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BIANCHERI

BORIS BIANCHERI, LA TRAVERSATA – ADELPHI, MILANO 2012

Boris Biancheri (Roma, 1930-2011) ha pubblicato nel 2012 presso Adelphi questo prezioso libriccino, scritto in una prosa piana ed elegante, come si addice da sempre alla più raffinata delle nostre case editrici,  con un’allusiva copertina equorea, di un mare blu solcato da spume bianche e dalle bracciate composte di una figura femminile. Protagonista della narrazione è infatti una ragazza, Eileen Lightwing, nata da una famiglia siculo-britannica che a Marsala aveva fondato una redditizia azienda vinicola. Adolescente strana, Eileen, non particolarmente bella né particolarmente intelligente, di scarse parole e scarsi sorrisi, estranea alle abitudini e convenzioni del suo ambiente sociale e refrattaria alle frivolezze dei coetanei: «Era poco portata alle cose terrestri e più adatta a quelle del cielo e del mare».

Due sole cose infatti attiravano il suo interesse: la luna (osservata e studiata con appassionato trasporto, e ridisegnata in minuziose fantasmagoriche mappe) e il nuoto, a cui dedicava ore e ore delle sue solitarie giornate: perché solo nella “liquida pace” dell’acqua marina «sentiva sciogliersi i nodi che aveva nella testa e nel cuore».

Biancheri si immerge con la ragazza nell’elemento avvolgente e amniotico del mare siciliano, facendo di lei una incantata e leggiadra sirena, indifferente al mondo, tesa unicamente all’unico elemento da cui si sente compresa in un abbraccio materno e protettivo: «Nulla come nuotare sino al limite dello sfinimento dà il senso di essere vivi senza essere tenuti agli adempimenti della vita. Nulla quanto l’assoluta disciplina si avvicina all’assoluta libertà». Eileen viene casualmente scoperta come atleta da una rampante giornalista inglese, che le propone di attraversare la Manica per superare il primato femminile di nuoto in solitaria, e la costringe a estenuanti allenamenti in Sicilia, a Malta, in Inghilterra. Sfide a cui la ragazza si sottopone con remissiva obbedienza, ma anche con sostanziale distacco, avendo come unica passione e finalità il suo rapporto avvolgente con l’acqua. Vincerà quindi la gara, esaudendo docilmente le aspettative dei media e della famiglia, ma poi si sottrarrà, per il resto della sua esistenza, al rapporto fagocitante con una società che non la capisce e di cui non condivide i valori, scegliendo un approdo quasi mistico nella comunità teosofica ticinese di Monte Verità, composta da esuli dell’anima, innamorati dei boschi e della luna.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/La-traversata-Boris-Biancheri.html      28 aprile 2016

 

RECENSIONI

BIANCHI

ENZO BIANCHI, TRISTEZZA – SAN PAOLO EDIZIONI, MILANO 2013

Che librino inutile e supponente, questo di Enzo Bianchi, assiduo e loquacissimo frequentatore di quotidiani, riviste, festival culturali, radio e tv. Disposto tranquillamente a soprassedere alla regola monacale del silenzio, qui invita a sfuggire la tristezza, in cinque blandi paragrafetti corroborati da alcune massime dei Padri della Chiesa. Per S. Paolo c’è una tristezza secondo Dio (buona) e una secondo il mondo (cattiva), e Bianchi afferma che se la prima è una riflessione compunta che può ricondurre al bene, l’altra è un vizio, “uno stato di letargo in cui la vita appare senza luce”. Il nostro peccato di creature sfiduciate e pessimiste risiede in un rapporto sbagliato con il tempo, con un passato che idealizziamo e un futuro che mitizziamo, trascurando di aderire alla realtà del presente, da accogliere invece con gioia e gratitudine, perché “solo l’oggi di Dio” può determinarci. In cosa consiste la tristezza, secondo Bianchi? In pratica va limitata a due sentimenti, molto simili e diffusi anche tra i religiosi: l’invidia e la gelosia. “L’invidioso è colui che si sente escluso da un bene che l’altro che gli è accanto possiede: il bene dell’altro è sofferto come male proprio!” Terribile patologia, che nasce dal confronto perdente con il prossimo, a cui ci si sente inferiori intellettualmente, economicamente, fisicamente o caratterialmente. Questo non essere contenti di sé e della propria situazione porta alla sofferenza, alla tristezza. Come uscirne, come abbattere questo “verme del cuore”? Da uomo di Chiesa, il Priore di Bose suggerisce l’unica soluzione dell’apertura a Dio e alla sua Parola, del confronto fraterno col prossimo, della preghiera. Ma nel Vangelo non troviamo mai un Gesù che sorride, e invece lo leggiamo spesso sofferente, irato, rimproverante: allo stesso modo, l’espressione facciale, la gestualità e il tono di voce di Enzo Bianchi non appaiono a noi spettatori particolarmente benevole, rincuoranti, rasserenanti con monacale “letizia”…

IBS, 25 settembre 2015

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BIANCHI-CACCIARI

ENZO BIANCHI-MASSIMO CACCIARI, I DIECI COMANDAMENTI: AMA IL PROSSIMO TUO

IL MULINO – BOLOGNA 2011

Con questo libro si è conclusa la collana del Mulino dedicata ai dieci Comandamenti, iniziativa editoriale pregevole che tuttavia avrebbe avuto un merito maggiore se i due intellettuali chiamati a esprimersi in ogni volume avessero manifestato opinioni davvero contrastanti, oppositive, di confronto anche polemico: e non, come accade anche in questa pubblicazione, avessero finito per convergere su tesi simili, unidirezionali, e tutt’al più appena dissonanti nell’esegesi delle fonti indagate.

Così se Enzo Bianchi approfondisce da credente e religioso il comandamento Ama il prossimo tuo proponendo un documentatissimo excursus che dal Levitico arriva agli Evangeli e alle Lettere Paoline, Massimo Cacciari situa la sua riflessione nello stesso solco, partendo addirittura dal commento della stessa parabola di Luca sul buon samaritano, e accentuandone con vigore la portata eticamente rivoluzionaria. Sia Bianchi sia Cacciari concordano nel sottolineare il “mandatum novum” cristiano che indica nell’amore per l’altro un superamento “eccedente, sovrabbondante, scandaloso, paradossale” della Legge giudaica quando invita ad amare anche il nemico, l’avversario; entrambi evidenziano il carattere di gratuità, misericordia, com-passione che deve sostenere la relazione con il prossimo; entrambi riconoscono la difficoltà insita nel combattere la fatica, il fastidio, a volte la ripugnanza per chi è diverso da noi.

Massimo Cacciari risulta persino più passionale e feroce nella sua disamina di ciò che si deve intendere per “prossimo” – da avvicinare senza pretesa di adeguarlo, o inglobarlo in noi -, per “nemico” – che deve rimanere tale pur nella comprensione -, per “amore”, che è cosa diversa dalla benevolenza, dalla concordia, dall’eros. Ma forse per un lettore sarebbe risultata più provocatoria e pungolante una lettura che contestasse il massimo comandamento, chessò: hobbesiana, stirneriana, nietzschiana, non del tutto e non solo evangelica.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/ama-prossimo-tuo-Bianchi-Cacciari.html      5 settembre 2016

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BIANCIARDI

LUCIANO BIANCIARDI, GARIBALDI – MINIMUM FAX, ROMA 2020

Le edizioni Minimum Fax hanno ripubblicato la biografia di Garibaldi scritta da Luciano Bianciardi cinquant’anni fa: iniziativa lodevole e interessante, poiché si tratta di un testo vivace, scorrevole nella prosa, puntuale nelle ricostruzioni storiche.

Il profilo biobibliografico e la bibliografia dell’autore sono a cura di Fabio Stassi, che mette affettuosamente in luce la tormentata vicenda esistenziale di questo outsider della nostra letteratura, “un fuori misura” che stava “al mondo come per sbaglio”, “l’ultimo bohémien possibile”, come l’aveva definito Giovanni Arpino. Reso famoso dal romanzo La vita agra del 1962 (da cui Carlo Lizzani trasse un film con Ugo Tognazzi), Bianciardi era comunista e irriducibilmente ostile all’establishment culturale italiano che per tutta la vita cercò di ingabbiarlo, ammorbidendone carattere e ideologia. Nato a Grosseto nel 1922, morì non ancora cinquantenne, entrato “in una spirale autodistruttiva”, fatta di alcol, fumo e depressione. Era stato giornalista, straordinario traduttore dall’inglese e ottimo romanziere, nutrendo due grandi passioni: il calcio e il Risorgimento.

Il suo amore per questo periodo storico, iniziato già durante l’infanzia, trovò espressione in ben cinque libri, a partire dal 1960, fino all’ultimo dedicato all’eroe dei due mondi, uscito postumo nel 1972.
Garibaldi ripercorre la vita dell’unico grande condottiero rivoluzionario che ha avuto il nostro paese, a partire dalla nascita avvenuta il 4 luglio 1807 a Nizza, per ironia della sorte città passata alla Francia napoleonica qualche anno prima, poi tornata al Piemonte nel 1815, e definitivamente ceduta oltralpe nel 1859.

Ligure, soprattutto, ma anche francese e in seguito sudamericano, Giuseppe detto Peppino “veniva su dritto e robusto, non grande di statura ma con un bel portamento della testa bionda, della fronte ampia, della bocca facile al sorriso”. Generoso ed entusiasta di tutto, appassionato del mare, si imbarcò quindicenne come mozzo sul brigantino Costanza, dedicandosi da allora in poi alla vita marinara e al disegno insurrezionale di liberare l’Italia dal dominio straniero, trascinato dalla lettura di Saint-Simon e dei proclami mazziniani. Negli anni ’30, quando moti indipendentisti scuotevano tutta la nostra penisola, Garibaldi alimentava il suo anelito libertario: “dovunque vi siano tiranni, l’uomo giusto ha il dovere di accorrere e di battersi per la libertà dei popoli. Non basta amare il proprio paese e difenderne la libertà, occorre far sì che tutti i popoli si tolgano di dosso le catene”.
Condannato a morte in contumacia come cospiratore, riparato a Marsiglia e poi marinaio con tunisini e turchi, nel 1836 si imbarcò per Rio de Janeiro, dove venne accolto con entusiasmo dagli esuli italiani, si mise al servizio di ogni causa rivoluzionaria, a capo di ribelli, rivoltosi e pirati, dando inizio alla leggenda di coraggio e insubordinazione che lo accompagnò per tutta la vita.

Bianciardi racconta l’incontro con la diciottenne Anita, suo grande amore, moglie e madre dei suoi quattro figli, il ritorno in Italia nel ’48 (anno incendiario in tutta Europa) su una nave dal nome augurale, Speranza, il suo mettersi al servizio di principi, re, governi provvisori, a capo di un piccolo esercito di volontari straccioni, braccato dagli austriaci e sempre scampato all’arresto. Piemonte, Lombardia, Toscana, Roma eterna e papalina, Romagna, e qui la morte di stenti di Anita, la sua sepoltura “sconsacrata e frettolosa”.  Di nuovo in fuga, protetto ovunque da una rete di solidarietà popolare, fuggiasco a Tunisi, a Tangeri, a New York, a Panama, a Lima, a Canton, infine tornato in Europa nel 1854, dove ad aspettarlo c’era il re del Piemonte Vittorio Emanuele II con il suo Primo Ministro Cavour.

Il resto è storia, da tutti conosciuta e riportata in ogni libro scolastico: Quarto, Palermo, il notissimo “Obbedisco”, Mentana, Digione, fino al tramonto a Caprera. Tra la solitudine e l’inazione nell’isola sarda e l’elezione a deputato in Parlamento nel ’75, mentre intorno a lui morivano Mazzini, Manzoni, Vittorio Emanuele, Garibaldi malato ma circondato dall’amore dei figli e della terza moglie  Francesca Armosino, dettava il suo testamento, ferocemente anticlericale e fieramente repubblicano, e lasciava la terra il 2 giugno 1882, sepolto a Caprera alla presenza di quattromila persone: ministri italiani e stranieri, vecchi garibaldini, commossi estimatori di tutti i ceti sociali.

Nella postfazione al volume, Giancarlo De Cataldo giustamente sottolinea come da un “anarchico, ribaldo… al culmine di una vita urlata, di un’esistenza ‘contro’” come Luciano Bianciardi, ci si potesse aspettare una demitizzazione, una desacralizzazione della figura di Garibaldi, e non invece un così dichiarato amore, una tale rispettosa fedeltà, da “tifoso accanito”. In realtà, nell’esaltazione del grande combattente rivoluzionario – su cui in anni a noi più vicini era calato il velo dell’indifferenza e di una esibita antiretorica -, lo scrittore toscano aveva ancora una volta messo in luce il suo anticonformismo: “Credere in quella stagione eroica e nella sua persistenza nel tempo è l’atto di fede di un laico che, per quanto disincantato, ha individuato una bandiera nella quale riconoscersi e si ostina a sventolarla ad onta del generale scetticismo”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net             27 SETTEMBRE 2023

RECENSIONI

BIANCONI

SANDRO BIANCONI,  I DUE LINGUAGGI – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Sandro Bianconi, noto sociolinguista ticinese, a un decennio di distanza dal suo discusso Lingua matrigna. Italiano e dialetto nella Svizzera italiana (Bologna 1980), ha pubblicato un nuovo volume destinato, come il primo, a smuovere le acque – piuttosto stagnanti – della ricerca linguistica dentro e fuori il Ticino, e a costituire allo stesso tempo un punto fermo della teorizzazione e un pungolo vivace al confronto. Infatti questo I due linguaggi, edito da Casagrande di Bellinzona, dichiara coraggiosamente e polemicamente i suoi obiettivi già dal sottotitolo (Storia linguistica della Lombardia svizzera dal ‘400 ai nostri giorni) e, in modo più esplicito, nell’introduzione. Definire il Ticino “Lombardia svizzera” è già prendere posizione contro certo sciovinismo e revanchismo che vorrebbero contrapporre la cultura di questo cantone a quelle confinanti, quasi fosse autoctona e assolutamente originale: «Lo spazio oggetto della mia ricerca coincide con quello delle pievi lombarde ambrosiane e comasche, che oggi costituiscono il Canton Ticino. E’ lontanissima da questo lavoro qualsiasi tentazione di riesumare scheletri (tuttora purtroppo presenti in certi armadi), quali “il genio ticinese” e simili. Lo ripeto: queste comunità non sono mai state una realtà unica, a sé stante, svizzere o ticinesi: si farà, quindi, la storia linguistica di una regione lombarda di frontiera, simile alle altre regioni lombarde alpine o prealpine: dal Comasco alla Valtellina alle valli bergamasche…».

Il titolo I due linguaggi sta ad indicare le due anime e le due culture da sempre presenti nella Lombardia Svizzera, tradotte nel binomio lingua/dialetto, in una diglossia vissuta come arricchimento e senza particolari traumi fino a questo secolo, e che solo oggi sembra essere sfociata in uno stato di disagio non solamente linguistico. Il volume si divide in tre parti, corrispondenti a tre periodi storici, e ben enucleate dai titoli : I. Italiani, II. Italiani svizzeri, III. Svizzeri italiani. La prima parte, Italiani, comprende il periodo di totale appartenenza al Ducato di Milano, tra il 1400 e i primi decenni del 1500, quando il ruolo del volgare nello scritto è ancora subalterno a quello del latino, e nei documenti si riscontra un predominio del modello cancelleresco con qualche variante di italiano regionale e presenze di frequenti toscanismi. Nonostante sia questa la sezione ovviamente più ridotta e forse meno stimolante del volume, tuttavia vi si possono ritrovare testimonianze di esemplare ricchezza e interesse sociale: ad esempio la condanna alla tortura di un ladro di Morbio Inferiore, colpevole di aver rubato tra l’altro «un paro de calzette rosse…». La seconda sezione, Italiani svizzeri, è la più consistente sia dal punto di vista quantitativo, sia per l’importanza dei documenti presentati e delle conclusioni raggiunte. Nell’età compresa tra il 1513 e il 1798, tuttora poco indagata dagli storici, caratterizzata dalla dominazione dei cantoni svizzeri e dalla costituzione dei Baliaggi svizzeri d’Italia, la gente ticinese si considerava con ovvietà lombarda, e riteneva Milano e Como tra i suoi veri centri di riferimento culturale: «Il sentimento di identità della gente cisalpina è rimasto costantemente e serenamente italiano sino all’affermazione concreta e definitiva dell’autonomia cantonale verso la metà dell’800!»

Gli elementi di italianizzazione del linguaggio si moltiplicavano allora con evidente vitalità, quasi a garanzia di una maggiore apertura culturale e sociale: i vivaci commerci transalpini, l’emigrazione qualificata di artigiani e artisti, la predicazione e il catechismo cattolico, le scuole parrocchiali e i collegi più esclusivi, tutto contribuiva alla diffusione e alla penetrazione della lingua italiana anche nel Ticino più interno. Fondamentali appaiono qui almeno due aspetti di quelli segnalati da Bianconi: in primo luogo l’importanza dell’emigrazione dei maestri d’arte ticinesi, che ha decisamente contribuito ad aprire le comunità cisalpine al mondo (creando una serie di bisogni culturali nuovi quali l’esigenza di comunicare per scritto con la famiglia rimasta in Svizzera e la conseguente richiesta d’istruzione; l’imperativo di comprendere l’italiano regionale e di adattarvisi; il confronto con esperienze artistiche e urbanistiche diverse e stimolanti); in secondo luogo, il ruolo avuto dalla Chiesa nel campo dell’alfabetizzazione popolare già a partire dal 1300, e più decisamente ancora dopo il Concilio di Trento, per cercare di contenere l’espansione del protestantesimo (e quindi le frequenti visite pastorali dei vescovi di Milano e Como, l’istituzione di seminari, l’apertura di scuole popolari e di collegi, in particolare dei Gesuiti e dei Padri Somaschi).
Sfruttando una vastissima documentazione storica, faticosamente recuperata attraverso accurate ricerche sia in archivi pubblici che in fondi privati quali quello della famiglia Oldelli di Meride, Bianconi riesce ad abbattere un pregiudizio diffuso e confortato da numerose teorie accademiche (cfr. pag. 57, 170, 205: l’autore si contrappone pressoché a tutto il Gotha linguistico italiano, Migliorini, Devoto, Dionisotti, De Mauro, Durante, Bruni, Marazzini…), e cioè che la popolazione delle vallate cisalpine comunicasse oralmente solamente in dialetto, e che l’italiano fosse invece riservato solo ai ceti alti, ai letterati e ai documenti scritti. Sulla base di numerose lettere private, di diari e inventari, di atti processuali e di rapporti ufficiali, Bianconi dimostra al contrario che la competenza almeno passiva dell’italiano era molto diffusa anche tra gli strati bassi della popolazione, e afferma che «la pluralità di usi linguistici, sia scritti che parlati, in funzione di situazioni comunicative diversificate, induce a ritenere plausibile l’esistenza di una situazione di diglossia con bilinguismo sociale sin dal ‘500».

Sempre dalla stessa data, lo studioso fa partire una situazione di bilinguismo italiano-tedesco al livello di dibattimenti processuali e degli atti ufficiali: «L’atteggiamento degli Svizzeri nei confronti dell’aspetto linguistico sembra essere stato, in generale, rispettoso della specificità italiana della popolazione cisalpina, tuttavia con eccezioni: ad esempio, l’imposizione del tedesco nella cause portate davanti ai cantoni sovrani…L’ordinamento amministrativo elvetico e l’adozione di alcuni usi del diritto tedesco portarono ben presto all’introduzione nel lessico regionale cisalpino, di livello ufficiale e settoriale giuridico-amministrativo, di una serie di termini tedeschi…».

Sono le prime avvisaglie di una situazione linguistica difficile, quale quella presa in considerazione nella terza parte del volume, che riguarda il periodo più vicino a noi, quando sorgono le più problematiche crisi di identità per il cantone ticinese, avviato a diventare autonomo e ancora alla ricerca di una propria voce, sempre nell’ambiguità tra accenti svizzeri e italiani. Svizzeri italiani si intitola appunto quest’ultima sezione, in cui Bianconi riesce a cementare le sue tesi linguistiche basandole su ben determinati avvenimenti economici, sociali e di costume, come l’emigrazione di massa, le frequenti carestie, la dichiarazione di autonomia (1803) e l’adozione della Costituzione Federale del 1874, l’apertura della galleria ferroviaria del Gottardo nel 1882 e infine l’istituzione della diocesi di Lugano.

«Questi eventi di natura politica, economica e culturale accentuano e portano a conclusione il processo di formazione dell’identità cantonale e nazionale, nel senso della crescita del sentimento di appartenenza alla Svizzera e di distacco e differenziazione dalla Lombardia e dall’Italia. Questo processo si attua con grosse difficoltà, risentimenti, diffidenze e polemiche… Così che l’identità cantonale finisce col nascere reattivamente e polemicamente, sia nei confronti dei confederati, in particolare degli svizzeri tedeschi, sia nei confronti degli italiani: nella paura di una possibile fagocitazione da nord, col rischio di estinzione economica, culturale e linguistica, e di un’annessione da sud, e quindi cancellazione politica. Nasce in questo periodo, e in questo contesto sociopolitico-economico e culturale, la nuova identità cantonale, ambigua e problematica, inserita com’è nella doppia tensione di appartenenza/esclusione politica, economica, culturale e linguistica, e che sfocia nel progetto illusorio di fondare la propria specificità autarchicamente, nel nome della propria unicità e diversità».

Come si vede, Bianconi non ha paura di usare parole forti per suffragare le sue tesi forti, né di essere accusato di “fare politica” occupandosi di dati storici e sociali, o riportando i dati allarmanti sulle percentuali costantemente calanti di italofoni in Ticino. D’altra parte, la sociolinguistica è scienza solitamente applicata all’indagine del presente, in qualche modo, quindi, “ideologica”, soprattutto quando, come qui, viene adoperata per lo studio del passato. Bianconi si è assunto il rischio di un approccio innovativo e polemico a una materia in genere affrontata con metodi paludati, e giustamente se ne compiace:

«Sono in ogni caso consapevole dei rischi che comporta, malgrado il rigore metodologico e la ricerca dell’oggettività, un approccio contemporaneo al passato,il dialogo tra l’oggi e l’ieri: ma non vedo altra possibilità di fare storia».

 

«Agorà» (Svizzera), 5 luglio 1989

RECENSIONI

BIDOIA

NICOLETTA BIDOIA, COME I CORALLI – LA VITA FELICE, MILANO 2014

Le tre sezioni che compongono il libro di Nicoletta Bidoia ruotano tutte intorno al tema della felicità della narrazione, del racconto in versi, in un linguaggio assolutamente privo di qualsiasi artificiosità, che sembra avere come fine ultimo proprio quello della comunicazione, del rapporto paritario e reciproco con il lettore. «Questo è quello che ho da dirti», sembra suggerire Nicoletta, «e te lo dico in versi»: senza presunzione di innovazione linguistica, di originalità teorica, di abissali profondità emotive. «Pallidi, diremo: Tutto qui? Poi / -misterioso tacere di un impero-  / nell’oblio rimane solo il bianco duro/ di un segreto».

Così si conclude la poesia che dà il titolo al volume, iniziata con queste icastiche parole: «Il corallo è come noi. Pare uno, / ma sono tanti i tremori che lo fanno». Dunque la prima sezione, Novecento, è tutta all’insegna di una recuperata saga familiare così come si è svolta nei decenni di un secolo: nella ricostruzione di una «filigrana di destini», dell’ «albero della vita», di una «dinastia», di «radici» e della «diramazione di un nome». La poetessa narra dei suoi parenti, del nonno ultranovantenne prigioniero nell’ultima guerra, nella «bufera della storia», di parenti suicidi («Quando scese in garage assicurò / il suo saluto al nodo»), oppositori politici, figli illegittimi, rinomati artigiani, vittime di amori clandestini, appassionati di lirica («loggioni come il pane quotidiano, / grande beatitudine, strade e sdegno»). La seconda parte del libro modula le diverse cadenze del silenzio: quello freddo dei morti, quello pudico degli innamorati, o mistico nelle chiese, o commosso da troppa felicità, o colpevole e mortale: «Tradisci così, silenzio, / fragile nascondiglio». La terza sezione, Parlami, è la più eterogenea, con un suo pressante invito al confronto: aperta alla meditazione sulla natura, sull’ingiustizia sociale e politica, sull’amicizia e sull’amore, quasi chiedendo conforto a chi legge in un incalzare di interrogativi che rivelano la propria fragilità, e la fragilità stessa della poesia, insostituibile scandaglio dell’anima: «Ma tu credi davvero a questo temporale nell’afa? / Che rinfreschi la mente arrossata dal pianto? / Che lavi via subito le ore insonni a girarsi / nel rovello di un letto? // Non so, domando».

 

«Leggere Donna» n.163, luglio 2014

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BIETTI

GIOVANNI BIETTI, ASCOLTARE LA MUSICA CLASSICA – EDIZIONI ESTEMPORANEE, ROMA 2012

Il Maestro Giovanni Bietti, considerato uno dei più importanti divulgatori musicali italiani, offre ai lettori in questo importante volume un disamina approfondita di cosa sia la sinfonia classica, quale la sua origine e sviluppo, quali le sue caratteristiche tecniche, attraverso l’esame della produzione dei tre grandi viennesi: Haydn, Mozart e Beethoven. Partendo da una definizione di sinfonia intesa come “genere di musica ‘pura’, assoluta, che non ha bisogno… di nessun significato extramusicale… per essere compresa e apprezzata”, ne traccia brevemente la genesi a partire dall’introduzione ai melodrammi secenteschi (che ebbe come primo iniziatore Alessandro Scarlatti), per indicarne quindi le principali regole di costruzione (i quattro movimenti: allegro, adagio, minuetto o scherzo, finale). Sottolineando il carattere “pubblico” della sinfonia, destinato a un ampio uditorio (a differenza della musica da camera, eseguita da virtuosi per pochi raffinati), ne esalta la funzione sociale, da “grande affresco” in grado di rispecchiare anche le nuove aspettative di un ceto in ascesa, quale la borghesia catalizzatrice di utopie libertarie e di più ampi orizzonti economici. Addentrandosi poi in in una terminologia più specifica, ma sempre con grande abilità espositiva, Giovanni Bietti chiarisce in che modo la “forma sonata”, che ha dominato per due secoli la musica colta occidentale, si suddivida in tre sezioni (esposizione, sviluppo e ripresa), ecletticamente susseguentesi e intersecantesi, e quale ruolo giochino in essa i temi e i motivi fondamentali, in un continuo processo di trasformazione e movimento. Il volume è corredato da due cd che riproducono singoli frammenti di sinfonie, eseguiti dal vivo dall’Orchestra da Camera di Mantova, alternati con approfondimenti al pianoforte in cui lo stesso Maestro Bietti esemplifica i collegamenti tra i diversi temi musicali, soccorrendo così anche l’ascoltatore più profano con una meritoria e pregevole opera didattica.

IBS, 12 marzo 2013

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BIGNARDI

DARIA BIGNARDI, SANTA DEGLI IMPOSSIBILI – MONDADORI, MILANO 2015

Perché si scrivano e si pubblichino libri di reale inconsistenza come questo, rimane un mistero. Credo che nessuno dei personaggi qui tratteggiati da Daria Bignardi, né alcuna delle vicende che li vedono protagonisti, possa rimanere, nella mente di qualsivoglia lettore per più di mezz’ora.
Un matrimonio come ce ne sono molti, certo non felice, ma nemmeno drammatico, tra un Paolo e una Mila che non si cercano e non si capiscono più: tre figli, la dodicenne Maddi (la cui battaglia contro i pidocchi pare essere l’unico terreno di incontro con la madre) e due gemelli vivaci e rompiballe. Milano di sfondo, caotica, inquinata, umana-disumana.
La protagonista quarantenne patisce una piena crisi esistenziale, con tre mezzi suicidi alle spalle, vari tentativi di lavoro, un volontariato a San Vittore presto abbandonato, una degenza ospedaliera in cui viene illuminata sull’esistenza mistica di Santa Rita (che non si comprende quale funzione abbia nella narrazione, se non per la futile coincidenza di aver avuto anche lei, come Mila, un marito Paolo e due gemelli), e una serie di altri episodi abbozzati, casuali, pleonastici: un amico morto durante un’immersione subacquea, una ragazza che si butta sotto la metro, nonni deceduti per cancro, comparsate di improbabili vicini di casa.
Insomma, il nulla raccontato con esibita banalità stilistica, o intollerabile retorica.
Qualche esempio? «…non lo sapevo ancora che nessuno può proteggerti da te stesso, nemmeno chi ti ama», «Non so cosa voglia dire amarsi – l’ho visto fare, forse non l’ho mai provato», «È proprio quello che mi manca: l’amore incondizionato. Anche se sei triste, nervosa, anche se stai male. Soprattutto se stai male». E infine la conclusione, sospesa, lieve, dolcissima: «Li oltrepasso sorridendo per quell’interminabile bacio che non riesco a non osservare, come fosse un tramonto. Oggi non vado a lavorare. Non so ancora dove vado. Però cammino».

Un libro del tutto evitabile, come molti talk-show. Speriamo che Rai 3 (già pallida ombra di quella che fu in passato e ora nelle mani di Daria Bignardi) non esibisca d’ora in poi lo stesso spessore culturale dei romanzi della nuova direttrice.

 

IBS, 23 maggio 2015

RECENSIONI

BILIA

MARIKA BILIA, SIRO ANGELI. PROFILO DI UN POETA – ETS, PISA 2017

Finalmente un libro che, con grande competenza, rende il dovuto merito alla figura intellettuale e poetica di Siro Angeli. È opera di Marika Bilia, una giovane studiosa dell’Università di Pisa, laureatasi nel 2016 proprio discutendo una tesi sull’opera dell’autore carnico. Di lui ricostruisce non solo le vicende biografiche che hanno ovviamente lasciato una forte impronta sulla sua produzione in versi, ma anche dipendenze ed eredità letterarie. A partire dalle raccolte giovanili degli anni ’38-’40, che risentivano di influenze ungarettiane, per passare al volume mondadoriano L’ultima libertà del 1962 “legato a una tematica stilnovistica” (vero e proprio canzoniere d’amore per la prima moglie morta precocemente), e al più impegnativo e civilmente impegnato Grillo della Suburra nelle due edizioni del ’75 e del ’90, fino ai conclusivi Matia mou e Da brace a cenere. Accanto a questa produzione in lingua, Marika Bilia prende in esame la poesia in friulano, che riattivò in Angeli il legame profondo con la terra d’origine, rinsaldato anche dalla sceneggiatura e dall’interpretazione come attore principale nel film di Vittorio Cottafavi Maria Zef, del 1980. Un capitolo fondamentale dell’opera è dedicato all’esplorazione della poetica angeliana, da sempre tesa non solo a una vitale comunicazione di esperienze con il lettore, ma anche a un insegnamento etico, esplorativo di una realtà trascurata, misteriosa, superiore, accessibile solo attraverso un vigile affinamento della sensibilità. Le ultime pagine di questo puntuale commento alla poesia di Siro Angeli offre un nuovo e originale approccio ai suoi testi, confrontati e messi in discussione in un gioco di specchi esistenziale e stilistico con quelli dell’amico di una vita Giorgio Caproni, rintracciando le loro reciproche “tangenze e distanze” nella descrizione di ambienti e personaggi, e in numerose, insospettate scelte formali.

IBS, 3 ottobre 2017

RECENSIONI

BINAGHI-MOZZI

VALTER BINAGHI-GIULIO MOZZI, 10 BUONI MOTIVI PER ESSERE CATTOLICI – LAURANA, 2011

In questa originale collana che l’editore Laurana fa ruotare intorno al numero 10, è uscito un volume che prende in esame dieci fondamentali ragioni per cui definirsi cattolici.Libro a due mani, che vede in ogni capitolo giustapporsi le tesi di due scrittori credenti, Valter Binaghi e Giulio Mozzi, che con convinzione si prodigano,usando diverse argomentazioni e suffragandole con varie citazioni (da Dostoevskij a René Girard,da Nietzsche a Eliot, ma soprattutto e ovviamente dalla Scrittura), nell’ambizioso proposito di convertire il lettore.E se Binaghi lo fa con toni e temi adeguati alla serietà dell’intento, Mozzi affronta invece il suo compito con uno stile più giocoso e ironico, a volte ammiccante, e non privo di disinvolture teologiche (ebbene sì,davvero le tre nuore di Noé stavano nell’arca! -pag.66 e Gen. 7,7). Dei dieci motivi elencati per essere cattolici, che ovviamente prendono l’avvio dalla stupita ammirazione per l’atto della creazione un Dio che si “contrae” per lasciare spazio all’uomo: era la teoria ebraica dello tzimtzum di I.Luria; un Dio che plotinianamente crea in continuazione e con assoluta gratuità) e terminano “in Gloria” con la fine del mondo, la resurrezione dei corpi e il giudizio finale (Mozzi:”E’ un mistero bello e buono. Non vedo l’ora di vedere com’è”. Binaghi: “ogni impurità sarà eliminata e rimarrà solo l’amore”), di questi dieci motivi due sono i più originali e appassionatamente sottolineati: “Perché non si è mai visto un Dio che si faccia carne” e “Perché Dio ha avuto bisogno di una donna”, verità che rendono davvero il cattolicesimo diverso e nuovo rispetto a tutte le altre religioni rivelate. I due autori sembrano entusiasticamente innamorati della figura di Cristo, vero uomo e vero Dio (e alla sua parabola di vita e morte, alla sua resurrezione dedicano pagine accese e riconoscenti), così come appaiono tenacemente fedeli a un’idea di Chiesa magistra, custode della sapienza e dei sacramenti, esprimendo un intento apologetico e di fiducioso proselitismo.

IBS, 17 luglio 2011