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RECENSIONI

BERTONI

ALBERTO BERTONI, LA POESIA – IL MULINO, BOLOGNA 2006

La poesia rimane oggi, secondo l’autore di questo interessante e documentatissimo volume La poesia  (Il Mulino, 2006), una «sacca di resistenza» dove «almeno un poco di umanità continua a preservarsi». Ovviamente, quando si parli di una poesia intesa come «un’esperienza di scambio tanto forte, non soltanto fra autore e lettore, ma fra inconscio e coscienza, mondo inventato e mondo reale, da non lasciare indenne nessuno degli elementi coinvolti, consegnandoli a un’esperienza di straniamento».

Poesia quindi come nutrimento dell’anima e della mente, illuminazione interiore, scardinamento delle proprie ossidate certezze: «arte di respiro plurimillenari» o a cui avvicinarsi «con una competenza umile e adeguata». Per questo è necessario confrontarsi con essa in primo luogo come lettori, attenti e concentrati, come fruitori capaci di rispettosa gratitudine verso questa miracolosa incandescenza emotiva, e solo in un secondo momento come produttori, autori consapevoli dei propri mezzi, del proprio bagaglio di abilità letterarie.
Se è vero che in Italia almeno due milioni di persone scrivono versi, e solo duemila leggono abitualmente poesia, ecco che Alberto Bertoni richiama a un impegno culturale costruttivo nel riscoprire una poesia che sappia essere, come deve, rivelazione di verità ed emozione. E lo fa senza ipocrite diplomazie, quando sferza la produzione poetica contemporanea italiana, e vede in essa «un’assenza quasi assoluta di nuovi testi capaci di rompere schemi e attese, in un contesto di aurea mediocritas almeno apparente dove le nuove scritture risuonano tutte impeccabili, calibrate, maledette all’occorrenza ma solo con misura, talvolta addirittura intercambiabili…». Torni quindi la nostra poesia a sapere rappresentare un mondo «abissale e inabissato», a evocare, a suggerire, a spronare nuovi risvegli.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/La-poesia-Alberto-Bertoni.html;      22 gennaio 2016

 

 

 

RECENSIONI

BERTONI

ALBERTO BERTONI, IL LETTO VUOTO – ARAGNO, TORINO 2012

C’è un’ambivalenza che percorre tutte la pagine di questo volume di versi di Alberto Bertoni, un continuo oscillare tra aspetti opposti del reale: dall’ambiente domestico più conosciuto, e protettivo, e affettuosamente intenerito (la Modena natale, i campi, il gioco delle bocce, i “poveri gatti tristi”) ai viaggi all’estero (New York, Scozia…); dalla gente umile, di scarse ambizioni ma di solide verità che animava la sua infanzia (le robuste pulizie delle sorelle Barbolini, gli amici del nonno), alle conferenze universitarie e alla frequentazione di signore raffinate, fino agli omaggi riservati ai protagonisti culturali contemporanei (Delfini, Giudici, Bevilacqua, Guccini).

Le poesie hanno cadenze serenamente e malinconicamente narrative, più propense alla descrizione nostalgica che allo scandaglio introspettivo o alla meditazione: inframmezzate da prose tese a illustrare con uno stile piano e discreto memorie personali (il gioco del calcio o la passione per i cavalli), incubi o località che hanno lasciato un segno nell’animo del poeta, e non sembrano servire da contrappunto razionale ai versi, ma semmai valgono a prolungarne l’aura poetica. Che vibra maggiormente – senza tuttavia raggiungere l’incandescenza emotiva che il Bertoni eccellente critico letterario auspica in chi scriva poesia – quando l’autore si commuove sugli affetti più cari, come sulla demenza senile dei genitori e sulla loro morte (“Nel supremo trapasso / avrà riso mia madre del fatto / che non sono stato al suo fianco”) o quando traccia di se stesso un’immagine rassegnata e delusa (“Forse sono io quell’uomo / rannicchiato in un’auto uguale / che scruta il mio stesso giornale / di programmi e risultati / senza un ricordo di cui essere geloso / lo scatto di trotto sbilenco // questo cuore a riposo”; “Solo adesso / misuro il mio tempo / adesso che mi pens o/ mentre sto fermo…”).

IBS, 24 dicembre 2012

RECENSIONI

BESPALOFF

RACHEL BESPALOFF, SULL’ILIADE – ADELPHI, MILANO 2018

Una parabola esistenziale simile, e una simile disposizione emotiva e culturale, unì negli anni ’40 due importanti protagoniste del pensiero novecentesco: Simone Weil e Rachel Bespaloff. Entrambe ebree di lingua francese, entrambe rifugiatesi negli Usa, entrambe studiose della classicità greca, non si conobbero mai: eppure le loro intuizioni sul mondo omerico le accomunano nel tentativo di spiegare le terribili vicende storiche della loro contemporaneità ricorrendo alle origini della civiltà occidentale.

Rachel Pasmanik Bespaloff (nata in Bulgaria, a Nova Zagora, nel 1895, da una colta famiglia di origini ucraine, e morta suicida in America, a South Hadley nel 1949), si trasferì bambina a Ginevra, dove compì studi musicali e letterari. Docente a Parigi dal 1919, sposò l’uomo d’affari Shraga Nissim Bespaloff, da cui ebbe una figlia, e iniziò a occuparsi attivamente di filosofia, frequentando una cerchia di intellettuali illustri, come Gabriel Marcel e Jean Wahl. Nel 1941, per sfuggire alle leggi razziali, fu costretta a emigrare con la famiglia negli Stati Uniti, senza riuscire mai ad adattarsi alla mentalità e al modo di vivere degli americani. Nel 1943 pubblicò il suo lavoro più noto, un volume Sull’Iliade composto da sette saggi, più volte edito in Italia, e da poco riproposto da Adelphi nella traduzione di Simona Mambrini. In esso, è il primo dei contributi che forse esprime al meglio l’indirizzo critico che Rachel Bespaloff diede al suo lavoro, riuscendo, nell’interpretazione di un testo particolare, ad assurgere a una visione universale dell’eterna lotta tra bene e male, sopraffazione e sottomissione, colpa e innocenza.

Nel duello che contrappone Ettore ad Achille, la figura che primeggia gigantesca è quella dello sconfitto: «Ettore ha sofferto tutto, e ha perduto tutto tranne sé stesso… Né superuomo, né semidio, né simile agli dei, ma uomo, e principe tra gli uomini». Ettore sente la pena di dover abbandonare la moglie e il figlio, di cui vorrebbe custodire la vita e la felicità; si riconosce terrorizzato di fronte al guerriero greco, addirittura fugge prima di affrontare il duello (nell’inseguimento del predatore e nella fuga della preda l’autrice riscopre la realtà eterna e cosmica del conflitto tra prepotenza e debolezza), ma sa in cosa consiste il suo dovere, accetta infine il destino che gli è stato assegnato: «Non voglio morire senza lotta né senza gloria, bensì facendo qualcosa di grande, che anche i posteri ricorderanno». Achille, assetato di rancore e di vendetta, è invece «nutrito di scontento e di ombrosa irritazione».

Sono entrambi giovani, valorosi, belli: perché nel mondo di Omero la bellezza consiste nella forza, l’immortalità è data dalla gloria, e combattere è l’unico modo per redimere la banalità inerme dell’esistenza. Gli errori e le ingiustizie della storia non trovano riparazione se non nella poesia: «Essa sola restituisce al mondo ottenebrato la fierezza oltraggiata dalla superbia dei vincitori, il silenzio dei vinti». Poiché vincitori e vinti sono ugualmente vittime, degli avversari e di sé stessi, delle loro passioni e delle loro viltà, eternamente in guerra: Polemos è il padre di tutte le cose, recita un frammento eracliteo. La guerra, in Omero e nella Bespaloff che lo legge, è inevitabile; la furia di Achille, la sua ira funesta, la sua folle sete di distruzione, sono l’essenza stessa della vita: «Senza Achille, l’umanità vivrebbe in pace. Senza Achille, l’umanità si rattrappirebbe, si addormenterebbe congelata dalla noia ben prima del raffreddamento del pianeta».

Ci sono però alcune figure femminili che nel poema salvano la possibilità della tenerezza, della premura, della comprensione. C’è Teti, giovane e trepidante madre di Achille, che sola sa trattenerne la furia, accarezzandolo, parlandogli con affetto. E Andromaca, che con serena tranquillità porge il frumento ai cavalli del marito prima della battaglia. C’è Elena, «che attraversa l’Iliade come una penitente, con la maestà che le conferisce la perfezione della sua sventura, della sua bellezza». Elena, come Anna Karenina vittima di un sogno infranto, colpevole di un’illusione, riesce a trovare delicate parole di conforto e gratitudine per Ettore e Priamo, gli unici in Troia a non esserle ostili: e accusa sé stessa quando in realtà responsabile della guerra è «la beata spensieratezza degli Immortali». Quegli dei, «Agenti provocatori, scaltri propagandisti… causa di tutto senza essere responsabili di nulla», secondo Rachel Bespaloff si meritano lo scherno di Omero, che ne deride le «commedie coniugali», le collere, i dispettucci, le gelosie: egoisti tormentatori del genere umano, «non disdegnano l’odore della carneficina, lo strepito delle passioni tragiche». Nella sua visione e descrizione del mondo, e del rapporto tra terra e cielo, l’Iliade ha molto in comune con la Bibbia e con Guerra e pace di Tolstoj.

Esistono infatti parallelismi tra Omero e le Sacre Scritture, perché il sentimento di colpevolezza collettiva dell’epica greca corrisponde al peccato originale della Bibbia, il concetto cristiano di redenzione e resurrezione trova un riscontro nell’azione eroica e nella ricerca della gloria immortale dei combattenti antichi: «Vi è, e sempre vi sarà, un certo modo di dire la verità, di proclamare la giustizia, di cercare Dio, di onorare l’uomo, che ci è stato insegnato al principio e che Omero e la Bibbia continuano di nuovo a insegnarci». Una lezione essenzialmente etica, di resistenza umana di fronte alle catastrofi, al dolore, all’ingiustizia.

Bespaloff ravvisa poi una correlazione anche tra Omero e Tolstoj, i quali «hanno in comune l’amore virile, l’orrore virile della guerra. Né pacifisti né guerrafondai, entrambi conoscono, raccontano la guerra quale essa è», in grado di travolgere le singole esistenze vulnerabili, così come di celebrare la grandezza di un popolo. «La guerra la si fa, la si subisce, la si maledice o la si celebra; come il destino, non la si giudica». Omero nell’Iliade osserva gli avvenimenti e i suoi protagonisti con equanimità, con uno sguardo calmo, dall’alto, superando qualsiasi angusta prospettiva in una visione cosmica, che abbraccia le vicende umane e quelle celesti, e riscatta sia ogni storia individuale sia le colpe della Storia universale, attraverso la funzione della poesia.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 11 dicembre 2018

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BETOCCHI

CARLO BETOCCHI, TUTTE LE POESIE – GARZANTI, MILANO 1996

«Che ne sarà del vento in Paradiso, / il vento che riporta la memoria;  Il mio cuore è debole, stasera, / come il sole che lento risale / i tetti, e profonde sono le mie colpe;  Ahi! L’uomo, come sempre tramonta;  Cielo, quel po’ che c’è, oggi, di sole, / un po’ dalle tue nuvole, ti prego, / per il mio freddo lascia trasparire;  C’è soltanto della pura gioia, nello stridìo / delle rondini, o anche un fitto / dolore?;  Le stanze sono poche: la tua tosse / erra di stanza in stanza: il mio silenzio / è ovunque, quieto, strano, come fosse / lui solo».

Sono alcuni dei folgoranti incipit delle poesie che Carlo Betocchi (straordinario, schivo, dimenticato poeta toscano di paesaggi, di antichi amori domestici) scrisse nella sua lunga e laboriosa vita. Esistenza non da intellettuale, la sua, ma da capocantiere, vicina agli operai e alla gente modesta, e imbevuta di poesia: studiata, fatta propria e prodotta con gentilezza sapiente, e anche con una grazia quasi francescana, da innamorato della natura e della creazione.
Un’anima chiara, indifferente ai richiami del successo letterario, benché frequentasse le riviste e gli scrittori più noti e importanti della sua epoca, e vantasse amicizie profonde con Luzi, Bo, Caproni. Di loro e di altri critici sono riportati in conclusione al volume recensioni affettuose e ammirate.
Così ne scrive Pasolini, ad esempio: «poesia piena di pace, verrebbe voglia di dire di benessere… inspiegabilità dovuta a un suo anacronismo…attenzione per le cose… pansensualismo che si identifica col panteismo…assoluto impegno umano… virile tenerezza… ininterrotto sentimento del divino…». E Baldacci: «religiosità creaturale… magico quotidiano… perpetua meraviglia». Infine Zanzotto: «quotidianità e brusca umiltà verso il mondo… sghemba allegria… consolazione e insieme gioia, anche un po’ stranita… luce e letizia». Insomma, Carlo Betocchi è tutto da recuperare e rileggere, pure se ormai si fa fatica a trovarlo, come succede ai poeti veri e trascurati.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Tutte-le-poesie-Carlo-Betocchi.html    17 marzo 2016

RECENSIONI

BETOCCHI

CARLO BETOCCHI, TUTTE LE POESIE – GARZANTI, MILANO 2019

“Che ne sarà del vento in Paradiso, / il vento che riporta la memoria”; “Il mio cuore è debole, stasera, / come il sole che lento risale / i tetti, e profonde sono le mie colpe; / ahi! L’uomo, come sempre tramonta”; “Cielo, quel po’ che c’è, oggi, di sole, / un po’ dalle tue nuvole, ti prego, / per il mio freddo lascia trasparire”; “C’è soltanto della pura gioia, nello stridìo / delle rondini, o anche un fitto / dolore?”; “Le stanze sono poche: la tua tosse / erra di stanza in stanza: il mio silenzio / è ovunque, quieto, strano, come fosse / lui solo”.

Sono alcuni dei folgoranti incipit delle poesie che Carlo Betocchi (straordinario, schivo, dimenticato poeta di paesaggi, di antichi amori domestici) scrisse nella sua lunga e laboriosa vita. Esistenza non puramente da intellettuale, la sua, ma all’inizio da capocantiere, vicina agli operai e alla gente del popolo, quindi da insegnante: imbevuta di una poesia imparata dai classici, fatta propria e prodotta poi con gentilezza sapiente, e con una grazia quasi francescana, da innamorato della natura e della creazione.

Betocchi nacque a Torino nel 1899 da una famiglia di lavoratori: il padre ferroviere dovette trasferirsi a Firenze quando lui aveva sette anni, e morì nel 1911 lasciandolo appena adolescente con la mamma e due fratelli minori. Formatosi nell’ambito di un cattolicesimo tradizionale e fervente, diplomato perito agrimensore, combatté nella prima guerra mondiale e poi volontario in Libia. In seguito lavorò come geometra edile, spostandosi in varie città italiane e francesi, ma mantenendo un entusiastico interesse per la letteratura, soprattutto di ispirazione religiosa. Fraterno amico di Piero Bargellini e Nicola Lisi, frequentava a Firenze gli scrittori e i critici del circolo ermetico (Luzi, Bo, Caproni), collaborando alle maggiori riviste culturali dell’epoca: Il Frontespizio, la Fiera letteraria, L’Approdo.

Attraverso un linguaggio diretto e colloquiale, un lessico privo di ricercatezze e sperimentalismi, una metrica basata sulla musicalità più lineare e cantilenante, a partire dalla prima raccolta del 1932 –  Realtà vince il sogno –, Betocchi descriveva la vita quotidiana delle città, dei cantieri, delle officine e dei campi, gli affetti domestici i panorami sereni e colorati, dal cielo cristallino e dalle campagne verdi, manifestando una lieta serenità verso l’esistenza e un affettuosità fraterna nei riguardi dei viventi e della natura, restando invece indifferente ai richiami del successo economico e della celebrità mondana: “Al declinare impallidito / ti vedo, giorno infinito; / va la solitaria luna, / terra, sassi, deserta schiuma”.

Di questo primo periodo poetico, Giovanni Raboni sottolineò “la profonda veridicità, la natura essenzialmente, intimamente realistica”, venuta trasformandosi nel tempo in senso “disperatamente diaristico e introspettivo”. Ne è testimonianza l’evidente cambio di registro stilistico negli argomenti spirituali, che da una religiosità naturale e festosa passa all’interrogazione cupa e dolorosa della stagione finale, messa a dura prova da lutti e malattie, quando la fede divenuta meno candida e festosa, si fa più intima, interrogante e dubbiosa: “Oh, da vecchio, andarsene con i lunghi passi della prosa! (…) Diranno: – Com’è cambiato! È diventato un altro!”, “Lascio me stesso a me stesso, / un disutile arnese: / meglio ancora: non lascio nulla, non esisto”, “Silenzio. È la mia vita / che dice silenzio. / Non dimentica, ma tace”.

Carlo Betocchi morì a Bordighera, il 25 maggio 1986, quai novantenne. Le sue poesie sono state raccolte in diverse antologie, edite dai nostri maggiori editori. La pubblicazione più recente si deve a Garzanti, e riporta giudizi e recensioni ammirate di molti critici e poeti.

Così ne scrive Pasolini, ad esempio: “poesia piena di pace, verrebbe voglia di dire di benessere… inspiegabilità dovuta a un suo anacronismo… attenzione per le cose… pansensualismo che si identifica col panteismo… assoluto impegno umano… virile tenerezza … ininterrotto sentimento del divino…”.

E Mario Luzi: “L’umiltà è in Betocchi la coincidenza di un fervido e innato sentimento creaturale con una vigorosa e davvero rivoluzionaria intuizione conoscitiva e creativa”, Carlo Bo ne esalta soprattutto la figura umana: “Non ho mai visto tanto naturale distacco nei confronti della propria piccola fama, così come non mi è mai capitato di trovare una così piena corrispondenza fra l’uomo e il poeta”. Mentre Luigi Baldacci parla di “religiosità creaturale… magico quotidiano … perpetua meraviglia”. Infine Andrea Zanzotto: “quotidianità e brusca umiltà verso il mondo… sghemba allegria… consolazione e insieme gioia, anche un po’ stranita… luce e letizia”.

Luce, letizia, meraviglia, umiltà, benevolenza: ovviamente non si parla di un santo o di un monaco, ma di un poeta dallo sguardo capace di posarsi con trasparenza e lievità sulla realtà circostante, non sterminata materialmente, ma spiritualmente profonda e vitale.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 6 giugno 2024

 

 

 

RECENSIONI

BETTARINI

MARIELLA BETTARINI, HAIKU ALFABETICI – IL RAMO E LA FOGLIA, ROMA 2021

Mariella Bettarini (Firenze, 1942) poeta, saggista, scrittrice e traduttrice italiana, ha svolto nell’ultimo mezzo secolo un’importante funzione aggregatrice di giovani talenti letterari, fondando riviste di poesia autogestite (Salvo imprevisti, L’area di Broca) e la casa editrice Gazebo.

Definita da Giuliano Manacorda “una delle voci più coraggiose e più originali nel campo delle iniziative culturali e della produzione poetica”, si è sempre prodigata intellettualmente in un incisivo lavoro di sensibilizzazione politica e femminista. Scrittrice feconda, ha da poco pubblicato la raccolta di poesie Haiku Alfabetici, in cui si rincorrono versi in forma di haiku, elencati alfabeticamente dalla A alla Z e raggruppati a tema, con argomenti che spaziano dalla natura alla scienza, dai sentimenti alla socialità: attenta sempre a un’esigenza comunicativa aperta e solidale con l’habitat umano e ambientale che ci circonda.

In questa sua originale rassegna, che partendo da Animali arriva a Zenith, con tappe significative che esplorano soprattutto atteggiamenti interiori dell’anima (Bene, Cuore, Dono, Ricordi, Gioia, Luce, Umanità, Vita), ha segnato un percorso emotivo di illuminazione personale, generosamente trasmesso ai lettori utilizzando la sinteticità dei tre versi canonici della millenaria composizione orientale. “Che cos’è gioia? / Misterioso pensiero / gioia – sì gioia // Gioire come? / Condividere gioia / è maggior gioia // Eppure gioia / è solitaria speme / solinga gioia // Viva la gioia / gioia non solitaria / sì – condivisa // Dunque che cosa? / Gioia contraddittoria / sempre gioiosa”).

Secondo la postfatrice del libro Annamaria Vanalesti, Bettarini “ha costruito una trama sottile, che fa da mappa del vivere, rilanciando a chi legge la sfida di riorganizzare il proprio itinerario esistenziale, ripercorrendolo con maggiore attenzione verso tutto ciò che si dà per scontato e che invece ha perso significato”. Nel riconoscere la gratuità della limpida purezza che ci viene offerta, la poeta esprime la propria gratitudine in un entusiastico omaggio alla luce: “Illuminante / luce che illumini / tu luminosa // Viva lucente / tu che il buio allontani / fammi tu luce // Ti dico grazie / per quello che ci doni: / luce – sì – luce // Se tu non fossi / come faremmo – oscuri / cuori oscurati? // E invece vivi / vivacemente vivi / di vita fonte”. Un’altra manifestazione di lieta adesione alla bellezza materiale del creato, nella convinzione quasi francescana della radice comune di tutto l’esistente (uomini e donne di ogni razza, animali e piante, ma anche aria, fuoco, terra e acqua) si trova nella fresca cinquina di versi dedicata alle foglie: “Stupende foglie / creature viventi / cuor di fogliame // Che dire – dirvi / o foglie maternali? / Son figlia vostra // Quando stormite / con voi l’anima canta / la mente vola // Quando cadete / ci pieghiamo con voi / voi aspettiamo // E sempre sempre / ci è sicura compagna / la beltà vostra”.

Persino la fine (sorella morte, diceva il Santo) è avvertita come traguardo luminoso da raggiungere, nella certezza di un approdo sicuro e confortante cui arrivare dopo un’esistenza spesa nel dono e nel per-dono, nella fratellanza, nella fiducia verso l’altro da sé: “Eccomi giunta – / eccomi – sì – allo zenith – / eccomi giunta // Cos’è lo zenith? / è – sì – l’intersezione / tra l’orizzonte… // … e tutto il cielo – / il cielo che sta sopra – / sopra la testa // E perché zenith? / zenith che non è nadir – / e perché zenith? // Zenith – sì – zenith? / perché è amico del Sole – del Sole amico”. La pace come obiettivo finale da porsi, quindi, come sigillo a una promessa fatta a se stessi e alla comunità amicale in cui si è inseriti, alla koinè espansa che tutto e tutti raccoglie, simbolizzata dalle lettere dell’alfabeto, dalla A iniziale alla Z conclusiva.

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net  12 aprile 2021

RECENSIONI

BETTI

RICORDANDO UGO BETTI

Per nostra fortuna, c’è stato chi ha avuto l’intelligente idea di riprodurre su YouTube alcune rappresentazioni teatrali (ormai pressoché introvabili nelle versioni a stampa) di Ugo Betti. Possiamo così fruire non solo di magistrali interpretazioni di attori del calibro di Buazzelli, Randone, Mauri, Salerno, Gassman, ma anche apprezzare testi di elevato spessore etico, e di intenso impegno civile. Nato a Camerino nel 1892, Ugo Betti si trasferì con la famiglia a Parma a nove anni, in seguito alla nomina del padre a direttore dell’ospedale municipale di quella città. Qui si laureò in legge, iniziando contemporaneamente a occuparsi di letteratura. La prima guerra mondiale lo vide arruolarsi come “volontario ciclista”, e in seguito come ufficiale di artiglieria. Venne fatto prigioniero dopo Caporetto e internato a Rastatt, insieme a Carlo Emilio Gadda e a Bonaventura Tecchi, con cui strinse un importante sodalizio affettivo e intellettuale. Tornato in Italia, intraprese la carriera di magistrato a Parma, mentre la passione per il calcio lo portò a giocare nella squadra cittadina, di cui divenne poi dirigente. Dopo il matrimonio, si trasferì a Roma ricoprendo il ruolo di giudice della Corte d’Appello, quindi di archivista al Palazzo di Giustizia e infine di consulente legale per la Siae. Nel 1945 fu cofondatore, insieme a Diego Fabbri, Sem Benelli e Massimo Bontempelli, del Sindacato Nazionale Autori Drammatici (SNAD), impegnandosi nella difesa dei diritti degli scrittori teatrali. Morì per un tumore a 61 anni, nel 1953.

Si era affermato già dalla giovinezza come poeta (Il re pensieroso, Canzonette La morte, Uomodonna), e soprattutto come drammaturgo, tradotto e rappresentato con successo in tutto il mondo: La padrona (1926), La casa sull’acqua (1928) e L’isola meravigliosa (1929) furono tra le sue prime opere di rilievo, ma i drammi che lo resero famoso furono principalmente Frana allo scalo nord (1932), Corruzione al palazzo di giustizia (1944), e Delitto all’isola delle capre (1948). I suoi lavori sono pervasi dalla pessimistica convinzione dell’impossibilità di vincere il male attraverso il perseguimento del bene, ottenendo giustizia durante la vita terrena, e dalla speranza di un riscatto e di un compenso all’infelicità dopo la morte. La sua produzione è spesso stata sottovalutata in Italia, mentre all’estero (soprattutto in Inghilterra) ha trovato accoglienza entusiastica sia tra il pubblico sia da parte della critica, e viene ancora oggi studiata e discussa a livello accademico. Negli anni giovanili lo stile intimista di Betti lo aveva reso inadatto al teatro popolare a cui aspirava il fascismo e successivamente, dopo la liberazione, il suo pensiero e la sua estetica si scontrarono sia con la cultura filo-marxista, sia con il cattolicesimo più retrivo. “Quasi un dimenticato”, lo definì lo scrittore friulano Carlo Sgorlon nel 1984, dopo che il trentennale della sua morte era stato colpevolmente trascurato dalla sua città natale e da tutto il mondo letterario nazionale. E in effetti, oggi Ugo Betti non viene più letto né rappresentato, nemmeno nei drammi giudiziari che meriterebbero invece l’interesse dovuto a questioni vitali e ancora attualissime nel nostro paese. La produzione in versi di Ugo Betti risulta piuttosto datata, e poco accattivante per il lettore contemporaneo, situata com’è tra il fiabesco e il didascalico, risentendo di influssi crepuscolari nello stile, di una ridondanza di sentimentalismo e retorica nei contenuti: le poesie esplorano il paesaggio in toni idilliaci, gli affetti familiari e il mondo del lavoro con un manierismo che può risultare stucchevole, insistito inoltre in una resa musicale che richiama le filastrocche infantili e gli stornelli folkloristici. Tutt’altra corposità hanno i testi teatrali, a partire dal più famoso Corruzione al Palazzo di Giustizia (1944), da cui fu tratto uno sceneggiato Rai nel 1966 e un film con Franco Nero nel 1975. “Il Palazzo poi è la miniera, è il pozzo, è il nido, del malcontento, dei sussurri. Comincia uno a spargere calunnie, l’altro seguita, il giorno dopo sono dieci, venti e poi… È come una cancrena che si allarga”, dice uno dei giudici protagonisti all’inizio del dramma. La scoperta del cadavere di un potente faccendiere all’interno del Palazzo di Giustizia di una innominata “città straniera” scatena una guerra di sospetti e accuse, insinuazioni e colpevoli silenzi che coprono enormi interessi economici, in un’atmosfera che si fa via via nel corso dello spettacolo sempre più angosciosa e allucinata. Alla base del diabolico gioco al massacro sembra esserci la successione al ruolo di Presidente, occupato dal debole e stanco giudice Vanan, stretto tra le ipocrite ambizioni dei colleghi e la consapevolezza di non aver sempre agito con specchiata correttezza. All’interno del Palazzo si consumano tradimenti e suicidi, viscidi asservimenti al potere e al denaro, complicità e ribellioni. Il rapporto esistente tra legalità e arbitrio, tra diritto e umanità, che oscilla tra la descrizione cronachistica e la riflessione metafisica, domina anche in un altro famoso dramma di Betti, risalente addirittura al 1932, al primo decennio fascista, con le sue censure e le persecuzioni, i fanatismi ideologici e l’idealizzazione di un collettivismo rivoluzionario, in realtà intriso di oscurantismo e repressione. In Frana allo Scalo Nord l’autore si rifà ad un’esperienza autobiografica, quando ‒ agli albori della sua professione di magistrato ‒, si era occupato in un saggio giuridico delle responsabilità individuali e collettive negli incidenti ferroviari. Le sequenze teatrali dell’opera, giocate tra interni ed esterni, silenzi improvvisi e urla di dolore e protesta, luce accecante e buio, ricalcano le fasi di un’istruttoria giudiziaria, con interrogatori di testimoni, perizie tecniche, sopralluoghi nei cantieri e dibattiti nelle aule del tribunale: colpe e omissioni, responsabilità personali e politiche, assurgono a metafora dell’intera esistenza umana, nella concatenazione di eventi più o meno prevedibili ma comunque tragici. Nel testo si intrecciano considerazioni sociologiche e analisi psicologica, con un’attenzione molto moderna ai conflitti tra proletariato e classe dominante, e una premonitrice sensibilità verso le istanze ecologiche. La condanna etica del profitto economico privo di scrupoli si esplicita nella coscienza tormentata del giudice Parsc, costretto a emettere un verdetto che alla fine risulterà di assoluzione: la ricerca di colpe individuali nel corso delle indagini e del processo si trasforma in una severa analisi del sistema capitalistico, ciecamente finalizzato al guadagno, e in un sentimento di pietà e comprensione per il destino di tutti gli esseri umani, ugualmente vittime di ingranaggi crudeli di sfruttamento e morte, nella lotta eterna e ineliminabile tra bene e male.

 

© Riproduzione riservata                            «Il Pickwick», 28 agosto 2018

 

RECENSIONI

BETTIN

GIANFRANCO BETTIN, CRACKING – MONDADORI, MILANO 2019

In questi giorni in cui Venezia e il suo hinterland sono saliti drammaticamente alla ribalta, il nuovo romanzo di Gianfranco Bettin (Marghera 1955) ci introduce nei sulfurei meandri di un sistema produttivo e culturale veneto rischiosamente alterato, tra fabbriche dismesse, acque inquinate, effluvi di gas cancerosi, giovani allo sbando e un sottoproletariato rabbioso, nella tradizione di narrativa industriale che la letteratura nostrana ha colpevolmente abbandonato. Bettin nel 1989 aveva ottenuto un lusinghiero successo con Qualcosa che brucia – pubblicato da Garzanti e ripreso da Baldini Castoldi nel 2003 -, romanzo in cui descriveva la degradazione della Venezia mercantile, tra l’abbrutimento del lavoro nei capannoni, consumo e spaccio di droghe, rapporti interpersonali ridotti a violenza, sopraffazione, sfruttamento.

In Cracking, uscito quest’anno da Mondadori, persiste nel suo determinato e riconosciuto impegno civile e politico, già attestato da una lunga militanza nel Partito dei Verdi e nella sinistra radicale, e da un’attività di scrittore transitante dal reportage alle collaborazioni giornalistiche e ai romanzi di invenzione.

Cracking narra la vicenda umana di Celeste Vanni, operaio in pensione del Petrolchimico di Porto Marghera, ossessionato nella quotidianità e nell’inconscio dall’incubo degli effetti venefici provocati dall’inquinamento dell’ambiente naturale e sociale. In una gelida notte d’inverno del 2014, il protagonista, protetto da un pesante abbigliamento da scalatore, si arrampica sulla ciminiera più elevata della zona portuale della laguna di Venezia. Dall’alto osserva lo spettrale panorama che gli si apre davanti: i pochi impianti rimasti in funzione, e poi tralicci, gru, torri di raffreddamento, la centrale elettrica. Più in là, nel porto, le luci dei cantieri navali, i transatlantici in attesa, i carriponte con i nastri trasportatori; la ferrovia con i treni in transito e i binari morti coperti dalla vegetazione. Una visione spettrale che, avendo fatto da sfondo alla sua vita intera, adesso riconsidera con affettuosa malinconia mista a rancore, abbandonandosi ai ricordi della giovinezza e del suo passato lavorativo.

Cosa ci fa un robusto pensionato sessantenne, appollaiato nel buio stellato e ventoso di gennaio, a 150 metri dal suolo, in un temerario atteggiamento da cospiratore, avvolto dalle “sapide esalazioni che salgono dalla terra incarbonita: arsenico, furani, diossine, metalli pesanti”? E soprattutto, chi è Celeste Vanni? Bettin ne ripercorre la vicenda esistenziale, comune a molti operai nati nel dopoguerra e cresciuti sul litorale veneto all’epoca dell’industrializzazione incontrollata: vita scissa tra un’occupazione ripetitiva e sfibrante, l’impegno politico e sindacale, il volontariato, con poche pause ricreative offerte dallo sport, dalle scarpinate in montagna, dalle cene con gli amici. Accanto a lui, a sostenerlo con fedele dedizione, la moglie Rosi, sua compagna dall’adolescenza. Entrambi orfani presto, figli dello stesso retroterra povero e rivoltoso, lei lo aveva aspettato quando era finito in carcere per rapina, convertendolo a una realtà più laboriosa e tranquilla. Celeste faceva i turni al Petrolchimico, Rosi la cameriera nella locanda dello zio. Alla morte della moglie per cancro, lui si ritrova solo e spaesato, ma deciso ad agire per salvare quello che resta della dignità di un territorio calpestato.

La storia privata del protagonista si intreccia, nella narrazione secca e puntuale di Bettin, con la storia sociale e politica della nostra nazione, nelle sue pieghe più drammatiche e scandalose, con la strage dei morti sul lavoro, la contaminazione dell’ecosistema a lungo negata, le malattie professionali derivate dagli effetti tossici del cloruro di vinile e di altri agenti chimici. L’indignazione dell’autore, militante ecologista, si fa tangibile nella descrizione documentata dell’avvelenamento metodico e programmato dell’intera laguna, in un lungo elenco di acidi, solventi e fosfati dai nomi impronunciabili. Poi il suo punto di vista si allarga su diversi fatti tragici che dagli anni di piombo fino al nuovo millennio hanno colpito Marghera e il basso Veneto: le attività criminali della banda del Brenta, l’uccisione di due dirigenti e di un commissario di polizia da parte delle Brigate Rosse, l’infiltrazione capillare di mafia e ’ndrangheta nella regione. La malavita nei decenni si era evoluta: dalle rapine e dallo spaccio di droga aveva allargato i suoi tentacoli sullo smaltimento dei rifiuti, sulle operazioni di bonifica e il riuso dei terreni inquinati, sulle gare di appalto, sulla conversione di fabbriche decotte. Nemmeno gli ingenti flussi di turismo verso Venezia erano rimasti indenni da corruzione e delinquenza organizzata.

L’industria chimica lentamente e inesorabilmente era stata smantellata secondo un preciso piano politico-finanziario-industriale, falcidiando vittime tra gli operai e le loro famiglie. Celeste Vanni pensa a loro, alla fabbrica cui ha regalato decenni di vita, all’unico reparto di cracking rimasto in funzione per spezzare le molecole pesanti del petrolio trasformandole in composti organici più leggeri, di idrogeno e carbonio. Pensa ad altri “cracking”, a fallimenti personali e collettivi che gli hanno sconvolto l’esistenza. Ha in mente una “cosa semplice ed estrema”, un atto dimostrativo di solidarietà verso i compagni che hanno perso il lavoro. Indossa l’imbracatura da montagna e con una lunga fune si cala fuori dalla ringhiera di protezione, lasciandosi penzolare nel vuoto.

Centocinquanta metri più sotto si radunano poliziotti, giornalisti, lavoratori. I video e le foto che lo ritraggono “appeso là in alto, messo a fuoco in primo piano, che sembri un Cristo in cielo…”, vengono trasmesse sui media internazionali. L’anziano operaio Celeste Vanni, oscillante nel buio della notte come un’ultima e coraggiosa bandiera di libertà e ribellione, diventa simbolo di lotta, resistenza e denuncia, contro un’economia corrotta, pronta a sacrificare uomini in favore del profitto economico.

 

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20 novembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BETTINI

MAURIZIO BETTINI, A CHE SERVONO I GRECI E I ROMANI? – EINAUDI, TORINO 2017

Leggendo questo interessante volume di Maurizio Bettini, professore di Filologia Classica   all’Università di Siena, scrittore e strenuo difensore (e diffusore) della cultura umanistica, mi è tornata alla mente la domanda che mi rivolse mio padre, tecnico cartario con una propria azienda meccanica, quando gli comunicai l’intenzione di iscrivermi alla facoltà di Lettere Antiche: “A cosa ti serve studiare il passato? Almeno imparassi il greco moderno…” Se adesso mi fa sorridere ricordare il suo ingenuo pragmatismo, allora – finito il liceo – mi ero sentita incompresa e umiliata.

Quindi, A che servono i greci e romani? Forse è il caso di mettere in discussione proprio il concetto di “servire”, di scopo e utilità, come giustamente fa Bettini ad apertura di volume. Pare che agli occhi di economisti e politici le creazioni culturali “non servano” a nulla: tuttalpiù vengono prese in considerazione solo nel caso producano beni da consumare e da cui trarre profitto. Infatti abbondano metafore tratte dal mondo finanziario e commerciale per indicare “i prodotti” della cultura: beni, patrimonio, offerta, crediti, risultati, valorizzazioni ecc. Mentre già Gaetano Salvemini aveva affermato negli anni ’50 che «la coltura è la somma di tutte quelle cognizioni che non rispondono a nessuno scopo pratico, ma che si debbono possedere se si vuole essere degli esseri umani e non delle macchine specializzate. La coltura è il superfluo indispensabile».

Una necessità, dunque, un lusso che dobbiamo poterci permettere e meritare. E all’interno della produzione culturale, che ruolo occupano gli studi classici, quali bisogni soddisfano, quanta attenzione devono pretendere da noi? Il nostro paese gode di un incredibile privilegio: è naturalmente, felicemente, gratuitamente erede di un’eccezionale tradizione culturale, che gli deriva da più di due millenni di storia, di arte, di letteratura depositata in monumenti, affreschi, poesie, opere teatrali, testi filosofici. Tracce che racchiudono come in uno scrigno prezioso la memoria di una civiltà, che per secoli ha saputo tramandarsi nelle generazioni, arricchendole, ispirando ogni nuova produzione artistica. Se non ci fosse stato Virgilio, forse non avremmo avuto Dante, senza Ovidio Ariosto avrebbe scritto qualcosa di diverso; quanto devono Machiavelli a Livio, Galileo a Lucrezio, Leopardi a Catullo? I classici sono la nostra memoria collettiva, un’enciclopedia condivisa da tutti gli italiani, che si esprime in primo luogo attraverso una lingua ricalcata sul latino, in un meccanismo di continuità culturale individuabile non solo nel lessico e nella sintassi, ma anche in un patrimonio comune di immagini, di leggende, di miti. Un classico, secondo Italo Calvino, «è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire». Per Maurizio Bettini, è un’opera letta e studiata da molte generazioni di individui, tanto che la sua sostanza si è fusa con quella della cultura successiva.

Perché questa prestigiosa memoria culturale non vada persa (e già si sta privilegiando una trasmissione orizzontale del sapere, trascurando invece la sua dimensione verticale, diacronica) dobbiamo rivitalizzarla, nutrirla, riaccenderla attraverso nuove strategie didattiche.  Nella scuola, in primis, ma anche nell’editoria, nelle produzioni musicali, televisive, cinematografiche. L’insegnamento delle lingue classiche è oggi cristallizzato in formule stantie e inadeguate. Bettini propone una drastica rivoluzione nei programmi scolastici, con l’inserimento di attività in grado di suscitare più interesse e entusiasmo negli alunni. Rielaborazione e messa in scena di testi teatrali; reception studies che rintraccino la presenza dei classici nelle opere letterarie e artistiche attuali; approfondimento di strategie comunicative attraverso i testi della retorica antica; visite guidate a musei e siti archeologici. Ma soprattutto confronto con l’alterità del mondo classico, con la sua diversità nei modelli religiosi, familiari, politici, legali rispetto a quelli della nostra epoca. Gli insegnanti dovrebbero riuscire a suscitare negli allievi una curiosità arricchente proprio nei confronti dell’antichità, incoraggiandone lo studio nelle analogie e nelle differenze con la società contemporanea, individuando nel latino e nel greco le particolarità lessicali e di struttura sintattica che le rendono lingue tanto vicine e altrettanto lontane dalla nostra. I classici esprimono quindi una realtà alternativa a quella che viviamo quotidianamente: la lettura di questo volume ci invita, con entusiasmo e appassionata vivacità, a riscoprirla.

 

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RECENSIONI

BIAGINI

ELISA BIAGINI, DA UNA CREPA – EINAUDI, TORINO 2014

Giustamente la quarta di copertina di questo libro di versi di Elisa Biagini (Firenze 1970) sottolinea nella scrittura poetica dell’autrice l’ossessione per il corpo. Per offrire al lettore un inventario dei termini anatomici utilizzati, se ne può abbozzare un elenco: bocca, lingua, labbra, palato, gola, saliva, fronte, orecchio, lobi, occhio, palpebra, pupille, capelli, mano, dito, unghia, polso, braccia, scapola, prima cervicale, piede, rotule, caviglie, polmone, cuore, ombelico… Una sorta di esibizione, più che una rappresentazione, della fisicità materiale di cui siamo composti, in singoli elementi quasi stilizzati, e resi artificialmente come nella destrutturazione della pittura cubista e futurista, che se ci spingiamo alla contemporaneità, può anche ricordare i calchi plastificati delle sculture di John De Andrea, in cui la vita pare assente, e la carne diventa un simulacro sintetico. Il corpo spezzettato è reso formalmente nella frantumazione dei versi: brevi, martellanti, irrigiditi nel rifiuto di qualsiasi abbandono lirico. Il corpo, proprio ed altrui, è avvertito minacciosamente armato, arroccato in difesa o pronto all’attacco, come si evince dall’uso frequente di una terminologia aggressiva: ascia, forbici, lama, spillo, spigolo, spine, fil di ferro, coltello, freccia, morso. Con la ricorrente “crepa” che dà il titolo al volume: «e la schiena si / crepa, astuccio / di semi / che spingono» (da notare l’inclemenza degli enjambements, che intervengono severamente a tagliare i versi). Il rapporto con l’altro da sé è vissuto all’insegna dell’incomunicabilità, con amara rassegnazione e totale disincanto: «La scapola è già l’ascia / tavoletta di leggi non scritte: / affatica l’abbraccio / impiglia l’indicare / torce il crescere»; «parliamoci / come tolte / le calze, prima che / la lingua collassi / e ci s’inciampi»; «la voce s’imbianca di / silenzio, le ombre / s’infittiscono tra i denti». E insomma sembra che il corpo, più che a relazionarsi con l’esterno, serva ad alimentare incubi: «C’è uno che ha i miei occhi / li strizza come spugna dopo / i piatti, li tira come lenzuoli,  / li incastra a fermare le porte»; «La saliva non usata prima // chiude le fessure tra i / denti, poi mura la // lingua al palato». Anche la pausa ristoratrice che potrebbe essere rappresentata da una gita, si trasforma in una angosciosa discesa agli inferi, in una miniera di sassi, polvere, pirite, buio e caldo (La gita), al cui interno l’altro diventa fantasma irraggiungibile : «Ci cerco, a noi due: / tu nube di memoria, / io che mi sfuggo / come di mercurio, / tremito di termometro / che ingoio, vetro e tutto». Una poesia scolpita, questa di Elisa Biagini, concretissima e visionaria, anche nei riferimenti letterari a cui rende esplicito omaggio, traendone spunto per un collage tormentato e radente: Paul Celan e Emily Dickinson, dalle cui fessure di angosciosa bellezza ricava materia e ispirazione: «come su foglio / accartocciato / che si liscia / resta il / segno // crepa / a colarci / l’inchiostro. // (noi ci imbeviamo / d’infiniti spigoli.». Una sorta di allucinato film surrealista alla Buñuel, in cui il corpo rimane ostaggio non tanto di divinità crudeli, quanto di una assurda e silenziosa assenza di significato, in un’estraneità reificante.

 

«Poesia» n.305, giugno 2015