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RECENSIONI

BOBIN

CHRISTIAN BOBIN, L’UOMO DEL DISASTRO – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2015

 

Christian Bobin (Le Creusot, 1951), vissuto sempre in maniera appartata nei dintorni della sua cittadina natale, in Borgogna, ha studiato filosofia dedicandosi alla meditazione e alla scrittura, e lavorando in passato come operaio e infermiere psichiatrico. Tradotto per la prima volta in Italia dalle edizioni San Paolo nel 1996, ha visto crescere negli anni il numero dei suoi lettori ed estimatori, per la qualità del suo timbro narrativo pacato e sobrio, e per la profondità delle sue riflessioni.

Bobin nelle sue pubblicazioni, che spesso consistono in plaquette di poche pagine, si confronta con temi altissimi: il senso della vita, il rapporto con gli altri, il valore della conoscenza e dell’amore, il vuoto e l’assoluto. Non lo si può definire un autore clericale, o particolarmente fedele all’ortodossia ecclesiastica: la sua è una produzione meditativa e raccolta, di prose poetiche intense, miranti al recupero di una dimensione spirituale dell’esistenza, illuminata da momenti epifanici di grazia e di rivelazione.

In Elogio del nulla, ad esempio, si oppone all’esaltazione del troppo e del superfluo, all’esibizione ostentata, lodando invece l’importanza dell’attesa (“è un fiore semplice: germoglia sui bordi del tempo”), dell’esperienza (“quello che attraversiamo ci cambia: il vento si ingolfa nel sangue”), dell’ amore (“ci solleva da tutto, senza salvarci da nulla”), della natura (“all’inizio si guarda quello cui si passa accanto, poi lo si diventa”), con l’invito a liberarsi da costrizioni inutili, imparando a conquistare la gioia “là dove non c’è più niente da afferrare, se non l’inafferrabile”. La felicità cui ambire deve essere pura, priva di motivazioni e fini esteriori: “Si può chiedere all’uccello la ragione del suo canto?”

Credente, ma di una fede non circoscritta al cattolicesimo, parla di Dio con trasporto lieve, con affettuosa serenità di spirito: pressoché inevitabile, quindi, che venticinque anni fa abbia pubblicato in Francia un libro di grande successo e molto premiato ‒ in Italia arrivato all’ottava edizione presso le Paoline ‒, dedicato alla figura di Francesco d’Assisi: il santo della gioia, delle cose minute e di tutte le creature. In Francesco e l’infinitamente piccolo, alla pesantezza di una religione intesa come istituzione e obbligo antepone una spiritualità luminosa e confidente. Poeta del poco, indifferente ai palcoscenici, alle cattedrali e ai salotti, di sé ha scritto: “Quel che si dice in me non sta nei miei libri. I libri sono un contro-rumore al rumore del mondo. Quel che si dice in me si confida al silenzio, non è altro che silenzio. I libri sfiorano questo silenzio”.

Il silenzio, la quiete, il ritrarsi da ciò che distrae e confonde, è anche la tessitura tesa alla base de Il distacco dal mondo, che in ogni pagina condensa un insegnamento sapienziale, lontano da ogni presunzione o retorica, quasi l’autore scrivesse con scarsa attenzione a un eventuale pubblico di lettori. Non c’è declamazione, né intento pedagogico: solo raccolta riflessione, indagine del pensiero interrogante.  “Se consideriamo la nostra vita nel suo rapporto col mondo, dobbiamo resistere a quel che pretendono fare di noi, rifiutare tutto ciò che si fa avanti – ruoli, identità, funzioni – e soprattutto non cedere mai nulla della nostra solitudine e del nostro silenzio…”,  “L’amore è distacco, oblio di sé… Meglio sarebbe chiederci che cosa ci rende tanto difficile amare qualcuno senza legarlo subito alla nostra vita, il che equivale a domandarci perché ci è così difficile amare”.

Bobin invita a ritrovare nel proprio io, gonfio di cose inutili e poco concentrato su quello che conta davvero, lo stesso abbandono fiducioso del bambino che si addormenta nel chiasso della folla, che impara a parlare innamorandosi del suono di ogni vocale, o che si impegna nel suo gioco con la dedizione propria dei santi. Dovremmo recuperare la leggerezza “dell’uccello che per cantare non ha bisogno di possedere il bosco, nemmeno un solo albero”, e la volontà di compiere ogni atto, anche il più banale e quotidiano, con la massima applicazione, perché questa cura verso le cose minime si riflette immancabilmente nell’ordine universale. Consapevoli della nostra inessenzialità, impariamo a conquistare l’essenziale: “Riconosco lo splendore del vero soltanto nella gioia e in quella coscienza di noi stessi che l’accompagna sempre, la coscienza radiosa di non essere nulla”.

Ancora, in Mozart e la pioggia: “I momenti più luminosi della mia vita sono quelli in cui mi accontento di vedere il mondo apparire. Questi momenti sono fatti di solitudine e silenzio. Sono sdraiato su un letto, seduto a una scrivania o cammino per strada. Non penso più a ieri e domani non esiste. Non ho più legami con nessuno e nessuno mi è estraneo. Questa esperienza è semplice. Non c’è da volerla. Basta accoglierla quando arriva. Un giorno ti sdrai, ti siedi o cammini, e tutto ti viene incontro senza fatica”.

Due letttori doc di Christian Bobin, Franco Arminio e Mariangela Gualtieri, hanno detto di lui: “Bobin sembra che scriva frasi fatte apposta per essere citate. E ancora più incredibile è che questo autore riesce sempre ad assomigliarti. Tu leggi e pensi che sta scrivendo come scrivi tu, come pensi tu, come senti tu”, “La scrittura di Bobin è certamente poesia, perché è colma di silenzio, perché ha al proprio centro il silenzio: lo suscita, lo impone alla lettura, come respiro obbligato, come passo di forte e lento camminatore… cosicché da lettori si diventa auscultatori, da corridori distratti a meditanti, da divoratori onnivori ad attenti. Bobin dunque ci conduce fuori dall’ordinario, ci educa”.

La casa editrice Animamundi, fondata a Otranto nel 2012, sta dedicando molta attenzione all’opera di Christian Bobin, e in pochi anni ha pubblicato dodici suoi testi. Tra questi, forse il libro che più si allontana dalla produzione usuale e conosciuta dello scrittore francese è L’uomo del disastro, dedicato alla figura di Antonin Artaud.

Qui, l’urlo rabbioso di un teatrante angosciato si placa nel tratteggio lieve del filosofo, la fisicità del primo si disincarna nella spiritualità del secondo. Cinquantacinque anni dividono i due scrittori: “l’abbondanza di un dolore” che “esigeva l’impossibile”, il furore solitario della follia, la morte tragica e silenziosa di Artaud incontrano in Bobin la clemenza di un ascolto docile e amichevole, la consolazione di una comprensione tardiva e inutile. “Così eri tu, con un balzo saltavi nel cuore del reale, al centro della vita cruda, riaprendo ogni volta la ferita dei tuoi nervi, la piaga di un corpo soffocato nella pena di vivere senza vivere”, “Credo ci si ammali per intelligenza, per una intelligenza troppo esatta, troppo improvvisa, non acclimatata”.

La lettera ad Artaud, a un artista incompreso, all’uomo del disastro mentale, è quasi una richiesta di scuse proveniente da un paese intero che non ha saputo o voluto comprendere. Bobin si fa portavoce di questo senso di colpa collettivo: “Non scrivo su di te. Non scrivo un libro dotto”. Racconta d’altro, infatti, sfiorando i propri contenuti d’elezione: l’infanzia, il tempo, la vicinanza e l’indifferenza, il cielo vuoto, la malinconia e la speranza. Per avvicinare “un uomo che ha perduto la propria ombra… che va nel mondo come in un deserto… che sbraita contro Dio che manca”. Antonin Artaud, uomo senza misura, titanico, eccedente, nelle parole di un mistico si scontra con la misura per lui inaccettabile della pace interiore: mondi e pensieri inconciliabili, che nella scrittura cercano in modi diversi lo stesso scampo dall’inferno.

 

© Riproduzione riservata     «Il Pickwick», 28 dicembre 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BOCCADORO

CARLO BOCCADORO, ANALFABETI SONORI – EINAUDI, TORINO 2019

Leggendo il pamphlet che il compositore e musicologo Carlo Boccadoro ha dedicato alla ricezione contemporanea della musica, mi sono tornate alla mente alcune riflessioni del grande critico letterario George Steiner, che riteneva il linguaggio musicale non umano, addirittura aldilà dell’umano perché alieno da verità e menzogna, e quindi estraneo all’asse della moralità: “La musica può governare la psiche umana con una forza di penetrazione forse paragonabile soltanto a quella dei narcotici o della trance di cui parlano gli sciamani, i santi e i visionari… ci può far impazzire e può curare la mente ferita… essa si collega all’internet dei nostri recettori in una chimica sottilissima eppure imperiosa”.

In Analfabeti sonori Boccadoro si occupa appunto di questo: quanto la qualità originale di un evento musicale viene rispettata e preservata nell’attuale trasmissione informatica, spasmodica, vastissima, incontrollata, pervadente? All’utente di Spotify viene garantita una fruizione intelligente, meditata, consapevole di ciò che ascolta? E al compositore di adesso, cui si offrono opportunità esplorative prima inesistenti, è assicurata la capacità di mantenere una creatività genuina, non contaminata?

Partendo da premesse generali sui dati sconfortanti che riguardano la promozione e la diffusione della musica classica ‒ in particolare di quella contemporanea ‒, l’autore constata quanto poco spazio le venga riservato dai media, scarsamente propensi a educare e informare il pubblico (brevi righe sono state dedicate dalla stampa alla morte di Pierre Boulez o di Miles Davis, rispetto ai fiumi d’inchiostro versati sulla scomparsa di icone del pop). La musica colta è considerata “un reperto sopravvissuto a un passato certamente illustre ma ormai costoso e inutile”, priva di futuro perché difficile da capire, male insegnata nelle scuole, poco sfruttata come evento culturale, nonostante si realizzino oggi molti nuovi lavori operistici, sinfonici e da camera di alto livello. Il repertorio attuale è ignorato per la diffidenza di sovrintendenti e direttori artistici che ambiscono soprattutto a riempire i teatri, ma anche per la scarsa iniziativa, la pigrizia mentale e il sospetto di direttori d’orchestra, strumentisti e cantanti, i quali temendo fischi e contestazioni non si azzardano a proporre o a riproporre opere ritenute troppo innovative e di difficile collocazione.

Tanti sono i pregiudizi che precludono alla musica classica contemporanea l‘accesso alle sale di concerto: il primo è ovviamente quello della sua complessità, che ridurrebbe il suo bacino d’utenza (ma anche gli spartiti di Mozart o di Beethoven erano strutturati con estrema perizia formale, e non sono tuttora di semplice esecuzione!). Poi l’idea che la musica debba solo intrattenere, divertire, emozionare o consolare, mentre dissonanze e incomprensibili stravaganze finirebbero per urtare e irritare chi ascolta (tuttavia, il compito di chi scrive musica non è quello di rassicurare, bensì di porre interrogativi). Infine, che la musica d’avanguardia non si impegni ad avvicinare un pubblico più vasto, mentre è risaputo che numerosi compositori stanno azzardando nuove contaminazioni con il jazz e il rock, i generi popolari e minimalisti, le realizzazioni al computer o le suggestioni del mondo teatrale.

In realtà “per alcuni esecutori è molto più comodo adagiarsi sul repertorio tradizionale, senza dover studiare lavori che chiedano di estendere le proprie capacità percettive e tecniche… e molti organizzatori pensano unicamente in termini di business e numeri, usando questi ultimi come pretesto per eliminare tutto ciò che non ha un riscontro rapidissimo e di facile digeribilità”.

Carlo Boccadoro, che ha patito sulla sua pelle discriminazioni da parte di discografici e direttori artistici (come molti altri colleghi italiani: Giovanni Sollima, Luca Francesconi, Ivan Fedele, Fabio Vacchi, Giorgio Battistelli) parla delle sue esperienze con pacata amarezza, rilevando come da noi si tenda da sempre a penalizzare ogni novità, e a essere prevenuti per incompetenza. Molti sono invece i contemporanei felicemente e frequentemente eseguiti all’estero: non solo i più noti Arvo Pärt, Philip Glass, Osvaldo Golijov, John Adams, Michael Nyman, (conosciuti e trasmessi anche dalle nostre radio), ma gli altrettanto eccellenti Haas, Rihm, Widmann, Larcher, Glanert, Mazzoli, Abrahamsen, MacMillan, Adès, noti in Italia quasi solo agli addetti ai lavori. Non sono pertanto gli autori, ma i responsabili delle istituzioni culturali che dovrebbero incoraggiare una programmazione moderna costante, consapevole, varia e di qualità, per incrementare l’ascolto di musica classica d’avanguardia.

A questo scopo, un ulteriore stimolo potrebbe venire dalla rete, che ha completamente modificato il modo di produrre musica e di fruirne, permettendo a tutti di ascoltare qualsiasi melodia in diretta streaming, di assistere a concerti e registrazioni collegandosi a YouTube, di mescolare differenti generi musicali su Spotify. L’avvento dell’informatica nella composizione ha fornito nuove possibilità di esecuzione e di diffusione del suono, creando poliritmie ed espandendole spazialmente in luoghi chiusi o all’aperto, e ciò rappresenta indubbiamente una grande opportunità per chi scrive sul pentagramma. Ma quali sono i pericoli in agguato per i consumatori di brani online? Ogni novità viene frammentata in pre-ascolti su iTunes o in compilation offerte da altre piattaforme digitali, per lassi di tempo brevissimi poiché sembra che gli utenti non riescano a concentrare l’attenzione se non per pochi minuti, esaurendo ogni interesse verso qualsiasi tipo di approfondimento. Evidentemente, l’accelerazione della vita quotidiana e le troppe distrazioni imposte dai social e dall’uso del cellulare stanno abituando le persone alla facilità di proposte culturali ovvie, ripetute, veloci e circoscritte. Un’opera lirica o un’intera sinfonia vengono così inserite in internet solo se frazionate, e nei brani più memorizzabili, mai nella versione integrale che risulterebbe indigesta. Ciò produce negli ascoltatori “un vero e proprio analfabetismo sonoro di ritorno rispetto alle capacità di seguire strutture musicali che richiedano un tempo significativo per esistere”.

Così molti compositori, temendo di non riuscire a captare l’attenzione del pubblico, tendono a ripetere formule stereotipate che li rendano immediatamente identificabili e riconoscibili nella peculiarità del loro stile, e a ogni esibizione finiscono per riproporre solo moduli collaudati. Si ottiene in tal modo un azzeramento della qualità musicale, in una uniformità banalizzante e superficiale, come sta avvenendo in altri settori del mercato produttivo (moda, cucina, letteratura). A questo punto, forse solo la musica classica può rappresentare una ribellione all’omologazione preconfezionata che ci propinano i media e la rete, aiutandoci a fare della nostra vita qualcosa di più autentico e arricchente.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 11 luglio 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BOMPIANI

GINEVRA BOMPIANI, L’ULTIMA APPRIZIONE DI JOSE’ BERGAMIN
NOTTETEMPO, ROMA 2014

Ginevra Bompiani propone ai lettori in queste poche pagine un ritratto dello scrittore spagnolo José Bergamin (1895-1983), che fu combattente a fianco dei comunisti nella guerra civile, oppositore politico di Franco, due volte esule, animatore di riviste e pubblicazioni politiche e, verso la fine della sua lunga esistenza, sostenitore dell’indipendenza basca. Amico dei più importanti intellettuali contemporanei (Rafael Alberti, Garcia Lorca, Bunuel, André Malraux), Bergamin fu sempre e soprattutto amico del popolo, e dal popolo ricambiato con un affetto e un rispetto che rasentavano l’idolatria. Ginevra Bompiani lo conobbe negli anni ’60, e mantenne con lui un rapporto di reciproca stima e confidenza: ne ammirava la sterminata erudizione, l’acuta ironia, l’incredibile facondia, che si esprimeva in divertenti arguzie, stravaganti calembours, estemporanei ma profondissimi aforismi. La rievocazione del tempo trascorso in sua compagnia («un tempo così colorato, così vivo, così bagnato di emozione»), a discorrere di corride e d’altro (nei ristoranti, davanti a un piatto di “caldo de la casa”, con i camerieri che orecchiavano ammirati; oppure nelle passeggiate notturne attraverso Madrid) è velata da un sentimento di malinconica commozione, di consapevole, irreparabile perdita. Cosa raccontava Bergamin? «Non la vita, non le creature di Dio, non le continue catastrofi dell’esistenza, non le crudeltà, le empietà, le passioni: solo la lingua e i due luoghi nei quali raggiunge i limiti estremi di verità e menzogna: la poesia e la politica, Dio e il Diavolo».

E com’era, fisicamente? Magro, con mani e labbra sottili, «naso lungo, berretto basco, schiena un po’ curva, sguardo malinconico». La sua ultima apparizione, a 88 anni, fu sul pianerottolo di casa, con l’improvvisazione di qualche passo di flamenco, come sapeva fare lui, «per fondere, in un’essenza unica, la comicità e la grazia».

 

«Leggendaria» n.105, maggio 2014

RECENSIONI

BONANNO

MARIO BONANNO, IL NEMICO NON È – PAGINAUNO, VEDANO AL LAMBRO (MB), 2021 p.148

L’editore PaginaUno ha da poco pubblicato Il nemico non è, volume in cui Mario Bonanno racconta come i più noti cantautori italiani si siano fatti portavoce della volontà popolare di impegno civile, di antagonismo di classe, di protesta politica, di pacifismo, negli anni appassionati in cui il conflitto sociale occupava le prime pagine dei quotidiani e le coscienze della gente. Bonanno (Catania, 1964) ha pubblicato diversi libri e saggi sulla canzone d’autore italiana.  Nel 2007 ha fondato il periodico Musica e Parole di cui è stato direttore fino al 2013, e oggi collabora a diverse testate giornalistiche, a blog e riviste.

Introducendo il suo saggio, sottolinea quanto sia cambiata la canzone italiana dal primo dopoguerra agli anni del boom economico. Al paese depresso e sconfortato che tentava di risorgere moralmente ed economicamente servivano testi consolatori e incoraggianti, retorici, edulcorati, che offrissero modelli stereotipati di famiglia, amore, patria: Vola colomba, con cui Nilla Pizzi vinse a Sanremo nel 1952, era il prototipo del sentimentalismo più trito e inoffensivo. Ad esso si contrapponeva, già nel 1962, Mi sono innamorato di te di Luigi Tenco, che raccontava di una relazione imperfetta, annoiata e vissuta con la consapevolezza sincera della relatività di ogni rapporto sentimentale. In seguito, sulla spinta delle canzoni di protesta provenienti da oltreoceano (Bob Dylan e Joan Baez), ma recuperando anche il repertorio popolare dei canti di lavoro di fine ottocento (la cui eco risuonava nella produzione di Pino Masi, Ivan Dalla Mea, Giovanna Marini, ecc.) e delle “canzoni della mala” (Strehler, Amodei, Fo, Svampa, I Gufi) portate al successo da Ornella Vanoni, iniziò a farsi strada la canzone d’autore, connotandosi come rappresentativa delle istanze politico-sociali di un intero decennio. Dopo il 1968, nuovi contenuti animarono testi e musiche di una schiera di cantautori che seppero trarre ispirazione e volontà di denuncia dalla storia contemporanea, aprendosi alla realtà circostante allora politicamente sensibile e attenta alle dinamiche di lotta e resistenza sia nei conflitti bellici internazionali, sia nello scontro esistente tra Potere e individuo.

La parte più corposa del volume di Mario Bonanno (il cui titolo è tratto da una canzone di Enzo Jannacci, Il monumento) riguarda i testi – riportati e commentati nella loro interezza – dei cantautori dichiaratamente schierati contro ogni tipo di violenza e ingiustizia.

Racconta quindi gli esordi corrosivi di Edoardo Bennato, violentemente antimilitaristici e polemicamente contrari a ogni indottrinamento ideologico impartito dalle istituzioni (famiglia, scuola, chiesa); l’insofferenza nei confronti di ogni  forma di sistema repressivo in Pierangelo Bertoli, fedele a un’accezione marxista di lotta di classe; l’umanesimo poetico di Massimo Bubola; l’ironia svagata ed evocativa di Mario Castelnuovo; il sarcasmo di Mimmo Cavallo; le rivisitazioni storiche di Edoardo De Angelis; la malinconica goliardia di Ivan Graziani; la vertiginosa dinamicità tra presente e storia di Mimmo Locasciulli; l’interesse per le aritmie sociali di Claudio Lolli, l’operaismo di Paolo Pietrangeli, il surrealismo di Gianfranco Manfredi.

Passa poi in rassegna il repertorio degli interpreti maggiori, illustrando le loro canzoni più agguerrite nel denunciare il sistema di potere che schiaccia, corrompe, disarma non solo attraverso lo schieramento di eserciti e l’armamentari bellico, ma anche con metodi educativi e repressivi che condizionano le esistenze dei singoli. Conflitti e soprusi che schierano “uomini contro altri uomini, idee contro altre idee, divise (mentali e non) contro divise”.

Il pacifismo di Fabrizio De André esprime forse il suo tratto ideologico preponderante: “L’idea di pace secondo De André è subordinata a una rivendicazione di libertà, di affrancamento, di presa di distanza dai (dis)valori borghesi. Passino essi da religione, guerre sante, governi e bandiere, di qualunque estrazione”. Il suo impegno pacifista, già esplicito in Fila la lana del 1965, anima canzoni diventate un simbolo dell’antimilitarismo: Girotondo, La ballata dell’eroe, La guerra di Piero, Fiume Sand Creek fino ad Anime salve, del 1996. Con lui, Francesco De Gregori ha rivestito un ruolo rivoluzionario nella nostra canzone d’autore, come portatore di un linguaggio formalmente inedito (“doppi e tripli sensi, ossimori, impennate, metonimie, simbologie palesi e/o sottese, sinestesie spiazzanti, apparenti nonsense”), attraverso cui veicolare contenuti di dirompente carica sovversiva, rileggendo memorie individuali e collettive senza alcuna pesantezza didascalica e restituendole al loro reale valore di testimonianza storica: 1940, Il cuoco di Salò, Pilota di guerra, La storia, Cercando un altro Egitto, Generale, Saigon, San Lorenzo. La ricca discografia di Eugenio Finardi lo indica come rappresentante di una generazione inquieta, alla ricerca di una propria identità, sia nell’ambito politico che in quello privato e familiare, avendo come elemento caratterizzante il rifiuto dell’autoritarismo e di ogni sopraffazione istituzionalizzata (Quando stai per cominciare, Giai Phong, Soweto). Di Ivano Fossati Bonanno mette in luce la sensibilità priva di declamazione con cui si suggeriscono stati d’animo interiori più che avvenimenti esterni (Dieci soldati, Poca voglia di fare il soldato, Speakering, L’abito della sposa, Bella speranza, Treno di ferro). Speculative, filosofiche più che politiche sono le ballate di Francesco Guccini (Amerigo, Eskimo, Auschwitz, Primavera di Praga, Il matto, Noi non ci saremo, L’atomica cinese, Il caduto), in cui il cantautore emiliano si interroga “sull’ambiguità che fa da    sfondo all’esistenza umana”. Con Vincenzina e la fabbrica Enzo Jannacci (“ossimoro vivente”) scriveva una poesia di epica quotidiana, estendendo il concetto di guerra allo sfruttamento sul posto di lavoro, tema ripreso in La costruzione. In Matto e vigliacco, un outsider della nostra canzone come Gino Paoli fece dell’obiezione di coscienza l’atto di disobbedienza civile per antonomasia. Il disincanto e la protesta di Luigi Tenco diedero voce al rifiuto della guerra in Io vorrei essere là e in E se ci diranno. Filosofia e storia nutrono le narrazioni di Roberto Vecchioni (Waterloo, Aiace, Gaston e Astolfo, Millenovantanove, Tema del soldato eterno e degli aironi, Il cielo di Austerlitz, Shalom).  Epos e impegno si ritrovano anche nella prima produzione di Antonello Venditti (L’orso bruno, Le cose della vita, Brucia Roma, Ma che bella giornata di sole).

A questo esauriente e dettagliato capitolo sui testi pacifisti e antimilitaristici, Mario Bonanno fa seguire altre importanti sezioni dedicate agli anni di piombo e alle istanze movimentiste del ’77, quando la contestazione si fece più dura, gli scontri di piazza più pesanti, la divaricazione tra società civile e classe diri gente sempre più accentuata: anni di stragi, di tentazioni golpiste, di lobby occulte. Ancora una volta furono gli stessi cantautori sensibili al disagio sociale a interpretare la rabbia popolare e la voglia di partecipazione e di cambiamento dello status quo. Giorgio Gaber firmava con La presa del potere e Io se fossi Dio “una radiografia impietosa delle cancrene di una nazione in rovina”.

Non solo colombe che volano, io tu e le rose, tuca-tuca e cuori matti, quindi, nel repertorio della musica leggera del nostro paese. Il nemico non è offre un’ampia e documentata rassegna di canzoni che, con la poeticità dei loro testi, hanno saputo opporsi alle logiche del mercato, del facile consumo, del disimpegno di massa, rifiutando l’enfasi e la retorica degli anni cinquanta, e offrendo un degno contraltare al vuoto e alla futilità della produzione attuale. Le due interviste a Finardi e Lolli riportate da Mario Bonanno a conclusione del volume ne suggellano meritevolmente il messaggio di risoluto impegno intellettuale e politico.

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 17 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BONAZZI

MAURO BONAZZI, CREATURE DI UN SOL GIORNO ‒ EINAUDI, TORINO 2020

Con il titolo poeticamente evocativo di Creature di un sol giorno, tratto da Pindaro, il professor Mauro Bonazzi, titolare della cattedra di Storia della filosofia antica all’Università degli Studi di Milano, ha pubblicato da Einaudi un volume che indaga il contributo della grecità (mito, letteratura, religione, arte e, ovviamente, pensiero filosofico) all’elaborazione del tema dell’essere e del non essere più, del vivere e del morire, nel suo impatto sulla cultura occidentale.

“La civiltà greca ha prodotto una riflessione luminosa sul senso della condizione umana – su quello che siamo e sul valore delle nostre vite – capace di attraversare i secoli, influenzando e stimolando grandi scrittori e grandi pensatori. Lo ha fatto partendo dal tema della morte: questo è il punto di attacco. La morte è uno scandalo, un mistero, qualcosa che non riusciamo e non possiamo accettare. Il problema non è tanto quello di dover morire; ne siamo tutti consapevoli. A essere insopportabile è l’idea che questo fatto, il fatto che prima o poi ce ne andremo, rischia di togliere valore alla nostra esistenza, qui e ora. Quale è il senso di qualcosa che non c’era, c’è e non ci sarà? Quale il valore di qualcosa destinato a scomparire nell’oblio? È questa la domanda a cui bisogna trovare una risposta, perché è qui la chiave per comprendere il senso della nostra esistenza”.

A partire dal modo in cui i greci hanno valutato la morte, Mauro Bonazzi recupera il senso che essi hanno dato alla vita degli esseri umani, creature fragili come gli insetti che vivono solo un giorno, eppure immense, nel loro “impasto di miseria e grandezza”, perché uniche e irripetibili nei pensieri, nelle azioni, nelle trasformazioni cui soggiacciono attraverso il tempo. Esseri incompleti, a cui manca sempre qualcosa che devono conquistare per realizzarsi come persone; esseri desideranti, che aspirano alla felicità, da cercare nell’amore o nella gloria; esseri prede di passioni contrastanti, a volte nobili, a volte turpi.

Prendendo le mosse da Omero, dai suoi due eroi più rappresentativi (Achille nell’Iliade, magistralmente commentato da tre studiose ebree, costrette all’esilio dal nazismo: Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt; e Ulisse nell’Odissea, personificazione sia della nostalgia per il paese natio, sia dell’ansia di conoscenza), l’autore si interroga su cosa intendessero i greci per gloria (kleos), e per onore (time), e quanto fossero disposti a sacrificare di sé stessi per ottenere entrambe le cose. Consapevoli che l’immortalità si può raggiungere solo in due modi: o riproducendosi biologicamente (a livello di specie, come fanno animali e vegetali), o lasciando dietro di sé il ricordo delle proprie imprese, attraverso l’azione eroica che sottrae all’oblio, alla caduta nel nulla. È la scelta di Achille, che assoggetta anche l’eros alla brama di lode, e che muore per sconfiggere la morte. L’Ulisse omerico vaga per anni sui mari in attesa di tornare a Itaca, la “cara patria”, non spinto dal desiderio di avventura, ma solo dalla nostalgia per il focolare domestico: sarà Dante, nel celeberrimo XXVI canto dell’Inferno, a fare di lui il simbolo del desiderio di conoscenza, addirittura in grado di trascendere qualsiasi responsabilità etica, di marito, padre, re, nocchiero pur di saziare la sua ansia di sapere (“l’ardore / ch’i’ebbi di divenir del mondo esperto / e de li vizi umani e del valore”)

Fu poi Platone, nel Simposio e nel Fedro a dissertare su amore e morte, attraverso le voci di Aristofane, Socrate, Diotima, Fedro stesso, che si interrogano su cosa prevalga nell’eros, se la sensualità, l’attrazione per la bellezza fisica, il desiderio di armonia o di completarsi in un altro da sé. Un Platone recuperato anche da Freud, nelle sue indagini sulle pulsioni di piacere e morte. E Aristotele, nell’Etica Nicomachea, ventilava tre possibili strade da percorrere per costruire una vita felice: seguire l’istinto del piacere, praticare un’esistenza politicamente attiva, o scegliere la meditazione contemplativa. Inaspettatamente, lo Stagirita, filosofo della concretezza e della materia, indicò proprio nell’esercizio del logos l’unica maniera per esercitare pienamente le proprie potenzialità di uomini: “Siamo fatti per conoscere, pensare, capire, qui è la nostra vera natura”, chiosa Mauro Bonazzi. Solo attraverso il pensiero riusciamo a essere immortali e divini, partecipando all’ordine, alla verità e alla bellezza del tutto. L’intuizione aristotelica verrà ripresa da Plotino e Spinoza, e da gran parte della filosofia spiritualistica. Ma sarà Nietzsche, invece, a scardinare l’utopia di una realizzazione filosofica dell’esistenza, proclamando la morte di Dio e l’inconsistenza della vita umana. Nell’universo descritto dalla scienza moderna, privo di un centro definito, animato da miliardi di elementi cosmici, l’uomo ha perso il suo ruolo dominante, il bene e il male non trovano più alcuna fondazione oggettiva, e non si pone nessun limite etico alla ricerca scientifica. Il materialismo di Epicuro e Lucrezio sembra aver prevalso sugli interrogativi religiosi, e l’unica realtà conseguibile è la felicità quotidiana da vivere nel presente, senza temere il futuro e la morte, valutando positivamente la natura che ci circonda e di cui siamo fatti, prendendo atto e accettando di essere “creature di un sol giorno”.

Eppure, proprio in questa nostra fragilità, nella fugacità del tempo determinato che ci è dato di vivere, risiede la possibilità straordinaria che abbiamo di poter fare progetti, impegnandoci in un disegno collettivo e solidale di salvezza.

 

© Riproduzione riservata          24 gennaio 2020

https://www.sololibri.net/Creature-di-un-sol-giorno-bonazzi.html

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BONNEFOY

YVES BONNEFOY, L’ALLEANZA TRA LA POESIA E LA MUSICA – ARCHINTO, MILANO 2010

 In queste cinquanta paginette di fervida tensione spirituale e di arduo cerebralismo, il grande poeta, recentemente scomparso, Yves Bonnefoy, coniugava, come nella sua più alta produzione in versi, profondità meditativa e ispirata liricità. Pur confessando al lettore, quasi in conclusione del saggio, la sua incapacità di definire in che modo poesia e musica siano e siano state in grado di influenzarsi reciprocamente, e beneficamente, penetrandosi e trasfondendosi una nell’altra (poesia in musica e musica in poesia):«A queste domande, non sono in grado di rispondere. Mi mancano la pratica e, anche, l’esperienza». Ma con assoluta modestia e insieme assoluta temerarietà, regalava al lettore le sue ipotesi e le sue riflessioni sull’argomento, con la profondità delle illuminazioni che non cercano giustificazioni teoriche, ma si propongono alla condivisione di un sentire emotivo con più consistenza reale di qualsiasi tesi intellettuale.
Ecco quindi qualche definizione di poesia: «la poesia è un’offerta; si prefigge il compito di conservare nelle parole l’intuizione che essa ha vissuto nel loro suono», «il risveglio alla poesia è sempre inquietudine, tormento… epifania di quell’indiviso che si nasconde sotto il linguaggio», «la poesia è riconoscimento dell’altro in quanto tale… desiderio di far rientrare il bene dell’oltre-concettuale in quella sua patria che è il luogo sociale», «la poesia non ha a che fare con il dire ma con l’essere».

E la musica? «È la possibilità di prestare attenzione all’oltre-linguaggio… è illimitata, ha aspetti diversi, può essere molteplice e non una, un continente…». C’è quindi la musica orientale, indiana in particolare, che è immersione nel suono puro, ascolto mistico di «un momento vissuto in prossimità dell’impenetrato». E c’è la musica occidentale, greca e poi cristiana, che è analisi di una forma e di una mediazione «nel mondo edificato della concettualizzazione». Insieme, L’alleanza tra la poesia e la musica, l’unione di suono e parola, sono dono e legame, «ricerca di una verità condivisa».

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/+-Musica-+.html       15 luglio 2016

 
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BONNEFOY

YVES BONNEFOY, L’UVA DI ZEUSI E ALTRE FAVOLE – JACA BOOK, MILANO 1997

Ecco Zeusi, il pittore greco del IV secolo a.C., così abile nel ritrarre oggetti, visi e frutti della natura che tordi e passeri arrivavano a frotte per beccare gli acini di uva sul pannello, fino a distruggerne e macerarne col becco la tela. Ed ecco Yves Bonnefoy, grande poeta francese del Novecento, che gli dedica un libriccino fatto di brevissimi brani in prosa lirica: illuminata, trascendente e purissima. “Il fuoco è chiaro, la tavola apparecchiata, il vino brilla nelle caraffe”: un interno domestico che potrebbe appartenere a qualsiasi epoca e a qualsiasi autore classico, da Alceo a Tibullo a un sufi persiano. “Il peso del cielo sul vetro si faceva intollerabile, si sentiva, dicevano, scricchiolare l’apparenza… L’altezza del mondo, di un blu sempre più nero, vacillava e cadeva come una pietra”: questo è un esterno, e potrebbe rappresentare una pittura metafisica, come una preghiera di un mistico medievale. Bonnefoy si avvicina in ogni suo scritto allo stupore estasiato che gli provoca la bellezza, sia quella naturale e fisica, sia quella mentale e artistica: eppure ritiene che segno e immagine, “le nostre due illusioni”, raramente riescano ad avvicinarsi alla perfezione della mimesi, o tanto meno della creazione ex novo. E finiscano, nella loro übris, per produrre lacerazione e dissipazione. Le parole si ribellano, i pennelli si seccano: “E io tentavo, prendevo una parola, ma si dibatteva, chiocciava come una gallina spaventata, ferita, in una gabbia di paglia nera macchiata di vecchie tracce di sangue”. Dio ha solo abbozzato il mondo, le cui meraviglie sono rovine: solamente la luce, forse, “ha avuto vita piena… ed è per questo che sembra semplice, e increata.” Alla fine, anche gli uccelli rimarranno indifferenti all’arte di Zeusi, preferendo volteggiare nel cielo reale. Il volume si chiude con una sapiente postfazione di Roberto Mussapi.

IBS, 23 agosto 2013

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BONNEFOY

YVES BONNEFOY, EDWARD HOPPER. LA FOTOSINTESI DELL’ESSERE – ABSCONDITA, MILANO 2018

L’originalità di questo piccolo volume appena riedito da Abscondita è costituita dal fatto che il più grande poeta francese della seconda metà del ’900, Yves Bonnefoy, rilegge qui un eccezionale protagonista dell’arte americana del secolo scorso, Edward Hopper.
Lo rilegge e ce lo presenta come solo può fare un poeta: poeticamente.
Ripercorrendo la pittura di Hopper dagli esordi e nelle sue trasformazioni, Bonnefoy la illustra psicologicamente e filosoficamente, ma attraverso lo sguardo profondamene morale e elegantemente severo della sua scrittura. I rimandi puntuali ai quadri trovano riscontro nelle illustrazioni del volume, inevitabilmente manchevoli e approssimative perché in bianco e nero: tuttavia in commercio si trovano molte e pregiate pubblicazioni, a cui il lettore può ricorrere per meglio verificare l’attendibilità del commento critico.
Nel sottolineare la cesura che i tre soggiorni parigini, avvenuti tra il 1906 e il 1910, avevano prodotto nell’arte e nell’esistenza di Edward Hopper (in appendice, il volume riporta un’accurata nota biografica), Yves Bonnefoy indica proprio nella scoperta francese della luminosità l’evento epifanico che rivoluzionò il suo stile pittorico. «La luce era diversa da tutto quello che avevo conosciuto. Anche le ombre erano luminose, di luce riflessa. Persino sotto i ponti vi era una sorte di lucentezza», aveva scritto l’artista, confessando che gli ci sarebbero voluti dieci anni per rimettersi dall’Europa, la cui atmosfera lieve e rasserenante l’aveva depurato dall’oscura pesantezza culturale statunitense, regalandogli «uno sguardo felice», una solidità più consapevole del suo stare nel mondo.
Tornato a New York, Hopper mise a frutto questa nuova acquisizione, di cui scopriamo tracce nel famoso quadro Squam Light del 1912, indicativo di una trasmutazione d’animo, «di un ritorno della coscienza allo spazio aperto del mondo». Per una decina di anni dipinse paesaggi dai colori chiari, dai confini dilatati, ma privi di figure umane, caratterizzati dalla ricerca silenziosa di un rapporto con la natura e con l’illimitato. Intorno agli anni ’20 abbandonò la pittura en plein air in favore di una presenza costante di figure umane, soprattutto femminili. Persone immobili, in piedi o sedute, con lo sguardo fisso verso una lontananza indefinita, chiuse in una taciturna incomunicabilità carica di aspettativa: più che a rappresentarne la specificità, Hopper sembrava interessato a raccontarne astrattamente l’idea di isolamento, abbandono e silenzio. È il caso dell’ometto triste seduto sul marciapiede (Sunday, 1926), della giovane moglie che sfiora un tasto del pianoforte mentre il marito, immerso nella lettura del giornale, la ignora (A Room in New York, 1932), della ragazza col cappello ferma sui gradini di casa, aspettando chissà cosa (Summertime, 1943), o dell’altra che nuda accanto al letto disfatto si volge alla luce della finestra come a un richiamo celeste (A Woman in the Sun, 1961). Il loro corpo è materia impenetrabile, fisicità enigmatica, su cui il pittore esercita la sua fredda analisi compositiva, in un neutrale processo di spoliazione dell’ambiente e dei sentimenti.
Tutti i personaggi paiono estraniarsi da ciò che stanno vivendo, quasi sperando in una sorpresa che li inquieterà, oppure chiusi in un torpore da cui non vogliono essere risvegliati. Soprattutto le figure femminili sono imbozzolate in una realtà che non comprendono e da cui non sono comprese, nella società urbana e desolata dei treni, delle autostrade, dei bar o dei motel, bloccate nella fissità di un
istante che si assolutizza. «Annunciazioni senza teologia e senza promessa», commenta giustamente Bonnefoy: donne in attesa di una condanna, e non di una glorificazione.

«Non vi è cosa più vana del domandarsi chi siano quegli esseri che Edward Hopper mette in scena, o cosa accade tra loro e cosa sta per accadere. Occorre piuttosto rivivere con lui la sensazione che nessuno può comprendere nessuno, e osservare che se ha fissato sulla tela una situazione e non un’altra, è solo perché ha creduto di riconoscere nell’uno o nell’altro dei suoi protagonisti lo stesso senso di solitudine e di isolamento che egli prova, e insieme un’aspirazione, un brusco turbamento dell’anima che spesso non lo dubitiamo ‒ angosciano lui stesso».
Così come le persone, suggellate nelle loro barriere di indicibilità, anche gli interni sono vuoti, nudi, privi di oggetti e di mobili, immutabili in una loro luminosità deserta: splendide nel loro misticheggiante chiarore ci appaiono le stanze di Rooms by the Sea, 1951, e di Sun in an Empty Room, 1963. Hopper avverte qui che una presenza umana costituirebbe un ostacolo, disturbando l’intuizione dell’assoluto, che solamente la luce può trasmettere, nel silenzio.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 10 marzo 2018

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YVES BONNEFOY, POESIA E FOTOGRAFIA – O BARRA O, MILANO 2015

Yves Bonnefoy (1923-2016), grande classico della poesia francese del ’900, ha dedicato nel 2002 un breve saggio al rapporto tra poesia e fotografia, tradotto e pubblicato nel 2015 dalla casa editrice milanese ObarraO.

Antonio Prete nella prefazione afferma che secondo Bonnefoy la poesia ha il compito di dispiegare il visibile (l’immagine, in tutte le sue declinazioni) alla luce della parola, avvicinandosi al respiro delle cose, al loro mostrarsi nella nudità, e facendole parlare. Si accosta in tal modo alla visione bloccata ed eternizzata della fotografia.

“Le grandi questioni che attraversano tutta la scrittura di Bonnefoy, l’assenza e la presenza, la parola e l’immagine, lo sguardo e il visibile, la singolarità irripetibile del vivente e il caso, l’istante e il fuggitivo tornano e si riformulano intorno a quella vita particolare del soggetto e del mondo che sta nella fotografia”, commenta Prete. La precisione nella rappresentazione dei dettagli, offerta per la prima volta dall’invenzione di Daguerre a metà ’800, rivoluzionò il modo di raffigurare la realtà anche nella pittura e nella scrittura. “Laddove lo sguardo dell’artista sceglieva, e questa scelta lo rendeva umano, la fotografia invece registrava, fissava tutto, il che le permetteva di mostrare, se non addirittura di designare, la manifestazione del caso e di trascinare così al di là di ogni discorso ordinario sugli esseri e sulle cose, mettendo a tacere le parole della supposta verità per far ascoltare, direttamente, il silenzio della materia”.

Bonnefoy innesta la riflessione sull’origine della fotografia nel commento a Igitur, un testo di Mallarmé che narra l’esperienza orrifica di una notte trascorsa a meditare sul vuoto, il nulla, l’assenza, lo scorporarsi delle apparenze. Il poeta simbolista tentava di perseguire la bellezza attraverso un susseguirsi di “distruzioni” di ogni forma di sapere e di illusione, compresa quella di Dio, per ridursi alla pura coscienza del sé materiale. La cancellazione radicale di ogni concettualizzazione e verbalizzazione, restituiva così alle cose e al mondo oggettivo la loro positiva evidenza, “nel loro esserci sensoriale più immediato, più pieno”.

L’abisso terrificante del nulla è stato sperimentato e descritto da molti artisti e filosofi, oltre che dai più ispirati mistici: ma tutti hanno trovato modo di esprimerlo verbalmente o estaticamente, senza annullarsi nella propria singolare specificità. Mallarmé nell’esperire il proprio niente aveva invece recuperato il reale ancorandosi alla luminosa inconfutabilità degli oggetti sensibili, attraverso uno sguardo capace di percepire il solo dato sensoriale nella sua integrità. L’intuizione poetica, la descrizione del dettaglio, si parifica in tal modo allo scatto fotografico: “in Igitur, alla sua stessa origine, vi è il progetto di vedere senza sapere… la riduzione fondamentale e assoluta dell’apparire alla sua purezza”.

Poesia e fotografia, ciascuna con i propri mezzi espressivi, possono mostrare, nello sfondo oscuro del senso, il lampo di una presenza, la concretezza di un particolare, l’ossessione di un volto, anche quando vengano subito riassorbiti dal buio del giorno e della memoria.

Al commento del testo di Mallarmé, Bonnefoy accosta l’esegesi di un racconto di Maupassant del 1887, La notte, in cui il protagonista attraversa Parigi in preda a una sorta di ansiosa vertigine notturna. Percorre i boulevard illuminati dai lampioni, dove i caffè traboccano di vita e rumori, rendendosi conto che la recente scoperta dell’elettricità ha provocato, come la fotografia, un eccesso di intensità percettiva, privando brutalmente le cose e le persone di ogni alone misterioso, svelandole nella loro indifendibile esteriorità. Cerca allora rifugio nel buio della periferia, nel silenzio di strade deserte, nel Bois de Boulogne, perdendo ogni cognizione del tempo e del luogo, finché, oppresso da allucinazioni e terrore, raggiunge la Senna per immergersi nelle sue acque gelide.

La troppa chiarezza (nell’arte, nella poesia, nella fotografia, nella luce artificiale), offrendo un’immagine del tutto evidente della realtà, può illudere e sgomentare: “La fotografia è pericolosa. Il moltiplicarsi all’infinito delle fotografie che colgono solo il fuori della vita può contribuire alla fine del mondo”, commenta Bonnefoy.

Se torniamo all’intensa e suggestiva prefazione di Antonio Prete, dobbiamo condividerne la perplessità e il timore riguardo al futuro che ci aspetta: “Un tempo nuovo è possibile nell’epoca delle immagini affollate, disseminate, consumate? Il senso della presenza, della singolarità, del tu è ancora possibile in un’epoca in cui la parola della comunicazione distribuisce illusioni di prossimità nella lontananza, di corporeità nell’astrazione, di relazione nell’estraneità? Perché questo sia possibile, è forse necessario uno sguardo che sappia non solo catturare la bellezza del mondo nell’istante, ma sappia silenziosamente preservarla e custodirla”.

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 4 marzo 2021

 

 

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YVES BONNEFOY, INSIEME ANCORA – IL SAGGIATORE, MILANO 2022

Con testo francese a fronte, cura e note di Fabio Scotto – massimo conoscitore e traduttore dell’opera di Yves Bonnefoy in Italia –, Il Saggiatore pubblica l’ultimo libro di versi del grande poeta francese (1923-2016), scritto poco prima di morire: Insieme ancora. Un libro composito, in cui le diverse sezioni si susseguono alternando temi e stili differenti, sebbene nella costante di un unico sentimento di fondo, che potremmo definire di affettuosa malinconia, nella consapevolezza della prossima fine e nella volontà di lasciare una testimonianza di fede non tanto religiosa, quanto etica ed estetica. Se, come scrive Scotto nella prefazione, il pensiero poetico di Bonnefoy è stato sempre caratterizzato da una “parola aperta, transitiva, desiderosa di costruire il dialogo, l’incontro, la relazione”, pur nella complessità concettuale espressa, tanto più il suo ultimo lavoro documenta l’esigenza di un confronto da protrarre oltre la morte.

La prima sezione del volume, il cui titolo volutamente programmatico indica negli avverbi insieme e ancora il duplice desiderio di una continuità temporale da condividere con gli altri, è un poemetto diviso in tre parti, dove chi scrive prende congedo da sé stesso, dall’ambiente in cui è vissuto e da chi ha amato. Lo fa usando un tono sommesso e intenerito: “È strano, non vi riconosco. / Fa così buio che più non vedo il vostro volto /… Capisco che voi tutti non siete altro / Accanto a me che un’unica presenza, / A chi porgere la coppa, non so / Né voglio, la poso, per un istante. Scorgendo le vostre mani, / Le sfioro con le mie, è sufficiente”. Il senso stringente di comunità, quasi di cenacolo mistico, si esprime sia nell’uso dell’io che in quello del noi (io con voi, tu e io, noi tutti accanto…).

Fabio Scotto traduce il verbo francese léguer, coniugato alla prima persona singolare “je vous lègue” (lasciare, tramandare, consegnare in eredità, con un riferimento al lascito testamentario latino, il “legatum”), utilizzando il termine “legare”, forse proprio per sottolineare l’idea di vincolo, di rapporto inscindibile, di promessa da mantenere: “Miei cari, vi lego / L’inquieta certezza nella quale ho vissuto, / Quest’acqua scura trafitta dai riflessi di un oro / …Amici miei, amate mie, / Vi lego i doni che mi faceste, / Questa terra vicina al cielo, ad esso avvinta / Da queste innumerevoli mani, l’orizzonte.  / Vi lego il fuoco che guardavamo / Ardere nel fumo delle foglie secche… //… Vi lego lo squarcio delle tende, / Le finestre che sbattono, / L’uccello che restò imprigionato nella casa chiusa”. Nomina gli alberi, le bestie, i muri, i fiumi, gli ammassi di stelle, i libri dei filosofi amati (Plotino, Kierkegaard…), alcuni stimati insegnanti, e in particolare rende omaggio a sua moglie Lucy, con la quale ha costruito un prezioso rifugio domestico e ha avuto una figlia: “Mi chino, sei tu, / Il sorriso di tanti anni in questa notte”,  “O tu, e tu, Vita nata dalla nostra vita”, “E, nella casa vuota, il nostro bene / Che con noi resta, adesso, nell’attesa / Di averne bisogno l’ultimo giorno”.

Non si tratta di compitare un inventario del bene e del male esperiti, restituendo con gratitudine ciò che si è ricevuto, né di voler recuperare nella memoria (“La memoria è questo pozzo”) gli avvenimenti fondamentali del passato, per quanto la reiterata formula “Je me souviens” indichi l’importanza affettiva del ricordo. Il poeta avverte imprescindibile il desiderio di trasmettere a chi rimarrà il senso della bellezza e della grandezza dell’esserci, e dell’essere stato: “Credo, quasi so / Che la bellezza esiste e significa”, “È il mio bisogno di continuare a credere / Che abbia senso essere”, anche in una visione laica della realtà, che non si illuda di alcuna sopravvivenza ultraterrena. Una volta raggiunta “La frontiera laggiù tra tutto e nulla”, alla fine trova un senso “sia l’Uno che il molteplice”, se si riesce a conservare “La parola insensata della poesia”, che nella sua fragile gratuità racconta l’incanto di ciò che è vivo.

Assolutamente diverse nella forma e nei temi sono le successive sezioni che compongono il volume, (L’orsa maggiore, Il piede nudo, Insieme la musica e il ricordo, Poesie per Truphémus, Briefewege, Perambulans in noctem), in cui Yves Bonnefoy utilizza brani in prosa, dialoghi di impianto teatrale, sentenze aforistiche, appunti di cronaca, illustrando motivi, argomenti, materie da lui affrontate con passione per tutta la vita: filosofia, astronomia, musica, arte, mitologia, fotografia, traduzione poetica, sempre alla ricerca del significato ultimo del reale, e della luce spirituale che permea l’esistenza.

Nei due poemetti L’orsa maggiore e Il piede nudo, lo stile adottato dal poeta risulta del tutto nuovo. In dialoghi a più voci, si rincorrono ipotesi sull’oltrevita, sui suoni e silenzi che animano gli spazi siderali attorno al nostro piccolo pianeta. O ancora reminiscenze bibliche, brandelli di sogni, sfocati fotogrammi di ambienti popolari: frasi brevi, spesso ripetitive e percussive, mimano il linguaggio drammatico, il gergo infantile e le conversazioni telefoniche, sottolineando lo spaesamento stupito dell’autore di fronte alla complessità dell’esistente, mentre personaggi disincarnati tentano di dare una risposta surreale ai propri esitanti interrogativi.

I sette sonetti che compongono Insieme la musica e il ricordo descrivono l’abbandono di due amanti nell’ascolto di un’opera lirica, che travolgendoli nell’anima e nei sensi, li unisce in un’estasi mai prima provata (“Due corpi che scivolano nel tempo che non è più”), mentre in Poesie per Truphémus è l’arte ad avere ampio spazio di riflessione e ispirazione, esprimendo una delle grandi passioni di Bonnefoy, magistrale interprete di pittori (da Goya a Poussin, da Signac a Hopper), che qui ha agio di celebrare la fusione vitalizzante dei colori: “Entra con questo rosso vinaccia, questo giallo ocra, /  Questo blu d’altri tempi, / Fa’ che afferrino la mano della luce, / Che la guidino!” Briefwege è una breve sezione che raccoglie ricordi di visite in tre luoghi diversi, tra cui anche un carcere minorile campano. Ma è in Perambulans in noctem che la voce poetica di Bonnefoy ritrova il suo particolarissimo timbro espressivo, pur nella specificità formale del poema in prosa. Qui dodici brani di narrativa lirica affrontano temi culturali, come l’impossibilità del tradurre un qualsiasi testo senza ricrearlo, tradendolo necessariamente (“E s’immerge ancora, s’immerge più in là, più in basso, s’immerge ancora sempre più in basso, il traduttore”), oppure il miracolo di un dipinto che tenta di far rivivere la natura sulla tela, e memorie personali, erranze, visioni, introspezioni, indagini etimologiche, sempre nella tonalità evocativa che “tenta di portare  la parola al grado d’infinito del cielo stellato”.

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 29 novembre 2022