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RECENSIONI

VARGAS LLOSA

MARIO VARGAS LLOSA, LA CITTA’ E I CANI – EINAUDI, TORINO 2016

Mario Vargas Llosa (autore peruviano nato nel 1936, e Premio Nobel nel 2010) scrisse questo che forse rimane il suo romanzo più famoso La città e i cani nel 1963. Il volume conobbe varie vicissitudini: in patria venne censurato e bruciato in piazza dai militari, all’estero fu tradotto piuttosto tardi, e in Italia solo nel ’98. Oggi Einaudi (2016) lo ripresenta nella traduzione di Enrico Cicogna.
Si tratta di un libro che parla della violenza insita nel cuore umano e nell’ambiente sociale, nell’apparato educativo scolastico e nei rapporti familiari, nella sessualità e nelle schermaglie amorose tra uomini e donne. «A questo mondo la violenza è una sorta di fatalità», chiosa l’autore in una sua dichiarazione: soprattutto in paesi economicamente sottosviluppati e politicamente illiberali quali era il Perù all’epoca dei fatti narrati.
La vicenda ruota intorno al collegio militare Leoncio Prado di Lima, e ai giovani cadetti che lo frequentano per un triennio, costretti a una disciplina durissima e ottusa, a esercitazioni massacranti, vessati da sopraffazioni continue da parte di commilitoni, sorveglianti e superiori.
E’ un romanzo corale, che usa sapientemente diverse prospettive di narrazione, alternando capitoli in prima e in terza persona, dialoghi, monologhi, brani di diario, descrizioni paesaggistiche e confessioni meditative.
Protagonisti sono gli adolescenti di una stessa camerata, che devono superare sia i rituali di iniziazione imposti loro dagli allievi più grandi (scherzi osceni, umiliazioni, pestaggi, furti), sia le corvée delle marce e delle manovre, delle punizioni fisiche, delle consegne in isolamento: «Qui sei militare anche se non vuoi. E quello che importa nell’Eesercito è essere un duro, avere un paio di coglioni d’acciaio, capisci? O fotti o ti fottono, non c’è rimedio. E a me non piace lasciarmi fottere».

In questo clima di rigore disumano che ricorda le atmosfere del film Ufficiale e gentiluomo, i ragazzi tentano una loro resistenza individuale e collettiva, fatta a sua volta di violenze contro i più deboli, di fughe dal collegio, di ruberie e di esibizioni sessuali al limite della depravazione. Tra di loro si chiamano con soprannomi allusivi: Boa, Giaguaro, Chiavica, Schiavo… C’è anche un Alberto, definito “il poeta” perché in grado di scrivere lettere d’amore e storielle pornografiche da vendere ai compagni. In quest’ultimo Vargas Llosa cela il suo alter-ego giovanile: «Ero un bambino viziatissimo, presuntuosissimo, cresciuto, faccio per dire, come una bambina… Mio padre pensava che il Leoncio Prado avrebbe fatto di me un uomo, ma per me fu come scoprire l’inferno». Vittime di tale inferno sono soprattutto Alberto, il Giaguaro e lo Schiavo, in uno scontro di sensibilità, codardia, forza bruta che si conclude in tragedia. Vittima è anche l’unico educatore intelligente e responsabile, il tenente Gamboa, che paga con un trasferimento punitivo la sua coraggiosa rettitudine «Non sono diventato militare per avere la vita facile». Nemmeno l’esistenza fuori dal collegio risulta aliena da difficoltà e cattiverie per i cadetti, sia nei rapporti con i vecchi amici rimasti a vivere di espedienti nei quartieri più poveri, sia nelle famiglie sfasciate che non li accolgono volentieri durante le licenze, sia nei tentativi abortiti di esperienze amorose o nel sesso vissuto squallidamente.
Sarà solo Alberto, alias Varga Llosa, a salvarsi, fuggendo da Lima e dal Perù, per tentare un riscatto in una nuova vita di cui essere l’unico padrone.

 

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www.sololibri.net/La-citta-e-i-cani-Mario-Vargas.html             4 febbraio 2016

RECENSIONI

VARGAS LLOSA

MARIO VARGAS LLOSA, ELOGIO DELLA LETTURA E DELLA FINZIONE – EINAUDI, TORINO 2011

Peruviano ma cittadino del mondo, il premio Nobel Mario Vargas Llosa in questo suo famoso discorso non si è risparmiato giudizi politici di largo respiro: dall’abbandono del marxismo alla fede nella democrazia liberale, dalla condanna di ogni terrorismo alla riprovazione per lo sfruttamento degli indios ancora in atto in tutta l’America latina, per finire con le sacrosante parole contro il nazionalismo: «perché trasforma in valore supremo,in privilegio morale e ontologico,la casuale circostanza del luogo di nascita.Assieme alla religione,il nazionalismo ha rappresentato la causa delle peggiori carneficine della storia». Viaggiatore instancabile, esploratore di mondi e società diverse, romanziere acclamato, giornalista, drammaturgo e persino attore, combattente in difesa di tutte le libertà, marito riconoscente di Patricia e padre di tre figli, Vargas Llosa non si è mai risparmiato,come uomo e come scrittore. E in questo breve scritto esprime tutta la sua gratitudine alla missione e all’ambizione della sua intera esistenza: la letteratura, «la maniera più efficace che abbiamo trovato per alleviare la nostra condizone mortale, per sconfiggere il tarlo del tempo e trasformare in possibile l’impossibile». Leggere ci aiuta a uscire dalla quotidianità spesso mortificante,a costruirci vite migliori, insegnandoci la riflessione, l’anticonformismo, l’inquietudine, la disubbidienza, la comprensione verso gli altri:a uscire da noi stessi e a moltiplicare le nostre esperienze umane. La lettura e la finzione sono necessità imprescindibili per proseguire nel progresso comune, ci risarciscono delle umiliazioni che patiamo, ci vaccinano contro stupidità, ignoranza, fanatismo, ci spingono a cercare nell’immaginazione quello che non abbiamo nella realtà. Per questo i dittatori sono diffidenti e cauti nei riguardi della letteratura, degli scrittori e dei lettori, come verso qualsiasi apertura della mente. Nei libri dobbiamo cercare i nostri maestri, per trasformare «il sogno in vita e la vita in sogno».

IBS, 28 giugno 2016

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VASALIS

M.VASALIS, VISIONI E VOLTI – ENSEMBLE, ROMA 2020

La casa editrice romana Ensemble ha pubblicato nel maggio di quest’anno l’opera completa della poetessa olandese M. Vasalis, con testo a fronte. Vasalis (1909-1998) è lo pseudonimo di Margaretha Leenmans, neuropsichiatra attiva professionalmente ad Amsterdam, e autrice di quattro raccolte di versi (Parchi e deserti, La fenice, Visioni e volti, La vecchia linea costiera), composte a partire dagli anni ’30, molto popolari e pluripremiate nei Paesi Bassi. Apparentemente semplici, dal linguaggio sobrio e diretto, le poesie antologizzate si connotano sia per un deciso, ma certamente non autocelebrativo, biografismo, sia per una forte tensione speculativa e spirituale.

Il primo esile volume, pubblicato nel 1940, è improntato a una visione leggera e garbata dell’ambiente naturale e umano che circonda la giovane autrice, con descrizioni di animali (asini, anatre, tacchini, ragni) e della vegetazione, nei colori mutanti del volgere delle stagioni. Ma si accenna anche ai turbamenti adolescenziali di chi deve affrontare i primi impegni della vita adulta: “Ho avuto paura di quasi tutto: / del buio, di figure sulla coperta, / del silenzio, del grido rauco / dell’ambulante della sera, di una festa, / del guardare sul tram e di me stessa”.

Sette anni dopo, la tragedia della guerra, il matrimonio e la perdita di un figlio di appena un anno, avevano già indirizzato la scrittura della Vasalis verso tematiche più complesse e coinvolgenti: il dolore di un distacco, l’amore che sconvolge o delude, la consolazione della preghiera: “Ben sapevo che l’apparenza tradisce / e le candele ardevano bianche e rette / come la differenza tra il bene e il male”, “Odo solo, che tutto soffre, / ammalata della moltitudine delle cose, / della loro assoluta solitudine”.

I versi compresi nelle ultime due raccolte, del 1954 e del 2002 (postuma), appaiono al lettore decisamente più articolati e formalmente sorvegliati. Il titolo Visioni e volti della prima indica appunto la predilezione per lo sguardo capace di intuire aldilà delle apparenze la tormentata realtà che si cela nelle espressioni e negli atteggiamenti delle persone, nelle emozioni ferite da un abbandono. “Così tanti tipi di dolore, non li nomino. / Ma uno, distanziare e scindere. / E non il recidere fa così male, / ma l’essere recisi”, “Tristezza fondi le mie forze, / cosicché io diventi immota come pietra”.

Figure rattrappite e stanche di vecchi, bambini che hanno perso spontaneità e sorrisi, l’uomo amato lontano, il cielo coperto, gli alberi grondanti pioggia: chi guarda e scrive tenta di anestetizzare la propria empatia, ricorrendo a una forzata estraneità dalla vita: “Sedevo vicino alle mie magre ed escoriate ginocchia / e guardavo oltre il lento scorrere dell’acqua, / senza pensare o sognare. / Il mio capo non spuntava per niente fuori dal tempo”.

Lo stile si fa più franto e conciso, le metafore più asciutte, la rispondenza tra turbamento interiore e contesto esterno più puntuale, in atmosfere che rievocano quelle tratteggiate da altre due grandi poetesse, Dickinson o Achmatova: “Uscì di casa nel primo imbrunire, / il marciapiede era bianco e dal cielo affiorava / brillante e fine e come ritagli di ciglia scure / ancora neve, che rimase sospesa a turbinare”, “L’inverno e il mio caro sono via. / C’è un merlo sul tetto, / la sua gola si muove, il suo becco trema / come parlando con se stesso”.

Giusto rendere merito alla piccola casa editrice Ensemble che ci ha fatto apprezzare una notevole poetessa pressoché sconosciuta da noi, proponendo un prodotto librario elegante e curato.

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Visioni-volti-Vasalis.html  5 ottobre 2020

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VAUDO-FRANCIOSI

 VAUDO-FRANCIOSI, PRIMA MORTE – IGNAZIO PAPPALARDO EDITORE – ROMA 2025

Asia Vaudo e Allegra Franciosi, docenti di FreeFromChains, un’associazione che realizza laboratori di scrittura creativa nelle carceri, hanno pubblicato per i tipi delle edizioni romane Ignazio Pappalardo un volume intitolato Prima morte. Da anni le due giovani insegnanti esperimentano, con la collaborazione della poetessa Zingonia Zingone, cammini di poesia negli istituiti penitenziari di Rebibbia, Regina Coeli e Poggioreale, e dal loro impegno culturale e umanitario è nata l’iniziativa di raccogliere le testimonianze del percorso interiore compiuto dai detenuti, trasformativo e arricchente in termini personali e intellettuali.

Il poeta Davide Rondoni nella prefazione al volume si chiede cosa abbia portato Asia e Allegra, dopo la laurea e un’intensa esperienza spirituale, a dedicare le loro giornate a quest’opera di formazione e riscatto sociale, “a contatto con le storie e le sofferenze più buie … portando con sé il Cantico delle creature di San Francesco e altre poesie”. Entrambe le autrici rispondono manifestando la stessa acuta sensibilità e generosità nel confrontarsi con dolori e rabbie dei reclusi: “Il carcere è uno scrigno. È il luogo delle cose perdute, di un’umanità che arranca, ferita, e che s’aggrappa a te con violenta tenerezza”, “Dalla cattedra dell’aula in cui faccio lezione a Rebibbia si vedono un pino e uno squarcio abbastanza ampio di cielo… Mi domando osservando quello stralcio di mondo come ci si debba sentire a essere esclusi da tanta bellezza, da tutta quella luce, e poterla semplicemente ammirare sapendo di non possederne neanche un frammento”.

Infatti Emilio, uno dei partecipanti ai corsi di letteratura, confessa di sentirsi umiliato e affranto nella detenzione: “È il peggior carcere del mondo, questo di Regina Coeli. Non c’è un campetto per giocare, una palestra. Siamo qui come in uno zoo. Siamo tutti degli uccelli. Vengono le persone da fuori e fanno guarda questo, guarda quello! Degli uccelli”.

Asia e Allegra vengono anche loro da fuori, da un mondo privilegiato e libero, ma a motivarle nell’ insegnamento non è la curiosità o un vago buonismo, il compiacimento cattolico di chi si sa “dalla parte giusta” ed è animato da ansia di conversione. No. Il loro è un lavoro convinto, e senza falsi pietismi, di vicinanza e solidarietà, di passione per la cultura, con la volontà di diffonderla soprattutto là dove potrebbe sembrare superflua.

Gli allievi (perlopiù giovani, tra cui molti stranieri), pur gravati da sensi di colpa e sconforto, da rancore e desiderio di rivalsa e riscatto, partecipano attivamente e con entusiasmo alla loro proposta educativa. Che si concretizza attraverso lezioni di arte (da Bernini a Picasso) e di letteratura (da Seneca a Alda Merini) accompagnate dalla produzione di testi in prima persona, sia in prosa che in versi. Prendendo ispirazione dal Cantico delle creature di San Francesco, splendido inno a Dio e alla natura di cui quest’anno si celebra l’VIII centenario, sono nate le composizioni dei reclusi sull’aria, sull’acqua, sul fuoco, sul sole e la luna. Ne scrivono Claudio (“Io sogno di veleggiare / in una gemma di mare vivo / e gli occhi mi si riempiono / d’oro fuso nel cielo”), Vincenzo (“Cerco il sole cocente / in inverno”), Roberto (“Fuoco che accende amore / fuoco che purifica / anche il vuoto”).

Altro argomento che attira l’attenzione dei detenuti, stimolandone la fantasia e il bisogno di contatto fisico, è l’amore. Ne parla con struggimento Antonio (“Guardavamo insieme le stelle / parlavamo del niente / … ero sete che cercava la tua sete / ci mescolavamo come l’acqua / col fuoco”), e gli fa eco Domenico (“I tuoi occhi – la mia strada / I tuoi orecchi – il mio richiamo / Il tuo naso – il mio profumo / Il tuo volto – il mio amore”). Asia racconta il proprio turbamento quando avverte gli sguardi maschili che la attraversano, esibendo “l’insopportabilità di un desiderio castrato, quello della carne, che muore ogni giorno dentro una gabbia”.

Altrettanto pesante da sopportare per le giovani insegnanti è la nostalgia dei loro studenti per la vita di familiari e amici che scorre escludendoli da ogni bellezza, affetto, possibilità di cambiamento: e allora si cerca di alleviare rimpianto e angoscia discutendo di tanti argomenti diversi, incoraggiando la libera espressione sulle paure, i sogni, le speranze di ognuno.

Il libro, illustrato dal pittore Roberto Pavoni, si conclude con l’intervento di Maurice Bignami, che negli anni di piombo fu condannato per la militanza nell’organizzazione terroristica Prima Linea, divenendo poi promotore del Movimento Dissociazione Politica: nei suoi vent’anni di carcere (la “prima morte”), ha conosciuto la conversione a Cristo e la rinascita nella libertà offerta dal perdono.

Il volume di Asia Vaudo e Allegra Franciosi verrà presentato a Roma Sabato 14 giugno (ore 16:15, Basilica Santa Maria Ausiliatrice al Tuscolano) e il 30 giugno (ore 19:30, Chiesa Nuova di Santa Maria in Vallicella), con la partecipazione delle autrici e importanti relatori.

 

«SoloLibri, 8 giugno 2025»

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VELADIANO

MARIAPIA VELADIANO, IL TEMPO E’ UN DIO BREVE – EINAUDI, TORINO 2012

In questa sua seconda prova narrativa, sempre edita da Einaudi dopo il successo ottenuto con La vita accanto, la scrittrice trentina Mariapia Veladiano torna ad esplorare con attenta sensibilità e generosa empatia l’animo femminile: i suoi trasalimenti e la scalfibile partecipazione alla vita, gli abbandoni e le caute adesioni alla fisicità, l’immersione nella natura e l’aspirazione a una ansiosa spiritualità. Protagonista del romanzo è una giornalista laureata in teologia, che lavora nella redazione di una rivista cattolica: stimata dal direttore, ma osservata con qualche diffidenza dai colleghi a causa della sua mai placata inquietudine religiosa. Il dubbio che angustia Ildegarda (nome che esplicitamente fa riferimento alla nota mistica tedesca medievale) riguarda l’esistenza del male nella vita degli esseri umani, e la sua giustificazione divina: rifacendosi all’ “unde malum?” agostiniano, alla teodicea di Leibniz, alla riflessione filosofica contemporanea (così pienamente indagata dal nostro Luigi Pareyson), l’interrogazione che lacera la coscienza della donna riguarda l’impotenza o la non volontà di Dio di opporsi alla sofferenza innocente, al dolore incolpevole dei giusti e dei bambini («Il silenzio di Dio davanti al male mi devastava»). E questo assillo della protagonista viene in continuazione messo alla prova dalle circostanze, decisamente tormentate e infelici, della sua esistenza. In primo luogo dal matrimonio con l’aristocratico e anaffettivo Pierre («la sua tristezza inviolabile», «il suo pessimismo doloroso e intoccabile»), incapace di provare qualsiasi sentimento nei confronti della moglie e del figlio, costretto a scegliere una fuga indecorosa e silenziosa a Londra, pur di non affrontare le sue responsabilità. Ildegarda scoprirà molto tardi e fortuitamente che l’assenza del marito andava attribuita, più che a rovelli intellettuali ed esistenziali, a una mai confessata relazione con una collega di lavoro e amica di famiglia. La stessa convivenza con i parenti di lui, in una gelida e nebbiosa tenuta della pianura lombarda, è fonte per la protagonista di continui soprassalti di muto e inesprimibile dolore, di fredda incomunicabilità, di rabbioso rancore. A questa sofferenza di Ildegarda, che permea ogni pagina della sua vita e della narrazione stessa, non sa proporre alcuna tregua nemmeno l’esistenza del bambino Tommaso, tormentato alla nascita da una crudele dermatite («guardavo Tommaso e mi sembrava che la sua pelle rovinata fosse la prova straziante dell’inconsistenza di Dio»), quindi da una sorta di epilessia genetica che incombe sui suoi pochi anni indifesi come una minaccia invincibile. Ogni prova viene vissuta da Ildegarda con riferimenti costanti alla vita religiosa, ai testi sacri, ai riti, che sempre offrono consolazione, portando però anche nuovi interrogativi. Di fronte al suo bambino malato riappare la sofferenza della Vergine sotto la croce; nelle sue preghiere a Dio la contrattazione che Abramo propone all’altissimo per la salvezza di Sodoma; nei sogni ricorrenti l’eco dei sogni biblici; nell’aspirazione alla conoscenza la maledizione del Qoèlet… E quando finalmente la vita sembra poter tornare a fiorire, nell’incontro in montagna con un pastore protestante di Heidelberg (pure segnato da una storia di morte e abbandoni), ecco che di nuovo torna l’incubo del male ingiusto e inspiegabile, con la diagnosi di un inoperabile tumore annidatosi da tempo nel cervello della donna. La cifra narrativa del romanzo sembra tutta da leggersi in questa incombente atmosfera di angoscia, di lutto, di morte, a cui nessuno spiraglio di leggerezza e di serena partecipazione alla naturalità e alla bellezza dell’esistente sembra poter offrire tregua. Un dolore antico, pervasivo, connaturato quasi alla scrittura stessa dell’autrice: sorvegliata ed elegante, che tuttavia sfiora talvolta il manierismo, e sembra sempre vietarsi qualsiasi apertura alla gioia, al desiderio, all’invenzione o alla scoperta di quanto c’è di buono, dentro e fuori di noi.

«Il bilancio del bene e del male della mia vita è negativo…Al male non bisogna mai dare principio. Quando lo si è svegliato vive di vita propria, si moltiplica in proporzione dei buoni sforzi che si fanno per fermarlo, è una tenia che rinasce da ogni suo frammento».

E’ inquietante e malinconico osservare come anche il cristianesimo appassionato di Mariapia Veladiano tenda a circoscrivere fede, speranza e carità nei confini di un’illusione che non lascia scampo di fronte alle tenaglie del dubbio, alle seduzioni della negatività.

 

«Incroci» n.28, dicembre 2013

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VENDITTO

SERENA VENDITTO, MALÙ SI ANNOIA – MONDADORI, MILANO 2020 (ebook)

Con l’ebook di recente pubblicazione {{Malù si annoia}}, {{Serena Venditto}} (Napoli, 1980) prosegue nella serie di racconti di successo dedicata al gatto detective Mycroft e ai 4+1 di via Atri 36, serie che ha ricevuto numerosi riconoscimenti e segnalazioni.

I quattro inquilini che condividono l’interno 5 di Via Atri sembrano tutti ugualmente tediati e in ansia per il prolungarsi della reclusione forzata causata dalla pandemia da Covid 19: in pigiama o in tuta, guardano partite di calcio alla TV, o fiction su Netflix, puliscono ossessivamente ogni superficie e mettono in ordine gli armadi, cucinano e litigano, punzecchiandosi a vicenda. La voce narrante in prima persona è quella di Ariel, che essendo traduttrice è abituata a lavorare da remoto e in solitudine: tuttavia ogni tanto le prende il magone per la nostalgia dei parenti e degli amici lontani, e allora si rifugia sul terrazzo a singhiozzare tra le lenzuola stese. Il suo fidanzato Samuel si ingegna ad aiutare i vicini portando a casa loro la spesa, il musicista Kobo si finge sereno, ma in realtà è preoccupato per la sua compagna che vive a Cremona, in piena zona rossa. Poi c’è Malù, archeologa in perenne ricerca di stimoli intellettuali e di brividi esistenziali, inquieta e curiosa, che soffre più di tutti per la noia e l’inattività.

Malù aspira ad avere sempre “{un problema da risolvere, un dato da apprendere ed elaborare, qualcosa da fare}”, altrimenti rischia di impazzire. Decide quindi di chiedere all’amico commissario Timoteo De Iuliis se per caso abbia tra le mani qualche caso da risolvere, per cui potersi valere della sua collaborazione.

Il poliziotto sottopone allora a tutti i coinquilini, e a Malù in particolare, l’indagine sull’omicidio di un giovane programmatore informatico, incensurato, introverso e solitario, di cui si era ritrovato nascosto nel materasso un hard disk esterno, protetto da una password alfanumerica. Malù, offrendosi eccitata di decriptarla, tenta di immaginare a cosa la vittima si fosse ispirata nell’inventarla, magari osservando un particolare del suo studio. Così, esaminando le foto inviatole dal commissario, scorge nell’arredamento tipico da nerd cinefilo dell’ucciso, un poster di un film di Tarantino e la riproduzione dell’uomo vitruviano di Leonardo. Ricostruisce quindi vittoriosamente la password attraverso una citazione filmica del profeta Ezechiele riletta al contrario, per arrivare a comprendere in conclusione che tutto il suo fiuto poliziesco era servito al commissario burlone per regalarle un diversivo anti-noia nella clausura collettiva.

Come morale del racconto, Serena Venditto suggerisce che l’antidoto alla depressione e all’indifferenza risiede nel mantenere rapporti affiatati e benevolenti con chi ci sta vicino: inquilini, fidanzati, poliziotti e gatti. Magari aiutando con una piccola offerta volontaria l’Ospedale Cotugno di Napoli, come invita a fare nella nota conclusiva dell’ebook a costo zero.

 

© Riproduzione riservata                    23 giugno 2020

https://www.sololibri.net/Malu-si-annoia-Venditto.html

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VENEZIANI

MARCELLO VENEZIANI, ALLA LUCE DEL MITO – MARSILIO, VENEZIA 2017

«Gloria dell’inutile e specchio di un destino superiore, il mito è la lettura del mondo che permette alla vita di entrare in un disegno più grande fino a elevarsi a impresa eroica e racconto epico. Il mito crea la leggenda e muove la storia». Con queste parole Marcello Veneziani, nel preludio al volume edito da Marsilio Alla luce del mito, introduce il suo omaggio – vero e proprio inno, peana e rullo di tamburi – a quella particolare e sorgiva forma di pensiero e di narrazione che è il mito. Con uno stile spesso aforistico, ricco di sentenze gnomiche, illuminazioni poetiche e metafore liriche, l’autore intende celebrare una struttura teoretica che ha caratterizzato la forma mentis dell’umanità a partire dalle sue origini. Non tanto, quindi, una rassegna dei miti, antichi e contemporanei, che hanno fecondato le letterature mondiali (da quella greca a quella ebraica, dalle celtiche alle asiatiche…), quanto un’approfondita riflessione sulla natura e sull’essenza del mito come fondamento e radice dell’immaginario universale.

Le definizioni che Veneziani offre del mito sono molteplici e originali: magia, saga, parabola, meraviglia, manifestazione divina, visione, esperienza del sublime, metamorfosi, trascendenza, apoteosi dell’indelebile, mimesis, sublimazione, musica, poesia, resurrezione, rinascita… Altrettanto immaginifiche e proverbiali paiono, nella loro perentorietà, altre formulazioni: «Il destino è l’albero della necessità, il mito è la sua fioritura; Entrare nel mito significa uscire dalla mortalità; Nel mito facciamo visita agli dei; Uscire dal mito è vivere spenti». Se «la nostra epoca è contrassegnata da fenomeni di seconda mitologia», falsi miti quali il successo economico, la forma fisica, il sesso ridotto a libido, l’astrologia, l’occultismo, il cinema, la pubblicità, l’ideale di purezza e genuinità (nei rapporti sociali, nell’alimentazione, nell’ambiente), Veneziani è ferocemente critico riguardo ad essi.

«Nella società cieca, priva di visione del mondo, la prospettiva di ciascuno è nella sua feritoia o nel suo campo d’accesso alla rete… Ciascuno ha la sua collezione di figurine… Mille visioni del mondo, private, superficiali e cangianti, a cui votare la solitudine di spettatore… Il mondo sono io, e il selfie lo certifica». In questa desolante prospettiva di solipsismo individualistico, di mancanza d’interesse per la comunità e i suoi bisogni non solo materiali, per la tradizione e per il futuro, l’unica universalità rimasta in ogni latitudine del globo è quella della tecnica, delle merci, della finanza, dei media. Spetta allora forse al mito, alla sua rifondazione e riscoperta, offrire agli esseri umani nuova linfa vitale e sostegno, volontà di tornare alle origini del pensiero.

«Nel mito è la vita ulteriore che esce dalla dimensione soggettiva, temporale e occasionale per entrare nella sfera del destino, dell’origine, della comunità. Nel mito avviene la liberazione dall’ego, l’eutanasia del soggetto». Esso è l’unica immortalità concessa ai mortali, capace di oltrepassare le situazioni presenti, predisponendo alla bellezza e al dono, al sacro e al divino, senza diventare dogmatico, prescrittivo, didascalico come molte fedi religiose o ideologie politiche. L’unica possibilità che abbiamo (e qui la tesi di Marcello Veneziani diventa provocatoriamente interessante) di opporci sia al tecnicismo globalizzato, funzionale alla finanza e al capitalismo disumanizzante, sia a una filosofia ormai esangue, svuotata di valori e significati, dominata dallo scientismo e dal pragmatismo, è il recupero di un orizzonte spirituale e universale, sovratemporale e simbolico. «Alla filosofia resta il tragico ruolo di abitare l’intervallo tra la notte mistica e il neon della tecnica, tra gli dei e gli algoritmi».

Il riferimento esplicito da cui traggono spunto queste tesi è ovviamente il pensiero idealistico, mistico, trascendentale da Platone a Jung, attraverso i più noti studiosi del mito e del sacro, dell’illuminazione artistica e del sacrificio eroico: Otto, Eliade, Kerenij, Malinowski, Frazer, Kerény, Levi Strauss, riletti insieme a Borges e Jünger, a Tolkien e Eliot, a Hillman e Girard, a Evola e Sorel, a Bachelard e Zambrano; in compagnia dei nostri Giorgio Colli, Roberto Calasso, Cristina Campo, Andrea Emo, Furio Jesi, Elémire Zolla. Stranamente non vengono citati, nemmeno in bibliografia, altri grandissimi contemporanei, Emanuele Severino, Pierre Hadot e Jean Pierre Vernant, studiosi dell’Essere e del Tempo, del pensiero classico in antitesi alla contemporaneità. Il messaggio di Veneziani rimane comunque scolpito nella sua evidenza: «La civiltà avrà un futuro se riprenderà a mitificare, ossia a generare simboli, riti e racconti e a proiettarli nell’avvenire. Viceversa la decadenza si farà estinzione. Non c’è aspettativa di vita senza proiezione, senza trascendere il momento in corso».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Alla-luce-del-mito-Veneziani.html    15 febbraio 2017

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

VERBARO

GIUSI VERBARO, IL VENTO ARRIVA DA UNO SPAZIO BIANCO – INTERLINEA, NOVARA 2013

Con questo arioso endecasillabo che dà il titolo al libro, Giusi Verbaro introduce da subito la metafora fondante che attraversa le tre sezioni del volume: vento inteso come spirito, anima vivificatrice del mondo, turbine che scompagina, assedia e libera, «rabbioso che soffia», «che trascina le memorie», «che scompiglia i nomi», «che rinnova, a primavera, / il profumo dei tigli sul viale». Vento, quindi, come metafora della poesia, capace di permeare e travolgere cose e parole, vite e sentimenti, originata misteriosamente e misteriosamente posseduta da pochi, privilegiati, interpreti… Da questo soffio energico la poetessa si lascia penetrare e plasmare: «Affacciarsi nel vento e dal vento / lasciarsi poi scolpire / e levigare come cera molle». E’ un vento che nasce da uno spazio bianco e vergine, di silenzio e di ascolto: da un altrove non conosciuto, di sogno o di estasi, di altezza irraggiungibile o di insondabile profondità. E infatti sogno è un altro dei termini chiave di questa raccolta poetica, insieme ai paesaggi lunari, alle risacche marine, e ad altre «essenze misteriose» e quasi esoteriche. Allora echi, ombre, fiati, fantasmi, «stranite stanze», «città bianche e spettrali», «creature alate», «anime pellegrine», «sussulti del cuore», aleggiano impalpabili nei versi, animandoli e forse turbandoli: «Lunga notte d’inverno, buia come più buio / è il misterioso perdersi – negati alle presenze / e ai rovelli consueti – e dopo ritrovarsi».
E i morti, questi cari ed eterni assenti, spesso più vivi e incombenti dei vivi, parenti che hanno segnato in maniera indelebile le nostre vite, scrittori che hanno ispirato i nostri pensieri, maestri di poesia in passato vicini e ora ancora più stagliati nella memoria: «Come sospesi e teneri sono i passi dei morti / e come i morti tornano, liberi ormai dai nomi / così come dal peso degli affanni», «Li chiamo tutti piano i nostri morti», «I morti hanno una loro quieta astuzia: / trovano mille modi per rivelarsi / per restare accanto: una folata rapida di vento».
La madre della poetessa, «gravata dalla pena/ di non voler andare», «già lontana/ libera come un alito di foglia», «mia madre – adesso senza peso e senza luoghi»; ma anche teneri amici che hanno accompagnato la sua esistenza per tratti più o meno lunghi; e i grandi nomi di amati poeti novecenteschi, ricordati nelle epigrafi che introducono ogni poesia, e molto citati, assorbiti, ripetuti, imitati nelle cadenze più tipiche (Montale, Luzi e Caproni, soprattutto).
Le tre sezioni che compongono il volume (la prima, dedicata alla città della formazione, della cultura e della maturità, Firenze: con le sue atmosfere surreali e spirituali; la seconda, immersa nella fisicità della Calabria nativa: «mi abbraccia un sogno d’acque e mi sommerge»; la terza, dedicata alle presenze più intangibili, fragili e salvifiche: gli angeli, «Creature incorrotte… Ci vivono d’attorno invisibili e alteri») sono in realtà «una narrazione ininterrotta di sentimenti e di ricordi, di rievocazioni trasognate e oniriche, di omaggi e rimandi, in un unico concerto di voci e di richiami», come ben evidenzia Giuseppe Panella nella sua postfazione. Pertanto il vento che anima questi versi di Giusi Verbaro va letto, secondo il prefatore Daniele Maria Pegorari, come «l’insieme delle “parole che credevamo perse”, è il coro delle voci sparite dal dominio dell’esperibile, ma sopravvissute nello spazio della memoria e della letteratura, e che da qui continuano “a riannodare i fili” che l’insipienza umana tronca o ignora». Orgoglioso recupero della nostra tradizione letteraria, quindi, in questa poesia, e adesione convinta e riconoscente all’affettività del ricordo, così come si perpetua nei luoghi e nei sogni, nelle evocazioni e nelle attese, in ogni «spazio bianco».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

VERLAINE

PAUL VERLAINE, ROMANZE SENZA PAROLE – FELTRINELLI, MILANO 2016

Con introduzione e traduzione di Cesare Viviani, e testo originale a fronte, Feltrinelli ha pubblicato nell’Universale Economica la raccolta Romanze senza parole, che Paul Verlaine scrisse intorno al 1870, in un periodo tra i più tormentati della sua vita. «Il cielo è di rame / senza chiarore alcuno. / Sembrerebbe di vedere / la luna vivere e morire. // Bolsa cornacchia / e voi, lupi magri, / con questi venti aspri / che cosa vi succede? // Nell’interminabile / noia della pianura / la neve incerta / luccica come sabbia». Sono versi, delicati e musicali, tratti dalla sezione Ariettes oubliées, in cui si esprime al massimo grado la sensibilità del poeta per i colori e i suoni della natura, la sua ricerca di una rispondenza interna con il paesaggio e tutto ciò che lo anima. Quasi che Verlaine cercasse nella scrittura un’oasi di serenità e conforto dai turbamenti che in quegli anni lo rendevano schiavo della passione per Rimbaud, fino a condurlo al tentato omicidio e poi al carcere.

Viviani, nel sottolineare «la costruzione incerta e cauta, sostenuta e sensata, dell’esistenza e dell’affettività di Verlaine», mette giustamente in guardia il lettore dal voler leggere l’opera di qualsiasi scrittore attraverso la lente della sua biografia, caricandola di significati indebiti o prevaricanti. In effetti in queste poesie Verlaine pare volersi innalzare al di sopra di ogni dato di concretezza, per immergersi nell’assoluto della sensazione, in un oblio del sé che conduce all’armonia con il tutto: «L’ombra degli alberi nel fiume nebbioso / si dissolve come fumo / mentre nell’aria, tra i rami veri, / gemono le tortore», «Il cielo era troppo azzurro, troppo tenero, / il mare troppo verde e l’aria troppo dolce». Un eccesso di bellezza che la sensibilità del poeta sembra non riuscire a sostenere, e infatti afferma: «Bisogna, vedete, perdonarci le cose: / in questo modo saremo proprio felici».

Perdono, timore, gioia ineffabile, gratitudine religiosa, e l’amore che si manifesta in una sorta di estasi scorporante: «Ho paura di un bacio / come di un’ape. / Soffro e veglio / senza riposarmi: / ho paura di un bacio!», «Piange nel mio cuore / come piove sulla città; / che è questo languore / che penetra il mio cuore?» Nel rifiuto di ogni brutalità materiale, Verlaine aspira in queste Romanze senza parole a una spiritualità che si sappia fare puro suono e immagine, sogno e impercettibile carezza.

 

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www.sololibri.net/Romanze-senza-parole-Verlaine.html     10 ottobre 2016

 

 

 

 

RECENSIONI

VERONESI

SANDRO VERONESI, NO MAN’S LAND – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2016

No Man’s Land è un film del 2001 diretto dal bosniaco Danis Tanović, ambientato nel 1993 durante la guerra serbo-bosniaca. La pellicola conobbe un grande successo, vincendo l’Oscar e il Golden Globe per il miglior film straniero.
Sandro Veronesi ha rielaborato – non si capisce bene con quali finalità – la sceneggiatura originale, traendone un testo di impianto teatrale in due atti, in cui i dialoghi scarni e veloci dei protagonisti si alternano alle indicazioni di scena, più didascaliche e talvolta pleonastiche: “È una danza grottesca, disperata… Scende il silenzio. Un cupo e minaccioso silenzio”.

La trama narra di due miliziani bosniaci che, rimasti isolati dalla loro pattuglia, trovano rifugio in una trincea deserta, a metà strada fra il fronte serbo e quello bosniaco, nella terra di nessuno che divide gli eserciti nemici. Due soldati serbi giunti in ricognizione affrontano gli avversari non solo con le armi, ma anche verbalmente, in un crescendo di accuse rabbiose, intercalate da un turpiloquio accanito. I quattro, scambiandosi vicendevolmente i ruoli di vittima e aggressore, si sfidano con pistole e coltelli, fino a che uno di loro viene ucciso e un altro viene steso sopra una mina balzante, pronta a esplodere alla prima incauta scossa.
Le parole smozzicate e deliranti dei soldati si confondono con le canzoni dei Doors e di Springsten diffuse da una radiolina, con i lamenti dei feriti, con le esplosioni dei proiettili, in un’atmosfera feroce che ricorda l’assurdo del teatro di Artaud o di Beckett.

Intervengono nel tentativo inefficace di prestare soccorso due membri dei Caschi Blu e un artificiere, bloccati nelle loro operazioni da superiori indifferenti e preoccupati solo di evitare scandalosi strascichi polemici e a inquinare il quadro già di per sé crudelmente tragico concorre una querula giornalista dell’emittente Global News, desiderosa di trasmettere in televisione uno scoop sensazionalistico.
Alla fine, uccisi gli altri due soldati superstiti, rimane nella trincea abbandonata solo il militare bosniaco sdraiato sulla mina, condannato a una sanguinosa e inevitabile immolazione dall’egoismo di amici, nemici e osservatori ignavi di una guerra fratricida.

 

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www.sololibri.net/no-man-s-land-sandro-veronesi.html       3 agosto 2016

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