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RECENSIONI

VOLPONI

PAOLO VOLPONI, POESIE – EINAUDI, TORINO 2024, p. 481

Einaudi pubblica l’intero corpus poetico di Paolo Volponi a cura di Emanuele Zinato, professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Padova, con una densa introduzione (L’eroismo della volpe), una bibliografia ragionata, una puntuale nota biografica, e una nota finale di Giovanni Raboni. Il volume, già uscito nel 2001 con il titolo Poesie 1946-1994, presenta due importanti novità, oltre alla segnalazione dei contributi critici dell’ultimo ventennio: la pubblicazione integrale della prima raccolta di versi dello scrittore urbinate, Il Ramarro, e l’inclusione di nove testi inediti.

Paolo Volponi deve la sua fama in particolare alla produzione narrativa (otto romanzi dal 1962 al 1991, vincitori di due Premi Strega), che però è sempre stata accompagnata dalla scrittura in versi, scandita in sei libri dal 1948 al 1990.

Nella prima opera, Il ramarro – composto da quaranta frammenti pubblicati in una plaquette di 120 esemplari, con introduzione di Carlo Bo –, era prevalente la misura breve, il dettato semplice, l’assenza di rime, l’eredità dei lirici greci filtrata dagli echi dell’ermetismo italiano e dalla lirica contemporanea spagnola. Temi prevalenti erano l’eros e il corpo, descritti con sentimenti ambivalenti tra attrazione e repulsione (“Mi fa schifo / tenerti in bocca”), e l’attenzione per l’ambiente animale e vegetale, vibrante di acuta recettività sensoriale (“Io sento / il rumore dell’ossatura delle cose”).

La seconda raccolta del 1955, L’antica moneta, vincitrice del Premio Carducci ex aequo con Pasolini, manteneva l’interesse per le stesse tematiche, arricchite da una maggiore considerazione verso paesaggi differenti, come quelli romani e meridionali, che il poeta aveva imparato a conoscere dopo aver lasciato Urbino ed essere stato assunto da Adriano Olivetti, con l’incarico di effettuare una serie di inchieste nell’Italia del sud. Emergono inoltre spunti di esplorazione autoanalitica in costante riferimento alla vastità dello spazio siderale, oscillanti tra rigore logico e rapimento inebriato: “È una notte / facile ed inconsueta, così luminosa / che una cometa s’indovina / dietro l’orizzonte. / Tu sei di vetro, / io vedo le mie mani / dietro la tua nuca”.

Le porte dell’Appennino (1960), premiata al Viareggio, accentuava invece una disposizione di stampo sociale e antropologico – probabilmente incoraggiata dalla frequentazione dell’autore con gli impegnati redattori della rivista “Officina” –, indirizzando i contenuti in senso epico e narrativo, e la struttura formale nella direzione del poemetto. Qui Volponi valutava soluzioni destinate a essere recuperate nella composizione dei romanzi più noti. Ad esempio gli elementi biografici e familiari (“Quando io sono nato / mio padre non c’era”), collocati in uno scenario storico-collettivo, e addirittura cosmico, nella volontà di distanziarsi dal privato per assumere valenze universali. Non solamente l’ambiente domestico viene descritto con la tecnica del racconto e del saggio in versi, ma anche il persistente dissidio tra l’attaccamento ai luoghi originari e il desiderio di allontanarsene, inserito nella condizione più generale dell’abbandono delle campagne e dell’inurbamento, tipica degli anni ’60: “l’immagine di Urbino / che io non posso fuggire, / la sua crudele festa, / quieta tra le mie ire. // Questo dovrei lasciare / se io avessi l’ardire”.

Passeranno quattordici anni, durante i quali andava consolidandosi la fama del Volponi romanziere, prima della pubblicazione di Foglia mortale (1974), contenente cinque componimenti scritti tra il ’62 e il ’66, stilisticamente connotati non solo da un recupero di tonalità leopardiane, ma soprattutto da un’intenzionalità pedagogica, con l’invenzione di un destinatario adolescente, fortemente autobiografico (il “por bordel”), da avvicinare mediante l’uso di termini dialettali, fiabeschi e cantilenanti: “Tu te rovini, tu te rovini, bordel, tu te rovini / se non scarpini”, “Burdel, né orto né porto, / niente ti potrà salvare / se  tu non rompi il sigillo / che imprime la tua pena”.

Nel 1980 Einaudi riproponeva tutto il corpus poetico volponiano in un unico volume, Poesie e poemetti 1946-1966, con postfazione di Gualtiero De Santi, riguardo a cui diversi critici espressero giudizi concordi nel sottolineare le varie stratificazioni linguistiche e formali, dal timbro elegiaco a quello prosastico, insieme al motivo esistenziale dell’esilio dalle radici natali, fecondante tutta la produzione narrativa posteriore.

Con testo a fronte, quinto volume di poesia fortemente caratterizzato teoricamente, apparve nel 1986, e fu subito accolto dai pareri favorevoli di Bo, Ramat, Santato, Papini, De Santi, Raboni, Asor Rosa, Fortini, che ne evidenziarono il lirismo visionario animato da robusti accenti corali e arcaici, leggibile sia attraverso categorie psicologiche e introspettive, sia ancora utilizzando la motivazione sociologica del contrasto tra mondo rurale (con la presenza insistita di figure ornitologiche) e mondo aziendale-cittadino: “aquila è nel linguaggio industriale / l’imprenditore il presidente il capo”.

Infine, la svolta rappresentata dall’ultimo libro di versi Nel silenzio campale (1990) consisteva nel prevalere dell’allegorismo e della tematica politica, con l’impiego martellante della rima utilizzata in maniera talvolta parodistica, a segnare l’approdo coerente della ricerca letteraria ed etica dell’autore, in un generoso lascito intellettuale: “Se qualcosa di me ancora vale / debbono tale cosa prenderla gli altri, / impiegarla e trarne profitto presente e reale”.

Nel centenario della nascita di Paolo Volponi, questo corposo volume einaudiano rende omaggio a un poeta che ha saputo traghettare in un’esemplare e celebrata narrativa le sue “inquietudini da selvatico” e da “devoto dirigente”, esprimendo il dramma antropologico novecentesco dell’alienazione produttivistica e dell’urbanizzazione, attuata a discapito dell’ambiente naturale.

 

© Riproduzione riservata                «L’Indice dei Libri del Mese» n. VI, giugno 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VUONG

OCEAN VUONG, IL TEMPO È UNA MADRE – GUANDA, MILANO 2023

Sono circa una trentina le composizioni raccolte in Il tempo è una madre, ultima pubblicazione italiana di Ocean Vuong, poeta e narratore statunitense di origini vietnamite. Nato a Ho Chi Minh nel 1988, emigrato con la famiglia nel Connecticut nel 1990, si è affermato giovanissimo nel panorama letterario americano affrontando temi autobiografici e sociali (la famiglia, l’omosessualità, lo sradicamento culturale, il consumismo) attraverso un linguaggio fortemente innovativo, che utilizza con intelligenza lo slang e la sperimentazione sintattica, la visionarietà di stampo cinematografico e la provocazione verbale.

Già la prima bellissima poesia introduttiva al volume, Il toro, contiene molti elementi identificativi del suo stile: dall’atmosfera onirica (la visione allucinata del bestione nero dagli occhi azzurro-kerosene), all’autoritratto di un sé stesso sfasato nel rapportarsi agli altri (“io ero un ragazzo – / il che vuol dire che ero l’assassino / della mia infanzia. & come per tutti gli assassini, il mio dio / era l’immobilità”), ai versi graficamente scomposti, al vezzo grafico di usare come congiunzione il carattere “&”, all’uso sapiente della metafora (“Come una cosa pregata / da un uomo senza bocca”), all’attenzione per i particolari ambientali (la lampada nel portalampada), all’esibita necessità di comprensione e tenerezza (“avevo bisogno che la bellezza / fosse più che un dolore mansueto / abbastanza da poterlo abbracciare”), fino allo scavo psicologico interiore (“Arrivai – non al toro – ma agli abissi”).

Sono requisiti che troviamo sparsi in tutti i testi della raccolta, insieme ad altri, come la fortissima e sdegnata denuncia sociale contro il razzismo, i pregiudizi sessuali, l’esclusione di indigenti, malati, anziani, oppositori politici. In Caro Peter, ad esempio, racconta in forma epistolare di una ospedalizzazione psichiatrica a base di Xanax, costrizioni fisiche, colloqui mirati a un’improbabile “normalizzazione”. “Dentro la mia testa la guerra è dappertutto”, afferma, confessando il suo perpetuo disagio, nutrito da incubi, confusione, fantasie oscene, proiezioni suicidarie, intrecci martellanti di brani musicali e scene da film: un lungo elenco di infelicità, rabbia, sensi di colpa, desideri di vendetta.

Ma anche intensità di sentimenti ricambiati con chi gli è vicino: l’ultimo ragazzo amato, la nipotina, i genitori. Il ricordo della madre morta è fatto di nostalgia, recriminazioni, fantasie incestuose: “La silhouette secca di mia madre / Promettimi che non svanirai di nuovo, ho detto / Lei è rimasta là sdraiata per un po’, ripensando / A una a una alle case ha spento tutte le luci / Io mi sdraio sulla sua silhouette, per mantenerla vera / Insieme abbiamo fatto un angelo”. Della mamma recupera un’antica ricetta, desideroso della sua approvazione postuma: “Io sono / un figlio passabile… // Il piatto si annebbia dei propri / spettri”. Il rapporto col padre, operaio in una fabbrica di calze con cui non c’è mai stata alcuna confidenza o manifestazione d’affetto, viene esplorato in una delle poesie più commoventi del libro, Leggenda americana, in cui Ocean racconta di come abbia volontariamente provocato un terribile incidente automobilistico per avere l’opportunità di baciare e abbracciare per la prima volta il suo vecchio, e di liberare il cane malato che entrambi stavano portando dal veterinario per la soppressione.

Troviamo nei racconti in versi di Ocean Vuong tracce del cinema di Spike Lee, della scrittura depressa e incazzata di Raymond Carver e Charles Bukowski, e il ricordo urlato della beat generation. Ma con una consapevolezza nuova, in cui l’emarginazione sociale si trasforma in sfida e orgoglio di un’intera generazione immigrata nel regno del capitalismo mondiale, e insieme diventa sprone a una maggiore conoscenza di sé, dei propri limiti come delle proprie ambizioni e privilegi. “Finalmente, dopo anni e anni, sono diventato un perdente / professionista. / Sono imbattibile a perdere”, “Una volta ero frocio ma adesso sono un fico. Ah”. L’essere vietnamita americano, gay, poeta non ha fatto di lui “L’ultimo dinosauro”, non l’ha penalizzato intellettualmente ed emotivamente, perché gli ha permesso di sottrarsi ai condizionamenti soffocanti di sovrastrutture culturali che disprezza e rifiuta: “Quando mi chiedono come ci si sente, rispondo / immaginatevi di essere nati in una casa di riposo / in fiamme. Mentre i miei parenti fondevano, io me ne stavo / su una gamba, alzavo le braccia, chiudevo gli occhi & pensavo: / albero albero albero mentre la morte passava oltre – / lasciandomi illeso”. Al di là di ogni sofferenza e gioia privata, Ocean Vuong sa proiettarsi in un oltre spaziale e temporale, nella Germania nazista come nel Vietnam bombardato dei suoi nonni, con la sensibilità che lo rende vicino e solidale alle sorti di una pianta, di un pesce, di un supermercato, della neve destinata a sciogliersi: ovunque insomma il suo sguardo sappia farsi partecipe del fuori da sé, tra cose minime e universali: “Be’, eccolo qui / il mondo, piccolo / & grande come un padre”.

Un plauso ai traduttori di questo ottimo libro, Damiano Abeni e Moira Egan.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 6 marzo 2023

 

 

RECENSIONI

WAGNER

JAN WAGNER, VARIAZIONI SUL BARILE DELL’ACQUA PIOVANA – EINAUDI, TORINO 2019

Jan Wagner, berlinese di adozione, è nato nel 1971 ad Amburgo. Vincitore del prestigioso premio Büchner nel 2017, in Germania ha pubblicato sette raccolte di poesia. Variazioni sul barile dell’acqua piovana, del 2014, esce ora nella collana bianca di Einaudi con la puntuale (ma anche coraggiosamente inventiva) traduzione di Federico Italiano.

A una prima superficiale lettura, subito si evidenzia l’accentuato interesse dell’autore per la natura e l’habitat vegetale e animale, persino superiore a quello rivolto al soggetto umano. Sono numerose le piante e le erbe citate da Wagner, da quelle domestiche o infestanti a quelle tropicali, con un vocabolario botanico che utilizza termini sia conosciuti sia specifici e desueti: gelso, faggio, sambuco, mandarino, muschio, ficus, anemone, veronica, menta, rosa canina, agata, castalda, amento, braida, prugnolo, farinaccio, carlina, eucalipto, mangrovia, bambù, araucarie, waratah. Anche la zoologia è molto frequentata dal poeta, negli esemplari più comuni come in quelli esotici o mitologici: api, zanzare, falene, cavolaie, aironi, merli, corvi, gufi, rondini, cacatua, asini, mucche, cavalli nelle tipologie di brabanti o lipizzani, bisonti, volpi, lontre, alci, focene, megattere, koi, mante, koala, caimani, lorichetti, nettarinie, kookaburra, cacatua, dodi, armadilli, jabiru, hippocampus.

Un’enciclopedia variopinta, bisbigliante o ululante, che evoca colori e suoni esorbitanti l’ambiente antropico, e ad esso addirittura indifferente. Come nelle esemplari poesie dedicate a un cavallo, a tre asini siciliani e a un koala, che decisi a radicarsi solo in ciò che li circonda, oppure semplicemente assonnati,  rimangono testardamente incuranti degli esseri umani, impassibili ai loro richiami (“ma non si muove, sta lì e si guarda il panorama”, “ci sbracciammo, strepitammo, li punzecchiammo – loro / fermi, / solamente impegnati nell’essere asini”, “prima che si stirino e con uno sbadiglio / sprofondino in un sogno d’eucalipto”).

Poca introspezione, quindi, nella poesia di Jan Wagner (vivaddio! visto quanto del proprio minimo e inessenziale vissuto ci propina la letteratura contemporanea…): piuttosto uno sguardo, sospeso tra ironia e nostalgia, rivolto ad alcuni fatti aneddotici dell’infanzia, o ad avventurose esperienze di viaggio. Wagner bambino precipitato in un pozzo (“sei, sette metri di caduta libera / e mi ritrovai più distante / che mai, un cosmonauta / nella sua capsula rocciosa”), o alle prese con una legnosa e noiosa maestra di pianoforte, oppure coinvolto da adulto in incontri estemporanei e casuali. Nelle rare poesie di memoria personale, la messa a fuoco del poeta cela qualcosa di sé e delle proprie emozioni, appuntandosi invece su dettagli esterni che si animano, assumendo sembianze estranianti, osservate dal protagonista con stupito candore. Così il metronomo che scandisce il ritmo sul piano diventa un feretro di quercia da cui esce “il secco dito di un morto”, la luna intravista dal fondo del pozzo si trasforma in “un occhio indagatore sul microscopio”, gli zoccoli dell’alce ucciso in una battuta di caccia e riverso a terra sembrano “le mani di un campione sulla coppa”, il faggio che si erge in un prato ricorda un dormiente che si alza da un sogno, l’enorme montone che lo fissa “dalla sua maschera / d’ebano e aspetta” è il dio della torba davanti a cui inginocchiarsi in lacrime.

Qualsiasi episodio avvenuto (l’ascolto di un brano di Bach, l’osservazione di una tela di Canaletto, la morte di un parrucchiere) diventa per il poeta evento spirituale e arricchimento interiore, dando luogo a una vibrante risonanza emotiva. L’attenzione prestata agli oggetti  li vivifica, li antropomorfizza, rendendoli messaggeri di significati che li trascendono: i lenzuoli bianchi lanciati da “insospettate altezze” come paracaduti, la tazza di ceramica modellata da un allievo buddhista che aspira alla perfezione, un chiodo nel muro destinato a durare oltre ogni fugace presenza mortale, i tovaglioli con “l’orgoglio dei velieri”, le biblioteche visitate da fantasmi, i barili d’acqua in giardino che inghiottono le nuvole con la serenità di un maestro zen. Maestro nell’analogia, scienziato della metafora, Jan Wagner quando narra di persone si orienta soprattutto verso figure lontane, nel tempo e nello spazio: un uomo morto congelato nella sua auto in Svezia, il bisnonno con la mantella militare, la zia Mia che da bambina si era infilata un’infiorescenza nel naso, il barbone deriso insieme ai compagni di scuola, la misteriosa vicina di casa che in un difetto fisico nascondeva un inconfessabile segreto… Mentre un Lazzaro redivivo puzzolente imbarazza e impaurisce parenti e compaesani con la sua apparizione di miracolato. In ogni storia raccontata un particolare minimo diventa universale, trasfigurandosi in qualcosa d’altro: la realtà sconfina nel fantastico, e il fantastico rivela la sua assoluta, evanescente insignificanza.

Oltre che nei contenuti così vari, ricchi e avvincenti, anche stilisticamente JanWagner esprime una interessante originalità. La sua lingua suona infatti “crepitante”, come viene giustamente suggerito dalla quarta di copertina e come può evincere il lettore, anche se digiuno di tedesco, da questi pochi esempi di allitterazioni, ripetizioni, dissonanze fonetiche: knirschenden kies, der kirsche; ganzen garten giersch; wie er rackert, rackert, / am bach, dem katarakt aus eis; doch ach, / doch  ach, / doch ach, yak, ach, yak, ach; dann der wald. der wald. der wald; ein schweben, schwelen; weiter wachsen, weiter wuchern… Altra tipicità formale è la totale assenza in questo libro di lettere maiuscole, in controtendenza rispetto all’uso che ne fanno oggi molti poeti, esibendole a ogni capoverso. Da sottolineare inoltre la totale discrezionalità nell’utilizzo della punteggiatura, con i frequentissimi punti fermi posti là dove non ce li aspetteremmo, quasi a voler imporre pause di voce e di lettura altrimenti trascurate.

Gli imprevedibili accostamenti di situazioni e di riflessi emotivi all’interno di uno stesso componimento, creano in chi legge un effetto di sorpresa, e sembrano divertire o quantomeno stupire lo stesso autore, che nei suoi contrasti umorali vaganti tra comicità e commozione, incanto e repulsione, riesce a toccare tutte le corde dello strumento poetico, con una sapiente e felice padronanza esecutiva.

 

© Riproduzione riservata      «Il Pickwick», 25 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

WALCOTT

DEREK WALCOTT, MAPPA DEL NUOVO MONDO – ADELPHI, MILANO 2012

Derek Walcott, scrittore caraibico nato nell’isola di Saint Lucia nel 1930, Premio Nobel nel 1992, è stato definito dal suo più importante critico, Josif Brodskij, un “realista metafisico”. Ma anche un “naturalista, espressionista, surrealista, imagista, ermetico, confessionale”, come a dire tante cose in una, tante vite in una, tanti linguaggi in uno.
Nato “nell’incandescenza di un crogiolo di razze e culture”, Derek Walcott è un nero svezzato in un dialetto delle Indie Occidentali, professore a Harvard, scrittore in un elegante e limpido inglese. In una sua poesia così si definisce: “Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese, / sono nessuno, o sono una nazione”.

Nella sua opera si compenetrano visionarietà fantastica, meditazioni metafisiche, considerazioni sociali e, soprattutto, descrizioni della natura: il mare, l’Oceano, costituiscono il fondale onnipresente – negli odori, nei colori e nei profumi – di tutte le sue raccolte poetiche. Pittore di paesaggi descritti attraverso azzardate metafore: “Sabbia che vola, esile come fumo, / Annoiata, sposta le sue dune», «La pianta d’arancio, in varia luce, / Proclama perfezionate favole ora / Che il culmine estivo della sua ultima stagione / Si piega da ogni ramo sovraccarico”, in ogni composizione di questo volume, Mappa del nuovo mondo, avvertiamo quanto la sua sensibilità poetica patisca il fascino dirompente degli elementi naturali, in tutta la loro esibita potenza: vento, pioggia, nuvole, sole e luna si concretizzano tangibilmente, animandosi in modo magico e misterioso.

“Qualcosa di rimosso rimbomba nelle orecchie a questa casa, / Fa pendere le tende senza vento, tramortisce gli specchi / Finché i riflessi perdono sostanza”, “O stella, doppiamente compassionevole, venuta / troppo presto per il crepuscolo, troppo tardi / per l’alba, possa la tua pallida fiamma / dirigere il peggio in noi / attraverso il caos / con la passione del / semplice giorno”. Il mare, soprattutto, assume una personificazione a volte minacciosa a volte maternamente tranquillizzante (“L’amen di calme acque”, “le onde represse fanno il giro dei loro stazzi / come pecore matte”, “Il mio primo amico fu il mare. Ora, è il mio ultimo”), e nello splendido poemetto semi-autobiografico La goletta Flight recupera temi ed echi narrativi conradiani, raccontando di una turbinosa traversata oceanica in cui il protagonista combatte con i suoi peggiori incubi e istinti, minacciato dall’equipaggio ignorante e ostile, e consolato dal ricordo della famiglia e del colpevole amore per una sensuale Maria Concepción.

Ma la poesia di Derek Walcott non è solo descrittiva: è anche consapevole riflessione sulla sua inevitabile schizofrenia linguistica tra il dialetto creolo materno e la lingua inglese dei colonizzatori, tra la solidarietà per la sua gente nera che non lo riconosce più e l’ambizione di appartenere a una ufficialità culturale che lo subisce con malcelata sopportazione. “Dove mi volgerò diviso fin dentro nelle vene? / Io che ho maledetto / L’ufficiale ubriaco del governo britannico come sceglierò / Tra quest’Africa e la lingua inglese che amo? / Tradirle entrambe o restituire ciò che danno?”, “Ora non avevo altra nazione che l’immaginazione. / Dopo l’uomo bianco, i negri non mi vollero / quando il potere girò dalla loro parte. / Il primo mi incatena le mani e si scusa: ‘La storia’; gli altri non mi giudicavano nero abbastanza per il loro orgoglio”. Tuttavia il poeta sa qual è il suo compito: vivere con pienezza di meraviglia, cantare i suoi versi, testimoniare: “io sono soddisfatto / se la mia mano ha dato voce al dolore di un popolo”.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Mappa-nuovo-mondo-Walcott.html      6 ottobre 2016

RECENSIONI

WALCOTT

DEREK WALCOTT, DEMOCRAZIA E POESIA –  MEDUSA, MILANO 2017

Le tre interviste che il poeta caraibico Derek Walcott (1930-2017), premio Nobel nel 1992, ha concesso nel 1988, nel 2001 e nel 2005 negli Stati Uniti in occasione di festival letterari o conferenze universitarie, vertono non solo sulla sua produzione in versi, ma anche sul rapporto che intercorre tra scrittura e impegno sociale.

Particolarmente reattive e polemiche sono le sue parole riguardo agli stereotipi radicati nell’immaginario collettivo sui Caraibi, sfruttati turisticamente e tenuti in considerazione solo per gli splendidi panorami da cartolina o abusati da un pietismo retorico per la povertà degli indigeni, “in un ruolo prestabilito, una sorta di schiavitù benigna”. In realtà, la culla in cui si è forgiata la poesia di Walcott è un melting pot di culture diverse (africane, inglesi, olandesi, con una forte immigrazione cinese e indiana), che hanno contribuito alla formazione di rituali, linguaggi, musiche, religioni e miti differenti e sempre stimolanti, arricchenti. L’aver poi studiato in Europa e negli USA, e  l’aver insegnato per molti anni ad Harvard, ha messo in grado il poeta di confrontare la sua indole e la sua cultura di nero delle Antille (sono rimasti famosi questi suoi versi: «Io sono solamente un negro rosso che ama il mare, / ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell’olandese del negro e dell’inglese, / sono nessuno, o sono una nazione») con la colonizzazione capitalistica della superpotenza americana, che con il miraggio della ricchezza e del benessere ha ipnotizzato intere popolazioni, asservendole acriticamente alle imposizioni del suo potere. Critico nei confronti della politica dell’Impero, e dei modelli culturali dominanti, Derek Walcott demanda proprio alla poesia il compito di pungolare le menti e le coscienze della gente, perché «i poeti muovono sempre le acque», instillando nei lettori dubbi e domande che non possono venire esaudite con soluzioni materiali, ma riguardano la condizione umana più in generale, la sua finitudine che si scontra con l’ansia di infinito, il quotidiano che aspira all’assoluto. Platone bandiva i poeti dalla Repubblica ideale, poiché ne intuiva la pericolosità e la capacità di resistenza e ribellione.

In questo libriccino, Democrazia e poesia, introdotto da un’esemplare prefazione di Luana Salvarani, Walcott espone tesi coraggiose e controcorrente, sfidando i luoghi comuni e i pregiudizi che comunemente si nutrono nei confronti della composizione in versi. La quale non può e non deve risultare da un facile spontaneismo, da una superficiale improvvisazione: si basa invece sullo studio approfondito della tradizione, e va esercitata con l’esercizio tecnico, usando il labor limae dell’imitazione e della traduzione. E se la fruizione della poesia e dell’arte è un diritto di tutti, promosso doverosamente da ogni democrazia, la produzione dell’arte e della poesia non spettano a tutti. Che chiunque possa auto-definirsi poeta, senza esprimere una reale qualità formale o di contenuto, risulta dannoso e illusorio sia per chi scrive sia per chi legge.

«Non si può democratizzare il genio, non si può democratizzare il talento e dire che nella misura in cui qualcuno scrive, o ha il diritto di pensare, allora è automaticamente uguale al migliore di ogni letteratura. In altre parole, il diritto che ho di esprimermi non mi rende Shakespeare, non mi rende un grande scrittore». Se il poeta vuole farsi portavoce di un sentire universale, deve per prima cosa conoscere se stesso, «scivolare dentro la propria voce», renderla più forte e sicura, in un continuo e mai facile sforzo di ricerca e di superamento dei suoi limiti.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Democrazia-e-poesia-Derek-Walcott.html                21 novembre 2017

RECENSIONI

WALLACE

DAVID FOSTER WALLACE, CONSIDERA L’ARAGOSTA – EINAUDI, TORINO 2015 (ebook)

L’ebook Considera l’aragosta, pubblicato da Einaudi qualche anno fa, offre ai lettori unicamente il saggio omonimo, un lungo articolo scritto da David Foster Wallace nel 2004, e non tutti gli interventi antologizzati nel volume comprensivo uscito in Italia nel 2006. Eppure, questo pezzo basta da solo a dare l’idea di quale fosse l’intelligenza critica, l’ironia, la sensibilità e la preparazione culturale di Wallace, autore di culto americano, nato nel 1962 e morto suicida nel 2008, «il più fine ritrattista dell’America contemporanea… una penna dotata di un’intelligenza e di una sensibilità inarrivabili… geniale , capace di innovare e reinventare tutte le forme con le quali si è cimentato, dal romanzo al racconto, al saggio», come viene definito in appendice.

Lo scrittore era stato invitato dalla rivista culinaria Gourmet a partecipare e a redigere un reportage sul Festival dell’aragosta («immenso, pungente ed estremamente ben pubblicizzato») organizzato ogni anno a fine luglio nel Maine, regione che basa la sua economia sul turismo e, appunto, sulla pesca e la lavorazione industriale delle aragoste.  Il sarcasmo, ma anche l’irritazione beffarda verso questa manifestazione di massa, risultano evidenti già dalle prime battute dello scritto: le centomila persone che l’affollano, gaudenti e affamate, vengono intrattenute da concorsi di bellezza, concerti musicali, gare podistiche e di cucina amatoriale, giostre e giochi vari, ammassate nei numerosissimi stand chiassosi e scarsamente puliti, ma soprattutto nel «tendone-ristorante, dove sono consumati qualcosa come più di undicimila chili di aragosta del Maine appena pescata, cotti nella “Pentola per aragoste più grande del mondo”… Qui vengono serviti anche panini all’aragosta, involtini di aragosta, sauté di aragosta, insalata di aragosta, vellutata di aragosta, ravioli all’aragosta e fagottini fritti all’aragosta… Ci sono magliette con l’aragosta e statuine caricaturali a forma di aragosta e aragoste gonfiabili con cui giocare in piscina e cappelli a forma di aragosta con grosse chele scarlatte che ballonzolano su molle».

La vittima sacrificale viene descritta analiticamente da Wallace dal punto di vista scientifico-tassonomico, (« è un crostaceo marino della famiglia Homaridae»), alimentare («la polpa di aragosta ha meno calorie, meno colesterolo e meno grassi saturi del pollo»), culinario («portata à la carte può essere cotta al forno, sulla fiamma, al vapore, alla griglia, rosolata, saltata in padella o al microonde»), etimologico-linguistico, storico-paleontologico, e della trasformazione nella produzione commerciale e nei consumi. Se risulta evidente il fine promozionale ed economico del Festival, altrettanto chiaro è il suo intento pubblicitario di contrastare l’idea che l’aragosta sia una pietanza di lusso o malsana o costosa, “democratizzandone” e giustificandone persino culturalmente l’utilizzo. Infatti questo festival gastronomico, tanto famoso e reclamizzato, ha conosciuto negli ultimi anni forti contestazioni, non solo da parte degli ecologisti e degli animalisti, ma anche negli ambienti medici e scientifici.

David Foster Wallace, nel definirsi non tanto «petulante e moraleggiante», quanto «confuso», si sofferma in particolare sull’agonia del crostaceo, che come si sa viene generalmente bollito vivo per garantirne la freschezza: «Vi basta una grossa pentola con coperchio, che riempite fino circa a metà di acqua (il criterio generale è due litri e mezzo d’acqua per ogni aragosta). L’ideale è l’acqua marina, oppure potete aggiungere due cucchiai di sale per ogni litro di acqua del rubinetto».

Di fronte alla sofferenza dell’animale, che nei quaranta minuti della cottura si dibatte ferocemente, aggrappandosi con le chele agli orli della pentola, e tentando di saltarne fuori, Wallace si chiede: «È giusto bollire una creatura viva e senziente solo per il piacere delle nostre papille gustative?». Basta sapere che il sistema nervoso di un’aragosta è decentralizzato, che non ha un cervello ed è priva di corteccia cerebrale, per assolverci da qualsiasi scrupolo e senso di colpa, «dal momento che il dolore è un’esperienza mentale totalmente soggettiva, e non abbiamo accesso diretto al dolore di niente e nessuno a parte il nostro?». Wallace lo domanda a se stesso e a noi, spingendoci a riflettere su molte cose a cui forse non pensiamo abbastanza, pronti ad assolverci da abitudini inammissibili solo perché generalizzate e condivise dai più.

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Considera-l-aragosta-Foster-Wallace.html       8 febbraio 2018

 

 

 

 

 

RECENSIONI

WATT SMITH

TIFFANY WATT SMITH, ATLANTE DELLE EMOZIONI UMANE – UTET, TORINO 2017

Il sottotitolo di questo curioso volume della storica inglese Tiffany Watt Smith recita «156 emozioni che hai provato, che non sai di aver provato, che non proverai mai»: l’Atlante delle emozioni umane le cataloga attraversando varie scienze (antropologia, arte, letteratura, musica…) per spiegarci in quali e quanti modi diversi le varie popolazioni del mondo, in tutte le epoche, hanno definito i loro sentimenti: paura e rancore, gratitudine e rabbia, odio e imbarazzo. Alcuni tra gli stati emotivi presi in considerazione dall’autrice possono risultare perlomeno stravaganti: cosa significhino e in cosa consistano la basoressia, l’ambiguofobia, la cybercondria, la filoprogenitività, la pronoia, io l’ho imparato solo leggendo. Per non prendere in considerazione alcuni termini stranieri: in giapponese “ijirashii” indica la commozione provata di fronte allo sforzo premiato di una persona svantaggiata; i finlandesi chiamano “kaukokaipuu” la nostalgia per un posto dove non si è mai stati; gli spagnoli, quando si vergognano delle figuracce altrui, usano il termine “vergüenza ajena”. E in Nuova Guinea, se un ospite lascia la casa creando un vuoto improvviso, la tribù baining parla di “awumbuk”, e gli inglesi si confessano “cheesed off”, cioè ammuffiti come il formaggio, quando sono costretti a un’attesa prolungata, mentre crudelmente tedesco appare lo”schadenfreude”, la soddisfazione per le  calamità altrui.

La cosa interessante di questo volume, oltre alla ricchissima bibliografia finale, sono i rimandi intertestuali, che collegano i vari lemmi tra loro, e soprattutto i riferimenti culturali con citazioni filosofiche o letterarie che ampliano la prospettiva in cui vengono inquadrate le emozioni descritte. Alcune della quali possono sembrarci decisamente tortuose: si prova “compersione” quando scopriamo che la persona da noi amata è attratta da qualcun altro, o si è affetti dalla “sindrome dell’impostura” se si teme di occupare una posizione prestigiosa senza averlo davvero meritato.

Nell’estesa introduzione, Tiffany Watt Smith tratteggia una storia delle passioni umane a partire dall’antichità, iniziando dagli umori elementari individuati da Ippocrate (sangue, bile gialla, bile nera, flemma), che avrebbero influenzato personalità e stati d’animo individuali. Per arrivare alle teorie meccanicistiche del 1700, all’evoluzionismo darwiniano, agli epifenomeni di William James, all’interpretazione psicanalitica di Freud e alla neurobiologia contemporanea: teorie che tutte sembrano tendere a una definizione valida universalmente su cosa dobbiamo intendere per “emozione”.

La considerazione finale che possiamo trarre dalla lettura di questo curioso Atlante delle emozioni umane è che in fondo siamo tutti molto simili: ci vergogniamo e ci esaltiamo, ci deprimiamo o siamo felici per gli stessi motivi, a qualsiasi latitudine, in ogni epoca, indipendentemente dalla cultura che abbiamo, dal nostro sesso e dal colore della pelle. Con qualche sfumatura accidentale, e divertente.

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RECENSIONI

WEIL

SIMONE WEIL, LETTERA A UN RELIGIOSO – ADELPHI, MILANO 1996

«Quando leggo il catechismo del Concilio di Trento, mi sembra di non aver nulla in comune con la religione che vi è esposta. Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, o vedo celebrare la messa, sento con una specie di certezza che questa fede è la mia…». Così si apre la celebre Lettera a un religioso che Simone Weil scrisse al padre domenicano Couturier nel 1941, e che oggi Adelphi ripropone nella sua Piccola biblioteca. Il desiderio di adesione al cattolicesimo fu nella Weil intensissimo sin dall’infanzia («Da anni penso a queste cose con tutta l’intensità di amore e attenzione di cui sono capace»), nutrito di una nostalgia più sentimentale che razionale per i sacramenti, in particolare per l’eucarestia. Eppure, con il rigore adamantino che la contraddistinse, si negò sempre il battesimo, sapendo di non riuscire a condividere in toto dogmi e insegnamenti ecclesiali.
Nella sua lettera elenca quindi «un certo numero di pensieri» che abitano in lei da anni e che sono di ostacolo al suo dichiararsi cattolica, e chiede al suo corrispondente una «risposta chiara, certa, categorica» sulla compatibilità di ciascuna delle sue opinioni con l’appartenenza alla Chiesa.
Avrà, dai padri spirituali che man mano avvicinerà negli anni, risposte monche e inadeguate alle attese, forse anche imbarazzate di fronte a una divorante ansia di spiritualità ma anche all’incapacità di mediare tra assoluto e relativo, tra libertà di pensiero e obbedienza ai dettami conciliari.
Ciò che la Weil rimprovera al cattolicesimo è soprattutto la sua concezione della storia, l’asserita superiorità dell’ebraismo e del cristianesimo sui popoli pagani riguardo alla conoscenza di Dio, l’unicità dell’incarnazione del Verbo nel Cristo. Le tesi da lei espresse sono trentacinque, e rivelano una profonda conoscenza delle religioni antiche e orientali, insieme con un dominio sicuro dei testi sacri, unito però alla volontà di non soprassedere su alcuni aspetti formali della ritualità sacra.
E’ un cristianesimo viscerale e settoriale, quello di Simone Weil: predilige il S.Paolo della Lettera ai Filippesi, il Canto del Servo di Isaia, il racconto della Passione: «Se il Vangelo omettesse ogni menzione della resurrezione di Cristo, la fede mi sarebbe più facile. La Croce da sola mi basta».

Un Vangelo della sofferenza, quindi, quello da lei amato, e non del trionfo. Un po’ come i santi senza Dio di cui scriveva Camus, Simone Weil si ostina a proporsi come cristiana fuori dalla Chiesa, quasi che proprio il suo rifiuto del battesimo sia la vera testimonianza della sua fede. Divorata dall’intelligenza e dallo spirito critico, così come aveva rifiutato il suo ebraismo, le sue origini borghesi, un lavoro puramente intellettuale, e come finirà per rifiutarsi ogni affettività e fisicità (fino a morire di inedia a 34 anni), respinge ogni blando accomodamento, ogni passiva sudditanza a indicazioni imposte dall’alto, inascoltata profeta di un secolo XX spesso profano anche nella religiosità.

 

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14 novembre 2011

RECENSIONI

WELLS

H.G. WELLS, NEL PAESE DEI CIECHI – ADELPHI, MILANO 2008

“Tra le più selvagge solitudini delle Ande ecuadoriane, giace, separata dal mondo degli uomini, quella misteriosa vallata montana, il Paese dei Ciechi”. Pochi termini (solitudini, selvagge, misteriosa, montana) immettono il lettore nell’atmosfera straniante di questo racconto scritto nel 1904 da H.G.Wells (1866-1946), tra i più noti e prolifici scrittori di fantascienza della prima metà del ’900 (La macchina del tempo, La guerra dei mondi, L’uomo invisibile), che seppe delineare nuovi orizzonti immaginativi con pungente ironia critica sulla società e la politica della sua epoca.

Il protagonista de Nel paese dei ciechi, “uomo acuto e intraprendente”, scalatore esperto di nome Nuñez e di professione guida turistica, precipita accidentalmente da una cima rocciosa e innevata in una valle dall’aspetto idilliaco, che “aveva tutto ciò che un cuore umano può desiderare: acqua dolce, pascoli, clima costante, declivi di fertile suolo bruno con macchie di arbusti che davano un frutto eccellente, e su un lato grandi boschi scoscesi di pini che trattenevano le valanghe”. Osservando più acutamente il paesino situato all’interno della verde conca, si accorge stupito che case e strade sono dipinte e tracciate in maniera informe e arbitraria, quasi gli abitanti avessero la vista offuscata. Avvicinatosi ad alcuni di loro scruta “le loro palpebre chiuse e incavate, come se, sotto, i globi oculari fossero disseccati e svaniti”. Gli torna alla mente una leggenda centenaria riguardante un paese di ciechi, la cui popolazione era stata colpita da un morbo sconosciuto o da una malattia genetica che la privava della capacità di vedere, probabilmente a causa di una maledizione per una colpa o trasgressione commessa collettivamente. Introdotto nella comunità, tra paura e diffidenza reciproca, accarezza l’idea di poter approfittare della propria superiorità di vedente rispetto ai suoi ospiti, secondo il noto proverbio: “In terra di ciechi il monocolo è re”, che continua a ripetere a sé stesso come un mantra. In realtà, la sua presunta supremazia è presto sconfitta dall’eccellenza sensoriale degli indigeni, che sanno muoversi nel loro ambiente con più naturalezza e ingegnosità.

Da aspirante dominatore, Nuñez diventa ostaggio degli abitanti, e i suoi racconti del mondo esterno e delle bellezze di una natura che essi non possono osservare, vengono considerati stravaganze deliranti di un pazzo. Nemmeno l’amore per una giovane del luogo riesce a farlo accettare dalla cittadinanza, che gli propone l’unica possibile “normalizzazione”, e il solo adeguamento sociale possibile, attraverso l’asportazione dei bulbi oculari, “questi corpi irritanti” che lo rendono folle e di “rango inferiore”. Quasi convinto a farsi operare al fine di poter sposare la bella Medina, in un’improvvisa reviviscenza dello stato privilegiato di vedente, Nuñez decide di scappare, inerpicandosi faticosamente attraverso i pendii montani da cui era precipitato, per addormentarsi serenamente (per sempre o fino a una nuova alba di salvezza? H.G.Wells non lo rivela): “giaceva immobile, sorridendo come fosse semplicemente soddisfatto di essere scampato dalla valle dei Ciechi, dove aveva creduto di essere re. Il bagliore del tramonto si spense, e scese la notte, ed egli giacque contento, pacificato, sotto le fredde stelle”.

Nella postfazione al piccolo volume adelphiano, Sandro Modeo dà conto delle tre principali interpretazioni che i critici hanno offerto di questo famoso racconto: “quello storico-antropologico (il rapporto tra la «civiltà» dei coloni spagnoli e la presunta «barbarie» dei nativi, coi ciechi a incarnare pregi e limiti del relativismo culturale); quello specificamente politico (sul carattere utopico, nel bene e nel male, di ogni comunità autarchica e isolazionista); e quello (più azzardato) delle irradiazioni metaforiche, che può portare a leggere nella vista di Nuñez un correlato dell’immaginazione artistico-poetica (non a caso in parte compresa solo dalla donna che lo ama) e nel villaggio l’ottusità anti-intellettualistica delle società borghesi”. Anche se la morale pare essere di un’evidenza quasi banale: coloro che si pretendono “monoculi in terra caecorum” sono destinati al dileggio, alla persecuzione e nel migliore dei casi all’esilio. Nuñez pertanto, nella sua presunzione di superiorità e dominio, è costretto ad ammettere la propria cocente sconfitta.

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28 febbraio 2019

 

 

RECENSIONI

WELLS

H.G. WELLS, L’UOMO INVISIBILE – FANUCCI, ROMA 2017

Con un’esaustiva prefazione di Carlo Pagetti, che fornisce al lettore tutte le coordinate culturali, storiche ed interpretative del testo, l’editore Fanucci ha ripubblicato nel 2017 il terzo tra gli scientific romance di H.G.Wells, scritto nel 1897: L’uomo invisibile. Il libro, che l’autore definì “una fantasia umoristica”, racchiude in sé i caratteri della letteratura gotica, arricchiti da una feroce critica al progressivo conformismo spersonalizzante della società e dall’ interesse per le più recenti sperimentazioni della medicina: temi rivisitati con un gusto esplicito del sarcastico, del grottesco, della suspence e della parodia antiborghese.

Ambientato nei sobborghi di Londra e del Sussex, il romanzo ha come protagonista un ambizioso e delirante scienziato, il cui nome allude sinistramente al grifone, torvo animale fantastico. Griffin aspira, nella sua follia anarcoide e vendicatrice, a punire attraverso le sue invenzioni gli individui in cui si imbatte, ritenuti ignoranti, ostili e persecutori. La vicenda ha inizio con il protagonista che, imbozzolato come una mummia per non far distinguere i lineamenti del viso e del corpo, si presenta in una locanda del paesino di Iping, chiedendo di affittare una stanza, e sottolineando fermamente la sua volontà di non essere disturbato in alcuna maniera. Ha con sé molti bagagli, contenenti alambicchi, provette e liquidi misteriosi. Sia il suo aspetto fisico sia i suoi bizzosi e scostanti comportamenti incuriosiscono il personale della taverna e la piccola comunità del posto, persone semplici da subito insospettite e in seguito decisamente avverse alla presenza aliena e perturbante dell’ospite. Su di lui aleggiano ipotesi fantasiose e drammatiche, che si consolidano quando in paese si intensificano apparizioni misteriose, furti, spostamenti di mobili e oggetti vari senza che si possa individuare il responsabile di tali atti. Bambini e donne sono i più ferocemente contrari alla presenza dello sconosciuto, che agli occhi di molti pare voler nascondere dietro il pesante camuffamento l’inesistenza di un corpo materiale.

Nel corso di un’improvvisa colluttazione con i compaesani, Griffin rivela la sua natura di uomo in carne e ossa, ma invisibile, rilevabile dagli altri solo attraverso la voce, gli starnuti e i colpi di tosse, o il rivestimento di indumenti mistificatori. Sotto le bende, sotto i vestiti trafugati qua e là, c’è il niente, il vuoto, in cui H.G. Wells intravede ed evidenzia l’inconsistenza e la fragilità di ogni essere umano. Dopo una serie incredibile di avventure rocambolesche, di violenze esercitate contro gli oggetti e le persone, in un crescendo di furia incontenibile che nel respiro ansante della narrazione assume contorni farseschi, Griffin ferito e affamato si rifugia nella casa di un vecchio compagno di università, il dottor Kemp, stimato professionista ligio al dovere e rispettoso delle istituzioni. Gli racconta di essersi specializzato in fisica molecolare, e di aver ideato esperimenti al limite della liceità, inseguendo l’obiettivo di trasformare la materia, rendendola trasparente e quindi invisibile: “Realizzare un’impresa del genere significava invadere il campo della magia, e mi fu ben chiara l’inebriante visione di ciò che può rappresentare per un uomo l’invisibilità. Mistero, potere, libertà”. Dopo aver conseguito i primi successi sulle cose inanimate e sugli animali, era riuscito nell’abominevole intento di modificare anche la propria natura corporea.

Il suo scopo non era solo il raggiungimento della fama e della ricchezza, e la vittoria sulle umiliazioni subite come ricercatore, ma soprattutto l’instaurazione di un Impero del Terrore che potesse renderlo padrone delle esistenze altrui. Svuotandosi di sé, aveva però ottenuto solamente di crearsi il vuoto intorno, in un parossismo di distruzione e autodistruzione. Braccato dalla polizia, ferito e calpestato dal traffico cittadino, circondato da gente terrorizzata e inferocita, nudo nel gelo dell’inverno, estenuato dalla ricerca infruttuosa di cibo e di soldi, Griffin prende coscienza dell’assurdità del suo progetto delirante, e preda della folla che lo vuole linciare, pronuncia le sue ultime parole “Pietà, pietà!”, prima di morire straziato da colpi di bastone e calci, mentre il suo corpo invisibile riprende lentamente ma inesorabilmente la sua forma umana e cadaverica.

 

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8 ottobre 2019