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RECENSIONI

BONO

ELENA BONO, CHIUDERE GLI OCCHI E GUARDARE – ARES, MILANO 2021

Per il centenario della nascita della scrittrice e poetessa Elena Bono, le Edizioni Ares pubblicano un’antologia di cento poesie (curata da Stefania Segatori, Francesco Marchitti e Silvia Guidi, con prefazione di Francesco Bultrini), intitolata Chiudere gli occhi e guardare. Elena Bono (1921-2014), ligure di adozione, è diventata un caso editoriale già dall’esordio con Garzanti negli anni’50, proprio con un volume di versi, I galli notturni.

Autrice di teatro e narrativa, acclamata dalla critica per la sua scrittura colta e raffinata, si è sempre contraddistinta per un’attenzione ai temi della spiritualità, nutrita da costanti riferimenti alla mitologia, alla letteratura e all’arte greca e latina, alla storia contemporanea, all’incantevole splendore della natura. Questi suoi interessi sono individuabili anche nelle poesie qui antologizzate, come sottolineano sia l’intensa introduzione di Bultrini (“un materiale narrativo incandescente, che raggiunge il lettore in maniera frontale, senza travestimenti o derive intellettuali”), sia l’approfondita ed entusiastica nota iniziale dei curatori.

In primo luogo, sono da rimarcare i sapienti rimandi a figure del mito (Venere, Bacco, Arione, Orfeo) e ai luoghi della civiltà classica (Pompei, Paestum, Taormina, il Colle Palatino, le Termopili), capaci di riverberare emozioni (“Voi, tombe antiche, sapete ogni cosa: / che sia la gioia / e ciò che chiamiamo dolore, /   che cosa ne resti ai morti / ed ai loro sogni”). Anche il pensiero, la poesia e la civiltà dell’antico Oriente hanno lasciato tracce consistenti nella produzione della poetessa, come dimostrano le composizioni dedicate ad antichi maestri dello Zen e alla loro mistica meditativa, con l’invito alla contemplazione della bellezza del creato e al raccoglimento introspettivo: “Silenzio e ancora silenzio. / Versatelo a lungo / piano, sulle ferite. / Anche la musica duole /   ad un cuore dolente”.

Ma è soprattutto incisiva, in una fervente cattolica come Elena Bono, l’ispirazione alle fonti bibliche, alle figure evangeliche descritte in numerose poesie. Maria, illuminata dal sacrificio e dalla gloria della maternità, Maddalena derisa dai soldati ma fiera della sua dedizione al Signore, e Cristo con la Passione e la Croce: “Cristo, svegliati, non dormire. //…  Ho bisogno di te, / di sentire il mio cuore nel tuo, / i tuoi nei miei pensieri. / La vita mia non mi basta. Voglio innestarmi a te, / fiorire nei tuoi fiori. / Prendimi, mio Signore, e dammi te stesso”).

Oltre a questo evidente e declamato afflato religioso, la scrittura poetica dell’autrice si rivolge con slancio partecipativo anche alla storia umana nella sua tragica concretezza. L’esperienza vissuta come staffetta nella guerra partigiana sulle montagne dell’Appennino ligure è narrata con ardore, nella precisa volontà di rendere omaggio ai compagni caduti combattendo, nominati e descritti nel loro generoso contributo offerto alla lotta contro il fascismo (“Morirono per la libertà, / essi, a cui i padri non avevano insegnato a vivere liberi”). L’imprecazione contro un’Italia imbelle che non ha saputo difendere i propri figli migliori assume tonalità quasi dantesche: “Ah Italia Italia / mugnaia che macini male. / Tu che trattieni la pula  / e getti via la farina…”. Lo stile di impianto tradizionale risente infatti dell’eredità di tutta la nostra storia letteraria, da Dante a Leopardi, di cui si ricalcano atmosfere, ambientazioni e descrizioni naturali: il vento, il cielo, la notte, la luna, la vastità dello spazio, tutti elementi che favoriscono la riflessione malinconica, l’affiorare dei ricordi, l’ansia di comunicazione con l’universo, l’attesa della morte, il motivo segreto della sofferenza. Decisamente leopardiani sono questi versi: “I notturni silenzi e i grandi spazi […] E le voci diverse / e  il mutare e il perire / non son più che una / incandescente quiete … / silenzio spazio interminato e stelle”, “Cuore, sopportami tutto e non domandare. /    Soffri soltanto”, “ma a poco a poco ciò che si ignora non fa più male / così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare”. Chiudere gli occhi per non patire troppo, come suggeriscono i versi che danno il titolo all’antologia, e continuare a guardare attraverso i tremiti dell’anima.

© Riproduzione riservata                   SoLibri.net › Chiudere-occhi-guardare-Bono

13 ottobre 2021

 

 

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RECENSIONI

BONTEMPELLI

MASSIMO BONTEMPELLI, GENTE NEL TEMPO – UTOPIA, MILANO 2020 – p.192

La giovanissima casa editrice milanese Utopia ha inaugurato il suo catalogo riproponendo uno dei più famosi libri di Massimo Bontempelli, Gente nel tempo. Scelta perspicace e raffinata, perché il romanzo, pubblicato nel 1937, è stato più volte riedito con ottime tirature (fino all’inclusione nell’opera omnia dell’autore, uscita da Mondadori nel 1961, nel 1978 e nel 1997), provocando curiosità e polemiche per l’atmosfera di funerea iattura di cui era impregnato.

Aleggia infatti sull’intera vicenda una minacciosa profezia, pronunciata dalla Gran Vecchia, autorevole e intransigente matriarca della famiglia Medici, che prima di spegnersi in un’afosa notte estiva del 1900 aveva predetto all’inetto figlio Silvano, alla nuora Vittoria, al medico di casa, al notaio e al parroco del paese di Colonna, la morte in giovane età di tutti i componenti del casato.

Il macabro presagio negli anni si era rivelato sempre più attendibile. I due sposi avevano reagito ad esso in maniera differente: Silvano con maggiore turbamento, Vittoria con il desiderio di infrangere ingessati tabù, e di aprirsi alla vita. Le loro figlie, Dirce e Nora, rispecchiavano il diverso carattere dei genitori: la prima più introversa, la seconda più esuberante. A distanza di cinque anni dalla morte della nonna, videro morire il padre, e dopo un altro lustro assistettero anche alla scomparsa della madre.

Trasferitesi a Milano, le sorelle trascorsero gli anni della guerra impegnandosi come ausiliarie negli ospedali militari, mentre lo spettro della maledizione che incombeva sulla famiglia continuava a tormentarle. Infatti, la fatidica scadenza dei cinque anni tornò a pretendere il suo obolo sacrificale, portandosi via uno zio nel 1915, e nel 1920 il bambino di Nora. “Qualche cosa c’era, qualche cosa di oltreumano, di astrale”, in quelle fatali ricorrenze.

Il ritorno nel paese natale, dove la lugubre fama che le circondava si era ormai diffusa radicandosi nelle coscienze e nei comportamenti degli abitanti, non le aiutò a superare paure e superstizioni, rendendo sempre più precaria la loro salute fisica e mentale, nell’attesa ansiosa del compiersi del funesto presagio. “Non importa morire, importa non sapere quando… La vita è essere incerti, la vita è non sapere, non sapere né quando né dove uno va… La vita è andarsene”, riflette uno dei protagonisti nell’ultima pagina del volume.

Forse è il caso di ricordare brevemente quale sia stata la parabola esistenziale e culturale dell’autore di questo singolare romanzo, sospeso tra il noir goticheggiante e un acuto psicologismo.

Massimo Bontempelli (Como,1878-Roma,1960) fu una controversa figura di romanziere, poeta,  drammaturgo, compositoregiornalista e traduttore. Laureato in filosofia e in lettere, visse in varie città, collaborando a numerose e importanti testate giornalistiche e case editrici. Convinto interventista, inviato di guerra, combatté come artigliere al fronte, ottenendo la Medaglia di bronzo al valor militare. Trasferitosi a Parigi, entrò in contatto con le avanguardie artistiche francesi, affidandosi nelle prime opere a un irrazionalismo onirico sulle tracce del movimento surrealista di Breton, e inaugurando con gli amici Alberto Savinio e Giorgio De Chirico la corrente sperimentale del “realismo magico”.

Tornato a Roma, aderì al Partito Fascista insieme a Pirandello, per la cui compagnia teatrale iniziò a scrivere opere drammatiche, sempre oscillanti tra atmosfere fiabesche e spettrali. Estremamente critico nei confronti del provincialismo letterario italiano, fondò prestigiose riviste dal respiro cosmopolita (“900”, “Quadrante”, “Città”), rivalutando l’imprevedibilità del caso e il fascinoso dominio della magia contro il determinismo massificante della società borghese, e sottolineando il ruolo fondamentale dell’inconscio nelle azioni umane, insieme alla necessità di rifarsi al mito come sorgente immaginativa di ogni forma artistica.

Su questo terreno ideologico, Bontempelli edificò nel 1937 le basi di Gente nel tempo, opera in cui l’assurdo e l’imponderabile si insinuano nei disegni del destino, creando attese e smarrimenti, incubi e leggendarie fantasticherie.

Il romanzo, “strutturato, come un thriller misterioso, in un percorso a tappe agghiacciante e diabolico, non privo di colpi di scena” (come scrive la prefatrice del volume Marinella Mascia Galateria), anticipava con assoluta originalità i nuovi percorsi narrativi e drammaturgici del secondo ’900, e rimane ancora oggi l’inquietante testimonianza di un immaginoso tentativo esoterico di sottrarsi a una realtà vissuta come opprimente e drammatica.

 

© Riproduzione riservata                        «Gli Stati Generali», 14 ottobre 2020

 

 

 

RECENSIONI

BORDINI

CARLO BORDINI, I COSTRUTTORI DI VULCANI – SOSSELLA, BOLOGNA 2010

Ha scritto bene Roversi, questo libro è un fiume, e chi vi entra dentro deve nuotare secondo la sua corrente, lasciarsi portare, non opporre resistenza all’acqua che vi scorre: alle parole, ai significati molteplici, alla rabbie e agli insegnamenti morali. Che sono numerosi, importanti, seri. Un invito costante a non adeguarsi al mondo, al mondo che vince, che sopraffa; e invece la richiesta di resistere consapevolmente, orgogliosi della propria diversità, del proprio essere altro dal sentire banale dei più.

Sono per questo preferibili i poemetti lunghi,civili, come “Il poema a Trotsky”, “Polvere”, “Città”, “Pericolo”.  Ci sono dentro, a queste prove, richiami etici; a volte sdegno, più spesso amarezza. Ma soprattutto qualcosa che assomiglia alla dolcezza. Uno sguardo indulgente, comprensivo, verso tutto ciò che è semplicemente umano. Di un poeta che sa e capisce, sa e perdona, e ama -poeticamente- anche l’aria.

Altre composizioni, più brevi, molto ironiche e provocatorie, sembrano voler essere uno sberleffo, o uno schiaffo a certa comunità o élite letteraria, una divertita irrisione alla pigrizia mentale di chi legge: è anche questo, suggerisce Carlo Bordini, il compito del poeta e dell’intellettuale che voglia vivere nell’oggi.

 

IBS,  9 novembre 2010

RECENSIONI

BORDINI

CARLO BORDINI, EPIDEMIA – KIPPLE OFFICINA LIBRARIA – TORRIGLIA (GE) 2015 (e-book)

Carlo Bordini è poeta anti-istituzionale, poeta-contro e poeta-pro. Contro le élite intellettuali e letterarie (ha sempre pubblicato presso case editrici minori, con tirature limitate) e a favore di ogni marginalità, esistenziale e politica. È stato definito dai critici “poeta narrativo dal passo stilistico crudo e micidiale”, “poeta dell’eccesso e della resistenza… poco rassicurante e forse diseducativo”. Senz’altro è uno scrittore che non si è mai adeguato al pensiero accomodante, maggioritario, conformista di chi cerca il successo. Un ribelle? Un provocatore? Forse, ma portatore di un’etica indulgente e comprensiva, che usa le armi dell’ironia e dello sberleffo per opporsi alle convenzioni mentali, alle modalità di un sentimentalismo banale e consolatorio.

In anni recenti sono uscite presso l’editore bolognese Luca Sossella due antologie che raccolgono versi e prose di Bordini, I costruttori di vulcani e Difesa berlinese. Ma chi nulla conoscesse di questo autore, può iniziare a leggerlo in un e-book a prezzo quasi zero del 2015, Epidemia, che contiene toni e temi propri di tutta la sua produzione: l’indignazione morale e la pietà per chi subisce la violenza della storia, un’orgogliosa estraneità ai compromessi e lo sdegno verso ogni sopraffazione sugli indifesi e gli ultimi.

Il testo contiene due differenti brani poetici, composti nello stile narrativo che ha spesso identificato con originalità la produzione del poeta romano: non i versi cui siamo abituati, che ubbidiscono a precise regole metriche e a figure retoriche o invenzioni fonetiche (rime, allitterazioni, anafore…). Piuttosto una prosa cadenzata da una riflessione interiore, produttrice di una modulazione ritmica. L’epidemia di cui si parla nella sezione di apertura ha evidenze sia materiali e fisiche, sia metaforicamente ideali. Prendendo spunto dal contagio della mucca pazza che interessò gli allevamenti bovini italiani nel 2001, Bordini compie un’operazione linguistica straniante e provocatoria, sostituendo al termine “capo” (usato asetticamente negli articoli giornalistici dell’epoca per definire la bestia malata), la parola “schiavo”, quasi a indicare che animali e esseri umani costretti in cattività e subordinati alle esigenze del mercato, rispondono allo stesso tragico destino di assurda e ingiustificata violenza. Nessuno è innocente, sembra suggerire l’autore: chi si nutre di carne, chi la commercia, chi macella, chi svende corpi umani.

Il secondo capitoletto si intitola La genesi di un pensiero, e segue le tracce delle considerazioni del poeta riguardo alla profezia del Massachussets Institute of Tecnology, tenuta segreta, secondo cui entro cinquant’anni il mondo sarà condannato a un’eclissi definitiva, poiché “ogni civiltà quando raggiunge la capacità tecnica di autodistruggersi, lo fa”. La rabbia, la pena, la frustrazione che il poeta prova all’idea della catastrofe irragionevole e spietata che attende l’umanità, si mescola all’amarezza di altri ragionamenti più immediatamente politici: una finanza capitalistica impazzita, il surriscaldamento climatico, l’utopia pacificamente rivoluzionaria dei giovani manifestanti a Genova contro il G8 repressa nel sangue nel 2001. Tutto appare ingiusto, crudele e incomprensibile, al punto che al poeta sembra preferibile sparire, avendo portato a termine la sua parabola esistenziale: “se fossi morto non avrei perso nulla”.

Alex Tonelli, nella sua empatica prefazione, intuisce nelle parole di Carlo Bordini il senso di un’impotenza disperante, che si interroga sull’assurdità di esserci, qui e ora, per non esserci improvvisamente più subito dopo, in un’epidemia fisica e mentale che conduce “all’inutilità manifesta del nulla”. Nei due giorni successivi alla conclusione della silloge, l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre sembrò voler porre un sigillo angoscioso e tombale alle parole del poeta.

 

© Riproduzione riservata     https://www.sololibri.net/Epidemia-Bordini.html          25 giugno 2019

 

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BOREL

HENRI BOREL, WU WEI – NERI POZZA, VICENZA 1999

Henri Borel, studioso olandese di culture orientali,scrisse questa “Fantasia ispirata dalla filosofia di Lao Tzu” nel 1898: non un saggio o un’opera divulgativa, ma una commossa composizione fantastica fondata sugli insegnamenti del Taoismo. In essa immagina che un giovane desideroso di imparare la verità eterna dell’universo e la pace del cuore si recasse in una disabitata isoletta cinese per incontrare il “Saggio venerabile che aveva penetrato i segreti del cielo e della Terra, di nome Lao Tzu”. E qui giunto interrogasse il Maestro nel tentativo di raggiungere la luce interiore, la perfezione dei sentimenti e del pensiero. E il primo insegnamento che ne trasse fu quello di abbandonarsi al fluire del tempo e della vita, con lo stesso respiro di ogni cosa esistente, con la stessa docilità del mare che si muove senza saperlo, delle stagioni che si susseguono, del giorno e della notte che scandiscono inarrestabili le loro ore, dei fiori, delle nuvole e degli uccelli. Questo è il “WuWei“, non l’inerzia del non agire, ma l’accordo con il flusso cosmico, con la bontà della natura, con l’adesione al Tao, che è la via, la parola, Dio: l’Unico,i l Principio e la Fine, ciò che contiene tutte le cose, e a cui tutte ritornano. Tao è in tutto, nella vita e nella morte, in ogni luogo e persona. Tao è poesia e amore, eternità e nulla, armonia e bellezza, pace e ristoro.”Potremo raggiungerlo solo attraverso la rinuncia del desiderio, anche del desiderio della bontà e della saggezza… Così tu pure scivolerai verso Tao, e quando lo avrai raggiunto non lo saprai, giacché sarai diventato Tao tu stesso”. Il giovane allievo continuò a interrogare il saggio sull’essenza dell’amore, imparando che ci si deve liberare da ogni illusione di gloria, competizione, volontà di possesso: e che è vano cercare altrove risposte che possiamo trovare in noi stessi, e nel cuore di qualsiasi espressione vitale, in una metropoli come nel deserto.”E’ in mezzo alla vita che bisogna crescere, non ai suoi margini. Tao è ovunque”.

IBS, 27 agosto 2011

RECENSIONI

BORGES

JORGE LUIS BORGES, LA CECITÁ, L’INCUBO – MIMESIS, MILANO 2012

Jorge Luis Borges, maestro della letteratura fantastica, si interroga in queste due conferenze tenute a Buenos Aires nel 1977, e riproposte dalla casa editrice Mimesis nel 2012, sul buio di due condizioni, fisiche e mentali: La cecità e L’incubo. Riguardo al primo stato, la cecità progressiva che ha colpito l’autore in modo definitivo nel 1955, ma segnalandosi già dall’infanzia per una sindrome congenita ed ereditaria, veniamo informati del non-buio che circonda gli ipo-vedenti, «un mondo fatto di nebbiolina, una nebbiolina verdognola o azzurrina e vagamente luminosa», in cui si intravedono pochi colori: il giallo, il verde sfumante nel blu. Mai il nero, mai il rosso, raramente il bianco. Nella cecità Borges ammette di avere perso il mondo esterno, ma di averne conquistato un altro, altrettanto ricco e formativo: quello della letteratura, dei «lontani antenati» greci, scandinavi, anglosassoni, medievali.

«Ho sempre sentito che il mio destino era, anzitutto, un destino letterario… Uno scrittore, o meglio ogni uomo, deve pensare che tutto ciò che gli succede è uno strumento; tutte le cose gli sono state date per un fine e questo deve essere più forte nel caso di un artista».

Altri grandi hanno preceduto Borges nella cecità. Non solo i suoi predecessori nella direzione della Biblioteca Nacional Argentina, Groussac e Mármol; ma soprattutto Omero, Milton, Joyce, Prescott, forse maggiormente in grado di esplorarsi nell’anima proprio grazie alla loro menomazione: «Chi può conoscere meglio se stesso, se non un cieco?» L’altro buio raccontato da Borges è quello del sonno, che interessa ogni essere vivente, «la modesta eternità che possediamo ogni notte». E se alcuni poeti e narratori hanno ipotizzato che tutta la nostra esistenza sia un sogno, in molti affermano che questa sospensione della vita, quando sia animata dagli incubi, cada in possesso di un demone, come suggeriscono i termini inglesi e tedeschi, “nightmare” e “alp”. Lo scrittore argentino confessa quali siano i suoi incubi ricorrenti: il labirinto, lo specchio e la maschera, che metaforizzano tutti lo smarrimento, il rispecchiamento mendace, l’inganno. E aggiunge di essere affascinato dal sogno, anche nella sua versione più orrifica e drammatica, perché si tratta dell’«attività estetica più antica», di cui ciascuno di noi è artefice, e in cui «siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo». Sognando, diventiamo tutti pittori, poeti, registi, autori drammatici, strumenti di un sovrannaturale che non dominiamo e ci domina, liberandoci da una realtà opprimente e immodificabile.

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/La-cecita-l-incubo-Borges.html     14 novembre 2016

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BORGES

JORGE LUIS BORGES, SOGNARE E SCRIVERE – IL CLUB DI MILANO, 2013 (ebook)

Di Jorge Luis Borges ((Buenos Aires,1899-Ginevra,1986), scrittore, saggista, poeta, filosofo, traduttore e bibliotecario, sono raccolti in questo economicissimo ebook alcune conferenze tenute negli ultimi anni di vita sulla letteratura, considerata dal punto di vista di chi scrive e di chi legge. Sognare e scrivere è un titolo indovinato e accattivante, espunto da uno dei saggi editi nel 2007 in Una vita di poesia. Esplicita è già l’epigrafe: “… si vantino altri delle pagine che hanno scritto; quanto a me, m’inorgogliscono quelle che ho letto. La mia lettura è molto più importante della mia scrittura”.

Partendo dai poemi medievali islandesi sulla guerra tra le forze del bene e le forze del male, in una lotta che segna il crepuscolo degli dei e l’inevitabile apocalisse, Borges passa a citare Shakespeare e Cervantes, Schopenhauer e Whitman, confessando di non riuscire a pensare al passato se non rifacendosi concretamente a esperienze letterarie, e ugualmente di non essere in grado di decifrare il presente, nella confusione delle cronache giornalistiche. Immaginandosi immortale, come ogni essere vivente, riesce solo a proiettarsi nel futuro più prossimo, scandito da azioni e progetti concreti.

“Io vedo la storia come un lungo sogno, un lungo sogno arbitrario e, quello che forse è più strano, è che è un sogno che sogna se stesso. Un sogno senza sognatore. Forse questo mi allontana dal cristianesimo e mi avvicina al buddismo”. Riguardo alla propria esistenza individuale, ritiene sia meglio rimanga velata, inconoscibile a se stesso e agli altri, mentre per ciò che concerne la propria scrittura, sa che essa si produce come per miracolo: “Sento all’improvviso che qualcosa sta per occorrermi e allora la mia anima, la mia coscienza, stanno in atteggiamento passivo, e aspetto, e qualcosa occorre, che può essere una favola. Di questa favola mi è dato vedere il principio e la fine, non quello che succede tra il punto di partenza e la meta: questo, devo scoprirlo io”.

L’arte accade, e l’artista si deve porre in una posizione di attesa, in modo di accoglierla nel suo avvenire. Le teorie estetiche, le scuole e le correnti non hanno alcun rilievo nell’ispirazione e nella composizione di un’opera: interviene qualcosa d’altro, il subconscio, o lo spirito. Anche la storicità di un romanzo o di un poema non lo interessa, bensì solo la fascinazione prodotta dalla sua musicalità: la poesia è suono, incantevole affabulazione.

Molto interessanti sono le considerazioni che Borges fa sull’individualità, che non ha alcun rilievo come culto della propria immagine personale, in quanto siamo tutti inessenziali e destinati a morire e a venire dimenticati: “L’umanità è immortale, non l’individuo. Io non voglio essere immortale in quanto individuo… Solo la poesia e l’arte non possono morire”. Riguardo alla sua attività di autore, afferma: “Ho fatto di me questa strana cosa, un uomo di lettere, un uomo il cui destino è cambiare le sue emozioni in parole, scriverle, forse pensare non tanto al loro senso quanto alla loro cadenza, alla loro musica, alla loro suggestione, e creare sogni”.

Convinto che uno scrittore debba essere fedele non tanto alle proprie idee, quanto ai propri sogni, Borges ritiene essenziale che un poeta si dimostri sensibile a ogni cosa, e sappia poi trasformare le cose in parole: in ciò risiede il suo dovere etico. “Non so che cosa significhi la mia opera. Non so se ho un’opera. Sono piuttosto frammenti, abbozzi in cui però la gente ha trovato qualcosa e in cui, forse, c’è veramente qualcosa, nonostante le mie intenzioni”. Noi lettori prendiamo atto stupiti della modestia con cui uno dei massimi letterati del ’900 si esprime in queste conversazioni: l’umiltà delle anime grandi, che si riconoscono piccole nei confronti dell’infinito temporale e spaziale. Completano l’ebook una breve nota biobibliografica e una galleria di ritratti dell’autore.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Sognare-e-scrivere-Borges    7 gennaio 2022

 

 

 

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BORGES-BIOY CASARES-OCAMPO

BORGES-OCAMPO-BIOY CASARES, ANTOLOGIA DELLA LETTERATURA FANTASTICA – EINAUDI, TORINO 2007

«Una sera del 1937 parlavamo di letteratura fantastica, discutevamo i racconti che ci sembravano migliori; uno di noi disse che se li avessimo riuniti, aggiungendo i frammenti dello stesso tipo annotati nei nostri quaderni, avremmo ottenuto un buon libro. Abbiamo messo insieme questo libro». Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares e sua moglie Silvina Ocampo diedero avvio in questo modo, un po’ casuale e improvvisato, all’ideazione di un’Antologia della Letteratura Fantastica che è diventata un caso letterario mondiale, tracciando un percorso di studi e analisi di un genere fino ad allora sottovalutato.

Prima edizione nel 1940, seconda nel 1965; nel 1980 l’edizione italiana, ripresa poi da Einaudi nel 2007. Senza enunciare alcun canone del fantastico, nelle prefazioni gli autori parlano solo del criterio edonistico che ha guidato le loro scelte, secondo uno sguardo soggettivo deciso a rivendicare a se stesso la responsabilità di includere o scartare autori diversi per epoche e origini, per fama e stile, ma accomunati dalla volontà di “raccontare una storia fantastica sostenuta da una trama precisa”, in polemica con la letteratura psicologica o realistica imperante a livello mondiale tra 800 e 900. I tre antologisti scelsero di allineare i testi in ordine alfabetico, aldilà di qualsiasi classificazione cronologica o geografica o di valore, creando così nel lettore effetti di straniante sospensione, attesa, curiosità. Così autori medievali seguono o precedono scrittori d’avanguardia, il nostro Papini succede all’americano O’Neill, Kafka anticipa Kipling. Si passa da uno stile all’altro, da un argomento all’altro, da una lunghezza di parecchie pagine alle poche righe di un aforisma.

«Antiche come la paura, le storie fantastiche precedono la scrittura», scriveva Bioy Casares nella prefazione del 1940, assicurando che spettri, incubi e fantasmi esistevano già nella Bibbia, in Omero, nelle Mille e una notte; da sempre ciò che caratterizza un racconto fantastico è l’ambiente in cui si svolge, l’atmosfera di mistero, la sorpresa, la dislocazione spaziale o temporale, l’esaudimento di desideri, la metamorfosi, l’orrore, il fatto soprannaturale o metafisico. Insomma, tutto ciò che non è facilmente e razionalmente spiegabile e motivato. In questo senso, aggiungeva Borges, «tutta la letteratura è fantastica»: proprio perché non si potrà mai ridurre a calcolo, profitto economico o interesse politico. E concludeva: «Le più belle antologie le fa il tempo», salvando nella memoria dei lettori anche pagine consunte dal trascorrere di decenni e secoli: infatti qui troviamo Petronio, Niu Sengru, Rabelais, Carlyle. Ma anche Poe, Wells, Joyce, Cortàzar e gli stessi tre autori. Perché, come scrive Ernesto Franco nella presentazione, questa più che un’antologia, «è l’autoritratto di un’amicizia».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Antologia-letteratura-fantastica.html   27 febbraio 2017

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA SOLITUDINE DELL’ANIMA – FELTRINELLI, MILANO 2013

Il Professor Eugenio Borgna, psichiatra di fama internazionale, ha dedicato un suo libro al tema affascinante e vastissimo della solitudine. I suoi precedenti volumi (otto nell’ultimo decennio, tutti editi da Feltrinelli) indagavano il mistero della sofferenza umana, nei vari aspetti della malattia psichica: dalla schizofrenia all’ansia, dalla malinconia alla depressione. Ma sempre con cuore attento ad ogni vibrazione dell’anima e della mente umana: quindi anche alle emozioni, alle attese, alle speranze che nutrono il vivere quotidiano delle persone, sane o malate che siano. In quest’ultima opera, è appunto l’universo infinito delle varie solitudini che viene affrontato anche con l’ausilio di apporti culturali diversi, che sconfinano nella filosofia (i nomi più citati sono quelli di Pascal, Kierkegaard, Nietzsche, Schopenhauer: per arrivare ai novecenteschi Simone Weil, Husserl, Jaspers, Wittgenstein, Barthes ), nella religione (Sant’Agostino, i mistici, Santa Teresa di Calcutta), nel cinema e nella musica (Ingmar Bergman, Bach, Chopin), nella letteratura e poesia (Leopardi, l’amata Emily Dickinson, Rilke, Bernanos, Etty Hillesum): tutti intellettuali che hanno esplorato più le intermittenze del cuore che le diverse forme della razionalità. L’epigrafe di apertura porta la firma della Dickinson, con due suoi illuminanti versi : «Forse sarei più sola / senza la mia solitudine», che ben esemplificano il rapporto di quasi riconoscenza, di quasi confidenza e familiarità che tutti dovremmo avere con la solitudine. La quale è cosa ben diversa dall’isolamento, che Eugenio Borgna definisce «come solitudine negativa, in cui si è chiusi in se stessi, perduti al mondo e alla trascendenza nel mondo». Perché ««ci si può sentire soli anche nel contesto di una folla, e non si è soli, ci si può non sentire soli anche nel deserto: quando questo sia riscattato, e redento, da una palpitante apertura a noi stessi e, benché assenti, agli altri». E ancora: «La solitudine, come il silenzio, è esperienza interiore che ci aiuta a vivere meglio la nostra vita di ogni giorno…rientrando nella nostra vita interiore…avvertiamo l’importanza della riflessione e della meditazione, della sensibilità e della carità, delle attese e della speranza, della contemplazione e della preghiera».

Quali sono invece le cause che inducono a isolarsi, a chiudersi in una «prigione senza porte, che è quella della lontananza dagli altri»? Borgna ne elenca molte: «la malattia depressiva, la mancanza o la perdita di persone amate, la dissolvenza di ruoli sociali significativi…ma anche la nostra indifferenza e la nostra noncuranza, la nostra desertificazione emozionale, il nostro rifiuto dell’amore…». Il dolore del corpo e dell’anima, le crisi di fede, la timidezza, i sensi di colpa per colpe mai commesse, l’acutizzarsi di conflitti sociali, l’angoscia, le tante paure che paralizzano le nostre ore: sono tutti fattori che spingono le persone a chiudersi in se stesse, come monadi senza finestre. Ma non si deve, per questo, ghettizzare con giudizi impietosi chi si ammala di solitudine; l’autore ha parole molto dure verso coloro che si vantano di una loro presunta e presuntuosa normalità: «Guai a consegnarsi ai pregiudizi astratti di una normalità apparentemente portatrice e creatrice di valori che non conosce i significati, e i valori, della sofferenza e del dolore». Nell’esplorare i più diversi percorsi umani, dalla mistica alla ricerca di una felicità perduta, dall’immaginazione poetica al baratro della malattia e della morte, Borgna arriva a dare della solitudine una visione anche positiva, quasi salvifica: «come compagna di strada che ci salva, nel silenzio, dai discorsi inutili e dagli impegni lacerati, e contaminati, della insignificanza». Questo ricchissimo e necessario volume si chiude con un capitolo dedicato alla cura del dolore, in grado di analizzare in quali situazioni sorga e si perpetui la scelta della solitudine; e con quali interventi si possa soccorrere chi soffre: attraverso quali parole e silenzi, con quali carezze e attenzioni, con quanta presenza delicata e generosa insieme. Soprattutto, con quali terapie mediche, offerte dalla più avanzata psichiatria fenomenologica, che si affida alla cura farmacologica unita a quella relazionale, «nutrita di dialogo e di ascolto». Ecco quindi l’umanissimo invito finale: «Siamo gentili con chi sta male: una psichiatria gentile, che rifiuti l’indifferenza e che sia suscitatrice di speranza, è ancora possibile».

«Orizzonti» n. 53, giugno 2014

RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA FRAGILITA’ CHE È IN NOI – EINAUDI, TORINO 2014

La fragilità è un difetto, una colpa, la spia incontestabile di uno stato di precaria e instabile debilità?
Il Professor Eugenio Borgna, psichiatra e fenomenologo di fama, le dedica questo prezioso volumetto pubblicato nella collana  Le vele  di Einaudi, da subito prendendo le sue difese: «La fragilità, negli slogan mondani dominanti, è l’immagine della debolezza inutile e malata, inconsistente e destituita di senso; e invece nella fragilità si nascondono valori di sensibilità e di delicatezza, di gentilezza estenuata e di dignità, di intuizione dell’indicibile e dell’invisibile che sono nella vita, e che consentono di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo e nelle emozioni, nei modi di essere esistenziali, degli altri da noi».

Fragile è il silenzio, espressione spesso di timidezza o incapacità comunicativa, e fragili sono anche le parole, inadeguati scandagli dell’anima propria e altrui. E quanto fragili, trepide e vulnerabili sono le emozioni che ci vivono dentro, siano esse positive come la gioia, la speranza e la grazia, impalpabili e transeunti, siano invece negative come la tristezza, la malinconia, la nostalgia, che oscurano gli orizzonti delle nostre giornate e i rapporti con gli altri. Eugenio Borgna riflette sulla natura della fragilità come esperienza interpersonale («… è il nostro destino… nasce, si svolge e si articola in una stretta correlazione con l’ambiente in cui viviamo, e cioè con gli altri da noi»), e si addentra empaticamente con la sua decennale esperienza professionale negli stati fisici e psichici più segnati dalla fragilità: la malattia, in particolare quella mentale, nei suoi aspetti patologici e clinici.

La follia non è evento naturale bruciato dalla sua insignificanza, ma è esperienza storica ed esperienza sociale: non c’è follia nel regno animale. La follia non è qualcosa di estraneo alla vita: in alcuni fra noi essa si manifesta con grande intensità e con un diapason fiammeggiante di angoscia e di tristezza, di disperazione e di dissociazione; ma la follia nella sua radice più profonda è una possibilità umana, che è in ciascuno di noi, con le sue ombre più o meno dolorose, e con le sue penombre, con le sue agostiniane inquietudini del cuore. Il dolore e la stanchezza di vivere possono suggerire a chi soffre la strada definitiva del suicidio, seguita con severa determinazione dalla giovane poetessa Antonia Pozzi, o possono murare l’individuo nel «fine pena mai» dell’Alzheimer, malattia tuttora circondata «dal filo spinato del pregiudizio». E gli anni più scalfibili, le età dell’esistenza più aggredibili dal sentimento della propria inadeguatezza, sono secondo Borgna l’adolescenza e la senilità, «cittadelle assediate» da paure, sconfitte, solitudini, dipendenze emotive, subalternità ideologiche: periodi di vita non ancora sfruttabili o già totalmente sfruttati dal mondo produttivo e consumistico che ci condiziona tutti. Eppure, scriveva San Paolo nella Lettera ai Corinzi, «quando sono debole, allora sono potente». Come non riconoscere, infatti, una vittoriosa forza di resistenza in alcune esperienze mistiche solo all’apparenza inquiete e angoscianti, come quelle di Teresa di Lisieux e di Teresa di Calcutta, o nelle esili figure artistiche di Alberto Giacometti? E cosa ci può indicare la vulnerabilità del carattere femminile, più sensibile e introspettivo di quello maschile, capace di riconoscere non solo le proprie ferite, ma anche quelle altrui, quando riesce a trasformare con tenerezza «le relazioni umane, immergendole in atmosfere di accoglienza, e di non conflittualità»? La fragilità, conclude Eugenio Borgna, non è «una forma di vita inutile e antisociale, e anzi malata, e che non merita nel migliore dei casi se non compassione»: essa nasce «dalle falde più profonde e creatrici della nostra interiorità», ha l’inconsistenza di un sorriso, la sua gratuità, ma anche la sua profonda dolcezza e mite iridescenza.

 

«incroci on line», 14 dicembre 2014