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BERNHARD

THOMAS BERNHARD, SOTTO IL FERRO DELLA LUNA – CROCETTI, MILANO 2015

Nella traduzione attenta di Samir Thaber, e con testo tedesco a fronte, è uscito da Crocetti il volume di poesie che lo scrittore austriaco Thomas Bernhard (1931-1989) pubblicò nel 1958. Dei cinque libri di versi dati alle stampe da Bernhard in giovane età, questo Sotto il ferro della luna è forse il più maturo e il più noto, e lascia trapelare in nuce temi e toni della sua prosa narrativa e teatrale posteriore. Tuttavia non ci troviamo davanti, qui, alla scrittura livida e rancorosa, ossessiva e crudele, autoreferenziale e misantropa delle prove maggiori: i nodi e le rigidità caratteriali, ereditati dalla sua sofferta vicenda biografica, si allentano nella descrizione della natura, pur senza mai sciogliersi del tutto. Il paesaggio montano e severo in cui Bernhard si autoesiliò non è mai consolatorio, né amico: eppure viene avvertito come solidale nella faticosa adesione al puro esistere, alla ordinaria conservazione di sé, nello scorrere imperturbabile del tempo.

«Quest’anno è come l’anno di mille anni fa, / non sappiamo nulla, / non sappiamo nulla del declino, / delle città sprofondate, del vortice in cui sono affogati / cavalli e uomini», «Si sveglieranno e saranno dimenticati / nella risata che rotola dalle colline, / nel temporale dei lupi // che investe di soffi sulle città fumanti le teste ovine / e le rende polvere». Un destino indifferente livella vegetali, animali e persone, e per esso non vale la pena lottare o soffrire, visto che ogni cosa è fatalmente consegnata alla dissoluzione e all’oblio.

Il paesaggio descritto è in prevalenza notturno e invernale, tormentato da neve, pioggia e vento, minacciosamente silenzioso, abitato da presenze spettrali «che danzano sopra i maiali e perseguitano mucche / nel loro sonno irrequieto». Ma nella simbologia negativa dell’universo bernhardiano ha almeno il pregio di non essere animato e percorso da parole e gesti umani, rimanendo invece puramente spopolato, selvatico: «Più selvaggio grida / l’uccello / del mio morire, / ascolta, / nel vento si agitano / paure, / infreddolito / torna a me / ciò che avevo perduto…». Se c’è una qualche preghiera, non è mai rivolta a un dio, ma sempre ai morti, ai trapassati, con cui si stabilisce l’unico rapporto possibile, fatto di impotente rassegnazione, di soffocata animosità. Cimiteri, processioni funebri, alberi spettrali, luna e stelle lucide come l’acciaio, scarse case disabitate, uccelli che stridono nel cielo plumbeo: vivere è faticoso, senza alcuna prospettiva di riscatto o salvezza, senza possibilità di un’apertura verso il futuro. Non leggiamo in questi versi l’odio e il disprezzo verso la mentalità claustrofobica e l’ideologia politica austriaca che tracima dai romanzi e dalle opere teatrali successive di Bernhard: solo disarmata paura, e passiva disperazione: «ormai nessun arbusto ti proteggerà / da fredde stelle / e da rami macchiati di sangue, / nessun albero e nessun cielo ti consolerà, / nelle corone di inverni in frantumi / cresce la tua morte, / con rigide dita / lontano da erba e da lande selvagge / nei detti della neve or ora caduta».

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Sotto-ferro-luna-Bernhard.html        14 ottobre 2016

 

 

 

 

 

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THOMAS BERNHARD, – GUANDA, MILANO 2012

In questo romanzo – – pubblicato da Thomas Bernhard nel 1978, l’autore austriaco esibisce la propria autodistruttiva e bruciante nevrosi attraverso l’invenzione di un alter-ego ossessivamente psicotico, uno studioso di scienze naturali ermeticamente chiuso al mondo e in se stesso, relegatosi volontariamente in un gelido e ottuso paesino di montagna per dedicarsi a sue fantomatiche ricerche scientifiche. Scritto in prima persona, con uno stile logorroico, ansimante e ansiogeno, che riproduce i labirintici percorsi di un pensiero malato, il racconto ci introduce nell’atmosfera asfittica e persecutoria dell’ambiente che aveva fatto dello stesso Thomas Bernhard una vittima e un bersaglio privilegiato.

Il protagonista del racconto, capace di vivere per mesi recluso in casa, in preda ad allucinazioni e a paure paralizzanti, e a “un meccanismo di impotenza vitale e di nausea esistenziale”, solo di tanto in tanto trova il coraggio di uscire per recarsi nell’ufficio del suo unico amico Moritz, un vivace e comprensivo agente immobiliare, disposto ad ascoltare le sue lamentazioni, e a incoraggiarlo nel contempo verso una visione più ottimistica della quotidianità. Qui si imbatte casualmente in una coppia di clienti dell’agenzia, interessati ad acquistare un podere per costruirvi una spaziosa ma isolata casa di proprietà: lui, ingegnere svizzero specializzato nella progettazione di centrali elettriche, lei affascinante e misteriosa signora di origine persiana. Elettrizzato dall’incontro, e desideroso di approfondire la conoscenza con i due nuovi arrivati, lo studioso misantropo recupera subito una parte del suo carattere troppo a lungo rimossa e censurata, e sfogando l’emozione in una corsa sfrenata attraverso il bosco, sotto la pioggia battente, intuisce nuovamente il sapore della libertà, da riscoprire in sé e nel prossimo. Propone quindi alla signora persiana di accompagnarla in lunghe passeggiate nei campi durante le assenze lavorative del marito, e lentamente scopre in questa donna, interessata come lui alla filosofia e alla musica, la possibilità di un’amicizia solidale e sensibile.

La confidenza e le confessioni reciproche fanno ben presto comprendere allo scienziato psicotico che la situazione più tragica non è tanto la sua, quanto quella vissuta da lei: e in questo scoprirsi meno fragile del temuto, e sostegno necessario alla disperazione dell’amica, trova una via d’uscita dalla sua depressione. Lo stile della narrazione si modifica conseguentemente al miglioramento dello stato mentale del protagonista: diventa più rapido e asciutto, più razionale e coerente.
Il sollievo reciproco che i due riescono a concedersi, discutendo di Schopenhauer e di Schumann, si esaurisce però in fretta, illanguidendo in una progressiva e annoiata estraneità: e di questa estrema, irrecuperabile delusione sarà la signora a pagare le conseguenze più tragiche e definitive. “Da me si era aspettata la salvezza, ma io l’avevo delusa. Anch’io ero perduto, come lei, una persona annientata, anche se con lei non l’avevo ammesso, lo sentiva, lo sapeva. Da una persona simile non poteva venire la salvezza”.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Si-Thomas-Bernhard.html          18 ottobre 2016

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THOMAS BERNHARD, IN HORA MORTIS – SE, MILANO 2017

Chi ama Thomas Bernhard non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo volume, appena riproposto in una raffinata edizione da SE, con ricche note biografiche e bibliografiche, un’interessante appendice iconografica di foto che ritraggono l’autore dall’infanzia alla maturità, e soprattutto con un’esaustiva e appassionata postfazione del germanista Luigi Reitani, a cui si deve anche la nuova traduzione.

In hora mortis, è un breve poema diviso in quattro sezioni, in cui l’ateo Thomas Bernhard affronta, con la consueta rabbiosa e angosciata inquietudine, l’Assoluto, che chiama filialmente e in maniera ossessivamente ripetuta “Signore” (Herr), aggrappandosi allo scampo di una millenaria tradizione religiosa. Scritto nel 1958, fa parte della produzione poetica giovanile di Bernhard, poco considerata dalla critica, e solo recentemente rivalutata come fase preliminare e introduttiva alla sua più considerevole attività letteraria in prosa. In quegli stessi anni, il genio saliburghese (nato nel 1931 in Olanda, frutto di una relazione illegittima, dal cui stigma si sentì marchiato per tutta la vita) scrisse altri tre volumi di versi, recentemente pubblicati in Italia da Crocetti e Guanda, che evidenziano sia il suo rapporto conflittuale con la famiglia e l’asfittico ambiente culturale austriaco, sia l’intenso desiderio di recuperare un’avvolgente intimità con la natura, terragna e cosmica. Quest’ultimo aspetto è presente anche nelle poesie di In hora mortis, in cui la campagna (la terra, le stalle, gli animali, i contadini) offre un suo humus di antico simbolismo sacrale – fatto di giaculatorie e riti scaramantici, più vicini alla superstizione che alla fede -, e il cielo rimane immobile e inavvicinabile, specchio di indifferenza e gelo:

«Selvaggio cresce il fiore della mia ira / e tutti vedono la spina / che nel cielo affonda / stillando sangue dal mio sole / cresce il fiore della mia amarezza / da quest’erba / che i miei piedi lava», «un merlo  che non canta / e la mia scrittura nel cielo / straniera alle erbe / Signore mi tormenta la stella», «Signore che mi lasci inginocchiare su neve e ghiaccio / per una preghiera / e la grazia di un cielo lontano», «Signore la mia preghiera crea dalla notte e dal timore / il sole / e la luna», «Signore / che non vuoi la mia preghiera / e divori la mia supplica / sul dorso di stanche stelle / di floridi campi / di tetri cortili / che erigi la mia tomba / che mi uccidi con una scure».

Come risulta evidente dai versi sopra riportati, potentissima è l’eco profetica veterotestamentaria di Isaia, Geremia e dei Salmi (cfr. Sal 10. 17. 87. 129), nella loro implorante richiesta di aiuto, nella loro violenza vendicativa e nella spirale opprimente di colpa-penitenza-redenzione. Ma si avvertono pure risonanze dalle litanie medievali, dalla letteratura pietistica del 1600-1700, fino alle eredità espressionistiche di molti autori di lingua tedesca (Benn, Trakl, Bachmann, Celan), giustamente sottolineate dal curatore del volume Luigi Reitani. Il tema della morte, che campeggia già nel titolo, è predominante in ogni sezione. Cadenzato da pause di silenzio, da gridi penetranti e da una tenebrosa musicalità da requiem, esso si rifà alla tradizione degli “Sterbebüchlein”, trattatelli religiosi che insegnavano ai fedeli l’ars moriendi, esortandoli alla meditazione interiore prima dell’incontro supremo con Dio. Ma qui l’assalto al cielo di Bernhard non ha nulla di docile e rassegnato, piuttosto assume i toni di una sfida irosa, esibendo un disperato bisogno di consolazione, l’ansiosa ricerca di una risposta, e insieme il blasfemo rifiuto di ogni acquiescente devozionismo: c’è insomma in queste poesie giovanili già tutto il grande narratore che conosciamo e amiamo di più, la sua tormentata angoscia, il suo urlo di ribellione contro un destino ostile, contro un Deus absconditus e silenzioso da cui si sente tradito e condannato.

 

© Riproduzione riservata               «Nazione Indiana», 25 settembre 2017

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THOMAS BERNHARD, AVE VIRGILIO. CARME – GUANDA, MILANO 2017

Con la traduzione di Anna Maria Carpi, Guanda pubblica una raccolta di Thomas Bernhard scritta tra il ’59 e il ’60 (quando l’autore trentenne cercava scampo alle sue angosce al di fuori dagli asfittici confini del suo paese), e inconsciamente dimenticata o consapevolmente sepolta in qualche cassetto per più di vent’anni.  Ave Virgilio è un Carme suddiviso in sette sezioni, che di bucolico ha solo il riferimento classico del titolo, su uno sfondo però rabbioso di pascoli montani, stalle e contadini, malinconiche feste di paese, culti e riti più superstiziosi che devoti: tutto l’armamentario culturale che caratterizza la produzione letteraria di Thomas Bernard, «profeta dei deformi», cantore rancoroso e blasfemo di una natura terribilmente inclemente nei riguardi delle sue creature.

Il grumo di dolore che attraversa queste pagine esplode nello spasimo livido di astio per la condanna di un’origine orgogliosamente esibita e altrettanto spietatamente rigettata: «La mia parola scelse / pecore, porci, abbatté manzi pregni, / bevve dalla groppa della vacca…/ in millenari libri / l’aratro di mio padre sfigurò le costellazioni». L’aratro come la penna, il padre come ogni autorità – letteraria, medica, politica o religiosa – capaci di “sfigurare” anche il cielo: «ho trivellato i firmamenti…». Il passato è un passato di morte, violenza e desolazione, come nella litania della sposa in Hochzeitgesellschaft: «Tutti volti morti / e più indietro / tutti mestieri morti / tempo morto e morto perire / morti prati, morti campi / morti casali, morte vacche / morti porci, morti ruscelli / e nei ruscelli / pesci morti / morte preghiere, donne morte, / città morte, morti inverni…»; a lei risponde lo sposo elencando una lunga serie di privazioni, di “senza” (senza mare, senza primavera, senza contenuto, senza uscita, senza occhi, senza latte, senza bianco…).

Altri personaggi portano le stimmate di una condanna metafisica, nella brutalità della loro vita ottusamente elementare: parroci, osti, macellai, scrivani comunali, artigiani e braccianti. Tra loro si erge l’io del poeta, incompreso e perseguitato, il solo capace di innalzarsi aldilà delle miserie: «e se mi linciassero sulla piazza del paese, / se mi sbattessero in una fossa buia / e sputassero sul mio teschio / e ancora si contendessero il mio cazzo…//…  io parlai di verdemela e di crusca invernale, / esplorai le tasche del mio cappotto… / Insensati salmi io diffusi dal pulpito, / abbattei grida di uccelli nel grano matto…», «io nel bosco, / io nel gelo, / io nei fiumi, / io nei grossi libri, / io sui crinali dei colli…»; «voi che mi avete messo fuori, / me, una bestia qualunque, / espulso come piscia dopo la birra…». Capovolgendo «l’alfabeto di Virgilio», Thomas Bernhard fustiga non solo le “mandibole”, la “demenza” dell’«idiota provincia», ma anche la natura, nei suoi paesaggi plumbei, nelle carcasse degli animali uccisi, negli alberi rinsecchiti, nei gelidi inverni. Fuggire, allontanarsi dalla «sozza vita», cercare salvezza in Italia o in Inghilterra («ma dov’è il mio biglietto?») non serve e non basta a promettere pace al «salmo incessante» («Cosa vuole da me il giorno / e mi fa domande») di questa «voce del lutto» che ha prodotto «un’esperienza poetica tra le più originali e condivise del secondo Novecento», come afferma Valerio Magrelli nella quarta di copertina.

 

«Poesia» n. 330, ottobre 2017

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THOMAS BERNHARD, GOETHE MUORE – ADELPHI, MILAN 2013

In quarta di copertina è scritto che questo “piccolo gioiello” contiene in nuce tutto Thomas Bernhard. E in effetti ritroviamo nei quattro racconti qui antologizzati le ossessioni, il sarcasmo, il dolore e la rabbia che caratterizzano l’intera produzione dell’autore austriaco (1931-1989). Persino i tic stilistici, esasperati quasi a creare volutamente un effetto comico e straniante (le ripetizioni, gli intercalari, le inserzioni e le sottolineature del parlato).

Già dal primo brano, che dà il titolo al volume, il lettore si trova immerso in un’atmosfera ironicamente surreale, beffarda, con il Genio (“il più grande in assoluto fra i tedeschi mai esistiti”, “il paralizzatore della letteratura tedesca”, “il grande spirito”), immobile sul suo letto di morte, alle prese con l’inventario finale del dato e avuto nella scrittura. Circondato dalla venerazione di signore e donnette, e dalla dubbia e litigiosa fedeltà di tre segretari-intellettuali (Kräuter, Riemer ed Eckermann), si convince improvvisamente della futilità di ogni letteratura, convertendosi alla superiore evidenza del pensiero filosofico. Esige pertanto di incontrare Wittgenstein, di poterlo ospitare a Weimar per discutere con lui su “il dubitabile e il non dubitabile”, eclissando confini temporali e geografici: ma muore prima che il suo desiderio venga esaudito, e le sue ultime parole “Mehr nicht!” (Più niente!) vengono modificate dagli assistenti nelle celebrate e celebrative “Mehr licht!” (Più luce!). L’ironia sghignazzante di Thomas Bernhard sembra prendersi gioco di ogni accademismo letterario, di ogni pomposità culturale avvertita come fittizia e ingannevole.

Gli altri tre racconti scavano più direttamente nella biografia dell’autore, mettendo in luce il suo mai superato risentimento nei confronti dell’istituto familiare, castrante e oppressivo, e dell’ambiente claustrofobico e colpevolizzante della sua Austria. Quindi ci imbattiamo in un uomo adulto che tenta di sottrarsi alle persecuzioni dei genitori (ottusi e malevoli affaristi, privi di ogni sensibilità e cultura) rifugiandosi nella torre del palazzo avito in compagnia dei saggi illuminanti di Montaigne: “Io non ho mai avuto un padre e non ho mai avuto una madre, ma ho avuto sempre il mio Montaigne. I miei procreatori, che mi rifiuto di chiamare padre e madre, mi hanno ripugnato fin dal primo momento, e io ho tratto molto presto le conseguenze di questa ripugnanza e mi sono buttato dritto dritto fra le braccia del mio Montaigne, la verità è questa”.

Il terzo, esilarante e drammatico racconto, vede di nuovo un figlio adulto che rievoca il suo tormentoso passato di bambino, obbligato a seguire i genitori in sadiche e punitive escursioni tra le montagne, in cerca di una quiete esteriore che non sapevano raggiungere interiormente: crudeli nell’esasperare la prole nel fisico e nel carattere, tentando di riscattare così i loro fallimenti esistenziali. Infine, il falò apocalittico a cui Thomas Bernhard sottopone in sogno l’Austria cattolica e nazionalsocialista sembra voler ridurre in cenere l’intero universo che l’ha esiliato ed emarginato in una condanna economica e morale ingiusta e ingiustificata: “L’intera disgustosa Austria ormai solo bestialmente fetida, con tutti i suoi volgari e abietti abitanti e con i suoi edifici famosi in tutto il mondo, chiese e conventi e teatri e sale da concerto, andava a fuoco e bruciava sotto i miei occhi”.

Rabbioso e dolorante, angosciato e deluso, Thomas Bernhard sembra trovare solo nell’invenzione della parola un porto sicuro di consolazione e conforto.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Goethe-muore-Thomas-Bernhard.html            3 febbraio 2018

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THOMAS BERNHARD, CAMMINARE – ADELPHI, MILANO 2018

Il titolo tedesco di questo romanzo, che Thomas Bernhard pubblicò nel 1971, è Gehen, “Andare”, e forse rende meglio che Camminare il senso affannato, tortuoso, scomposto delle varie e intersecantesi direzioni percorse dai tre protagonisti, non solo peregrinando attraverso la città di Vienna, ma soprattutto smarrendosi nei pensieri e nelle ossessioni mentali da cui sono perseguitati.

Il narratore senza nome riproduce in una prosa torrenziale, irrefrenabile e circonvoluta, i monologhi con cui Oehler gli racconta l’improvvisa pazzia che aveva portato il loro comune amico Karrer ad essere internato nel manicomio dello Steinhof. I tre camminavano il lunedì e il mercoledì, alternandosi nella frequentazione, ma controllandosi reciprocamente nei movimenti, nella velocità, nel vestiario, nelle strade battute (in genere limitate al centro cittadino, tra il Friedensbrücke, la Klosterneuburgerstrasse e la Alserbachstrasse), immersi in macchinose conversazioni di filosofia, e in sarcastici commenti sulla vita borghese e volgare dei loro connazionali.

«Nulla è più istruttivo del veder camminare uno che pensa, così come nulla è più istruttivo del veder pensare uno che cammina, per cui possiamo dire senz’altro che vediamo come pensa colui che cammina, così come possiamo dire che vediamo camminare colui che pensa e viceversa vediamo pensare colui che cammina e così via… In ogni pensiero siamo perduti, se ci abbandoniamo a questo pensiero, se ci abbandoniamo davvero anche a un solo pensiero, siamo perduti… Così siamo sempre lì a buttare via i pensieri che abbiamo, e ne abbiamo sempre perché è nostra abitudine avere sempre dei pensieri; per tutta la vita, a quanto ne sappiamo, buttiamo via i pensieri, non facciamo altro, perché non siamo altro che persone intente a rovesciare e a svuotare di continuo le proprie menti come secchi di rifiuti, ovunque siano».

A cosa pensava dunque Karrer, e con quanta «tensione nervosa» quando è improvvisamente impazzito? Non solo alle teorie di Wittgenstein, non solo all’indefinibilità del reale, al provincialismo austriaco, agli orrori architettonici, alla stupidità delle persone che continuano a mettere al mondo figli destinati all’infelicità, alle vane illusioni sulle sorti umane. Ma soprattutto al fatto che il genio non viene riconosciuto ed è osteggiato sia dalla gente comune sia dal potere, che una vita fuori dall’ordinario crea fastidio e imbarazzo, che il senso del bello e dell’ordine è stigmatizzato e deriso. A questo pensava e di questo discuteva animatamente con il suo amico Oehler (che lo riferisce al narratore senza nome), piangendo la sorte dell’illustre chimico Hollensteiner, suicidatosi per protestare contro la cecità e l’indifferenza del governo che non aveva finanziato le sue ricerche: «… uno Stato che fa l’impossibile per distruggerti anziché venirti in aiuto, che fa l’impossibile per paralizzarti anziché venirti in aiuto». Ed entrambi così furibondi e pieni di rancore erano entrati nel negozio di tessuti di Rustenschacher, dove la follia di Karrer era esplosa osservando nei pantaloni che voleva acquistare delle imperfezioni che ne rivelavano la vera provenienza: non il vantato ed elegante tessuto inglese, ma «merce di scarto cecoslovacca».

La scrittura funambolica di Bernhard rivela, nel presentare il tracollo psichico del protagonista, tutta la sua grottesca, rabbiosa, irritante abilità descrittiva. Karrer precipita in un vortice di disperata e vulnerabile paranoia, aggredendo il proprietario del negozio e il commesso, urlando il suo disgusto verso tutto e tutti, ribellandosi al conformismo di maniera che livella gusti e comportamenti. Chi legge Thomas Bernhard, e ne percepisce il furore iconoclasta nei riguardi delle istituzioni (in questo caso rappresentate tanto dalla psichiatria, quanto dall’interesse economico e dalle convenzioni sociali) finisce per sodalizzare con i suoi eroi, che sono sempre i reietti, i disadattati, gli eversivi, incapaci di adeguarsi e di trovare un qualsiasi sollievo dal dolore di vivere.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/Camminare-Thomas-Bernhard.html       2 aprile 2018

 

 

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THOMAS BERNHARD, AMRAS – SE, MILANO 2018

Pubblicato in lingua tedesca nel 1964, e tradotto da noi per la prima volta nel 1989, Amras è stato definito da Thomas Bernhard «il libro prediletto», non solo perché condensa nelle sue pagine i temi e le atmosfere più tipiche della propria scrittura (la dissoluzione di un ambiente geografico e culturale, l’ambivalenza distruttiva dei rapporti familiari, la polemica contro il perbenismo claustrofobico della borghesia), ma anche perché utilizza una tecnica narrativa decisamente originale, strutturandosi polifonicamente in brani contrapposti di esposizioni diaristiche, aforismi, citazioni letterarie, epistolari, ricostruzioni biografiche, visioni allucinatorie, materiali scientifici, servendosi di una sintassi complessa e franta, ribelle a qualsiasi linearità logico-temporale. Nella recente edizione milanese di SE, con l’ottima traduzione di Magda Olivetti, il romanzo è corredato da ricche note biobibliografiche, da un’interessante appendice fotografica, e soprattutto da un’approfondita ed esaustiva postfazione del germanista Luigi Reitani, che ne ricostruisce sapientemente le fasi di composizione, le vicende editoriali, l’accoglienza critica e le motivazioni letterarie ed extra-letterarie alla base della sua elaborazione.

Due fratelli ventenni vengono segregati per alcuni mesi in una torre successivamente al loro tentato suicidio, seguito a quello perpetrato dai genitori.  Voce narrante è K., studente di biologia, che vive un rapporto simbiotico con il più giovane Walter (“il mio Walter”), musicista, e ne documenta il declino fisico e mentale, accentuato da una grave forma di epilessia ereditata dalla madre, fino alla morte volontaria di lui. Amras è il nome della torre in cui i due fratelli sono richiusi, proprietà dello zio materno che provvede a mantenerli in questo stato di prigionia onde evitare loro la reclusione in manicomio: si tratta di un edificio freddo e buio, nei dintorni di Innsbruck, in cui i due ragazzi tentano di ricostruire le loro esistenze, in una morbosa relazione di reciproca dipendenza omoerotica, rievocando con rabbia e nostalgia il loro passato familiare, l’ostilità dell’ambiente tirolese, gli amati studi scientifici e letterari. K. ricompone le tristi vicende che hanno lentamente condotto i genitori alla catastrofe economica e alla disperazione esistenziale, convincendoli all’esito drammatico del suicidio: il patrimonio finanziario sperperato dal padre, la malattia mentale della madre, l’atmosfera persecutoria e funerea in cui sono stati cresciuti, il culto elitario per la poesia e l’arte non condiviso dalla cerchia parentale e cittadina. Esclusione e auto-esclusione, senso di inferiorità commisto a un’eccessiva considerazione di sé, complessi di colpa e repressione di ogni istinto vitale, avevano minato dalla prima infanzia il loro carattere e ogni qualsiasi serena disposizione nei riguardi della vita.

«Nella torre, i nostri pensieri andavano soprattutto all’infanzia, perduta per via della  catastrofe… abbandonati a noi stessi, la nostra infanzia era stata guidata dai nostri genitori, grazie al loro sapere e al loro sentire, con invisibile rigore… più tardi dai medici e dalle loro arti nel prescrivere ricette, dalla disperazione materna e paterna… un triste declino di tutto ciò che ci permetteva di sbocciare timidamente oscurò l’ultimo decennio della nostra vita in famiglia… attorno a noi, dentro di noi e insieme a noi, tutto s’andava sgretolando, lo si vedeva, come in pensiero, dalle persone, dalle case…».

Un’angosciante voluptas mortis pervade tutta la narrazione di Thomas Bernhard, che percepisce la quotidianità come costrizione e violenza, brutalità della natura e della civiltà sull’uomo, che vanamente tenta di crearsi un altrove ideale in cui sopravvivere (Gelo, Estinzione, Perturbamento, In terra e all’inferno, La cantina, A colpi d’ascia, In hora mortis, La fornace, Il freddo, Costrizione, Il soccombente, Sotto il ferro della luna, sono i titoli che emblematicamente indicano l’ossessiva negatività del suo universo espressivo). Ma qui, in Amras, l’autore sembra raggiungere l’apice della «consapevolezza tragica e piena del suo incancellabile dolore», come scrive Luigi Reitani, pur nell’umanissimo rimpianto per quello che la vita ‒ con i suoi suoni, le luci, la poesia, gli affetti – potrebbe regalare.

 

© Riproduzione riservata     https://www.sololibri.net/Amras-Bernhard.html     13 novembre 2018

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THOMAS BERNHARD, CEMENTO – SE, MILANO 2023

Pubblicato in Germania nel 1982, e per la prima volta da Studio Editoriale nel 1990, dopo numerose ristampe ritorna oggi sul mercato Cemento, uno degli ultimi romanzi scritti da Thomas Bernhard (1931-1989). Il volume è corredato da ricche note biobibliografiche, da un’interessante appendice fotografica e soprattutto da un’approfondita ed esaustiva postfazione del compianto germanista Luigi Reitani, che ricostruisce sapientemente non solo le motivazioni letterarie ed extra-letterarie alla base della sua elaborazione, ma anche le polemiche con cui venne accolto dalla critica.

Non si tratta di un’autobiografia, sebbene siano presenti episodi della vita dell’autore, ma di una confessione monologante messa per iscritto da un intellettuale austriaco di mezz’età, il cui nome viene riportato solo all’inizio e alla fine del volume, sempre con lo stesso sintagma: “scrive Rudolf”. In effetti il protagonista sembra non saper fare altro che scrivere, persino nel momento in cui riconosce di non riuscire a scrivere. Né a scrivere né a vivere, con gli altri, tra gli altri, per gli altri. La sua è una storia di solitudine e nevrosi (che gli psichiatri definirebbero compulsiva), di frustrazione per la propria inettitudine, di rancore nei riguardi della famiglia e della società, di complessi di colpa per non essere stato all’altezza delle sue aspirazioni: sempre in preda a manie persecutorie, ambizioni smodate, ipocondria ossessiva.

Rudolf, secondogenito di una ricca e aristocratica famiglia austriaca, dopo la morte dei genitori si rinchiude nella dimora ereditata nel paesino di Peiskam, con l’unica saltuaria compagnia di una domestica fedele e discreta, e sotto l’opprimente controllo della sorella maggiore Elisabeth, esercitato sia a distanza dalla residenza viennese, sia negli occasionali e irritanti soggiorni nella comune proprietà di campagna. Dopo aver tentato studi filosofici, giuridici e scientifici senza riuscire ad arrivare alla laurea, Rudolf decide di dedicare la propria esistenza alla musicologia, impegnandosi in studi critici sui maggiori compositori classici. In particolare, le sue ricerche d’archivio, postillate da una grande mole di appunti e tracce programmatiche, riguardano la stesura di un saggio su Mendelssohn Bartholdy, in gestazione da molti anni, ma incagliata sin dall’avvio per la difficoltà di affrontare la frase iniziale.

Intorno al tema della scrittura che non è in grado di scriversi ruota tutto il romanzo. L’io narrante elenca ossessivamente ogni pretesto che gli impedisce di sbloccarsi: dal cattivo funzionamento di una lampada ai rumori distraenti, dai malesseri fisici alla presenza castrante e indisponente della sorella. Elisabeth, al contrario del fratello, è un’imprenditrice di successo nel campo immobiliare; donna di mondo, elegante, concreta, disinvolta nei rapporti sentimentali e d’affari, tratta Rudolf con ironica supponenza mista a compassione. Da lui considerata volgare, sciocca e perfida, viene tuttavia temuta: “Lei guidava i miei passi e al tempo stesso ottenebrava la mia mente… A me fanno schifo i suoi affari, a lei fa schifo la mia fantasia, io disprezzo i suoi successi, lei disprezza la mia mancanza di successo”.

La partenza della sorella toglie al protagonista l’ultimo alibi per non dare inizio al lavoro, e insieme lo induce a recriminare sui motivi del proprio fallimento esistenziale. Proclama la sua sfiducia nel genere umano, il disinteresse per la natura, la disillusione verso l’amore e l’amicizia (“che parola pustolosa!”). Pur avendo viaggiato moltissimo nella giovinezza, ora considera lo spostarsi di casa una fatica dispendiosa. Della solitudine in cui ama crogiolarsi incolpa la società viennese, l’aristocrazia e il popolino, l’accademia e la stampa, i politici e gli intellettuali, la Chiesa e il socialismo, la tradizione e la modernità: Vienna “cloaca d’Europa” reagirà con astio e fastidio, attraverso una campagna giornalistica persecutoria, all’esplicita ostilità dichiarata nel nuovo testo di Bernhard, ricalcante i suoi precedenti lavori narrativi e teatrali.

Nauseato da tutto, e principalmente da se stesso, Rudolf decide di provare a recuperare la salute precaria e di abbozzare finalmente il saggio su Mendelssohn trasferendosi a Palma di Maiorca, che già in passato lo aveva ospitato con gentilezza e premura. I preparativi per la partenza appaiono assillanti nella loro minuziosità, e provocano nel lettore un effetto esilarante per la descrizione puntigliosa e maniacale dell’allestimento dei bagagli.

Sullo sfondo della località iberica, le ultime trenta pagine il romanzo prendono una piega inaspettata, pur rimanendo vincolate alla forma del monologo descrittivo. Dopo aver preso possesso della stessa lussuosa camera d’hotel già occupata in passato, Rudolf rievoca l’incontro avvenuto due anni prima con una ragazza tedesca, che gli aveva raccontato della disperazione priva di prospettive in cui si trovava, a causa della tragica morte del marito precipitato dalla terrazza del loro fatiscente albergo, e tumulato in fretta e di nascosto nel cimitero cittadino. Informato già nei primi giorni di vacanza del successivo suicidio della giovane vedova, il ricordo tormentante dell’angoscia di lei mette fine alla sua illusione di potersi dedicare alla stesura del saggio musicale, e lo cementa in un’atonia priva di slanci, condannata di nuovo a una spietata autoanalisi priva di assoluzione.

La straordinaria abilità narrativa di Thomas Bernhard si esprime nell’esplorazione dei labirintici percorsi di un pensiero psicotico, nella ricostruzione di temi e atmosfere tipiche della propria narrativa (la dissoluzione di un ambiente culturale, l’ambivalenza distruttiva dei rapporti familiari, la polemica contro il perbenismo claustrofobico della borghesia austriaca), e nell’esasperazione di formule volutamente intese a creare effetti ironici e stranianti (ripetizioni, intercalari e  sottolineature del parlato).  Anche in Cemento l’autore austriaco esibisce la stessa modalità espressiva livida e sarcastica delle prove maggiori, mettendo in luce i nodi e le rigidità caratteriali ereditati dalla sua sofferta vicenda biografica, che hanno fatto di lui un maestro di scrittura autoreferenziale e ferocemente sovversiva.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 11 novembre 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BERNINI

FABRIZIO BERNINI, L’APPRENDIMENTO ELEMENTARE – MONDADORI, MILANO 2011

Fabrizio Bernini (1974) ha pubblicato questo volumetto di versi nel 2011, a un’età in cui si cominciano a mantenere le posizioni acquisite, a raccogliere frutti, a considerare il reale nella sua concretezza. Eppure le sue poesie (di stampo e ambientazione dichiaratamente pavesiane, con il contrasto un po’ datato tra città e campagna, infanzia e età adulta, prosaicità e sogno) esprimono tutta la sospesa disillusione, la mancanza di coraggiose prospettive future, l’estraneità a una storia solo subita, della generazione degli under 30, votata alla precarietà e alla rinuncia di ogni speranza.
L’apprendimento elementare”, insomma, di una immodificabile infelicità senza desideri.

La nostalgia per un’infanzia rurale (“la collina davanti, tutta nel sole», «un fosso dove cercavo strani animaletti / nell’acqua”), che tuttavia si intuisce poco allegra e segnata da ricordi o intuizioni allarmanti, cede il passo alla sconfortata descrizione di una realtà periferica, fatta di condomini dalle pareti sottili, esistenze operaie o piccolo borghesi, rassegnate, invecchiate: tra anziane coppie silenziose e abitudinarie, e giovani privi di iniziative, di fantasie, di amori: “Se mi guardo non sono diverso. Un anno fa, adesso. / Nemmeno uno sfregio, nemmeno i capelli pettinati / in un altro modo”, “A colazione mio padre mi guarda di sfuggita / mentre succhia dalla scodella”.

Una poesia narrativa, la sua, che evita stilemi tradizionali eppure non tenta alcuna sperimentazione formale, e spesso si rifugia nelle sentenziosità di un verso finale asseverativo, a ribadire un punto fermo che teme di essere messo in crisi, interrogato, discusso: “L’estate verrà”, “Trinciato dalla lentezza”, “Oggi cominciano i saldi”, “Ciò che siamo è invulnerabile”, “E il tempo sembrava di pane”, “Mi è indispensabile”. Per cui la sua dichiarazione di poetica diventa lo specchio severo e inconfutabile di una dichiarazione di vita, quasi rassegnata al fallimento, alla perdita, all’inazione. “Non ci sarò per il bene e l’oggetto, / resterò a distanza, sull’intercorrere/ che divarica la storia”.

 

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27 novembre 2016

RECENSIONI

BERTOLUCCI

ATTILIO E NINETTA BERTOLUCCI, IL NOSTRO DESIDERIO DI DIVENTARE RONDINI. POESIE E LETTERE – GARZANTI, MILANO 2020

Attilio Bertolucci (1911-2000) ed Evelina – detta Ninetta – Giovanardi (1912-2005) si sono sposati nel 1938 e hanno avuto due figli, Bernardo e Giuseppe, registi di fama. Sessantadue anni di matrimonio vissuti nell’affetto, nella stima e nella collaborazione reciproca: lui valente poeta, impegnato intellettuale, traduttore e critico; lei insegnante e sceneggiatrice di piccoli film gialli ricchi di humour. La loro lunga storia d’amore era iniziata tra i banchi del liceo Romagnosi di Parma, e a partire dagli anni del corteggiamento si era nutrita di una fitta corrispondenza, consolidata in seguito attraverso lo scambio di esperienze e di passioni comuni – la musica, il cinema, la letteratura. Garzanti, editore di quasi tutti i volumi di poesie di Attilio, pubblica adesso il loro epistolario, integrato dai molti versi dedicati alla moglie, con un titolo suggestivo: Il nostro desiderio di diventare rondini, a cura di Gabriella Palli Baroni.

Poeta con una manifesta vocazione alla descrizione e al racconto, Attilio Bertolucci componeva in forma pacatamente narrativa, come nel romanzo familiare in versi La camera da letto, utilizzando immagini di ambienti interni ed esterni recuperate da memorie personali, con forte incidenza affettiva. Ne sono testimonianza i numerosi testi riportati nel libro garzantiano (di poesie edite e commentate singolarmente, e di lettere inedite), che definiscono l’autore non solo come poeta d’amore, ma come suggerisce la curatrice, “poeta d’amore coniugale”. Ninetta è stata la musa ispiratrice di Attilio, protagonista in grazia e festosità già dai primi versi dedicatele nella raccolta Fuochi in novembre, del 1934: “Coglierò per te / l’ultima rosa del giardino, / la rosa bianca che fiorisce / nelle prime nebbie. / Le avide api l’hanno visitata / sino a ieri, / ma è ancora così dolce / che fa tremare…”, “Vorrei esser il sole che ti scalda / quando esci dall’acqua, freddolosa / e gocciolante, e sì ti fa radiosa / negli occhi, felice e calda…”.

La vivace e gioiosa esuberanza giovanile si trasforma col passare del tempo in una più ponderata consapevolezza sentimentale e morale, per cui la fidanzata diventata moglie e madre assume il ruolo più maturo di compagna, confidente e guida, come si evince dalle struggenti parole di questa lettera: “Noi dobbiamo attraversare questa cosa dolce e terribile che è la vita, insieme, dobbiamo fare un lungo viaggio sempre insieme, e avremo in comune la gioia e la tristezza e tutte le mattine svegliarsi vicini e volerci sempre bene e comprenderci”. La richiesta d’amore che il poeta rivolge alla sua donna è insieme esigente, timorosa, grata, impaurita: “Non mi lasciare solo se io / ti lascio sola”, “Perché le farfalle vanno sempre a due a due / e se una si perde entro il cespo violetto / delle settembrine l’altra non la lascia ma sta / sopra e vola confusa”, “Portami con te nel mattino vivace / le reni rotte l’occhio sveglio appoggiato / al tuo fianco di donna che cammina / come fa l’amore”.

Sarà sempre Ninetta, dopo il trasferimento a Roma dalla campagna emiliana, a proteggere il marito non solo dall’estraneità minacciosa della capitale, ma soprattutto dalle sue ansie ben presto deformatesi in pura nevrosi. Pratica e razionale, salda nella difesa del nucleo familiare, è Ninetta l’ancora a cui la fragilità del marito si aggrappa, “luce diurna della sua ragione”. Nelle più tarde Chroniques maritales, la complicità tra i due sposi ormai anziani si esalta nella descrizione di momenti di intimità quotidiana, gesti concreti di ogni giorno, e sentimenti che sfumano dalla tenerezza alla gelosia, fino a un delicato erotismo: “– Ma tu lascerai che affondi la faccia / nella tua erba? / Che io estingua la mia sete nel tuo sonno?”, “I nostri corpi, cara, in questo letto / famigliare nell’aria ferma dell’amore / mentre al di là delle finestre chiuse / le stagioni piangendo se ne vanno”, “Ma continua con me / ormai che ci sfiora radente / l’ala del tempo e dell’età”. Accanto alla donna amata, il poeta rappresenta con altrettanta delicatezza e trepidazione i due figli, Bernardo e Giuseppe, in componimenti che li ritraggono dalla prima infanzia all’età adulta: “Avete visto due fratelli, l’uno / di quindici l’altro di dieci anni, lungo / il fiume, intento il primo a pesca, / il secondo a servire con pazienza / e gioia?”.

Oltre alle poesie dedicate a quello che pascolianamente potremmo definire il “nido” familiare, è soprattutto la fitta corrispondenza scambiata tra Attilio e Ninetta il nucleo documentario più nuovo e interessante del volume proposto da Garzanti. A partire dal primissimo scambio epistolare della giovinezza: “Mi sembra d’essere sicuro ora che ho te, d’essere sulla terra ferma” (28 gennaio 1934), “Sei talmente entrato nel mio cuore che non sarò mai proprio sola” (20 febbraio 1934), “Non staremo bene se non saremo uniti” (10 giugno 1934).). Da una parte la tenerezza indulgente con cui lei accoglie le titubanze e le inquietudini di lui, dall’altra la ribadita necessità di lui di averla vicina, comprensiva e paziente, sempre in nome di “quell’armonia senza la quale vedo che nessuno di noi due si potrebbe più rassegnare a vivere” (11 novembre 1936).

Il loro intenso e romantico carteggio, secondo Gabriella Palli Baroni, “rappresenta perfettamente i due innamorati, riportandoci non solo la profondità dei sentimenti, ma il colore del tempo, gli slanci della loro giovinezza, le atmosfere della campagna e della città, le gioie del loro ritrovarsi, le trasgressioni e la quotidianità, la fatica dello studio e la grazia del comporre liriche, l’inclinazione infine verso ciò che è bello e importante: il sentimento del tempo e della natura, l’arte, il cinema, la musica, la poesia”. Una testimonianza, quindi, di grande valore letterario e umano, che apre anche ampi orizzonti su sessant’anni della vita culturale del nostro paese.

 

© Riproduzione riservata                   18 giugno 2020

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