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RECENSIONI

WILSON

EDWARD O.WILSON, LA CREAZIONE – ADELPHI, MILANO 2008

“La biodiversità del nostro pianeta è ben più ricca di quanto si pensasse. Questa diversità sta scomparendo a un ritmo sempre più rapido a causa della distruzione degli habitat, operata direttamente dall’uomo o indirettamente dal cambiamento climatico in corso, a cui si aggiungono il proliferare di specie invasive, l’inquinamento e il sovrasfruttamento delle risorse naturali. Se queste forze scatenate dall’attività umana non vengono in qualche modo mitigate, potremo perdere fino a metà delle specie di piante e di animali sulla Terra entro la fine del secolo”. Il grido d’allarme, appassionato e inquietante, che si alza da queste pagine di Edward O. Wilson (grande entomologo, per decenni titolare di una cattedra di biologia ad Harvard), non solo rende il lettore consapevole delle sue responsabilità individuali di fronte al mantenimento dell’ambiente che lo ospita, ma gli fornisce una quantità sorprendente di informazioni, per lo più ignorate o volutamente censurate dal sistema mediatico asservito a un irresponsabile sviluppo economico. Che la nostra civiltà sia stata costruita sul tradimento della natura, che milioni di specie viventi scompaiano annualmente dal nostro pianeta, che l’acqua dolce non costituisca una riserva infinita, che le foreste pluviali siano a rischio estinzione, lo sappiamo più o meno tutti. Ma Wilson ci insegna in questo libro come l’uomo sia solo una delle molte specie animali esistenti sulla terra, e tra le più fragili e meno essenziali. Batteri, funghi, lombrichi, insetti dominano in assoluto rispetto alla ristretta nicchia naturale che ci ospita. E quindi è essenziale rieducare gli abitanti del pianeta a nuove regole di comportamento, responsabilizzando in questa indispensabile educazione ecologica collettiva governi, mezzi d’informazione e religioni. Altrettanto fondamentale è supportare culturalmente le sfide che attendono la biologia del terzo millennio, foriera di decisive rivoluzioni intellettuali.

IBS, 3 febbraio 2014

RECENSIONI

WOELFFLIN

HEINRICH WÖLFFLIN, CAPIRE L’OPERA D’ARTE – CASTELVECCHI, ROMA 2015

Uno dei più importanti storici dell’arte, lo svizzero Heinrich Wölfflin, pubblicò negli anni ’20 un breve testo, rielaborato poi nel 1940 (e oggi riproposto dall’editore romano Castelvecchi con l’introduzione di Andrea Pinotti), che si apre con questa domanda: «Devono davvero essere spiegate le opere d’arte?» Non basta forse accontentarsi di goderne la visione, di vivere le emozioni che esse ci suscitano dentro, senza comprendere fino in fondo perché ci sembrino belle, perché vengano universalmente considerate capolavori? Secondo Wölfflin, bisogna imparare a guardare un quadro in base a un graduale apprendimento, con la stessa applicazione con cui si imparano le lingue straniere, studiandone la grammatica, le frasi idiomatiche, la pronuncia.
Nessuna opera d’arte, infatti, è immediatamente e spontaneamente comprensibile da qualsivoglia spettatore, ma deve essere letta situandola «nel processo evolutivo, rintracciandone antecedenti e conseguenti, poi rifacendosi ai contemporanei e agli affini; e tracciando, in tal modo, intorno ad essa, un cerchio che, passando attraverso la scuola e l’origine, potrà estendersi fino al cerchio più grande, quello del carattere dell’intero popolo nel quale è radicata».

Pertanto essa va inserita in un diagramma che ne stabilisca le coordinate diacroniche (predecessori e successori, storia dei vari stili) e sincroniche (in relazione con la generazione, il popolo, l’ambiente, la scuola dell’artista che l’ha prodotta). Ovviamente, il capolavoro è sempre firmato da una grande personalità, da un genio, ma dietro a esso è intessuta la storia di un’intera epoca, di un nazione, di una cultura che trascende e insieme determina l’artista eccelso: «Non tutto è possibile in tutti i tempi», ammonisce Wölfflin: «Sono proprio le personalità più forti quelle che mostrano, nel modo più evidente, come la storia dell’arte sia legata a leggi che vanno oltre la personalità».

Sembrano considerazioni scontate, al giorno d’oggi, ma quello che rende originali e addirittura provocatorie queste poche pagine è l’affermazione della irreversibilità dell’evoluzione artistica, secondo un processo deterministico modellato sulle scienze naturali, e scandito sempre in tre stadi (primitivo-maturo-tardo, oppure arcaico-classico-barocco), che si ripresenta in diverse fasi storiche, in un processo organico che «possiede un suo proprio sviluppo e una sua propria struttura». Ciò avviene secondo una progressione graduale, conformemente a leggi necessarie, che in genere passano da «forme di rappresentazione psicologicamente più semplici a quelle più complesse». «L’evolvere dell’arte non dovrebbe essere paragonato al crescere di un albero singolo, ma piuttosto a quello di un bosco…»

 

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28 novembre 2015

RECENSIONI

WOOLF

LEONARD WOOLF, LA MORTE DI VIRGINIA – LINDAU, TORINO 2015

Di questo interessante volume pubblicato dalle edizioni torinesi Lindau, ci impressiona e commuove già la copertina: una fotografia del 1939 raffigurante Virgina e Leonard Woolf, seduti su un divano accanto al cocker Pinka. I due si assomigliano nell’espressione rassegnata e mite dei volti, nello sguardo affettuoso che entrambi rivolgono al cane rannicchiato tra di loro, quasi a chiedergli pudicamente un sostegno complice. E Pinka guarda l’obiettivo come avesse compreso e perdonato tutto, a significare “li difendo io, da voi e da se stessi”. Leonard Woolf (1880-1969) scrisse in tarda età un corposa autobiografia, di cui il presente volume è un estratto, limitato agli anni 1939-1941, i più dolorosi della sua esistenza, straziati dalla guerra e dalla depressione di sua moglie, che sfociò nel suicidio di fine marzo 1941. Una sorta di diario, meditato e sofferto, puntellato da riflessioni politiche, considerazioni storiche, ritratti di amici e intellettuali, aneddoti curiosi. Divagazioni, anche, che Woolf giustifica con queste parole: «Per l’autore di un’autobiografia, forzare la propria vita e i propri ricordi secondo una linea retta rigidamente cronologica significa distorcere la prima e truccare e falsificare i secondi. Se si vuole provare a raccontare la propria vita in modo veritiero, si deve puntare a lasciare nel racconto qualcosa della disordinata discontinuità che la rende così assurda, imprevedibile e sopportabile».

Le pagine si aprono sulla descrizione degli avvenimenti che portarono al conflitto mondiale, con la ottusa crudeltà di chi lo pianificò e con la miopia di chi non seppe ribellarvisi, in una tragica e perenne ripetizione di violenza contro gli inermi, scandita nella storia da millenni: l’elenco delle vittime prende avvio dalla Genesi, toccando Socrate e Gesù, per arrivare a Dreyfus, al genocidio degli armeni, ai pogrom contro gli ebrei: «Il mondo era tornato a guardare gli esseri umani non come individui ma come semplici pedine, tessere o marionette, nel ripugnante processo che doveva far tacere la paura o soddisfare l’odio».

Leonard Woolf si oppone alla cecità distruttiva del nazismo con tutta la dignità e il coraggio che la sua vastissima cultura, la sua sensibilità di scrittore e il suo impegno di editore gli concedono, stringendosi con solidarietà ai vicini, ai collaboratori, e soprattutto alla moglie Virginia, di cui conosce e teme la fragilità emotiva, che già l’aveva indotta a tentare due volte il suicidio. Con lei è costretto ad assistere alla distruzione sistematica di Londra, ai bombardamenti a tappeto, ai conoscenti uccisi al fronte o in città, al loro appartamento sventrato, alla tipografia rasa a terra. Si trasferiscono da Mecklenburgh Square al paesino di Rodmell, nel Sussex, rinunciando ad agi e servitù, in un’atmosfera irreale, «di quiete triste e rassegnata». Lui entra nel servizio anti-incendi, costretto (ormai quasi sessantenne) a turni di pattugliamento notturno; ma soprattutto partecipa attivamente alla via sociale del paese, con uno spirito generosamente altruista. Insieme a Virginia legge, cura il giardino, cucina, gioca a bocce, fa lunghe passeggiate. Lei, in questi suoi ultimi due anni di vita, è impegnata nella scrittura della Biografia di Roger Fry e del romanzo Tra un atto e l’altro, sempre alla ricerca della perfezione stilistica, e perpetuamente terrorizzata dal giudizio dei critici letterari. Virginia annota nel suo diario, di cui il marito trascrive alcune righe, la «strana atmosfera di quieto fatalismo, nell’imminenza dell’inevitabile», rivelando la loro condivisa decisione di sopprimersi nel caso di un’invasione tedesca, e di una probabile deportazione. («Continuammo a parlare del suicidio mentre la luce elettrica cominciava a sbiadire fino a che restammo completamente al buio»). Nei primi mesi del ’41, la situazione precipita, Virginia ripiomba in un delirio ossessivo, perde lucidità, soffre di «spasmi di esasperazione improvvisa ed acuta». Leonard le rimane vicino con dedizione, ma scisso tra timore di doverla internare e volontà di salvarla: quindi esita, depistato dai cambiamenti d’umore di lei, senza comprendere fino in fondo in quale baratro di disperazione e follia sua moglie stesse precipitando. La mattina del 28 marzo non la trova in casa, si precipita al fiume Ouse e trova «il suo bastone da passeggio posato sull’argine». Il corpo di Virginia fu recuperato tre settimane più tardi, cremato con l’accompagnamento musicale di un quartetto di Beethoven, e le sue ceneri seppellite ai piedi di due grandi olmi a cui marito e moglie avevano dato i loro nomi. Il biglietto che Virginia aveva lasciato sulla mensola del camino era insieme una dichiarazione di resa, di amore assoluto, e una richiesta di perdono: «Tu mi hai offerto la massima felicità possibile. Tu sei stato in tutto e per tutto quello che nessuno poteva essere. Non penso che due persone avrebbero potuto essere più felici di noi, fino a quando non è arrivata questa terribile malattia…Ho perso tutto tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita».

«Leggendaria» n.112, luglio 2015

RECENSIONI

WOOLF

VIRGINIA WOOLF, TUTTO CIO’ CHE VI DEVO – L’ORMA, ROMA 2014

«Toglietemi gli affetti e sarò un’alga fuori dal mare, la carcassa di un granchio, un guscio vuoto… Toglietemi l’amore per gli amici e il sentimento bruciante e continuo dell’importanza, dell’insondabilità e del fascino della vita umana e non sarei altro che una membrana, una fibra, senza colore e senza vita, buona solo per essere buttata via come una deiezione». Non solamente nei romanzi, nei saggi, nei diari Virginia Woolf esibì la sua viscerale passione per l’osservazione delle persone, e dei rapporti che si instaurano tra di loro (amore, odio, amicizia, invidia). Ma anche nel suo ricco epistolario, di cui l’editore romano L’Orma offre qui una scelta di brani indirizzati, tra il 1903 e il 1941, a una decina di amiche. Lettere in cui la scrittrice inglese svela tutta la sua acutezza introspettiva e critica, insieme all’ironia, al gusto sottile del pettegolezzo, ai magoni familiari, all’ansia di condividere letture, o di sollecitare giudizi sulla sua produzione letteraria. Le destinatarie di questa corrispondenza sono parenti (l’amata sorella Vanessa, la cugina Madge, la nipote Judith), amiche d’infanzia (l’esplosiva Violet Dickinson), o felici scoperte dell’età più matura (Ethel Smyth); talvolta amanti (Vita Sackville-West). A tutte loro Virginia scrive senza remore o finzioni, spesso abbozzando qualche polemica o spiritosa derisione, sempre però con un affetto limpido che si rivela anche nei vezzeggiativi e nei nomignoli usati. Conoscendo i suoi difetti, li sottolinea impietosamente («Come mi piace essere adulata!…Il mio vero piacere dello scrivere recensioni consiste nel dire cattiverie… Non mi piacciono gli istinti profondi, non negli esseri umani…»). Ma con altrettanta spietatezza sferza i difetti altrui: l’ipocrisia, la boria sociale, l’intolleranza. E soprattutto la rigidità, la pesantezza, la noiosità. La sua essenziale richiesta alle amiche si esprime infine nella parola conclusiva dell’ultima lettera: «Amami».

IBS, 3 dicembre 2014

RECENSIONI

WOOLF

VIRGINIA WOOLF, SE TI IMMAGINO QUI SONO FELICE – GARZANTI, MILANO 2022

ùIl primo incontro tra Virginia Woolf (1882-1941) e Vita Sackville-West avvenne alla fine del 1922, segnando l’inizio di una passione amorosa e di un sodalizio culturale testimoniato da un fitto epistolario sparso nell’arco di un ventennio. Vita aveva trent’anni, Virginia dieci in più. La prima godeva già di vasta notorietà, la seconda aveva appena iniziato a pubblicare. Entrambe sposate, non facevano mistero del loro rapporto con i mariti, che non se ne scandalizzavano, esattamente come la società aristocratica, mondana e intellettuale che le accoglieva con stima e cordialità, lontana da condanne e pregiudizi a cui comunque le due scrittrici erano del tutto indifferenti. Il piccolo volume pubblicato da Garzanti, Se ti immagino qui sono felice, raccoglie una selezione delle lettere e dei biglietti di Virginia, insieme ai suoi appunti di diario riportati in corsivo: decisamente più limitata rispetto ad altre ampie proposte editoriali del carteggio uscite recentemente.

La rassegna si apre su una nota della scrittrice londinese (mai stata tenera nei suoi giudizi sul prossimo) che riferisce la prima impressione poco positiva tratta nel corso della cena del 15 dicembre 1922 in cui ebbe a conoscere Vita: “Non corrisponde granché ai miei gusti più severi: florida, baffuta, colorata come un pappagallo, con tutta l’agile disinvoltura dell’aristocratica, ma senza l’arguzia dell’artista… è un granatiere: dura, piacente, mascolina, tendente al doppio mento”. E ancora, in una nota del 15 settembre 1924: “è una perfetta signora, con tutto lo slancio e il coraggio dell’aristocrazia, e meno puerilità di quanta ne aspettassi. È come un chicco d’uva troppo maturo nei lineamenti, baffuta, imbronciata, destinata a diventare un po’ pesante; nel frattempo, cammina su belle gambe, in una gonna ben tagliata, e anche se è imbarazzante a colazione, ha in sé un buon senso e una semplicità … Oh sì, mi piace, potrei includerla per sempre nel mio equipaggio, e se per ipotesi la vita lo permettesse, potrebbe essere una specie di amicizia”. Di nuovo, nel 1926: “Non è intelligente, ma generosa e feconda; e anche sincera”.

L’intimità tra le due donne crebbe nel corso degli anni successivi, in un altalenarsi di emozioni e sentimenti contrastanti, dall’esaltazione alla malinconia, dalla reciproca stima alla rivalità letteraria, dalla gelosia all’esibita e provocatoria indifferenza. Impulsi istintivi alleggeriti comunque da ricche dosi di ironia e spontanea ilarità (“A maggio mi arrufferai i capelli, Tesoro: sono corti come il sedere di una pernice”). Leggono e commentano vicendevolmente i loro scritti, sia nel carteggio privato sia attraverso recensioni, interviste, interventi radiofonici: la casa editrice dei Woolf pubblica i libri della Sackville-West, incoraggiandone la diffusione presso il pubblico britannico. Le prime versioni di Gita al Faro e di Orlando, insieme a bozze di articoli, vengono sottoposti con ansia da Virginia al giudizio critico dell’aristocratica e puntuta corrispondente.

Ma soprattutto nello scambio epistolare diretto si esprime la reciproca dipendenza affettiva e sessuale. Virginia lusinga l’amante con un profluvio di lodi e complimenti: “Come diavolo hai imparato l’arte di essere sottile, profonda, umoristica, arcigna, schiva, satirica, calorosa, intima, profana, colloquiale, solenne, sensibile, poetica e un caro vecchio sciatto cane da pastore…” Pretende da lei dichiarazioni d’amore: “Aggiungi una frase concisa ma esaustiva in cui dici che Virginia è la persona che ami di più dopo tuo marito e i tuoi figli”, “Non sono niente per te, fisicamente, moralmente o intellettualmente?” Ammette i propri dubbi riguardo alla fedeltà dell’amica, che vanta apertamente le proprie conquiste maschili e femminili: “Non c’è più spazio, altrimenti ti proporrei una storia molto malinconica sulla mia gelosia per tutti i tuoi nuovi amori. E quando ti vedrò? Perché sai, adesso ami diversa gente, donne intendo, fisicamente intendo, meglio, più spesso, più carnalmente di quanto ami me”, “Ma tu non mi vuoi. Stai ammaliando, soprattutto con il fascino del tuo titolo e il bagliore delle tue perle, tutti i procioni del Canada”, “La percentuale di lesbiche è in aumento negli Stati Uniti, tutto grazie a te”. Si vendica delle lunghe assenze e dei continui viaggi di Vita (“Tesoro caro, non andare in Egitto per favore. Resta in Inghilterra. Ama Virginia. Prendila tra le tue braccia”), millantando incontri e avventure durante una breve vacanza in Grecia. E confessa candidamente di provare per lei un “affetto infantile e cieco: “Sì sì sì mi piaci. Usare una parola più forte mi fa paura”, “Sono piena di invidia e disperazione”, “Sono la tua interamente devota ma indifesa e inutile creatura”, “Per tutti questi mesi ho vissuto dentro di te – e ora che ne esco, come sei veramente? Esisti? Ti ho inventata?”, “Mi ami davvero? Tanto? Appassionatamente e irrazionalmente?”

Da questa pubblicazione garzantiana non conosciamo come Vera rispondesse all’esibito trasporto della Woolf. Possiamo immaginarla meno coinvolta di lei nella relazione, senz’altro più disponibile ad altre piacevoli esperienze, se diamo credito a una famosa e spesso citata metafora di Virginia: “Be’, da qualche parte ho visto una pallina che continuava a saltare su e giù nello spruzzo di una fontana: la fontana sei tu, io la pallina. È una sensazione che mi scateni solo tu. È fisicamente stimolante e al tempo stesso riposante”. Un’inquietudine sofferta che alla conclusione dell’amicizia la porterà a scegliere di abbandonarsi all’abbraccio acquietante dell’acqua.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 18 maggio 2022

RECENSIONI

YATES

RICHARD YATES, PROPRIETA’ PRIVATA – MINIMUM FAX, ROMA 2012

La casa editrice Minimum Fax prosegue nella sua meritoria opera di diffusione degli scritti di Richard Yates, proponendo questi nove racconti introdotti da un’acuta ed esauriente prefazione di Nicola Lagioia. Lo scrittore americano, nato nel 1926 e morto nel 92, “sfortunato irascibile semialcolizzato”, viene accostato ad altri mitici cantori statunitensi del 900 (Fitzgerald, Salinger, Carver) per la sua capacità di rappresentare con asciutta obiettività “l’abisso dietro l’edificante quadretto” di una società che nasconde a se stessa il suo disagio, i suoi fallimenti, spesso il vizio o la disperazione. Richard Yates parla della piccola e media borghesia americana reduce dal secondo conflitto mondiale, che tenta di nascondere nella superficialità dei riti collettivi (il lavoro, le feste, i viaggi, l’alcol, i divorzi) il sentimento che sembra dominare qualsiasi rapporto sociale e familiare: la delusione. I protagonisti di questi racconti appaiono infatti sempre più delusi che tormentati. Delusi da se stessi, dai parenti, dai superiori, da Dio. Che si tratti della bambina accusata ingiustamente di un furto dalla zia intransigente e miope, o dell’impiegata che si regala un futile viaggio in Europa in cerca di facili avventure prima del matrimonio, o dei due soldati che scambiano lo scampanio pasquale di una chiesa tedesca per l’annuncio della fine della guerra, o di reduci millantatori di prodezze belliche, o di un marito abbandonato che cerca vanamente approcci di revanche al bar con la cameriera, questi personaggi risultano tutti dei perdenti. E non arrabbiati, non vendicativi, non decisi a riscattarsi. Semplicemente rassegnati alle loro piccole esistenze prive di sogni. Yates li segue nelle farneticazioni mentali, nelle esitazioni comportamentali, nelle sconfitte accettate con fatalità: e la sua scrittura è puntuale, scabra, oggettiva. “Un’ineffabile sensazioni da orchestrina sul Titanic”, come scrive giustamente Lagioia.

IBS, 19 febbraio 2012

RECENSIONI

YEHOSHUA

ABRAHAM B. YEHOSHUA, CINQUE STAGIONI – EINAUDI, TORINO 2007

“La moglie di Molcho morì alle quattro del mattino, e con tutto se stesso Molcho si sforzò di individuare il momento preciso di quella morte, così da inciderlo dentro di sé, perché lui voleva ricordare”.

È la prima frase di Molcho, titolo ebraico del romanzo di Abraham Yehoshua, che Einaudi ha proposto in una raffinata traduzione e con un diverso titolo italiano, Cinque stagioni. Tante sono infatti le scansioni in cui si suddivide materialmente il volume, da un autunno all’autunno successivo del primo anno di vedovanza del protagonista. Molcho è un mite impiegato statale di Haifa, ebreo osservante anche se non ortodosso, dalla bella faccia orientaleggiante e dall’incipiente pinguedine, che a 52 anni si ritrova stordito e scorticato dopo la morte della moglie, avvenuta in seguito a un tumore al seno che l’ha tormentata per sette anni. Nel corso della malattia, Molcho segue la sua compagna – un’intellettuale molto rigida e critica, di origini tedesche, che è stata la sua prima e unica donna – con una devozione e una competenza ossessiva, pignola, al punto che qualcuno gli rimprovererà, in seguito, questa sua morbosa fedeltà al male come un lento, inesorabile uxoricidio.

Molcho vive quindi con disorientamento, ma anche con sensi di colpa, timori assillanti del giudizio degli altri e blocchi emotivi, il peccato imperdonabile di essere sopravvissuto a lei. Desideroso di recuperare sentimenti e rapporti cancellati nel lungo periodo della sua dedizione al progredire del cancro, si aggrappa a ciò che gli resta: tre figli quasi adulti, verso cui sente crescere un’incomunicabilità fatta di delusioni reciproche, di vicendevoli intrusioni e sospettosi spionaggi, una madre lontana ma incombente, la suocera ottantaduenne che, in virtù della parentela strettissima con la moglie morta – considera più vicina di chiunque altro. I riti che Molcho mette in atto per riappropriarsi di se stesso e del mondo sono gesti minimi e banali: la riscoperta della natura, del mare e del deserto, il perdersi tra la folla, l’ascolto catartico della musica, l’osservazione maniacale di proprio sesso, mortificato dalla perdurante mancanza di desiderio.

Ma ciò che più lo ossessiona nel suo lento ritorno alla vita sono i rapporti con le altre donne, incoraggiati e favoriti dagli interventi impiccioni di parenti e amici. Il fantasma della moglie lo perseguita, si insinua in impietosi confronti fisici o in illuminazioni fulminee: “le donne gli parevano tutte molli e stanche e piene di difetti, ma a volte il suo sguardo catturava anche particolari anatomici così belli da fargli venire le lacrime agli occhi… Pensava: – se solo fosse possibile prendere pezzi separati, di qui una gamba e di là i capelli, una spalla o un sorriso, e costruire, come in un collage, una donna da poter tentare di amare davvero -”.

Aldilà del sogno, Molcho si scontra con una realtà deludente. Tenta un approccio con una vedova, funzionaria di grado superiore al suo, e vive con lei un viaggio a Berlino che potremmo definire fantozziano, da quanto i suoi impacci e le sue esitanti premure sortiscono a effetti di comicità grottesca. In seguito, un amico ritrovato gli propone di sposare la moglie che lui intende ripudiare in quanto sterile, e Molcho se la prende in casa, questa sua antica fiamma liceale incanutita e rinsecchita, intenerendosi al pensiero di una confidenza recuperata (il sonno di lei nell’altra stanza, due spazzolini nello stesso bicchiere: ma ancora una volta il tentativo si blocca per la timidezza di entrambi. Una nuova ipotesi di convivenza accarezza l’inconscio di Molcho quando deve accompagnare in Europa, su incarico della suocera, una giovane profuga russa con cui si intende a gesti; e ancora si lascia commuovere da questo donnino goffo e animalesco, e si strugge di malinconia quando lei viene riaccolta in patria. Ma è solo una bambina undicenne conosciuta in un villaggio di Galilea, durante un’ispezione di lavoro, che davvero arriva a turbarlo e  a tentarlo; una bambina strabica e esile “che lo conduceva con una durezza fiera e gentile al tempo stesso, e si chiese perché ne era così affascinato: – È come se mi fosse entrata nel sangue, si disse, ma è una pazzia -; e d’un tratto lo invase un pensiero selvaggio anteriore al sesso: mangiarla, masticarne la carne; e i denti quasi gli batterono e quel pensiero lo fece un po’ ridere ma anche lo spaventò e lo depresse”.

È forse il simbolo del nuovo Israele che sta per nascere, inquieto e multirazziale, questa magra bambina di origine indiana, che vive là dove la convivenza tra arabi ed ebrei s fa più inquieta, e le tracce della guerra col Libano incombono minacciose. Le donne sono qui testimonianza di un ambiente e di una cultura scissa tra oriente e occidente, tra fanatismo religioso e miscredenza, una zona franca per la narrativa moderna, che Yehoshua esplora con risultati di notevole interesse.

La storia di Molcho, e del suo primo anno di vedovanza passato senza riuscire a sfruttare la nuova libertà, senza nemmeno poter baciare una donna, si chiude con il suo ritorno a Haifa, dove trova la suocera morente, e decide di non assistere al trapasso di lei, rifiutando un coinvolgimento sempre più penoso, e scegliendo invece di andare incontro alla vita, a nuove emozioni, magari a un amore più grande.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/cinque-stagioni-Yehoshua.html     5 marzo 2020

«Gli Stati Generali», 14 giugno 2022

RECENSIONI

YOSHIMOTO

BANANA YOSHIMOTO, IL DOLCE DOMANI – FELTRINELLI, MILANO 2022

Sayoko e Yōichi sono i due giovani protagonisti dell’ultimo libro di Banana Yoshimoto pubblicato in Italia, nella Universale Economica Feltrinelli: Il dolce domani. Ambientato fra i templi e gli onsen di Kyoto, il romanzo, scritto poco dopo il terremoto e lo tsunami di Fukushima, racconta una storia d’amore quasi banale, interrotta tragicamente dalla morte del ragazzo, in un incidente stradale che lascia la fidanzata ferita gravemente. Si tratta quindi della narrazione di un lutto e della sua elaborazione, da parte di chi rimane in vita, ma con la vita stessa fatta a pezzi.

La voce narrante è quella della ventottenne Sayoko, che inizia il suo racconto dalla ricostruzione dell’incidente, avvenuto in una tiepida giornata primaverile, mentre i due, di ritorno in auto da una gita alle terme di Kurama, vengono investiti da un’altra macchina guidata da un ubriaco. Yōichi, giovane e promettente scultore d’avanguardia, muore sul colpo, mentre la ragazza ha l’intestino trapassato da un bastone di ferro. Il suo recupero fisico è lento, quello emotivo pare da subito ancora più problematico.

Sayoko si aggrappa alle poche certezze che le rimangono: il ricordo affettuoso del nonno e di un cane amato nell’infanzia, il rapporto recuperato con i suoi genitori e le visite ai genitori del fidanzato, l’impegno a catalogare e diffondere le opere artistiche di lui. Ma trascorre il primo anno successivo alla tragedia chiudendosi al mondo, imbozzolata nel dolore, incapace di reagire. Inizia a bere: frequenta il locale di un barista gentile, Shingaki, che la incoraggia a ritrovare il suo mabui, l’anima, là dove le è accaduto di perderla, e intanto controlla fraternamente che i bicchieri di awamori tracannati non abbiano effetti troppo nocivi su di lei. La tristezza prende forme strane: induce la protagonista ad assumere sembianze maschili per mortificare la propria femminilità, le fa balenare davanti agli occhi vaghe allucinazioni, fantasmi o personaggi dei fumetti manga, le rende difficili i rapporti con tutte le persone di cui intuisce l’insensibilità o la grettezza: “Ognuno di noi vive la propria vita portandosi dietro il peso del dolore che ha provato. Ci sono anche quelli che non provano niente e che non portano alcun peso: basta un’occhiata per capire chi sono. Sembrano automi, sono diversi dagli altri. Quelli che portano un peso li riconosci dal colore, dall’incedere pieno di grazia. Ecco perché sono contenta di avere un peso da portarmi dietro. Finché avrò giorni da vivere, voglio viverli con grazia”.

Sayoko è consapevole del proprio cambiamento, fisico a caratteriale, decisa ad accettarlo accontentandosi di vivere giorno per giorno nel presente, senza preoccuparsi di quello che il futuro le prospetta, senza averne più paura, e anzi apprezzando le minime premure e gentilezze quotidiane di conoscenti e sconosciuti, che le costruiscono intorno “fortezze di fiducia”. Oltre al barista, stringe amicizia con un giovane gay, Ataru, che come lei soffre la perdita di una presenza amata, e insieme godono di ritrovare nella memoria il ricordo dei cari scomparsi, riflettendo sulla bellezza di ogni istante vissuto, provando compassione per se stessi e per ogni essere vivente.

Un racconto scritto con garbo, Il dolce domani, senza la pretesa di affrontare temi profondi o di esibire particolari abilità di stile: l’autrice stessa, nella postfazione, ne parla con umile consapevolezza: “Io non scrivo opere colossali, che mettano tutti d’accordo: posso solo, nel mio piccolo, rivolgermi a quei pochi che, per un motivo o per un altro, si sentono aiutati, o confortati, leggendo i miei romanzi”. Banana Yoshimoto, figlia di Takaaki Yoshimoto (uno dei più importanti poeti giapponesi degli anni sessanta), è nata a Tokyo nel 1964. Lo pseudonimo Banana è stato scelto dalla scrittrice, a sostituire il vero nome Mahoko, per il suono volutamente androgino...Sposata con il musicista Hiroyoshi Tahata, da cui ha avuto un figlio, è convinta sostenitrice dei diritti LGBT, e nella sua narrativa, sempre attenta alle problematiche sociali e psicologiche e alle esperienze emotive giovanili, molti personaggi fanno parte della comunità gay.

Tra i suoi quindici romanzi, i più famosi Kitchen, (best seller internazionale, con oltre 60 ristampe nel solo Giappone), e Tsugumi, sono stati trasposti in film  di successo. La critica ritiene la scrittura di Yoshimoto piuttosto superficiale, prevalentemente mirata a conquistare il mercato commerciale. In realtà i temi trattati, per quanto tradizionali (amore, amicizia, famiglia, dolore, morte) riescono a interessare milioni di lettori in tutto il mondo, e rappresentano un fenomeno culturale da non sottovalutare.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 22 aprile 2022

 

 

RECENSIONI

ZAGAJEWSKI

ADAM ZAGAJEWSKI, PROVA A CANTARE IL MONDO STORPIATO  – INTERLINEA, NOVARA 2019

Di Adam Zagajewski l’editore Adelphi ha pubblicato due volumi: Tradimento e Dalla vita degli oggetti, il primo di prose, il secondo di poesie. Ora Interlinea propone un’antologia di versi, Prova a cantare il mondo storpiato, curata da Valentina Parisi, che ha firmato anche un’acuta presentazione.
Zagajewski, uno dei più noti e premiati poeti polacchi, è nato a Leopoli nel 1945. Costretto nello stesso anno a lasciare la città occupata dai sovietici, con la famiglia è vissuto a lungo in Slesia, per poi trasferirsi a Parigi, a Berlino, a Cracovia e quindi in America, dove oggi insegna letteratura all’University of Chicago.

La sua scrittura risente ovviamente del dramma storico vissuto in prima persona, che ne ha fatto un perenne esiliato e transfuga dal mondo. Come uomo ha infatti patito una pesante persecuzione politica da parte della Stasi per la sua opposizione al regime, come poeta ha condiviso il destino di chi pensa e parla in una lingua fatta di simboli e immagini, lontana dalla concretezza dell’esistenza materiale, incompresa e mal tollerata dai più. La raccolta uscita da Interlinea presenta testi inediti in italiano insieme a poesie già note, come la più celebre che dà il titolo al libro. Scritta nel 1999 e dedicata all’Ucraina, è stata però pubblicata sul New Yorker nei giorni successivi all’11 settembre 2001, in quanto il tono dolente dei suoi versi sembrava poter ben adattarsi ai tragici avvenimenti americani, nel suo invito a cantare sia il dolore sia la bellezza, sia la distruzione sia la rinascita: “Canta il mondo storpiato / e la penna grigia perduta dal tordo, / e la luce delicata che erra, svanisce / e ritorna”.

La scrittura di Zagajewski si è posta sin dagli esordi l’obiettivo di testimoniare i drammatici avvenimenti che hanno afflitto la contemporaneità, provocando guerre e lutti, perseguitando individui e interi popoli, condannando ideologie e fedi religiose. La sua sensibilità ferita si è espressa soprattutto in difesa degli ebrei polacchi, alcuni deportati nei campi di concentramento, altri umiliati per tutta la vita, individuando figure particolari che assurgessero ad esempi universali di innocenza calpestata. Così Ruth, avvocatessa costretta a vivere nel ghetto di Cracovia, la cui gattina ‒ ignara di divisioni di razze ‒ di notte si inoltrava nei quartieri ariani. O il parrucchiere Władziu, «gracile e delicato», con l’unica passione della pesca. O i tanti polacchi come lui deportati nel 1945: «ci siamo lasciati alle spalle le fosse comuni / e un dolore senza casa / adesso siamo noi senza casa», «Arrivati con le valigie in mano, come turisti ‒ / siamo rimasti a lungo». Storie minime di donne e uomini minimi, sopraffatti dalla crudeltà della storia. Ma anche destini tragici di personalità eccezionali, che si sono dovute confrontare con l’ostilità di un destino feroce, indifferente o troppo pesante da sopportare: Blake, Hölderlin, Delacroix, Marx, Mandel’štam, Husserl, Brecht, Brodskij…

Consapevole che «la bellezza fugge dal mondo irrimediabilmente», Adam Zagajewski affida alla poesia il compito di salvarne almeno una traccia. I poeti sono per lo scrittore di Leopoli i nuovi santi dell’umanità, perché dediti a un’arte gratuita e forse inutile, ma senz’altro non nociva: «I poeti, invisibili come minatori, / nascosti sottoterra, / costruiscono per noi una casa: // erigono alti soffitti / bifore veneziane, / splendidi palazzi, / ma loro non possono, / non possono abitarli: // Norwid all’ospizio, Hölderlin nella torre; / il pilota solitario di un caccia / canticchia una ninna nanna: svegliati, Terra». Poeti poco letti, trascurati, dimenticati in questa nostra «terra sbadata», che hanno saputo preservare tenerezza e sorrisi, mentre altri «smarriti, smarriti in corridoi grigi» coltivavano con interesse solo «la nostra memoria nera».

Tutta l’arte ha l’immenso compito di aiutare l’umanità a sopravvivere, superando sofferenze e tragedie. Ma ogni attimo di serena e anonima contemplazione della bellezza ha lo stesso grandioso scopo, e bastano quattro versi a ricordarcelo: «Certo, difendere la poesia, lo stile elevato, ecc., / ma anche le sere d’estate in una bella cittadina, / dove profumano gli orti e i gatti siedono tranquilli / sulla soglia di casa come filosofi cinesi».

 

https://www.sololibri.net/Prova-a-cantare-il-mondo-storpiato-Zagajewski.html           19 novembre 2019

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RECENSIONI

ZAGREBELSKY

GUSTAVO ZAGREBELSKY, GIUDA. IL TRADIMENTO FEDELE – EINAUDI, TORINO 2019

Gustavo Zagrebelsky (1943), già presidente della Corte costituzionale, professore emerito dell’Università di Torino e firma del quotidiano «La Repubblica», ha pubblicato da Einaudi un volume dedicato alla controversa figura di Giuda.

Si tratta di un libro nato da una serie di colloqui realizzata per la trasmissione Uomini e profeti di Rai Radio 3 curata da Gabriella Caramore, che qui incalza intelligentemente il suo interlocutore non solo sul ruolo rivestito da Giuda nel Vangelo, bensì su la questione che è alla base di ogni riflessione filosofica, cioè l’opposizione tra male e bene, nelle sue varie declinazioni: colpa e innocenza, odio e amore, vendetta e perdono, condanna e salvezza, libertà e predestinazione.

Alla luce di una considerazione che indica la chiave di lettura dell’intero volume (“Le cose umane sono ambigue, aperte al bene e al male… la storia di Giuda è un inestricabile intreccio di questa duplicità”), Zagrebelsky si interroga sul fascino che la figura del traditore per antonomasia ha esercitato per duemila anni non solo tra i cristiani, ma in ogni settore della cultura occidentale. Si è descritta e interpretata la sua personalità in molteplici maniere, divergenti e spesso contrapposte: individuo abietto e disperato, umile e avido, intimo di Gesù e posseduto da Satana, capro espiatorio e complice del potere, dissimulatore e sprovveduto. Giuda è stato strumento del diavolo o artefice di un piano divino, ha agito obbedendo al Principe degli inferi o nell’obbedienza del Signore? Nel suo rifiuto del messaggio di Cristo si è fatto portavoce dell’opposizione del popolo ebraico oppure ha collaborato con il Messia nell’opera della salvezza? Era un iniziato alla conoscenza delle verità ultime o un sordido individuo attratto solo dal miraggio di un guadagno?

Zagrebelsky insinua nel lettore il sospetto che Giuda sveli a ognuno di noi un lato della nostra personalità che non vogliamo vedere ed esibire, la parte in ombra della coscienza che abbiamo paura  affiori svelandoci quello che temiamo di riconoscere. Nello stesso tempo si chiede se esista “più verità nell’abiezione e nella disperazione che nella santità e nella pacificazione con se stessi”, e se solo attraversando il territorio del peccato si possa arrivare alla verità.

L’agire colpevole di Giuda è stato raccontato, in maniera diretta o traslata, in letteratura (Goethe, Dostoevskij, Mann, Borges…), in musica (Bach e decine di Passioni), in pittura (dal Medioevo a Rembrandt e in tutta l’arte sacra), in una serie infinita di saghe popolari: ne è nata una tradizione culturale diffusa che ha fatto di lui un essere spregevole, con sembianze demoniache, escluso dal consorzio umano. Molti sono i quesiti che la sua drammatica scelta propone a chi voglia indagarla in profondità: gli autori del volume mettono a confronto i quattro Vangeli e gli Atti degli Apostoli, esaminandone contraddizioni e convergenze. Giuda fu strumento inconsapevole di un disegno provvidenziale di redenzione, o invece vittima di rivalità e invidie tra i discepoli? Fu ostaggio di un’ingenua illusione di insurrezione politica mai attuata da Gesù, o al contrario il più fedele alleato del Messia nel decidere di liberarlo dalla sua limitante natura corporea, assolutizzandone così la spiritualità? Qualsiasi lettura si voglia dare della sua condotta (psicologica, politica, escatologica), essa rimane un mistero insondabile e di ardua decifrazione teologica.

Una questione fondamentale per il credente è posta soprattutto dal suo suicidio. Condannandosi a morte, egli ha mostrato di non sperare o credere nel perdono di Dio, smentendone l’attitudine indulgente e benevola, quasi che la proclamata misericordia divina non fosse in grado di accogliere e compatire il colpevole più esecrabile. Impiccandosi, Giuda ha impedito a Dio la possibilità di assolverlo. È stata questa forse la sua colpa più grande.

Ma esiste un tratto comune nella morte di Giuda e di Gesù, “che potrebbe assurgere a simbolo della comunanza di destino: pendono entrambi dal legno. Il legno potrebbe rappresentare la convergenza delle vie di entrambi e l’unità del disegno in cui, a diverso titolo, sono stati coinvolti”. Tutti e due capri espiatori, perché se “Gesù ha preso su di sé tutto il male del mondo per renderlo libero, così Giuda ha preso su di sé tutto il tradimento del mondo, per renderlo fedele”: immolandosi e abbracciando fino in fondo la missione che era stata loro affidata, hanno adempiuto le profezie. Si potrebbe addirittura arrivare a considerare Giuda “un martire della libertà, che per devozione a Dio si è prestato a essere satana… come il santo necessario, che, con la sua rivolta, rivela la grandezza dell’uomo anche rispetto a Dio”.

Con questa riflessione finale che parrebbe indicare un’assoluzione, o perlomeno una comprensiva apertura verso le ragioni di chi ha tradito, Zagrebelsky suggerisce che nella colpa e nella disperazione Giuda è nostro fratello, simbolo per eccellenza della tribolata condizione umana.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 26 maggio 2020