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RECENSIONI

ZANIER

LEONARDO ZANIER , IL CÂLI – AMADEUS, MONTEBELLUNA 1989
CAMUN DI DIMPEÇ – ED. LE PAROLE GELATE, ROMA 1989

Due volumi di poesia pubblicati nello stesso mese dello stesso anno sono senz’altro spia di una vitalità di pensiero e di una fertilità di vena indubbiamente e invidiabilmente felice, esuberante. La stessa felicità ed esuberanza che Leonardo Zanier esprime col suo modo di aggredire la vita, di impastoiarsi nel lavoro, di spostarsi da un capo all’altro dell’Europa si evincono infatti dai suoi versi: chi li ha letti dal loro primo ufficiale e meritatamente famoso manifestarsi (Libers…di scugni là, 1960-1962) sa di questa passione politica, vis polemica, ma anche di quanta purezza di canto e limpidezza teorica essi siano pregni. Confrontarsi ora, in questo decennio che ormai ci separa dal duemila, con le utopie di una vita, è tanto impervio quanto stimolante per un sindacalista affermato e accreditato come Zanier; più difficile e intrigante ancora affrontare la sfida, da poeta, proposta dalla nuova poesia che oggi tanto si pratica e si esalta: impersonale, eterea e, quando in dialetto, addirittura elegiaca. Con questi suoi due nuovi libri,  Il câli  e  Camun di Dimpeç, Zanier ha accettato questa duplice sfida, affrontandola con il piglio baldanzoso che gli è proprio e approdando ad un risultato di sicura rilevanza e positività. Il câli (Il Caglio), pubblicato a Treviso, per i tipi di  Amadeus, è un testo complesso articolato in diversi livelli di scrittura, con una scissione ben netta tra prosa e poesia, documenti, saggi e interventi, italiano e friulano, senza tuttavia risultare ambiguo o discontinuo. Il caglio, che si aggiunge al latte scremato e scaldato per farne formaggio, è ingrediente in qualche modo magico, in qualche modo miracoloso, imparentato al lievito di evangelica memoria: serve a trasformare una materia, grezza, in un’altra, più elaborata, un prodotto naturale in uno più artificiale. Prosa in versi, pensiero in poesia, impegno politico in fermento poetico. I personaggi, gli ambienti, quelli tipici dello Zanier che già conosciamo (l’oste di Povolaro, Bortul dal Negro, cui duole la gamba amputata; la vecchia Mabile guaritrice di paese, mezza strega mezza luminare di una scienza alternativa e antichissima; Jacum, operaio della Sulzer di Winterthur, «Cipputi / furlan e svizzer»; i marocchini, nuovi emigrati sulle orme degli emigrati carnici…), protagonisti di un’epopea degli ultimi cui Zanier ha sempre dedicato la sua attenzione di politico e il suo amore di poeta. Ma ci sono anche altre atmosfere da osservare, altre somme da trarre: fare i conti con l’età che avanza e con il corpo che funziona meno bene: «e in ogni caso ci si troverà confrontati ad assumere una fase che ha davanti meno futuro. Insomma preparati a morire, entrare nella terza età, ridimensionare il campo d’azione, iniziare un nuovo ciclo, l’ultimo, non è faccenda semplice…».

«lu cjâf / l’é plui lambri / mi samea- // lu cuarp / mancul sbûrit / – no s’imbardea-», «I ciati ogni buinora / ch’a mi spieta / ‘tal armarut di formica / dal bagno / un quart di ridada / in porcelana / sul so telâr di azâr / arian e aur».

Abituarsi all’assenza, ai vuoti lasciati da persone amate o amiche, agli ambienti di lavoro e alle case cambiate, al venir meno della propria indispensabilità: «s’alzin / voi no mi lodin / arlevament / a mancjanza», «sôra / muruz e spaltadas / raminas e cunfins // jo cun lôr / spia e contrebandîr / (dai miei destins)», «par nasci / arbui o lerbas / in t’un âti forest / o finî ta lavatric / a less». Il poeta cambia dentro, cambiano anche i luoghi intorno, prostituiti al dio soldo («E poi stagioni e turismo: non tanto predica ecologista, ma caricatura minimale di un fenomeno degenerativo…», come nell’amara  Estât a Lignan). I personaggi quasi epici che animavano la vita delle comunità montane hanno lasciato il posto a persone meno vere, fatte quasi con lo stampo: la montagna stessa, sia essa carnica, svizzera o austriaca, si è imbastardita in un rapporto di sfruttamento reciproco col turismo, snaturandosi, condannandosi: «si viergins buteghins / di souvenirs e sciolinas / boutiques mode-in / tee-rooms Gasthäuser / camerirs sclâs / côgus ‘talians o grisons / lavaplaz turcs o tamils // tra i antî das butêgas / blanc e ross i ladins / ridint di gust / a contin i becins: / ‘Bundî-Buongiorno- / Grüzi-Grüssgott-Gutentag’ / a discin vivorz / a chel davoi ingjaulât / fascint pal frêt / ‘ta l’aria / nuluz di flât / a ogni peraula».

Il guardarsi alle spalle non è allora un processo nostalgico e un po’ reazionario di tanta poesia vernacolare, un “come eravamo” stillante retorica: in Zanier il parlare di figure e ambienti del passato, e il parlarne in dialetto, assume quasi una connotazione documentaristica, di ricerca e di memoria “archeologica”, affinché non tutto si perda di quello che siamo stati e che la Carnia è stata.
Nel secondo libro, Camun di Dimpeç, è proprio questo desiderio di narrare e fissare nel ricordo collettivo fenomeni e sentimenti in via di estinzione ad avere lo spazio e la tensione poetica maggiore. Camun di Dimpeç (titolo che gioca sul doppiosenso tra camuno-comune) è un pregiato volumetto stampato in pochi esemplari, numerati e firmati, dall’editore Martinis per  Le parole gelate di Roma: Zanier vi narra la storia di un bastone ritrovato in una malga di Ampezzo, minutamente inciso in tutta la sua lunghezza con disegni riportati anche sul libro: «…ramazut di nolâr, taiât ‘ta stagjon dai amôrs…sgorbiuta cul mani di quargnul e timp, timp avonda e un pinsîr, un pinsîr fiss ‘tal cjâf…». Quale sia stato il pensiero fisso del contadino-artista, Zanier cerca di interpretarlo, da poeta, con l’offrire una lettura che partendo dall’incisione descritta minuziosamente, arriva ad azzardare ipotesi psicanalitiche, ma anche soluzioni più leggere e fantasiose, a dare aria al già arioso e inventivo ricamo grafico, come in questo bel pezzo, Tension: «Pès ch’al svuala e al si alza ribaltât…ai van devour: linzul, aquilons, tovalas, gardelas e imo’ cours, cours-pess, cours-pagnocas…Dût tacât, picjât, come a suîa sui rais dal sôreli, o su ramazuz di un arbulon di cucagna, o sui fi di una tela di rai…Taula improntada, sul prât, par in gustâ di nozas. Dut al va in su, in sbighèz: tension, tiradoria, fan… voia insomas. Il pastor vevel fan? Fan di ce? I mi dîs j ti dîs…».

«Agorà» (Svizzera), 21 giugno 1989

RECENSIONI

ZANNINI

ANDREA ZANNINI, L’ALTRO PASOLINI – MARSILIO, VENEZIA 2022

Un Pier Paolo Pasolini ventitreenne scriveva versi semplici e commossi dedicati a suo fratello Guido, ucciso a Cividale del Friuli il 12 febbraio del 1945 per mano di gappisti italiani e jugoslavi durante l’eccidio di Porzûs: «La libertà, l’Italia / e chissà Dio quale destino disperato / ti voleva / dopo aver vissuto e patito / in questo silenzio. / Quando i traditori nelle Baite / bagnavano di sangue generoso la neve, / “Scappa – ti hanno detto – non tornare lassù” / Ti potevi salvare, / ma tu / non hai lasciato soli / i tuoi compagni a morire / “Scappa torna indietro” / Ti potevi salvare, / ma tu / sei tornato lassù, / camminando. / Tua madre, tuo padre, tuo fratello / lontano / con tutto il tuo passato e la tua vita infinita, / in quel giorno non sapevano / che qualcosa più grande di loro / ti chiamava / col tuo cuore innocente» (Corus in morte di Guido, 1945).

Guidalberto Pasolini, detto Guido, era nato a Belluno il 4 ottobre 1925, tre anni dopo Pier Paolo: terminato il liceo scientifico a Pordenone, appena diciottenne si affiliò alla Brigata Osoppo operativa in Carnia con il nome di Ermes, scelto in ricordo del più caro amico del fratello, morto durante la campagna di Russia. La tragica vicenda di Guido viene raccontata nel libro di Andrea Zannini L’altro Pasolini, pubblicato da Marsilio, con prefazione di Walter Veltroni. La narrazione prende avvio presentando il nucleo familiare dei Pasolini: il padre Carlo Alberto, militare di carriera e fascista convinto, la madre Susanna, maestra friulana, e i due figli, legatissimi tra loro ma profondamente diversi nel carattere e nelle progettualità di vita. “Guido era l’opposto di Pier Paolo: vitalista, esuberante, temerario”, deciso a combattere non solo contro gli invasori nazisti, ma anche contro la slavizzazione della sua regione e l’infiltrazione dell’ideologia comunista, in una visione convintamente patriottica di difesa dell’autonomia italiana. Iscritto al Partito d’Azione, appena diciottenne si impegnò in azioni di propaganda e di sabotaggio nei paesi circostanti Casarsa, dove la sua famiglia risiedeva dal ’43 nella casa dei nonni materni. Più volte fermato dalla guardia civica fascista per insubordinazione, nel maggio del ’44 prese la decisione di darsi alla macchia, aderendo alla Brigata Osoppo. “Rimanere a casa, sotto la sorveglianza ‘continua ed esasperante’ di tedeschi e carabinieri significava mettere a repentaglio la sicurezza non solo sua, ma di tutti coloro che gli stavano vicino”.

Fu accompagnato alla stazione da Pier Paolo, che, più meditativo e troppo attaccato alla madre per abbandonarla, aveva scelto di rimanere al paese, dedicandosi allo studio, alla poesia e all’insegnamento privato: “Non sanno come io sono infinito in me; com’è differente il mio mondo; come a me non importi altro praticamente che la mia poesia e teoricamente il mio infinito”, scriveva in un diario. Guido comunicava con i familiari attraverso sporadiche lettere firmate “Amelia”, fingendo di essere una ragazza a servizio in una famiglia di Gorizia. “Il mio pensiero ritorna per una strana fissazione a Pier Paolo… cosa fa? Perché non mi scrive mai? … Alle volte mi ossessiona l’idea che lui pensi a me con una certa amara ironia: ne rabbrividisco”. Solamente in una missiva datata 27 novembre 1944 scrive direttamente al fratello, confessandogli preoccupato il progressivo deterioramento dei rapporti tra i partigiani delle formazioni Osoppo e Garibaldi: “I comunisti garibaldini hanno intenzione di costituire la repubblica (armata) sovietica del Friuli: pedina di lancio per la bolscevizzazione dell’Italia!!!» In queste parole si trova probabilmente la motivazione dell’eccidio del febbraio 1945 nel Friuli orientale in cui Guido trovò la morte: il fatto di sangue più increscioso avvenuto in Italia durante la guerra partigiana.

Le Brigate Osoppo-Friuli erano formazioni partigiane autonome fondate a Udine a fine ’43 da volontari di ispirazione laicasocialista e cattolica, collegati alle formazioni garibaldine comuniste: loro scopo era combattere le forze occupanti tedesche, che avevano sottratto l’intero territorio friulano e giuliano alla Repubblica Sociale Italiana, instaurando un regime di repressione e spoliazione, con la partecipazione di reparti di SS etniche, di cosacchi e di forze repubblicane fasciste.. La situazione politico-militare della zona, al centro di opposti nazionalismi e di secolari rivalità etnico-territoriali, era molto complessa, e i rapporti tra le varie formazioni partigiane sloveno-jugoslave e garibaldine particolarmente conflittuali. Le brigate Osoppo vennero coinvolte nel tragico episodio di Porzûs, dove aveva sede il comando del Gruppo delle Brigate Est della Divisione Osoppo, comandato dal capitano degli alpini Francesco De Gregori, detto “Bolla” (zio trentaquattrenne del noto cantautore romano). Gli osovani, con le loro continue proteste contro le mire nazionalistiche jugoslave e contro la politica di collaborazione garibaldina, suscitarono la reazione delle componenti comuniste del Comitato, che attivarono i gappisti operanti nella zona, incaricandoli di attaccare la sede del comando della Brigata Osoppo. Sul posto vennero quindi inviati un centinaio di gappisti, guidati da Mario Toffanin “Giacca” (uomo fidato di Tito nelle forze comuniste italiane, fortemente ideologizzato ed estremista), che catturò con un trucco “Bolla” ed altri comandanti della Osoppo, e li fucilò subito, sottraendo loro carteggio, armi e provviste. Gli altri partigiani presenti, tra i quali Guido, vennero uccisi successivamente. L’eccidio ebbe rilevanti seguiti giudiziari con un lungo processo, che si concluse con pesanti pene.

Gli ultimi giorni di vita di Guido conobbero momenti avventurosi e drammatici. Fatto prigioniero dai GAP vicino al confine jugoslavo, venne incarcerato ma, sottrattosi alla sorveglianza riuscì a scappare. Raggiunto dagli inseguitori, fu ferito da raffiche di mitra alla spalla e al braccio destro. Sfuggito ancora alla cattura, cercò di dirigersi verso Udine, medicato e rifocillato da contadini della zona; scoperto da due combattenti del Battaglione Ardito, fu fatto sdraiare in una fossa e finito con un colpo di pistola alla testa.

La famiglia Pasolini venne a conoscenza della sua morte solo il 2 maggio; il 20 giugno si svolsero a Udine le esequie pubbliche dei caduti di Porzûs, e il giorno dopo Guido fu tumulato nel cimitero del paese: «Torna tra i suoi portando intatte le sue certe illusioni, la sua bandiera», recitava il necrologio.  Pier Paolo, certo ormai che l’esecuzione del fratello fosse stata ordinata ed eseguita da partigiani jugoslavi e da alleati italiani che intendevano annettere il Friuli alla Jugoslavia (“Gentaglia certo senza chiarezza interiore, senza patria, mossi a combattere dal puro egoismo. Ben differente da te!”, scrisse in una lettera idealmente dedicata a Guido) maturò lentamente, anche sulla scorta delle prime letture di Marx, la sua adesione al Partito Comunista, iniziando a collaborare con la stampa di sinistra. Walter Veltroni così commenta nella prefazione al testo di Zannini: “Il tema che percorre il libro è anche quello del rapporto tra Pasolini e il Pci che proprio attorno agli eventi tragici e violenti di Porzûs e agli anni che immediatamente li seguirono diventa un legame di appartenenza a cui Pier Paolo non mancò mai di restare fedele”. Nell’ottobre del 1949, con atto della Federazione comunista di Pordenone, venne espulso dal PCI “per indegnità morale e politica” in seguito alla scoperta della sua omosessualità. “Malgrado voi, resto e resterò sempre comunista, nel senso più autentico di questa parola”, scrisse a un dirigente comunista friulano. Non fu mai riabilitato dal partito. Trasferitosi con la madre a Roma per sfuggire allo scandalo e alla persecuzione sociale e politica che ne era conseguita, iniziò così la sua prestigiosa carriera letteraria e cinematografica.

In Comizio, una delle poesie de Le ceneri di Gramsci (1954), ancora ricordava con commossa ammirazione Guido: “mio fratello mi sorride,  /   mi è vicino. Ha dolorosa e accesa, // nel sorriso, la luce con cui vide, / oscuro partigiano, non ventenne   /   ancora, come era da decidere // con vera dignità, con furia indenne / d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra / in quei poveri occhi, umiliante e solenne… // Egli chiede pietà, con quel suo modesto, / tremendo sguardo, non per il suo destino, / ma per il nostro… Ed è lui, il troppo onesto, // il troppo puro, che deve andare a capo chino? / Mendicare un po’ di luce per questo / mondo rinato in un oscuro mattino?”

Il volume di Andrea Zannini si conclude con un appassionato commento a un dramma storico in lingua friulana che, ritrovato tra le carte pasoliniane in triplice dattiloscritto datato 1944 e pubblicato solamente nel 1976, sembra una profetica rivisitazione dei fatti di Porzûs, nel suo sovrapporre i due piani del racconto storico e della tragedia familiare. I Turcs tal Friùl racconta la brutale scorreria dei Turchi che nel 1499 assediarono la comunità di Casarsa, trovandosi di fronte alla strenua resistenza del paese, al cui interno la famiglia Colùs vedeva fronteggiarsi nella lotta contro gli invasori due fratelli, il contemplativo Pauli e il ribelle Meni, destinato a soccombere tragicamente. I riferimenti culturali e personali alla storia che aveva dolorosamente coinvolto Pier Paolo e Guido, insieme a tutta la collettività friulana nel conflitto contro i fascisti, gli invasori tedeschi e gli slavi, hanno suscitato in Zannini il sospetto che Pasolini abbia volutamente retrodatare al ’44 la data della composizione del testo teatrale, troppo esplicitamente segnato dalla disperazione vissuta nel maggio del 1945. Solo con un difficile percorso psichico, intellettuale e politico Pier Paolo riuscì a separare la vicenda della morte ingiusta e crudele di Guido dalle ragioni della storia della Resistenza e dalle responsabilità del Partito Comunista cui lui stesso aderiva.  Come scrisse poi nei versi de Le ceneri di Gramsci: “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere / con te e contro te; con te nel cuore, / in luce, contro te nelle buie viscere; / del mio paterno stato traditore / – nel pensiero, in un’ombra di azione – / mi so ad esso attaccato nel calore / degli istinti, dell’estetica passione”.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 13 settembre 2022

 

RECENSIONI

ZANOTTI

PAOLO ZANOTTI, L’ORIGINALE DI GIORGIA – PENDRAGON, BOLOGNA 2017

Paolo Zanotti (1971-2012) è stato scrittore, saggista, ricercatore, editor, docente universitario, insegnante di scrittura creativa. Giudicato dai critici una delle voci più significative e promettenti della sua generazione, ci ha lasciato due romanzi (Bambini bonzai e Il testamento Disney) e importanti contributi sulla narrativa d’avventura, sulla storia dell’omosessualità e sulla letteratura francese di fine Novecento.

L’originale di Giorgia riunisce tutta la produzione zanottiana di testi brevi, editi e inediti: undici racconti, un’intervista e un’auto-analisi del metodo di scrittura. Iniziando proprio dal commentare questi due ultimi contributi, possiamo rilevare quale fosse la consapevolezza dell’autore riguardo alla propria opera: «Quando scrivo provo a eliminare ogni picco, non solo in alto ma anche in basso», aspirando alla leggerezza di Calvino, all’ironia di Meneghello, alla visività colorata di Cortázar, suoi modelli dichiarati.Attraverso una scrittura pacata, quasi sorridente, lo sguardo del narratore inquadra la crudele realtà di un mondo disumanizzato, in cui gli esseri umani si trasformano arrendevolmente in “manichini”, in pupazzetti della Playmobil, in soldatini ossessivi che ubbidiscono alle leggi feroci del consumismo, allineati davanti alle casse dei supermercati, o spettatori inebetiti dalle televisioni e dai computer. Mentre la terra agonizza tra inquinamento e gas serra, invasa da masse migranti di affamati, Zanotti si affida alla fiaba e alla fantascienza, al sapere infantile e al folklore popolare, all’avventura picaresca e all’ecologismo, al fumetto e alla ghost-story, con un tocco di nostalgico romanticismo corretto da un gusto ironico del particolare macabro.

C’è in questo autore, purtroppo mancato prematuramente, il proposito di farsi empatico portavoce della memoria collettiva della generazione nata negli anni ’70, cresciuta con i cartoon di Candy Candy e di Eta Beta, pasciuta con «placido pane-burro-e-zucchero» in famiglie asfissianti e normalmente insoddisfatte, desiderosa di evadere con ribellioni eclatanti ma incapace di farlo: giovani disadattati nel presente e impauriti da un futuro minaccioso, rannicchiati nel rifiuto della postmodernità e proiettati verso un universo estraniante e alieno, da Star Wars e viaggi interplanetari. Nicola Barilli nell’introduzione parla di molteplicità di stili adottati e di pluralità di direzioni, anche se i nuclei tematici dei racconti si riducono sostanzialmente a tre, corrispondenti alle tre età dell’uomo: infanzia, giovinezza e maturità, con una dichiarata idiosincrasia per quest’ultima, colpevole di affondare sogni e illusioni, e di sottomettersi con eccessiva docilità ai riti del lavoro, del successo, del conformismo sociale.

Così, il «tempo-spugna dell’infanzia» viene recuperato nel suo alone magico di incanto, di paradiso perduto (la mamma insostituibile, il paesino, l’oratorio, gli animali, le nuvole, le bande scorrazzanti nel parco), ma anche di «inesorata still life», quando «non si capisce il mondo a cosa serva», in uno dei racconti più riusciti del volume, Ritorno. E l’adolescenza già si carica di turbamento e rabbia («Sì sì lo so che saremo sempre infelici comunque»), tra utopie ambientate in civiltà extraterrestri, cloni, astronavi e barriere di energia cosmica (Paesaggio con manichini) o realtà demoralizzanti di amori e amicizie tradite (L’originale di Giorgia, La cella geografica). Infine l’età adulta, menzognera e disperata, vissuta come un incubo (Going native, Io e Licia, Teologia da supermercato, Paese all’uscita dell’autostrada, Per costruire la casa dei miei sogni), da cui tentare continuamente di fuggire per poter ritrovare uno scampolo di autenticità. Riguardo allo stile adottato da Paolo Zanotti in queste prose brevi, è senz’altro da sottolineare la scelta incontestabile di una forma comunicativa lineare e fluida, vivacizzata da un lessico inventivo e da improvvise e inaspettate metafore (originali, eccentriche), a cui tuttavia l’autore non demanda il compito di disorientare il lettore con l’artificio della meraviglia, affidato invece al contenuto, sempre imprevedibilmente nuovo.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/L-originale-di-Giorgia-Paolo-Zanotti.html         13 marzo 2018

 

 

RECENSIONI

ZAOUI

PIERRE ZAOUI, L’ARTE DI SCOMPARIRE – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

“Felicità per sottrazione” è l’obiettivo che secondo il filosofo francese Pierre Zaoui dovremmo cercare di conquistare e mantenere, individualmente e come collettività. Lo afferma nel saggio L’arte di scomparire, sottotitolato “Vivere con discrezione”: ed è proprio di questa particolare attitudine, oggi raramente riconosciuta come qualità, che l’autore tesse un convinto elogio.

Discrezione come scelta di vita, che in genere si accompagna a una disposizione caratteriale antitetica all’eccesso di esuberanza, di autopromozione, di visibilità, di autoreferenzialità: inclinazioni particolari che nel mondo contemporaneo vengono incoraggiate dai media e dai social come valori e meriti da esibire con orgoglio e sfrontatezza.

La discrezione viene definita dall’autore dote “rara, ambigua e infinitamente preziosa”, che trova nella moderazione e nel riserbo la propria misura espressiva, sottratta a riflettori e casse di risonanza, renitente di fronte a ogni forma di spettacolarità. Aderendovi, “usciamo da quel gioco di proiezioni e introiezioni continue che ci legano di solito agli altri”, rinunciamo a qualsiasi volontà di potenza e all’illusione di essere indispensabili, alla “dialettica mediocre del riconoscimento o della seduzione”. Sottraendosi all’obbligo dell’apparire e accettando una sorta di clandestinità, la discrezione assume i tratti della dissidenza, di una resistenza politica al dovere di divulgazione e protagonismo, secondo cui “essere è unicamente essere percepiti”. Si oppone, infatti, alla sorveglianza del panottico totalitario, praticata dalle nostre occhiute e orecchiute società contemporanee attraverso videocamere, intercettazioni, spionaggi informatici, droni e satelliti.

La delicatezza del porsi nel mondo dovrebbe insegnare a non stare troppo vicino alle persone e alle cose per non venirne divorati, né ad allontanarsene troppo rischiando l’isolamento. Tuttavia, la rinuncia volontaria all’esposizione potrebbe nascondere una debolezza originaria del carattere, una tattica dissimulatrice, una forma raffinata di narcisismo, un eccesso di timidezza-pigrizia-egocentrismo-vigliaccheria, o (in termini psicanalitici), l’angoscia di castrazione e la pulsione di morte.

Pierre Zaoui indaga sulle origini di questo orientamento comportamentale a partire da quanto ne pensavano gli antichi. I greci decantavano l’aidós (pudore, modestia, riservatezza) e la phrónesis (prudenza, saggezza, giusta misura): Epicuro consigliava di vivere nascosti, Marco Aurelio raccomandava di rifugiarsi nella propria “cittadella interiore”, rifiutando successi estemporanei, lusso e piaceri effimeri; Platone e Aristotele suggerivano di affidarsi sempre alla ragione e alla consapevolezza per migliorare politicamente la comunità.  In tal modo però non si privilegiava una disinteressata scomparsa dell’io, quanto invece una più elevata presenza a se stessi, e un’opportunità personale in termini politici.

Durante il rinascimento sembrò che la figura del cortigiano riassumesse esemplarmente i caratteri di equilibrio e tatto propri della discrezione, nel processo di civilizzazione dei costumi che andava imponendosi in tutta Europa. Cortesia, raffinatezza, educazione diventavano in realtà astuti strumenti di autoaffermazione all’interno dei palazzi, asserviti all’adulazione sottomessa ai propri signori.

Quindi, più che dalla filosofia o dalla politica, la discrezione è stata riconosciuta come valore primariamente in ambito religioso, in particolare dall’ebraismo e dal cristianesimo.

Tre sono le autorità morali che nei secoli hanno meglio illustrato le proprietà tipiche della discrezione: San Tommaso che la esaltava come umiltà del cuore e della mente, il rabbino Isaac Luria che la paragonava alla contrazione (tzimtzum) messa in atto dal Creatore per lasciare spazio di libertà alle creature, il mistico Meister Eckhart che invitava al distacco dai beni materiali e all’abbandono di ogni egoità.

C’è poi la discrezione proposta dagli atei e dagli agnostici, racchiusa in un orizzonte puramente umano. È quella che Levi Strauss trovava negli indigeni amerindi, animati “da un sentimento deferente verso il mondo”, e non concentrati sulla propria soggettività. O agli antipodi temporali, quella indicata da molti pensatori moderni (Kafka, Virginia Woolf, Hannah Arendt, Blanchot, Benjamin, Deleuze, Bataille, Debord), che narrano esperienze di distacco, nascondimento e sparizione spogliate da ogni fideismo, e abbandonate fiduciosamente all’idea dell’annullamento di sé e del lasciar-crescere ciò che è fuori di sé.

La discrezione è quindi un’arte recentemente riscoperta nella sua valenza micropolitica: di resistenza impercettibile all’ostentazione di sé, di rinuncia ad apparire e ad accumulare ogni tipo di esperienza, di rifiuto del soggettivismo esasperato di chi pretende di “essere percepito” senza riuscire a “percepire”.

Pierre Zaoui (1968) insegna attualmente Filosofia presso l’Università di Parigi VII, e si occupa di liberalismo, soprattutto nel pensiero di Spinoza, Hume e Deleuze,

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 27 luglio 2020

 

 

 

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ZARRI

ADRIANA ZARRI, TUTTO E’ GRAZIA – ALIBERTI, FIRENZE 2011

L’ultima intervista concessa da Adriana Zarri, novantunenne, quando era già molto ammalata e costretta a letto da due anni, è un difficoltoso ribadire sue tesi rese note in molti anni di militanza pubblicistica e di fede, e nei suoi libri di successo. La donna monaco, come amava definirsi e essere definita, risponde in maniera scarna e tranquilla, senza più la vis polemica che la caratterizzava in passato, alle domande di Domenico Budaci. Domande incalzanti e articolate, ricche di citazioni, che senz’altro finiscono per illustrare più le tesi dell’intervistatore di quelle dell’intervistata, di cui tuttavia rimangono sulla pagine alcune illuminanti, quasi gnomiche sentenze. “Tutto ciò che ci succede ha un senso, un fondamento positivo, “Dio è più grande del nostro cuore”, “Quando chiediamo ci è sempre dato, anche se non ci è dato quello che a noi sembra la cosa giusta”, “Pregare è chiedere il regno”, “Poesia e preghiera vanno insieme. La poesia è il tentativo di cercare un senso ulteriore alle cose”, “La nosta cultura è del fare, non dell’accoglienza. Fare,fare,fare… e invece c’è un lasciar fare”. Improvvisamente Adriana Zarri si anima quando parla della bellezza della natura (“La bellezza è dappertutto”), dei suoi amici animali e dell’amatissima gatta, per cui spera in una resurrezione quale quella riservata agli esseri umani. E non crede nelle condanne ecclesiastiche: “Forse bisognerebbe chiedersi cos’è l’eresia… probabilmente è una verità impazzita, ma c’è più verità che errore nell’eresia”. Insomma, “tutto è grazia”, come scriveva Bernanos, di tutto bisogna avere consapevolezza e riconoscenza. Il libro si conclude con una breve intervista a Mons. Bettazzi, Vescovo di Ivrea e caro amico della Zarri, che si sofferma particolarmente sui concetti di laicità, di povertà e di dialogo, e mette in guardia la gerarchia cattolica dalle blandizie della politica.

IBS, 9 giugno 2011

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ZAZUBRIN

VLADIMIR ZAZUBRIN, LA SCHEGGIA – ADELPHI, MILANO 1990

Di Vladimir Zazubrin – autore del primo romanzo ufficiale del realismo sovietico, Dva Mira (Due mondi), lodato da Lenin e da Gorkij come «libro terribile e utile», l’editore Adelphi ha pubblicato nel 1990 un racconto lungo, La scheggia, apparso nella Russia di Gorbaciov solo nell’89, dopo sessantatré anni di censura e rimozione.
Zazubrin, in cui vero nome era Vladimir Zubcov, fu un rivoluzionario “doc”, di estrazione contadina, bolscevico dall’adolescenza: dapprima allievo ufficiale, quindi partigiano nell’Armata Rossa, poi scrittore e giornalista fedele ai canoni del realismo sovietico, infine funzionario del partito di Lenin fino al 1993, anno in cui scrisse la novella La scheggia, cadendo così in disgrazia presso l’apparato del partito. Accusato di «non aver compreso le strade e i metodi dell’edificazione socialista», non riuscì mai a pubblicare il suo racconto, che adesso leggiamo tanto più increduli e angosciati in quanto sappiamo provenire da fonte di indubbia fede e fedeltà comunista.
Dice un cinico proverbio russo che «le schegge saltano quando si abbatte il bosco», e appunto di queste schegge, delle migliaia (milioni, diremmo oggi) di vittime innocenti della rivoluzione sovietica ha scritto Zazubrin, cosciente e disperato del tradimento cui “Lei” (la Rivoluzione, appunto, come viene definita nel racconto) ha costretto i suoi adepti.
Andrej Srubov, protagonista della storia, porta nel suo nome una condanna: srubit’ significa in russo “tagliare, abbattere”, e Srubov è destinato infatti (come presidente della Ceka, la commissione straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio) a rivestire il ruolo di boia, di carnefice, che decide della vita e della morte di centinaia di persone. Il racconto si apre con una rivoltante carneficina, provocata da una serie di fucilazioni di nemici politici, uomini e donne, ufficiali e religiosi, nobili e delinquenti comuni: corpi che rotolano nei loro escrementi, viscere che si aprono diffondendo odori insopportabili, nudità umilianti e pietose insieme, in un crescendo vorticoso di urli, rantolii, preghiere. Srubov implacabile regola il tirassegno delle esecuzioni: «Un doloroso colpo nelle orecchie. Bianche carcasse di umida carne si afflosciarono sul pavimento. I cekisti corsero rapidamente indietro con i revolver fumanti in mano, e subito fecero schioccare di nuovo i grilletti. Le gambe dei giustiziati ebbero una contrazione. L’uomo grasso tirò l’ultimo respiro con un sibilo stridente. Srubov pensò: – Esiste l’anima, o no? E’ forse l’anima che esce sibilando? -».

I cinque soldati ai suoi ordini agiscono come automi, freddi e determinati nel fanatismo che li motiva: denudano i prigionieri, li mettono in fila, prendono la mira, sparano, si ripuliscono dagli schizzi di sangue e dai brandelli di carne che li raggiungono. Poi, in un parossismo di follia, tentano di ripulirsi anche anima e mente correndo all’aperto a tirarsi le palle di neve, tra un’esecuzione e l’altra, in una patetica immersione nell’innocenza e nella leggerezza infantile del bianco inverno russo. Srubov no. «Srubov sta saldo, la testa alta, nel rombo del terremoto, e fissa avidamente il lontano. Nella mente un unico pensiero – Lei.»

Ma sarà proprio questa cieca ostinazione, questa pronuba ossessione rivoluzionaria a fare anche di lui una vittima predestinata. Abbandonato dalla moglie, segnato a dito dalla popolazione, disprezzato dal padre che finirà vittima del terrore leninista, Srubov vacilla: comincia a bere, usa metodi sempre meno ortodossi negli interrogatori, non riesce più a nascondere il suo disprezzo per i delatori che gli offrono i loro immondi servizi.
Guardandosi allo specchio non si riconosce, allucinato dall’immagine di un se stesso di cui è prigioniero: solo, nel suo ufficio, farnetica di moralità e politica con un indifferente ritratto di Marx, tremando ogni volta che i suoi soldati caricano su camion rombanti i cadaveri dei giustiziati. Lui, il carnefice impietoso, l’assassino in divisa, pretende dalla madre che lo aspetti con la luce accesa, perché ha paura del buio. La tentazione che avverte, firmando l’ennesimo ordine di fucilazione, di scrivere la sua firma qualche centimetro più in alto per finire anche lui tra i condannati, è un chiaro indizio della sua vocazione all’annullamento, all’ autocondanna.
La macchina inarrestabile della rivoluzione, cui tutto è permesso, tutto è dovuto, maciullerà anche Srubov, riducendolo a una delle tante schegge già saltate nel taglio del bosco. «Ma a Lei forse interessa tutto questo? A Lei serve solo costringere gli uni a uccidere, gli altri a morire. Solo questo. E i cekisti, e Srubov, e i condannati, erano tutti allo stesso modo insignificanti pedine, piccole viti nella furiosa corsa del meccanismo della fabbrica… Qui la padrona è Lei, crudele e bellissima».

Si può forse rimproverare al racconto un certo gusto truculento per le immagini forti, una certa roboante retorica nelle metafo tuttavia il merito innegabile di averci dato (autore e traduttrice) un documento terribile, una denuncia pari come gravità e violenza agli scritti usciti dai lager nazisti, su una fase storica di cui sappiamo ancora troppo poco.

 

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17 dicembre 2015

RECENSIONI

ZEI – LECCO

ALKI ZEI, LA TIGRE IN VETRINA – EINAUDI, TORINO 1978
ALBERTO LECCO, L’INCONTRO DI WIENER NEUSTADT – MONDADORI, MILANO 1978

Uno dei romanzi per l’estate proposto da Einaudi è La tigre in vetrina, di una scrittrice greca vivente ora a Parigi, Alki Zei. Si tratta di un romanzo che ha circa una quindicina d’anni, ma ha potuto essere pubblicato in Grecia solamente ora, per i troppi richiami alla dittature dei colonnelli. La storia infatti si svolge nei mesi che precedettero e seguirono la dittatura fascista di Metaxas, nell’estate del ’36, quando tutto l’orizzonte europeo era già scuro per la guerra di Spagna e le prime avvisaglie della follia hitleriana. Due bambine vivono con i genitori su un’isola che mantiene ancora qualcosa della selvaticità e della libertà naturali; con loro stanno il nonno (bella figura di antifascista, chiuso in camera a leggersi i classici e a trarne insegnamenti di democrazia), una zia e una vecchia cameriera. Con loro vive in qualche modo anche una tigre impagliata, che le bambine fanno protagonista di nuove avventure e simbolo di ribellione al mondo incomprensibile degli adulti. Melia e Myrto diventano presto vittime inconsapevoli, e perciò più indifese, dell’improvviso mutamento dell’atmosfera politica: attraverso di loro, dietro i loro giochi e il loro linguaggio infantile, si intuisce il dramma di una paese e di un periodo intero di storia greca. La dittatura cambia il corso della vita familiare, sembra dividere gli stessi componenti della famiglia, obbliga a comportamenti inautentici e, agli occhi delle bambine, ridicoli. La storia è narrata con garbo e ingenuità, e la poesia di questo libro sta appunto in questa discrepanza tra la drammaticità degli avvenimenti e la leggerezza malinconica con cui le due sorelline li vivono.
Un altro romanzo che vive in una dimensione di simile oppressione è L‘incontro di Wiener Neustadt, di Alberto Lecco, ambientato in una stazione austriaca durante l’ultima guerra. Vicenda scarna, che si svolge nell’arco di poche ore, con tre soli personaggi sullo sfondo misero di rassegnazione (da una parte) e crudele lucidità (dall’altra) che segnava i rapporti interpersonali all’epoca della persecuzione razziale. Una giovane coppia di ebrei stabilisce una comunicazione intellettuale con un altrettanto giovane ufficiale nazista: il racconto è imperniato appunto su questo dialogo impossibile. Una solidarietà culturale, che gli ebrei sottolineano e continuamente incoraggiano nella speranza che si trasformi in solidarietà politica, o più semplicemente, umana; un fascino subito reciprocamente, una specie di complicità che si instaura tra queste persone che (per caso e per necessità) oscillano tra l’essere vicine e l’essere lontane. Un rapporto ambiguo, tutto teso su un filo di colloquio condotto dal narratore in maniera sapiente. Ma un romanzo, per farsi perdonare di essere intelligente, sembra debba pagare uno scotto: e in questo caso lo scotto è il gusto della citazione, l’aristocraticità culturale sbandierata, un linguaggio fastidiosamente raffinato (troppi e troppo classici gli “epperò” al posto dei più semplici “però”): ma tutto ciò serve forse a suggerire la risposta, che la cultura non basta a salvare, che la vera comunicazione avviene non tramite determinate “affinità elettive”, ma in altro modo, più responsabile e cosciente.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 27 agosto 1978

RECENSIONI

ZIPPILLI

ERIKA ZIPPILLI, COME CHIAMANDO – FUORIDALCORO, MENDRISIO 2011

La scrittrice e traduttrice ticinese Erika Zippilli-Ceppi ha vinto nel 2007 il Premio Schiller con un volume di racconti (“Regine di confine”) ambientati nelle comunità paesane della Svizzera Italiana, prestando voce e parola nuova (antica di antichi dialetti), attraverso coniazioni linguistiche sperimentali, a dieci donne portatrici di una cultura e di una storia che sa farsi, da privata e familiare, patrimonio collettivo da preservare con amorevole cura.
Nel 2011 ha pubblicato con le eleganti edizioni Fuoridalcoro “Come chiamando”, una silloge di poesie in sessanta copie numerate, impreziosite ciascuna da originali acquerelli di Michela Pozzi. Non è un libro da sfogliare tradizionalmente: si apre a fisarmonica, con i testi stampati sulle due facciate, chiuso tra due copertine nere di cartone pressato.

Otto poesie in cui “compaiono voci e destini di alberi, case e abitanti del suo territorio reale e emozionale”. Versi che raccontano un passato ripescato da trascurate pieghe della memoria “Il ricordo sceglie da sé / il come e l’ora / in cui venire al mondo” per narrare esistenze minime di donne comuni, di abitazioni cariche di vita e affetti, di vegetazione silenziosa ma partecipe all’esistenza degli esseri umani.
Gli alberi (gelsi, castagni, ulivi) sono descritti nel loro pervicace aggrapparsi alle radici, “gravati da silenzi offesi /… ieratico rifugio di notturni voli” nel loro solido resistere alla forza dei venti, svettare verso il cielo con l’intrico dei rami, offrire riparo (“muschiati anfratti”) alle bestiole del bosco.
Ma sono soprattutto le case che abitano questi versi, case vecchie di un Ticino dimenticato, frequentate da donne che si facevano visita a vicenda (chiacchierando, consolandosi dei reciproci magoni), e appartamenti nuovi, impersonali, freddi (“in fondo alla fila di porte pittate tutte uguali”). Ci sono, nelle case descritte, corpi di malati “come chi aspetta la scure, / testa insaccata di fianco al letto, / senza domande”, laboriose sartine “in attesa di non si sa quale attesa”, in ansia “al su nanca mì parché…”, vedove che fanno visita al cimitero “tré volte al dì, sum pròpi chì da còmud!”, mogli abbandonate dai mariti emigrati “in Merica”, bambine spaurite nella “vestina scarlatta”. Personaggi lontani da una contemporaneità frenetica e disillusa, che sembrano quasi straniati nei loro “gesti impalliditi”. A loro l’autrice vorrebbe regalare, “un cielo azzurrorosa”, “glicine spavaldo”, “veloci stelle”, “bozzoli dorati”: poesia, dunque, che funga da lasciapassare verso un oltre più clemente, Come chiamando – in una lingua densa di meditato spessore – l’orizzonte di un desiderio futuro.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Come-chiamando-Zippilli-Ceppi.html     19 ottobre 2016

RECENSIONI

ZUCCO

RODOLFO ZUCCO, GLI OSPITI DISCRETI – ARAGNO, TORINO 2013

Rodolfo Zucco (Feltre, 1966), Professore di Linguistica all’Università di Udine, studioso della nostra letteratura settecentesca e novecentesca, e curatore dei due fondamentali Meridiani  Mondadori dedicati a Giovanni Giudici e Giovanni Raboni, ha pubblicato con l’editore Aragno nove saggi scritti tra il 1991 e il 2007, riguardanti la produzione in versi di altrettanti importanti poeti italiani del secondo 900. Nella nota di apertura, Andrea Cortellessa attribuisce la discrezione cui fa cenno il titolo del volume non solo «al carattere di chi firma i nove saggi qui raccolti», ma alla stessa «acribia» critica evidenziata dalla loro struttura, che partendo dall’esame di aspetti talvolta marginali, discreti, del testo poetico, «rinvia a un’ interpretazione complessiva» dell’opera e dell’autore preso in esame. E Zucco precisa ulteriormente, nella sua premessa, il senso da attribuire al titolo scelto (dopo sofferta gestazione!): «Si può ben parlare di ‘ospiti’ in ragione della mia lunga ‘convivenza’ con loro in un ventennio di studi e di scrittura. Ma è altrettanto importante per me l’accezione di ‘ospite’. Sono ospiti, i miei autori, nel senso che mi ospitano o mi hanno ospitato: giacché la loro opera veicola infine gusti miei, determinate zone della mia sensibilità».

Il libro si apre infatti con uno studio su Vittorio Sereni, che si rivela un affettuosissimo omaggio, più che al poeta, alla persona: nella rievocazione di particolari biografici (talvolta commoventi, talaltra spiritosi) che offrivano spunti alle dediche delle sue poesie, spesso poi cassate nella pubblicazione a stampa, a causa «della riservatezza dei sentimenti che doveva essere un tratto dell’uomo».
Altri saggi «procedono essenzialmente come accertamenti di fatti linguistici e metrici (il verso, la rima e la strofa)». Ad esempio l’indagine su rima, rima interna, enjambement intesi come segnali specifici dell’oralità nella produzione di Giudici. O il rilievo dato all’uso della citazione e dell’allusione in Raboni. O ancora, nel confronto tra due libri di Valerio Magrelli (Ora serrata retinae  e  Nature e venature), la sottolineatura del mutamento dell’ autocoscienza critica – attraverso lo studio di analogie, metafore, deissi, metrica- nella severa tensione autoriflessiva che da sempre caratterizza la produzione del poeta romano. Di particolare interesse, pur presentando qualche difficoltà per il lettore non specialistico, è il saggio sui «versi a gradino» di Giorgio Caproni, ereditati dalla divisione in battute della lirica teatrale, attraverso differenti epoche e generi poetici, da Leopardi a Gozzano.
A Fernando Bandini, suo maestro negli anni universitari a Padova, Rodolfo Zucco dedica un lungo studio che del poeta vicentino esplora la cospicua attività di traduttore, in particolare da Baudelaire. La produzione in versi di Iolanda Insana e di Eugenio De Signoribus viene minuziosamente analizzata negli esiti formali sintatticamente contorti e febbrili dell’una, attenti con virtuosistica perizia all’uso delle rime nell’altro.
Infine, l’ultimo saggio del volume è dedicato a un poeta sottovalutato e quasi dimenticato, Ferruccio Benzoni, di cui si considera il libro del 1998  Sguardo dalla finestra d’inverno, con le sue derivazioni da Fortini e Sereni, e la particolare «strategia della negazione», sempre comunque all’insegna di un dettato elegante e discreto. E se Zucco conclude le sue letture, di autorevolissima competenza critica, ricordando che nella poesia è quanto mai implicita una «vocazione alla felicità», sono le parole di Raboni che meglio offrono la chiave di interpretazione di questi studi, approfonditi e comparativi: «nella vita di una poesia…ci sono tante altre vite, le vite di tante altre poesie».

«L’Immaginazione»  n. 279, febbraio 2014

RECENSIONI

ZUCCO

GIUSEPPE ZUCCO, IL CUORE È UN CANE SENZA NOME – MINIMUM FAX, ROMA 2017

Capovolgendo la trasformazione del cane di Bulgakov, e senza sfiorare nemmeno lontanamente la satira politica dello scrittore russo, Giuseppe Zucco (1981) ci racconta una storia delicata e fantastica, scritta con proprietà ed eleganza, narrando di un giovane uomo che di guaito in guaito, in uno straziante percorso di fedeltà e di amore non più corrisposto, si trasforma in cane. «Lei lo aveva lasciato, e lui aveva continuato come nulla fosse. La mattina andava a lavorare, la sera tornando a casa comprava il pane, la notte dava due giri di chiave alla porta prima di spegnere le luci. Era tutto sotto controllo, diceva… Ma una mattina, mentre lavava i denti, tirando su la testa davanti allo specchio, scoprì che guaiva».

Il protagonista (senza nome, designato da un generico “lui”, così come gli altri personaggi rimangono nel limbo di classificazioni universali: la bambina, il padre, il ragazzo, e soprattutto “lei”) guaisce perché non riesce a trattenere il dolore della perdita e dell’abbandono: dapprima di nascosto e camuffando il suono disdicevole con altri rumori, poi manifestatamente, con latrati e ululati strazianti. Fino alla sua completa trasmutazione, con una metamorfosi kafkiana, in un quadrupede non di razza, piuttosto ordinario, «muso pronunciato, le orecchie flosce e appuntite, il manto bianco ma pezzato da alcune macchie di un nocciola chiaro, la coda come una virgola per aria». Un cane che si comporta come tutti i canidi del mondo: si azzuffa col branco, ruba il cibo, si accoppia con le randagie che trova per strada, ringhia e morde, si sporca e puzza. Viene adottato e abbandonato, accudito e torturato più volte, prima da una bambina viziatissima, poi da una volubile studentessa, infine da una macabra vegliarda. Nelle presenze femminili che incontra, nelle tre età di uno stesso mito muliebre, il cane (ex-giovane uomo innamorato) riscopre le sembianze allucinanti della donna che lo ha lasciato: le sue labbra stupende, l’incisivo scheggiato, le gambe affusolate, il seno, i fianchi, la voce. Gli episodi del loro incontro e della loro convivenza, la fisicità degli amplessi, i litigi e le incomprensioni si sovrappongono ai tormentosi avvenimenti della sua vita di animale, alle sue umiliazioni e alle sue rabbie: «… il cane pensò a lei. Lei era la sua patria ubiqua. In lei affondavano le sue radici. Non c’era altra ragione oltre lei». Il cuore è un cane senza nome, quindi, in un’allegoria della sofferenza amorosa che può arrivare al delirio e alla scomposizione di sé, al travestimento e alle mortificazioni più scottanti. Cosa rende simili esseri umani e non-umani nel dolore? «Una stessa storia? Una storia finita male? Questo eccesso di amore non più riposto nelle mani della persona amata? Questa incessante proliferazione di cellule ed energie?».

Accomunati non solo dal bene e da sentimenti positivi, ma anche dall’odio, dalla gelosia, dal terrore, dal desiderio di vendetta, persone e animali sono simili, vittime delle stesse passioni. Il cane di Giuseppe Zucco non ha nome, perché forse ha i nomi di tutti, patisce gli spasimi e le gioie di tutti. Nella sua storia, sospesa tra verità e fantasia, tra fiaba e realtà, si cela come unica morale la volontà di riconoscersi vivi, in un passato da recuperare e in un futuro da reinventare.

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12 ottobre 2017

 

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