismo: non tanto predica ecologista, ma caricatura minimale di un fenomeno degenerativo…», come nell’amara  Estât a Lignan). I personaggi quasi epici che animavano la vita delle comunità montane hanno lasciato il posto a persone meno vere, fatte quasi con lo stampo: la montagna stessa, sia essa carnica, svizzera o austriaca, si è imbastardita in un rapporto di sfruttamento reciproco col turismo, snaturandosi, condannandosi: «si viergins buteghins / di souvenirs e sciolinas / boutiques mode-in / tee-rooms Gasthäuser / camerirs sclâs / côgus ‘talians o grisons / lavaplaz turcs o tamils // tra i antî das butêgas / blanc e ross i ladins / ridint di gust / a contin i becins: / ‘Bundî-Buongiorno- / Grüzi-Grüssgott-Gutentag’ / a discin vivorz / a chel davoi ingjaulât / fascint pal frêt / ‘ta l’aria / nuluz di flât / a ogni peraula».

Il guardarsi alle spalle non è allora un processo nostalgico e un po’ reazionario di tanta poesia vernacolare, un “come eravamo” stillante retorica: in Zanier il parlare di figure e ambienti del passato, e il parlarne in dialetto, assume quasi una connotazione documentaristica, di ricerca e di memoria “archeologica”, affinché non tutto si perda di quello che siamo stati e che la Carnia è stata.
Nel secondo libro, Camun di Dimpeç, è proprio questo desiderio di narrare e fissare nel ricordo collettivo fenomeni e sentimenti in via di estinzione ad avere lo spazio e la tensione poetica maggiore. Camun di Dimpeç (titolo che gioca sul doppiosenso tra camuno-comune) è un pregiato volumetto stampato in pochi esemplari, numerati e firmati, dall’editore Martinis per  Le parole gelate di Roma: Zanier vi narra la storia di un bastone ritrovato in una malga di Ampezzo, minutamente inciso in tutta la sua lunghezza con disegni riportati anche sul libro: «…ramazut di nolâr, taiât ‘ta stagjon dai amôrs…sgorbiuta cul mani di quargnul e timp, timp avonda e un pinsîr, un pinsîr fiss ‘tal cjâf…». Quale sia stato il pensiero fisso del contadino-artista, Zanier cerca di interpretarlo, da poeta, con l’offrire una lettura che partendo dall’incisione descritta minuziosamente, arriva ad azzardare ipotesi psicanalitiche, ma anche soluzioni più leggere e fantasiose, a dare aria al già arioso e inventivo ricamo grafico, come in questo bel pezzo, Tension: «Pès ch’al svuala e al si alza ribaltât…ai van devour: linzul, aquilons, tovalas, gardelas e imo’ cours, cours-pess, cours-pagnocas…Dût tacât, picjât, come a suîa sui rais dal sôreli, o su ramazuz di un arbulon di cucagna, o sui fi di una tela di rai…Taula improntada, sul prât, par in gustâ di nozas. Dut al va in su, in sbighèz: tension, tiradoria, fan… voia insomas. Il pastor vevel fan? Fan di ce? I mi dîs j ti dîs…».

«Agorà» (Svizzera), 21 giugno 1989

RECENSIONI

ZANNINI

ANDREA ZANNINI, L’ALTRO PASOLINI – MARSILIO, VENEZIA 2022

Un Pier Paolo Pasolini ventitreenne scriveva versi semplici e commossi dedicati a suo fratello Guido, ucciso a Cividale del Friuli il 12 febbraio del 1945 per mano di gappisti italiani e jugoslavi durante l’eccidio di Porzûs: «La libertà, l’Italia / e chissà Dio quale destino disperato / ti voleva / dopo aver vissuto e patito / in questo silenzio. / Quando i traditori nelle Baite / bagnavano di sangue generoso la neve, / “Scappa – ti hanno detto – non tornare lassù” / Ti potevi salvare, / ma tu / non hai lasciato soli / i tuoi compagni a morire / “Scappa torna indietro” / Ti potevi salvare, / ma tu / sei tornato lassù, / camminando. / Tua madre, tuo padre, tuo fratello / lontano / con tutto il tuo passato e la tua vita infinita, / in quel giorno non sapevano / che qualcosa più grande di loro / ti chiamava / col tuo cuore innocente» (Corus in morte di Guido, 1945).

Guidalberto Pasolini, detto Guido, era nato a Belluno il 4 ottobre 1925, tre anni dopo Pier Paolo: terminato il liceo scientifico a Pordenone, appena diciottenne si affiliò alla Brigata Osoppo operativa in Carnia con il nome di Ermes, scelto in ricordo del più caro amico del fratello, morto durante la campagna di Russia. La tragica vicenda di Guido viene raccontata nel libro di Andrea Zannini L’altro Pasolini, pubblicato da Marsilio, con prefazione di Walter Veltroni. La narrazione prende avvio presentando il nucleo familiare dei Pasolini: il padre Carlo Alberto, militare di carriera e fascista convinto, la madre Susanna, maestra friulana, e i due figli, legatissimi tra loro ma profondamente diversi nel carattere e nelle progettualità di vita. “Guido era l’opposto di Pier Paolo: vitalista, esuberante, temerario”, deciso a combattere non solo contro gli invasori nazisti, ma anche contro la slavizzazione della sua regione e l’infiltrazione dell’ideologia comunista, in una visione convintamente patriottica di difesa dell’autonomia italiana. Iscritto al Partito d’Azione, appena diciottenne si impegnò in azioni di propaganda e di sabotaggio nei paesi circostanti Casarsa, dove la sua famiglia risiedeva dal ’43 nella casa dei nonni materni. Più volte fermato dalla guardia civica fascista per insubordinazione, nel maggio del ’44 prese la decisione di darsi alla macchia, aderendo alla Brigata Osoppo. “Rimanere a casa, sotto la sorveglianza ‘continua ed esasperante’ di tedeschi e carabinieri significava mettere a repentaglio la sicurezza non solo sua, ma di tutti coloro che gli stavano vicino”.

Fu accompagnato alla stazione da Pier Paolo, che, più meditativo e troppo attaccato alla madre per abbandonarla, aveva scelto di rimanere al paese, dedicandosi allo studio, alla poesia e all’insegnamento privato: “Non sanno come io sono infinito in me; com’è differente il mio mondo; come a me non importi altro praticamente che la mia poesia e teoricamente il mio infinito”, scriveva in un diario. Guido comunicava con i familiari attraverso sporadiche lettere firmate “Amelia”, fingendo di essere una ragazza a servizio in una famiglia di Gorizia. “Il mio pensiero ritorna per una strana fissazione a Pier Paolo… cosa fa? Perché non mi scrive mai? … Alle volte mi ossessiona l’idea che lui pensi a me con una certa amara ironia: ne rabbrividisco”. Solamente in una missiva datata 27 novembre 1944 scrive direttamente al fratello, confessandogli preoccupato il progressivo deterioramento dei rapporti tra i partigiani delle formazioni Osoppo e Garibaldi: “I comunisti garibaldini hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell’Italia!!!» In queste parole si trova probabilmente la motivazione dell’eccidio del febbraio 1945 nel Friuli orientale in cui Guido trovò la morte: il fatto di sangue più increscioso avvenuto in Italia durante la guerra partigiana.

Le Brigate Osoppo-Friuli erano formazioni partigiane autonome fondate a Udine a fine ’43 da volontari di ispirazione laicasocialista e cattolica, collegati alle formazioni garibaldine comuniste: loro scopo era combattere le forze occupanti tedesche, che avevano sottratto l’intero territorio friulano e giuliano alla Repubblica Sociale Italiana, instaurando un regime di repressione e spoliazione, con la partecipazione di reparti di SS etniche, di cosacchi e di forze repubblicane fasciste.. La situazione politico-militare della zona, al centro di opposti nazionalismi e di secolari rivalità etnico-territoriali, era molto complessa, e i rapporti tra le varie formazioni partigiane sloveno-jugoslave e garibaldine particolarmente conflittuali. Le brigate Osoppo vennero coinvolte nel tragico episodio di Porzûs, dove aveva sede il comando del Gruppo delle Brigate Est della Divisione Osoppo, comandato dal capitano degli alpini Francesco De Gregori, detto “Bolla” (zio trentaquattrenne del noto cantautore romano). Gli osovani, con le loro continue proteste contro le mire nazionalistiche jugoslave e contro la politica di collaborazione garibaldina, suscitarono la reazione delle componenti comuniste del Comitato, che attivarono i gappisti operanti nella zona, incaricandoli di attaccare la sede del comando della Brigata Osoppo. Sul posto vennero quindi inviati un centinaio di gappisti, guidati da Mario Toffanin “Giacca” (uomo fidato di Tito nelle forze comuniste italiane, fortemente ideologizzato ed estremista), che catturò con un trucco “Bolla” ed altri comandanti della Osoppo, e li fucilò subito, sottraendo loro carteggio, armi e provviste. Gli altri partigiani presenti, tra i quali Guido, vennero uccisi successivamente. L’eccidio ebbe rilevanti seguiti giudiziari con un lungo processo, che si concluse con pesanti pene.

Gli ultimi giorni di vita di Guido conobbero momenti avventurosi e drammatici. Fatto prigioniero dai GAP vicino al confine jugoslavo, venne incarcerato ma, sottrattosi alla sorveglianza riuscì a scappare. Raggiunto dagli inseguitori, fu ferito da raffiche di mitra alla spalla e al braccio destro. Sfuggito ancora alla cattura, cercò di dirigersi verso Udine, medicato e rifocillato da contadini della zona; scoperto da due combattenti del Battaglione Ardito, fu fatto sdraiare in una fossa e finito con un colpo di pistola alla testa.

La famiglia Pasolini venne a conoscenza della sua morte solo il 2 maggio; il 20 giugno si svolsero a Udine le esequie pubbliche dei caduti di Porzûs, e il giorno dopo Guido fu tumulato nel cimitero del paese: «Torna tra i suoi portando intatte le sue certe illusioni, la sua bandiera», recitava il necrologio.  Pier Paolo, certo ormai che l’esecuzione del fratello fosse stata ordinata ed eseguita da partigiani jugoslavi e da alleati italiani che intendevano annettere il Friuli alla Jugoslavia (“Gentaglia certo senza chiarezza interiore, senza patria, mossi a combattere dal puro egoismo. Ben differente da te!”, scrisse in una lettera idealmente dedicata a Guido) maturò lentamente, anche sulla scorta delle prime letture di Marx, la sua adesione al Partito Comunista, iniziando a collaborare con la stampa di sinistra. Walter Veltroni così commenta nella prefazione al testo di Zannini: “Il tema che percorre il libro è anche quello del rapporto tra Pasolini e il Pci che proprio attorno agli eventi tragici e violenti di Porzûs e agli anni che immediatamente li seguirono diventa un legame di appartenenza a cui Pier Paolo non mancò mai di restare fedele”. Nell’ottobre del 1949, con atto della Federazione comunista di Pordenone, venne espulso dal PCI “per indegnità morale e politica” in seguito alla scoperta della sua omosessualità. “Malgrado voi, resto e resterò sempre comunista, nel senso più autentico di questa parola”, scrisse a un dirigente comunista friulano. Non fu mai riabilitato dal partito. Trasferitosi con la madre a Roma per sfuggire allo scandalo e alla persecuzione sociale e politica che ne era conseguita, iniziò così la sua prestigiosa carriera letteraria e cinematografica.

In Comizio, una delle poesie de Le ceneri di Gramsci (1954), ancora ricordava con commossa ammirazione Guido: “mio fratello mi sorride,  /   mi è vicino. Ha dolorosa e accesa, // nel sorriso, la luce con cui vide, / oscuro partigiano, non ventenne   /   ancora, come era da decidere // con vera dignità, con furia indenne / d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra / in quei poveri occhi, umiliante e solenne… // Egli chiede pietà, con quel suo modesto, / tremendo sguardo, non per il suo destino, / ma per il nostro… Ed è lui, il troppo onesto, // il troppo puro, che deve andare a capo chino? / Mendicare un po’ di luce per questo / mondo rinato in un oscuro mattino?”

Il volume di Andrea Zannini si conclude con un appassionato commento a un dramma storico in lingua friulana che, ritrovato tra le carte pasoliniane in triplice dattiloscritto datato 1944 e pubblicato solamente nel 1976, sembra una profetica rivisitazione dei fatti di Porzûs, nel suo sovrapporre i due piani del racconto storico e della tragedia familiare. I Turcs tal Friùl racconta la brutale scorreria dei Turchi che nel 1499 assediarono la comunità di Casarsa, trovandosi di fronte alla strenua resistenza del paese, al cui interno la famiglia Colùs vedeva fronteggiarsi nella lotta contro gli invasori due fratelli, il contemplativo Pauli e il ribelle Meni, destinato a soccombere tragicamente. I riferimenti culturali e personali alla storia che aveva dolorosamente coinvolto Pier Paolo e Guido, insieme a tutta la collettività friulana nel conflitto contro i fascisti, gli invasori tedeschi e gli slavi, hanno suscitato in Zannini il sospetto che Pasolini abbia volutamente retrodatare al ’44 la data della composizione del testo teatrale, troppo esplicitamente segnato dalla disperazione vissuta nel maggio del 1945. Solo con un difficile percorso psichico, intellettuale e politico Pier Paolo riuscì a separare la vicenda della morte ingiusta e crudele di Guido dalle ragioni della storia della Resistenza e dalle responsabilità del Partito Comunista cui lui stesso aderiva.  Come scrisse poi nei versi de Le ceneri di Gramsci: “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere; / del mio paterno stato traditore / – nel pensiero, in un’ombra di azione – / mi so ad esso attaccato nel calore / degli istinti, dell’estetica passione”.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 13 settembre 2022

 

RECENSIONI

ZANOTTI

PAOLO ZANOTTI, L’ORIGINALE DI GIORGIA – PENDRAGON, BOLOGNA 2017

Paolo Zanotti (1971-2012) è stato scrittore, saggista, ricercatore, editor, docente universitario, insegnante di scrittura creativa. Giudicato dai critici una delle voci più significative e promettenti della sua generazione, ci ha lasciato due romanzi (Bambini bonzai e Il testamento Disney) e importanti contributi sulla narrativa d’avventura, sulla storia dell’omosessualità e sulla letteratura francese di fine Novecento.

L’originale di Giorgia riunisce tutta la produzione zanottiana di testi brevi, editi e inediti: undici racconti, un’intervista e un’auto-analisi del metodo di scrittura. Iniziando proprio dal commentare questi due ultimi contributi, possiamo rilevare quale fosse la consapevolezza dell’autore riguardo alla propria opera: «Quando scrivo provo a eliminare ogni picco, non solo in alto ma anche in basso», aspirando alla leggerezza di Calvino, all’ironia di Meneghello, alla visività colorata di Cortázar, suoi modelli dichiarati.Attraverso una scrittura pacata, quasi sorridente, lo sguardo del narratore inquadra la crudele realtà di un mondo disumanizzato, in cui gli esseri umani si trasformano arrendevolmente in “manichini”, in pupazzetti della Playmobil, in soldatini ossessivi che ubbidiscono alle leggi feroci del consumismo, allineati davanti alle casse dei supermercati, o spettatori inebetiti dalle televisioni e dai computer. Mentre la terra agonizza tra inquinamento e gas serra, invasa da masse migranti di affamati, Zanotti si affida alla fiaba e alla fantascienza, al sapere infantile e al folklore popolare, all’avventura picaresca e all’ecologismo, al fumetto e alla ghost-story, con un tocco di nostalgico romanticismo corretto da un gusto ironico del particolare macabro.

C’è in questo autore, purtroppo mancato prematuramente, il proposito di farsi empatico portavoce della memoria collettiva della generazione nata negli anni ’70, cresciuta con i cartoon di Candy Candy e di Eta Beta, pasciuta con «placido pane-burro-e-zucchero» in famiglie asfissianti e normalmente insoddisfatte, desiderosa di evadere con ribellioni eclatanti ma incapace di farlo: giovani disadattati nel presente e impauriti da un futuro minaccioso, rannicchiati nel rifiuto della postmodernità e proiettati verso un universo estraniante e alieno, da Star Wars e viaggi interplanetari. Nicola Barilli nell’introduzione parla di molteplicità di stili adottati e di pluralità di direzioni, anche se i nuclei tematici dei racconti si riducono sostanzialmente a tre, corrispondenti alle tre età dell’uomo: infanzia, giovinezza e maturità, con una dichiarata idiosincrasia per quest’ultima, colpevole di affondare sogni e illusioni, e di sottomettersi con eccessiva docilità ai riti del lavoro, del successo, del conformismo sociale.

Così, il «tempo-spugna dell’infanzia» viene recuperato nel suo alone magico di incanto, di paradiso perduto (la mamma insostituibile, il paesino, l’oratorio, gli animali, le nuvole, le bande scorrazzanti nel parco), ma anche di «inesorata still life», quando «non si capisce il mondo a cosa serva», in uno dei racconti più riusciti del volume, Ritorno. E l’adolescenza già si carica di turbamento e rabbia («Sì sì lo so che saremo sempre infelici comunque»), tra utopie ambientate in civiltà extraterrestri, cloni, astronavi e barriere di energia cosmica (Paesaggio con manichini) o realtà demoralizzanti di amori e amicizie tradite (L’originale di Giorgia, La cella geografica). Infine l’età adulta, menzognera e disperata, vissuta come un incubo (Going native, Io e Licia, Teologia da supermercato, Paese all’uscita dell’autostrada, Per costruire la casa dei miei sogni), da cui tentare continuamente di fuggire per poter ritrovare uno scampolo di autenticità. Riguardo allo stile adottato da Paolo Zanotti in queste prose brevi, è senz’altro da sottolineare la scelta incontestabile di una forma comunicativa lineare e fluida, vivacizzata da un lessico inventivo e da improvvise e inaspettate metafore (originali, eccentriche), a cui tuttavia l’autore non demanda il compito di disorientare il lettore con l’artificio della meraviglia, affidato invece al contenuto, sempre imprevedibilmente nuovo.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/L-originale-di-Giorgia-Paolo-Zanotti.html         13 marzo 2018

 

 

RECENSIONI

ZAOUI

PIERRE ZAOUI, L’ARTE DI SCOMPARIRE – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

“Felicità per sottrazione” è l’obiettivo che secondo il filosofo francese Pierre Zaoui dovremmo cercare di conquistare e mantenere, individualmente e come collettività. Lo afferma nel saggio L’arte di scomparire, sottotitolato “Vivere con discrezione”: ed è proprio di questa particolare attitudine, oggi raramente riconosciuta come qualità, che l’autore tesse un convinto elogio.

Discrezione come scelta di vita, che in genere si accompagna a una disposizione caratteriale antitetica all’eccesso di esuberanza, di autopromozione, di visibilità, di autoreferenzialità: inclinazioni particolari che nel mondo contemporaneo vengono incoraggiate dai media e dai social come valori e meriti da esibire con orgoglio e sfrontatezza.

La discrezione viene definita dall’autore dote “rara, ambigua e infinitamente preziosa”, che trova nella moderazione e nel riserbo la propria misura espressiva, sottratta a riflettori e casse di risonanza, renitente di fronte a ogni forma di spettacolarità. Aderendovi, “usciamo da quel gioco di proiezioni e introiezioni continue che ci legano di solito agli altri”, rinunciamo a qualsiasi volontà di potenza e all’illusione di essere indispensabili, alla “dialettica mediocre del riconoscimento o della seduzione”. Sottraendosi all’obbligo dell’apparire e accettando una sorta di clandestinità, la discrezione assume i tratti della dissidenza, di una resistenza politica al dovere di divulgazione e protagonismo, secondo cui “essere è unicamente essere percepiti”. Si oppone, infatti, alla sorveglianza del panottico totalitario, praticata dalle nostre occhiute e orecchiute società contemporanee attraverso videocamere, intercettazioni, spionaggi informatici, droni e satelliti.

La delicatezza del porsi nel mondo dovrebbe insegnare a non stare troppo vicino alle persone e alle cose per non venirne divorati, né ad allontanarsene troppo rischiando l’isolamento. Tuttavia, la rinuncia volontaria all’esposizione potrebbe nascondere una debolezza originaria del carattere, una tattica dissimulatrice, una forma raffinata di narcisismo, un eccesso di timidezza-pigrizia-egocentrismo-vigliaccheria, o (in termini psicanalitici), l’angoscia di castrazione e la pulsione di morte.

Pierre Zaoui indaga sulle origini di questo orientamento comportamentale a partire da quanto ne pensavano gli antichi. I greci decantavano l’aidós (pudore, modestia, riservatezza) e la phrónesis (prudenza, saggezza, giusta misura): Epicuro consigliava di vivere nascosti, Marco Aurelio raccomandava di rifugiarsi nella propria “cittadella interiore”, rifiutando successi estemporanei, lusso e piaceri effimeri; Platone e Aristotele suggerivano di affidarsi sempre alla ragione e alla consapevolezza per migliorare politicamente la comunità.  In tal modo però non si privilegiava una disinteressata scomparsa dell’io, quanto invece una più elevata presenza a se stessi, e un’opportunità personale in termini politici.

Durante il rinascimento sembrò che la figura del cortigiano riassumesse esemplarmente i caratteri di equilibrio e tatto propri della discrezione, nel processo di civilizzazione dei costumi che andava imponendosi in tutta Europa. Cortesia, raffinatezza, educazione diventavano in realtà astuti strumenti di autoaffermazione all’interno dei palazzi, asserviti all’adulazione sottomessa ai propri signori.

Quindi, più che dalla filosofia o dalla politica, la discrezione è stata riconosciuta come valore primariamente in ambito religioso, in particolare dall’ebraismo e dal cristianesimo.

Tre sono le autorità morali che nei secoli hanno meglio illustrato le proprietà tipiche della discrezione: San Tommaso che la esaltava come umiltà del cuore e della mente, il rabbino Isaac Luria che la paragonava alla contrazione (tzimtzum) messa in atto dal Creatore per lasciare spazio di libertà alle creature, il mistico Meister Eckhart che invitava al distacco dai beni materiali e all’abbandono di ogni egoità.

C’è poi la discrezione proposta dagli atei e dagli agnostici, racchiusa in un orizzonte puramente umano. È quella che Levi Strauss trovava negli indigeni amerindi, animati “da un sentimento deferente verso il mondo”, e non concentrati sulla propria soggettività. O agli antipodi temporali, quella indicata da molti pensatori moderni (Kafka, Virginia Woolf, Hannah Arendt, Blanchot, Benjamin, Deleuze, Bataille, Debord), che narrano esperienze di distacco, nascondimento e sparizione spogliate da ogni fideismo, e abbandonate fiduciosamente all’idea dell’annullamento di sé e del lasciar-crescere ciò che è fuori di sé.

La discrezione è quindi un’arte recentemente riscoperta nella sua valenza micropolitica: di resistenza impercettibile all’ostentazione di sé, di rinuncia ad apparire e ad accumulare ogni tipo di esperienza, di rifiuto del soggettivismo esasperato di chi pretende di “essere percepito” senza riuscire a “percepire”.

Pierre Zaoui (1968) insegna attualmente Filosofia presso l’Università di Parigi VII, e si occupa di liberalismo, soprattutto nel pensiero di Spinoza, Hume e Deleuze,

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 27 luglio 2020

 

 

 

RECENSIONI

ZARRI

ADRIANA ZARRI, TUTTO E’ GRAZIA – ALIBERTI, FIRENZE 2011

L’ultima intervista concessa da Adriana Zarri, novantunenne, quando era già molto ammalata e costretta a letto da due anni, è un difficoltoso ribadire sue tesi rese note in molti anni di militanza pubblicistica e di fede, e nei suoi libri di successo. La donna monaco, come amava definirsi e essere definita, risponde in maniera scarna e tranquilla, senza più la vis polemica che la caratterizzava in passato, alle domande di Domenico Budaci. Domande incalzanti e articolate, ricche di citazioni, che senz’altro finiscono per illustrare più le tesi dell’intervistatore di quelle dell’intervistata, di cui tuttavia rimangono sulla pagine alcune illuminanti, quasi gnomiche sentenze. “Tutto ciò che ci succede ha un senso, un fondamento positivo, “Dio è più grande del nostro cuore”, “Quando chiediamo ci è sempre dato, anche se non ci è dato quello che a noi sembra la cosa giusta”, “Pregare è chiedere il regno”, “Poesia e preghiera vanno insieme. La poesia è il tentativo di cercare un senso ulteriore alle cose”, “La nosta cultura è del fare, non dell’accoglienza. Fare,fare,fare… e invece c’è un lasciar fare”. Improvvisamente Adriana Zarri si anima quando parla della bellezza della natura (“La bellezza è dappertutto”), dei suoi amici animali e dell’amatissima gatta, per cui spera in una resurrezione quale quella riservata agli esseri umani. E non crede nelle condanne ecclesiastiche: “Forse bisognerebbe chiedersi cos’è l’eresia… probabilmente è una verità impazzita, ma c’è più verità che errore nell’eresia”. Insomma, “tutto è grazia”, come scriveva Bernanos, di tutto bisogna avere consapevolezza e riconoscenza. Il libro si conclude con una breve intervista a Mons. Bettazzi, Vescovo di Ivrea e caro amico della Zarri, che si sofferma particolarmente sui concetti di laicità, di povertà e di dialogo, e mette in guardia la gerarchia cattolica dalle blandizie della politica.

IBS, 9 giugno 2011

RECENSIONI

ZAZUBRIN

VLADIMIR ZAZUBRIN, LA SCHEGGIA – ADELPHI, MILANO 1990

Di Vladimir Zazubrin – autore del primo romanzo ufficiale del realismo sovietico, Dva Mira (Due mondi), lodato da Lenin e da Gorkij come «libro terribile e utile», l’editore Adelphi ha pubblicato nel 1990 un racconto lungo, La scheggia, apparso nella Russia di Gorbaciov solo nell’89, dopo sessantatré anni di censura e rimozione.
Zazubrin, in cui vero nome era Vladimir Zubcov, fu un rivoluzionario “doc”, di estrazione contadina, bolscevico dall’adolescenza: dapprima allievo ufficiale, quindi partigiano nell’Armata Rossa, poi scrittore e giornalista fedele ai canoni del realismo sovietico, infine funzionario del partito di Lenin fino al 1993, anno in cui scrisse la novella La scheggia, cadendo così in disgrazia presso l’apparato del partito. Accusato di «non aver compreso le strade e i metodi dell’edificazione socialista», non riuscì mai a pubblicare il suo racconto, che adesso leggiamo tanto più increduli e angosciati in quanto sappiamo provenire da fonte di indubbia fede e fedeltà comunista.
Dice un cinico proverbio russo che «le schegge saltano quando si abbatte il bosco», e appunto di queste schegge, delle migliaia (milioni, diremmo oggi) di vittime innocenti della rivoluzione sovietica ha scritto Zazubrin, cosciente e disperato del tradimento cui “Lei” (la Rivoluzione, appunto, come viene definita nel racconto) ha costretto i suoi adepti.
Andrej Srubov, protagonista della storia, porta nel suo nome una condanna: srubit’ significa in russo “tagliare, abbattere”, e Srubov è destinato infatti (come presidente della Ceka, la commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio) a rivestire il ruolo di boia, di carnefice, che decide della vita e della morte di centinaia di persone. Il racconto si apre con una rivoltante carneficina, provocata da una serie di fucilazioni di nemici politici, uomini e donne, ufficiali e religiosi, nobili e delinquenti comuni: corpi che rotolano nei loro escrementi, viscere che si aprono diffondendo odori insopportabili, nudità umilianti e pietose insieme, in un crescendo vorticoso di urli, rantolii, preghiere. Srubov implacabile regola il tirassegno delle esecuzioni: «Un doloroso colpo nelle orecchie. Bianche carcasse di umida carne si afflosciarono sul pavimento. I cekisti corsero rapidamente indietro con i revolver fumanti in mano, e subito fecero schioccare di nuovo i grilletti. Le gambe dei giustiziati ebbero una contrazione. L’uomo grasso tirò l’ultimo respiro con un sibilo stridente. Srubov pensò: – Esiste l’anima, o no? E’ forse l’anima che esce sibilando? -».

I cinque soldati ai suoi ordini agiscono come automi, freddi e determinati nel fanatismo che li motiva: denudano i prigionieri, li mettono in fila, prendono la mira, sparano, si ripuliscono dagli schizzi di sangue e dai brandelli di carne che li raggiungono. Poi, in un parossismo di follia, tentano di ripulirsi anche anima e mente correndo all’aperto a tirarsi le palle di neve, tra un’esecuzione e l’altra, in una patetica immersione nell’innocenza e nella leggerezza infantile del bianco inverno russo. Srubov no. «Srubov sta saldo, la testa alta, nel rombo del terremoto, e fissa avidamente il lontano. Nella mente un unico pensiero – Lei.»

Ma sarà proprio questa cieca ostinazione, questa pronuba ossessione rivoluzionaria a fare anche di lui una vittima predestinata. Abbandonato dalla moglie, segnato a dito dalla popolazione, disprezzato dal padre che finirà vittima del terrore leninista, Srubov vacilla: comincia a bere, usa metodi sempre meno ortodossi negli interrogatori, non riesce più a nascondere il suo disprezzo per i delatori che gli offrono i loro immondi servizi.
Guardandosi allo specchio non si riconosce, allucinato dall’immagine di un se stesso di cui è prigioniero: solo, nel suo ufficio, farnetica di moralità e politica con un indifferente ritratto di Marx, tremando ogni volta che i suoi soldati caricano su camion rombanti i cadaveri dei giustiziati. Lui, il carnefice impietoso, l’assassino in divisa, pretende dalla madre che lo aspetti con la luce accesa, perché ha paura del buio. La tentazione che avverte, firmando l’ennesimo ordine di fucilazione, di scrivere la sua firma qualche centimetro più in alto per finire anche lui tra i condannati, è un chiaro indizio della sua vocazione all’annullamento, all’ autocondanna.
La macchina inarrestabile della rivoluzione, cui tutto è permesso, tutto è dovuto, maciullerà anche Srubov, riducendolo a una delle tante schegge già saltate nel taglio del bosco. «Ma a Lei forse interessa tutto questo? A Lei serve solo costringere gli uni a uccidere, gli altri a morire. Solo questo. E i cekisti, e Srubov, e i condannati, erano tutti allo stesso modo insignificanti pedine, piccole viti nella furiosa corsa del meccanismo della fabbrica… Qui la padrona è Lei, crudele e bellissima».

Si può forse rimproverare al racconto un certo gusto truculento per le immagini forti, una certa roboante retorica nelle metafo tuttavia il merito innegabile di averci dato (autore e traduttrice) un documento terribile, una denuncia pari come gravità e violenza agli scritti usciti dai lager nazisti, su una fase storica di cui sappiamo ancora troppo poco.

 

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17 dicembre 2015

RECENSIONI

ZEI – LECCO

ALKI ZEI, LA TIGRE IN VETRINA – EINAUDI, TORINO 1978
ALBERTO LECCO, L’INCONTRO DI WIENER NEUSTADT – MONDADORI, MILANO 1978

Uno dei romanzi per l’estate proposto da Einaudi è La tigre in vetrina, di una scrittrice greca vivente ora a Parigi, Alki Zei. Si tratta di un romanzo che ha circa una quindicina d’anni, ma ha potuto essere pubblicato in Grecia solamente ora, per i troppi richiami alla dittature dei colonnelli. La storia infatti si svolge nei mesi che precedettero e seguirono la dittatura fascista di Metaxas, nell’estate del ’36, quando tutto l’orizzonte europeo era già scuro per la guerra di Spagna e le prime avvisaglie della follia hitleriana. Due bambine vivono con i genitori su un’isola che mantiene ancora qualcosa della selvaticità e della libertà naturali; con loro stanno il nonno (bella figura di antifascista, chiuso in camera a leggersi i classici e a trarne insegnamenti di democrazia), una zia e una vecchia cameriera. Con loro vive in qualche modo anche una tigre impagliata, che le bambine fanno protagonista di nuove avventure e simbolo di ribellione al mondo incomprensibile degli adulti. Melia e Myrto diventano presto vittime inconsapevoli, e perciò più indifese, dell’improvviso mutamento dell’atmosfera politica: attraverso di loro, dietro i loro giochi e il loro linguaggio infantile, si intuisce il dramma di una paese e di un periodo intero di storia greca. La dittatura cambia il corso della vita familiare, sembra dividere gli stessi componenti della famiglia, obbliga a comportamenti inautentici e, agli occhi delle bambine, ridicoli. La storia è narrata con garbo e ingenuità, e la poesia di questo libro sta appunto in questa discrepanza tra la drammaticità degli avvenimenti e la leggerezza malinconica con cui le due sorelline li vivono.
Un altro romanzo che vive in una dimensione di simile oppressione è L‘incontro di Wiener Neustadt, di Alberto Lecco, ambientato in una stazione austriaca durante l’ultima guerra. Vicenda scarna, che si svolge nell’arco di poche ore, con tre soli personaggi sullo sfondo misero di rassegnazione (da una parte) e crudele lucidità (dall’altra) che segnava i rapporti interpersonali all’epoca della persecuzione razziale. Una giovane coppia di ebrei stabilisce una comunicazione intellettuale con un altrettanto giovane ufficiale nazista: il racconto è imperniato appunto su questo dialogo impossibile. Una solidarietà culturale, che gli ebrei sottolineano e continuamente incoraggiano nella speranza che si trasformi in solidarietà politica, o più semplicemente, umana; un fascino subito reciprocamente, una specie di complicità che si instaura tra queste persone che (per caso e per necessità) oscillano tra l’essere vicine e l’essere lontane. Un rapporto ambiguo, tutto teso su un filo di colloquio condotto dal narratore in maniera sapiente. Ma un romanzo, per farsi perdonare di essere intelligente, sembra debba pagare uno scotto: e in questo caso lo scotto è il gusto della citazione, l’aristocraticità culturale sbandierata, un linguaggio fastidiosamente raffinato (troppi e troppo classici gli “epperò” al posto dei più semplici “però”): ma tutto ciò serve forse a suggerire la risposta, che la cultura non basta a salvare, che la vera comunicazione avviene non tramite determinate “affinità elettive”, ma in altro modo, più responsabile e cosciente.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 27 agosto 1978