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RECENSIONI

BONNEFOY

YVES BONNEFOY, POESIA E FOTOGRAFIA – O BARRA O, MILANO 2015

Yves Bonnefoy (1923-2016), grande classico della poesia francese del ’900, ha dedicato nel 2002 un breve saggio al rapporto tra poesia e fotografia, tradotto e pubblicato nel 2015 dalla casa editrice milanese ObarraO.

Antonio Prete nella prefazione afferma che secondo Bonnefoy la poesia ha il compito di dispiegare il visibile (l’immagine, in tutte le sue declinazioni) alla luce della parola, avvicinandosi al respiro delle cose, al loro mostrarsi nella nudità, e facendole parlare. Si accosta in tal modo alla visione bloccata ed eternizzata della fotografia.

“Le grandi questioni che attraversano tutta la scrittura di Bonnefoy, l’assenza e la presenza, la parola e l’immagine, lo sguardo e il visibile, la singolarità irripetibile del vivente e il caso, l’istante e il fuggitivo tornano e si riformulano intorno a quella vita particolare del soggetto e del mondo che sta nella fotografia”, commenta Prete. La precisione nella rappresentazione dei dettagli, offerta per la prima volta dall’invenzione di Daguerre a metà ’800, rivoluzionò il modo di raffigurare la realtà anche nella pittura e nella scrittura. “Laddove lo sguardo dell’artista sceglieva, e questa scelta lo rendeva umano, la fotografia invece registrava, fissava tutto, il che le permetteva di mostrare, se non addirittura di designare, la manifestazione del caso e di trascinare così al di là di ogni discorso ordinario sugli esseri e sulle cose, mettendo a tacere le parole della supposta verità per far ascoltare, direttamente, il silenzio della materia”.

Bonnefoy innesta la riflessione sull’origine della fotografia nel commento a Igitur, un testo di Mallarmé che narra l’esperienza orrifica di una notte trascorsa a meditare sul vuoto, il nulla, l’assenza, lo scorporarsi delle apparenze. Il poeta simbolista tentava di perseguire la bellezza attraverso un susseguirsi di “distruzioni” di ogni forma di sapere e di illusione, compresa quella di Dio, per ridursi alla pura coscienza del sé materiale. La cancellazione radicale di ogni concettualizzazione e verbalizzazione, restituiva così alle cose e al mondo oggettivo la loro positiva evidenza, “nel loro esserci sensoriale più immediato, più pieno”.

L’abisso terrificante del nulla è stato sperimentato e descritto da molti artisti e filosofi, oltre che dai più ispirati mistici: ma tutti hanno trovato modo di esprimerlo verbalmente o estaticamente, senza annullarsi nella propria singolare specificità. Mallarmé nell’esperire il proprio niente aveva invece recuperato il reale ancorandosi alla luminosa inconfutabilità degli oggetti sensibili, attraverso uno sguardo capace di percepire il solo dato sensoriale nella sua integrità. L’intuizione poetica, la descrizione del dettaglio, si parifica in tal modo allo scatto fotografico: “in Igitur, alla sua stessa origine, vi è il progetto di vedere senza sapere… la riduzione fondamentale e assoluta dell’apparire alla sua purezza”.

Poesia e fotografia, ciascuna con i propri mezzi espressivi, possono mostrare, nello sfondo oscuro del senso, il lampo di una presenza, la concretezza di un particolare, l’ossessione di un volto, anche quando vengano subito riassorbiti dal buio del giorno e della memoria.

Al commento del testo di Mallarmé, Bonnefoy accosta l’esegesi di un racconto di Maupassant del 1887, La notte, in cui il protagonista attraversa Parigi in preda a una sorta di ansiosa vertigine notturna. Percorre i boulevard illuminati dai lampioni, dove i caffè traboccano di vita e rumori, rendendosi conto che la recente scoperta dell’elettricità ha provocato, come la fotografia, un eccesso di intensità percettiva, privando brutalmente le cose e le persone di ogni alone misterioso, svelandole nella loro indifendibile esteriorità. Cerca allora rifugio nel buio della periferia, nel silenzio di strade deserte, nel Bois de Boulogne, perdendo ogni cognizione del tempo e del luogo, finché, oppresso da allucinazioni e terrore, raggiunge la Senna per immergersi nelle sue acque gelide.

La troppa chiarezza (nell’arte, nella poesia, nella fotografia, nella luce artificiale), offrendo un’immagine del tutto evidente della realtà, può illudere e sgomentare: “La fotografia è pericolosa. Il moltiplicarsi all’infinito delle fotografie che colgono solo il fuori della vita può contribuire alla fine del mondo”, commenta Bonnefoy.

Se torniamo all’intensa e suggestiva prefazione di Antonio Prete, dobbiamo condividerne la perplessità e il timore riguardo al futuro che ci aspetta: “Un tempo nuovo è possibile nell’epoca delle immagini affollate, disseminate, consumate? Il senso della presenza, della singolarità, del tu è ancora possibile in un’epoca in cui la parola della comunicazione distribuisce illusioni di prossimità nella lontananza, di corporeità nell’astrazione, di relazione nell’estraneità? Perché questo sia possibile, è forse necessario uno sguardo che sappia non solo catturare la bellezza del mondo nell’istante, ma sappia silenziosamente preservarla e custodirla”.

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 4 marzo 2021

 

 

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BONNEFOY

YVES BONNEFOY, INSIEME ANCORA – IL SAGGIATORE, MILANO 2022

Con testo francese a fronte, cura e note di Fabio Scotto – massimo conoscitore e traduttore dell’opera di Yves Bonnefoy in Italia –, Il Saggiatore pubblica l’ultimo libro di versi del grande poeta francese (1923-2016), scritto poco prima di morire: Insieme ancora. Un libro composito, in cui le diverse sezioni si susseguono alternando temi e stili differenti, sebbene nella costante di un unico sentimento di fondo, che potremmo definire di affettuosa malinconia, nella consapevolezza della prossima fine e nella volontà di lasciare una testimonianza di fede non tanto religiosa, quanto etica ed estetica. Se, come scrive Scotto nella prefazione, il pensiero poetico di Bonnefoy è stato sempre caratterizzato da una “parola aperta, transitiva, desiderosa di costruire il dialogo, l’incontro, la relazione”, pur nella complessità concettuale espressa, tanto più il suo ultimo lavoro documenta l’esigenza di un confronto da protrarre oltre la morte.

La prima sezione del volume, il cui titolo volutamente programmatico indica negli avverbi insieme e ancora il duplice desiderio di una continuità temporale da condividere con gli altri, è un poemetto diviso in tre parti, dove chi scrive prende congedo da sé stesso, dall’ambiente in cui è vissuto e da chi ha amato. Lo fa usando un tono sommesso e intenerito: “È strano, non vi riconosco. / Fa così buio che più non vedo il vostro volto /… Capisco che voi tutti non siete altro / Accanto a me che un’unica presenza, / A chi porgere la coppa, non so / Né voglio, la poso, per un istante. Scorgendo le vostre mani, / Le sfioro con le mie, è sufficiente”. Il senso stringente di comunità, quasi di cenacolo mistico, si esprime sia nell’uso dell’io che in quello del noi (io con voi, tu e io, noi tutti accanto…).

Fabio Scotto traduce il verbo francese léguer, coniugato alla prima persona singolare “je vous lègue” (lasciare, tramandare, consegnare in eredità, con un riferimento al lascito testamentario latino, il “legatum”), utilizzando il termine “legare”, forse proprio per sottolineare l’idea di vincolo, di rapporto inscindibile, di promessa da mantenere: “Miei cari, vi lego / L’inquieta certezza nella quale ho vissuto, / Quest’acqua scura trafitta dai riflessi di un oro / …Amici miei, amate mie, / Vi lego i doni che mi faceste, / Questa terra vicina al cielo, ad esso avvinta / Da queste innumerevoli mani, l’orizzonte.  / Vi lego il fuoco che guardavamo / Ardere nel fumo delle foglie secche… //… Vi lego lo squarcio delle tende, / Le finestre che sbattono, / L’uccello che restò imprigionato nella casa chiusa”. Nomina gli alberi, le bestie, i muri, i fiumi, gli ammassi di stelle, i libri dei filosofi amati (Plotino, Kierkegaard…), alcuni stimati insegnanti, e in particolare rende omaggio a sua moglie Lucy, con la quale ha costruito un prezioso rifugio domestico e ha avuto una figlia: “Mi chino, sei tu, / Il sorriso di tanti anni in questa notte”,  “O tu, e tu, Vita nata dalla nostra vita”, “E, nella casa vuota, il nostro bene / Che con noi resta, adesso, nell’attesa / Di averne bisogno l’ultimo giorno”.

Non si tratta di compitare un inventario del bene e del male esperiti, restituendo con gratitudine ciò che si è ricevuto, né di voler recuperare nella memoria (“La memoria è questo pozzo”) gli avvenimenti fondamentali del passato, per quanto la reiterata formula “Je me souviens” indichi l’importanza affettiva del ricordo. Il poeta avverte imprescindibile il desiderio di trasmettere a chi rimarrà il senso della bellezza e della grandezza dell’esserci, e dell’essere stato: “Credo, quasi so / Che la bellezza esiste e significa”, “È il mio bisogno di continuare a credere / Che abbia senso essere”, anche in una visione laica della realtà, che non si illuda di alcuna sopravvivenza ultraterrena. Una volta raggiunta “La frontiera laggiù tra tutto e nulla”, alla fine trova un senso “sia l’Uno che il molteplice”, se si riesce a conservare “La parola insensata della poesia”, che nella sua fragile gratuità racconta l’incanto di ciò che è vivo.

Assolutamente diverse nella forma e nei temi sono le successive sezioni che compongono il volume, (L’orsa maggiore, Il piede nudo, Insieme la musica e il ricordo, Poesie per Truphémus, Briefewege, Perambulans in noctem), in cui Yves Bonnefoy utilizza brani in prosa, dialoghi di impianto teatrale, sentenze aforistiche, appunti di cronaca, illustrando motivi, argomenti, materie da lui affrontate con passione per tutta la vita: filosofia, astronomia, musica, arte, mitologia, fotografia, traduzione poetica, sempre alla ricerca del significato ultimo del reale, e della luce spirituale che permea l’esistenza.

Nei due poemetti L’orsa maggiore e Il piede nudo, lo stile adottato dal poeta risulta del tutto nuovo. In dialoghi a più voci, si rincorrono ipotesi sull’oltrevita, sui suoni e silenzi che animano gli spazi siderali attorno al nostro piccolo pianeta. O ancora reminiscenze bibliche, brandelli di sogni, sfocati fotogrammi di ambienti popolari: frasi brevi, spesso ripetitive e percussive, mimano il linguaggio drammatico, il gergo infantile e le conversazioni telefoniche, sottolineando lo spaesamento stupito dell’autore di fronte alla complessità dell’esistente, mentre personaggi disincarnati tentano di dare una risposta surreale ai propri esitanti interrogativi.

I sette sonetti che compongono Insieme la musica e il ricordo descrivono l’abbandono di due amanti nell’ascolto di un’opera lirica, che travolgendoli nell’anima e nei sensi, li unisce in un’estasi mai prima provata (“Due corpi che scivolano nel tempo che non è più”), mentre in Poesie per Truphémus è l’arte ad avere ampio spazio di riflessione e ispirazione, esprimendo una delle grandi passioni di Bonnefoy, magistrale interprete di pittori (da Goya a Poussin, da Signac a Hopper), che qui ha agio di celebrare la fusione vitalizzante dei colori: “Entra con questo rosso vinaccia, questo giallo ocra, /  Questo blu d’altri tempi, / Fa’ che afferrino la mano della luce, / Che la guidino!” Briefwege è una breve sezione che raccoglie ricordi di visite in tre luoghi diversi, tra cui anche un carcere minorile campano. Ma è in Perambulans in noctem che la voce poetica di Bonnefoy ritrova il suo particolarissimo timbro espressivo, pur nella specificità formale del poema in prosa. Qui dodici brani di narrativa lirica affrontano temi culturali, come l’impossibilità del tradurre un qualsiasi testo senza ricrearlo, tradendolo necessariamente (“E s’immerge ancora, s’immerge più in là, più in basso, s’immerge ancora sempre più in basso, il traduttore”), oppure il miracolo di un dipinto che tenta di far rivivere la natura sulla tela, e memorie personali, erranze, visioni, introspezioni, indagini etimologiche, sempre nella tonalità evocativa che “tenta di portare  la parola al grado d’infinito del cielo stellato”.

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 29 novembre 2022

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BONO

ELENA BONO, CHIUDERE GLI OCCHI E GUARDARE – ARES, MILANO 2021

Per il centenario della nascita della scrittrice e poetessa Elena Bono, le Edizioni Ares pubblicano un’antologia di cento poesie (curata da Stefania Segatori, Francesco Marchitti e Silvia Guidi, con prefazione di Francesco Bultrini), intitolata Chiudere gli occhi e guardare. Elena Bono (1921-2014), ligure di adozione, è diventata un caso editoriale già dall’esordio con Garzanti negli anni’50, proprio con un volume di versi, I galli notturni.

Autrice di teatro e narrativa, acclamata dalla critica per la sua scrittura colta e raffinata, si è sempre contraddistinta per un’attenzione ai temi della spiritualità, nutrita da costanti riferimenti alla mitologia, alla letteratura e all’arte greca e latina, alla storia contemporanea, all’incantevole splendore della natura. Questi suoi interessi sono individuabili anche nelle poesie qui antologizzate, come sottolineano sia l’intensa introduzione di Bultrini (“un materiale narrativo incandescente, che raggiunge il lettore in maniera frontale, senza travestimenti o derive intellettuali”), sia l’approfondita ed entusiastica nota iniziale dei curatori.

In primo luogo, sono da rimarcare i sapienti rimandi a figure del mito (Venere, Bacco, Arione, Orfeo) e ai luoghi della civiltà classica (Pompei, Paestum, Taormina, il Colle Palatino, le Termopili), capaci di riverberare emozioni (“Voi, tombe antiche, sapete ogni cosa: / che sia la gioia / e ciò che chiamiamo dolore, /   che cosa ne resti ai morti / ed ai loro sogni”). Anche il pensiero, la poesia e la civiltà dell’antico Oriente hanno lasciato tracce consistenti nella produzione della poetessa, come dimostrano le composizioni dedicate ad antichi maestri dello Zen e alla loro mistica meditativa, con l’invito alla contemplazione della bellezza del creato e al raccoglimento introspettivo: “Silenzio e ancora silenzio. / Versatelo a lungo / piano, sulle ferite. / Anche la musica duole /   ad un cuore dolente”.

Ma è soprattutto incisiva, in una fervente cattolica come Elena Bono, l’ispirazione alle fonti bibliche, alle figure evangeliche descritte in numerose poesie. Maria, illuminata dal sacrificio e dalla gloria della maternità, Maddalena derisa dai soldati ma fiera della sua dedizione al Signore, e Cristo con la Passione e la Croce: “Cristo, svegliati, non dormire. //…  Ho bisogno di te, / di sentire il mio cuore nel tuo, / i tuoi nei miei pensieri. / La vita mia non mi basta. Voglio innestarmi a te, / fiorire nei tuoi fiori. / Prendimi, mio Signore, e dammi te stesso”).

Oltre a questo evidente e declamato afflato religioso, la scrittura poetica dell’autrice si rivolge con slancio partecipativo anche alla storia umana nella sua tragica concretezza. L’esperienza vissuta come staffetta nella guerra partigiana sulle montagne dell’Appennino ligure è narrata con ardore, nella precisa volontà di rendere omaggio ai compagni caduti combattendo, nominati e descritti nel loro generoso contributo offerto alla lotta contro il fascismo (“Morirono per la libertà, / essi, a cui i padri non avevano insegnato a vivere liberi”). L’imprecazione contro un’Italia imbelle che non ha saputo difendere i propri figli migliori assume tonalità quasi dantesche: “Ah Italia Italia / mugnaia che macini male. / Tu che trattieni la pula  / e getti via la farina…”. Lo stile di impianto tradizionale risente infatti dell’eredità di tutta la nostra storia letteraria, da Dante a Leopardi, di cui si ricalcano atmosfere, ambientazioni e descrizioni naturali: il vento, il cielo, la notte, la luna, la vastità dello spazio, tutti elementi che favoriscono la riflessione malinconica, l’affiorare dei ricordi, l’ansia di comunicazione con l’universo, l’attesa della morte, il motivo segreto della sofferenza. Decisamente leopardiani sono questi versi: “I notturni silenzi e i grandi spazi […] E le voci diverse / e  il mutare e il perire / non son più che una / incandescente quiete … / silenzio spazio interminato e stelle”, “Cuore, sopportami tutto e non domandare. /    Soffri soltanto”, “ma a poco a poco ciò che si ignora non fa più male / così semplice era tutto: chiudere gli occhi e guardare”. Chiudere gli occhi per non patire troppo, come suggeriscono i versi che danno il titolo all’antologia, e continuare a guardare attraverso i tremiti dell’anima.

© Riproduzione riservata                   SoLibri.net › Chiudere-occhi-guardare-Bono

13 ottobre 2021

 

 

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BONTEMPELLI

MASSIMO BONTEMPELLI, GENTE NEL TEMPO – UTOPIA, MILANO 2020 – p.192

La giovanissima casa editrice milanese Utopia ha inaugurato il suo catalogo riproponendo uno dei più famosi libri di Massimo Bontempelli, Gente nel tempo. Scelta perspicace e raffinata, perché il romanzo, pubblicato nel 1937, è stato più volte riedito con ottime tirature (fino all’inclusione nell’opera omnia dell’autore, uscita da Mondadori nel 1961, nel 1978 e nel 1997), provocando curiosità e polemiche per l’atmosfera di funerea iattura di cui era impregnato.

Aleggia infatti sull’intera vicenda una minacciosa profezia, pronunciata dalla Gran Vecchia, autorevole e intransigente matriarca della famiglia Medici, che prima di spegnersi in un’afosa notte estiva del 1900 aveva predetto all’inetto figlio Silvano, alla nuora Vittoria, al medico di casa, al notaio e al parroco del paese di Colonna, la morte in giovane età di tutti i componenti del casato.

Il macabro presagio negli anni si era rivelato sempre più attendibile. I due sposi avevano reagito ad esso in maniera differente: Silvano con maggiore turbamento, Vittoria con il desiderio di infrangere ingessati tabù, e di aprirsi alla vita. Le loro figlie, Dirce e Nora, rispecchiavano il diverso carattere dei genitori: la prima più introversa, la seconda più esuberante. A distanza di cinque anni dalla morte della nonna, videro morire il padre, e dopo un altro lustro assistettero anche alla scomparsa della madre.

Trasferitesi a Milano, le sorelle trascorsero gli anni della guerra impegnandosi come ausiliarie negli ospedali militari, mentre lo spettro della maledizione che incombeva sulla famiglia continuava a tormentarle. Infatti, la fatidica scadenza dei cinque anni tornò a pretendere il suo obolo sacrificale, portandosi via uno zio nel 1915, e nel 1920 il bambino di Nora. “Qualche cosa c’era, qualche cosa di oltreumano, di astrale”, in quelle fatali ricorrenze.

Il ritorno nel paese natale, dove la lugubre fama che le circondava si era ormai diffusa radicandosi nelle coscienze e nei comportamenti degli abitanti, non le aiutò a superare paure e superstizioni, rendendo sempre più precaria la loro salute fisica e mentale, nell’attesa ansiosa del compiersi del funesto presagio. “Non importa morire, importa non sapere quando… La vita è essere incerti, la vita è non sapere, non sapere né quando né dove uno va… La vita è andarsene”, riflette uno dei protagonisti nell’ultima pagina del volume.

Forse è il caso di ricordare brevemente quale sia stata la parabola esistenziale e culturale dell’autore di questo singolare romanzo, sospeso tra il noir goticheggiante e un acuto psicologismo.

Massimo Bontempelli (Como,1878-Roma,1960) fu una controversa figura di romanziere, poeta,  drammaturgo, compositoregiornalista e traduttore. Laureato in filosofia e in lettere, visse in varie città, collaborando a numerose e importanti testate giornalistiche e case editrici. Convinto interventista, inviato di guerra, combatté come artigliere al fronte, ottenendo la Medaglia di bronzo al valor militare. Trasferitosi a Parigi, entrò in contatto con le avanguardie artistiche francesi, affidandosi nelle prime opere a un irrazionalismo onirico sulle tracce del movimento surrealista di Breton, e inaugurando con gli amici Alberto Savinio e Giorgio De Chirico la corrente sperimentale del “realismo magico”.

Tornato a Roma, aderì al Partito Fascista insieme a Pirandello, per la cui compagnia teatrale iniziò a scrivere opere drammatiche, sempre oscillanti tra atmosfere fiabesche e spettrali. Estremamente critico nei confronti del provincialismo letterario italiano, fondò prestigiose riviste dal respiro cosmopolita (“900”, “Quadrante”, “Città”), rivalutando l’imprevedibilità del caso e il fascinoso dominio della magia contro il determinismo massificante della società borghese, e sottolineando il ruolo fondamentale dell’inconscio nelle azioni umane, insieme alla necessità di rifarsi al mito come sorgente immaginativa di ogni forma artistica.

Su questo terreno ideologico, Bontempelli edificò nel 1937 le basi di Gente nel tempo, opera in cui l’assurdo e l’imponderabile si insinuano nei disegni del destino, creando attese e smarrimenti, incubi e leggendarie fantasticherie.

Il romanzo, “strutturato, come un thriller misterioso, in un percorso a tappe agghiacciante e diabolico, non privo di colpi di scena” (come scrive la prefatrice del volume Marinella Mascia Galateria), anticipava con assoluta originalità i nuovi percorsi narrativi e drammaturgici del secondo ’900, e rimane ancora oggi l’inquietante testimonianza di un immaginoso tentativo esoterico di sottrarsi a una realtà vissuta come opprimente e drammatica.

 

© Riproduzione riservata                        «Gli Stati Generali», 14 ottobre 2020

 

 

 

RECENSIONI

BORDINI

CARLO BORDINI, I COSTRUTTORI DI VULCANI – SOSSELLA, BOLOGNA 2010

Ha scritto bene Roversi, questo libro è un fiume, e chi vi entra dentro deve nuotare secondo la sua corrente, lasciarsi portare, non opporre resistenza all’acqua che vi scorre: alle parole, ai significati molteplici, alla rabbie e agli insegnamenti morali. Che sono numerosi, importanti, seri. Un invito costante a non adeguarsi al mondo, al mondo che vince, che sopraffa; e invece la richiesta di resistere consapevolmente, orgogliosi della propria diversità, del proprio essere altro dal sentire banale dei più.

Sono per questo preferibili i poemetti lunghi,civili, come “Il poema a Trotsky”, “Polvere”, “Città”, “Pericolo”.  Ci sono dentro, a queste prove, richiami etici; a volte sdegno, più spesso amarezza. Ma soprattutto qualcosa che assomiglia alla dolcezza. Uno sguardo indulgente, comprensivo, verso tutto ciò che è semplicemente umano. Di un poeta che sa e capisce, sa e perdona, e ama -poeticamente- anche l’aria.

Altre composizioni, più brevi, molto ironiche e provocatorie, sembrano voler essere uno sberleffo, o uno schiaffo a certa comunità o élite letteraria, una divertita irrisione alla pigrizia mentale di chi legge: è anche questo, suggerisce Carlo Bordini, il compito del poeta e dell’intellettuale che voglia vivere nell’oggi.

 

IBS,  9 novembre 2010

RECENSIONI

BORDINI

CARLO BORDINI, EPIDEMIA – KIPPLE OFFICINA LIBRARIA – TORRIGLIA (GE) 2015 (e-book)

Carlo Bordini è poeta anti-istituzionale, poeta-contro e poeta-pro. Contro le élite intellettuali e letterarie (ha sempre pubblicato presso case editrici minori, con tirature limitate) e a favore di ogni marginalità, esistenziale e politica. È stato definito dai critici “poeta narrativo dal passo stilistico crudo e micidiale”, “poeta dell’eccesso e della resistenza… poco rassicurante e forse diseducativo”. Senz’altro è uno scrittore che non si è mai adeguato al pensiero accomodante, maggioritario, conformista di chi cerca il successo. Un ribelle? Un provocatore? Forse, ma portatore di un’etica indulgente e comprensiva, che usa le armi dell’ironia e dello sberleffo per opporsi alle convenzioni mentali, alle modalità di un sentimentalismo banale e consolatorio.

In anni recenti sono uscite presso l’editore bolognese Luca Sossella due antologie che raccolgono versi e prose di Bordini, I costruttori di vulcani e Difesa berlinese. Ma chi nulla conoscesse di questo autore, può iniziare a leggerlo in un e-book a prezzo quasi zero del 2015, Epidemia, che contiene toni e temi propri di tutta la sua produzione: l’indignazione morale e la pietà per chi subisce la violenza della storia, un’orgogliosa estraneità ai compromessi e lo sdegno verso ogni sopraffazione sugli indifesi e gli ultimi.

Il testo contiene due differenti brani poetici, composti nello stile narrativo che ha spesso identificato con originalità la produzione del poeta romano: non i versi cui siamo abituati, che ubbidiscono a precise regole metriche e a figure retoriche o invenzioni fonetiche (rime, allitterazioni, anafore…). Piuttosto una prosa cadenzata da una riflessione interiore, produttrice di una modulazione ritmica. L’epidemia di cui si parla nella sezione di apertura ha evidenze sia materiali e fisiche, sia metaforicamente ideali. Prendendo spunto dal contagio della mucca pazza che interessò gli allevamenti bovini italiani nel 2001, Bordini compie un’operazione linguistica straniante e provocatoria, sostituendo al termine “capo” (usato asetticamente negli articoli giornalistici dell’epoca per definire la bestia malata), la parola “schiavo”, quasi a indicare che animali e esseri umani costretti in cattività e subordinati alle esigenze del mercato, rispondono allo stesso tragico destino di assurda e ingiustificata violenza. Nessuno è innocente, sembra suggerire l’autore: chi si nutre di carne, chi la commercia, chi macella, chi svende corpi umani.

Il secondo capitoletto si intitola La genesi di un pensiero, e segue le tracce delle considerazioni del poeta riguardo alla profezia del Massachussets Institute of Tecnology, tenuta segreta, secondo cui entro cinquant’anni il mondo sarà condannato a un’eclissi definitiva, poiché “ogni civiltà quando raggiunge la capacità tecnica di autodistruggersi, lo fa”. La rabbia, la pena, la frustrazione che il poeta prova all’idea della catastrofe irragionevole e spietata che attende l’umanità, si mescola all’amarezza di altri ragionamenti più immediatamente politici: una finanza capitalistica impazzita, il surriscaldamento climatico, l’utopia pacificamente rivoluzionaria dei giovani manifestanti a Genova contro il G8 repressa nel sangue nel 2001. Tutto appare ingiusto, crudele e incomprensibile, al punto che al poeta sembra preferibile sparire, avendo portato a termine la sua parabola esistenziale: “se fossi morto non avrei perso nulla”.

Alex Tonelli, nella sua empatica prefazione, intuisce nelle parole di Carlo Bordini il senso di un’impotenza disperante, che si interroga sull’assurdità di esserci, qui e ora, per non esserci improvvisamente più subito dopo, in un’epidemia fisica e mentale che conduce “all’inutilità manifesta del nulla”. Nei due giorni successivi alla conclusione della silloge, l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre sembrò voler porre un sigillo angoscioso e tombale alle parole del poeta.

 

© Riproduzione riservata     https://www.sololibri.net/Epidemia-Bordini.html          25 giugno 2019

 

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BOREL

HENRI BOREL, WU WEI – NERI POZZA, VICENZA 1999

Henri Borel, studioso olandese di culture orientali,scrisse questa “Fantasia ispirata dalla filosofia di Lao Tzu” nel 1898: non un saggio o un’opera divulgativa, ma una commossa composizione fantastica fondata sugli insegnamenti del Taoismo. In essa immagina che un giovane desideroso di imparare la verità eterna dell’universo e la pace del cuore si recasse in una disabitata isoletta cinese per incontrare il “Saggio venerabile che aveva penetrato i segreti del cielo e della Terra, di nome Lao Tzu”. E qui giunto interrogasse il Maestro nel tentativo di raggiungere la luce interiore, la perfezione dei sentimenti e del pensiero. E il primo insegnamento che ne trasse fu quello di abbandonarsi al fluire del tempo e della vita, con lo stesso respiro di ogni cosa esistente, con la stessa docilità del mare che si muove senza saperlo, delle stagioni che si susseguono, del giorno e della notte che scandiscono inarrestabili le loro ore, dei fiori, delle nuvole e degli uccelli. Questo è il “WuWei“, non l’inerzia del non agire, ma l’accordo con il flusso cosmico, con la bontà della natura, con l’adesione al Tao, che è la via, la parola, Dio: l’Unico,i l Principio e la Fine, ciò che contiene tutte le cose, e a cui tutte ritornano. Tao è in tutto, nella vita e nella morte, in ogni luogo e persona. Tao è poesia e amore, eternità e nulla, armonia e bellezza, pace e ristoro.”Potremo raggiungerlo solo attraverso la rinuncia del desiderio, anche del desiderio della bontà e della saggezza… Così tu pure scivolerai verso Tao, e quando lo avrai raggiunto non lo saprai, giacché sarai diventato Tao tu stesso”. Il giovane allievo continuò a interrogare il saggio sull’essenza dell’amore, imparando che ci si deve liberare da ogni illusione di gloria, competizione, volontà di possesso: e che è vano cercare altrove risposte che possiamo trovare in noi stessi, e nel cuore di qualsiasi espressione vitale, in una metropoli come nel deserto.”E’ in mezzo alla vita che bisogna crescere, non ai suoi margini. Tao è ovunque”.

IBS, 27 agosto 2011

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BORGES

JORGE LUIS BORGES, LA CECITÁ, L’INCUBO – MIMESIS, MILANO 2012

Jorge Luis Borges, maestro della letteratura fantastica, si interroga in queste due conferenze tenute a Buenos Aires nel 1977, e riproposte dalla casa editrice Mimesis nel 2012, sul buio di due condizioni, fisiche e mentali: La cecità e L’incubo. Riguardo al primo stato, la cecità progressiva che ha colpito l’autore in modo definitivo nel 1955, ma segnalandosi già dall’infanzia per una sindrome congenita ed ereditaria, veniamo informati del non-buio che circonda gli ipo-vedenti, «un mondo fatto di nebbiolina, una nebbiolina verdognola o azzurrina e vagamente luminosa», in cui si intravedono pochi colori: il giallo, il verde sfumante nel blu. Mai il nero, mai il rosso, raramente il bianco. Nella cecità Borges ammette di avere perso il mondo esterno, ma di averne conquistato un altro, altrettanto ricco e formativo: quello della letteratura, dei «lontani antenati» greci, scandinavi, anglosassoni, medievali.

«Ho sempre sentito che il mio destino era, anzitutto, un destino letterario… Uno scrittore, o meglio ogni uomo, deve pensare che tutto ciò che gli succede è uno strumento; tutte le cose gli sono state date per un fine e questo deve essere più forte nel caso di un artista».

Altri grandi hanno preceduto Borges nella cecità. Non solo i suoi predecessori nella direzione della Biblioteca Nacional Argentina, Groussac e Mármol; ma soprattutto Omero, Milton, Joyce, Prescott, forse maggiormente in grado di esplorarsi nell’anima proprio grazie alla loro menomazione: «Chi può conoscere meglio se stesso, se non un cieco?» L’altro buio raccontato da Borges è quello del sonno, che interessa ogni essere vivente, «la modesta eternità che possediamo ogni notte». E se alcuni poeti e narratori hanno ipotizzato che tutta la nostra esistenza sia un sogno, in molti affermano che questa sospensione della vita, quando sia animata dagli incubi, cada in possesso di un demone, come suggeriscono i termini inglesi e tedeschi, “nightmare” e “alp”. Lo scrittore argentino confessa quali siano i suoi incubi ricorrenti: il labirinto, lo specchio e la maschera, che metaforizzano tutti lo smarrimento, il rispecchiamento mendace, l’inganno. E aggiunge di essere affascinato dal sogno, anche nella sua versione più orrifica e drammatica, perché si tratta dell’«attività estetica più antica», di cui ciascuno di noi è artefice, e in cui «siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo». Sognando, diventiamo tutti pittori, poeti, registi, autori drammatici, strumenti di un sovrannaturale che non dominiamo e ci domina, liberandoci da una realtà opprimente e immodificabile.

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/La-cecita-l-incubo-Borges.html     14 novembre 2016

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BORGES

JORGE LUIS BORGES, SOGNARE E SCRIVERE – IL CLUB DI MILANO, 2013 (ebook)

Di Jorge Luis Borges ((Buenos Aires,1899-Ginevra,1986), scrittore, saggista, poeta, filosofo, traduttore e bibliotecario, sono raccolti in questo economicissimo ebook alcune conferenze tenute negli ultimi anni di vita sulla letteratura, considerata dal punto di vista di chi scrive e di chi legge. Sognare e scrivere è un titolo indovinato e accattivante, espunto da uno dei saggi editi nel 2007 in Una vita di poesia. Esplicita è già l’epigrafe: “… si vantino altri delle pagine che hanno scritto; quanto a me, m’inorgogliscono quelle che ho letto. La mia lettura è molto più importante della mia scrittura”.

Partendo dai poemi medievali islandesi sulla guerra tra le forze del bene e le forze del male, in una lotta che segna il crepuscolo degli dei e l’inevitabile apocalisse, Borges passa a citare Shakespeare e Cervantes, Schopenhauer e Whitman, confessando di non riuscire a pensare al passato se non rifacendosi concretamente a esperienze letterarie, e ugualmente di non essere in grado di decifrare il presente, nella confusione delle cronache giornalistiche. Immaginandosi immortale, come ogni essere vivente, riesce solo a proiettarsi nel futuro più prossimo, scandito da azioni e progetti concreti.

“Io vedo la storia come un lungo sogno, un lungo sogno arbitrario e, quello che forse è più strano, è che è un sogno che sogna se stesso. Un sogno senza sognatore. Forse questo mi allontana dal cristianesimo e mi avvicina al buddismo”. Riguardo alla propria esistenza individuale, ritiene sia meglio rimanga velata, inconoscibile a se stesso e agli altri, mentre per ciò che concerne la propria scrittura, sa che essa si produce come per miracolo: “Sento all’improvviso che qualcosa sta per occorrermi e allora la mia anima, la mia coscienza, stanno in atteggiamento passivo, e aspetto, e qualcosa occorre, che può essere una favola. Di questa favola mi è dato vedere il principio e la fine, non quello che succede tra il punto di partenza e la meta: questo, devo scoprirlo io”.

L’arte accade, e l’artista si deve porre in una posizione di attesa, in modo di accoglierla nel suo avvenire. Le teorie estetiche, le scuole e le correnti non hanno alcun rilievo nell’ispirazione e nella composizione di un’opera: interviene qualcosa d’altro, il subconscio, o lo spirito. Anche la storicità di un romanzo o di un poema non lo interessa, bensì solo la fascinazione prodotta dalla sua musicalità: la poesia è suono, incantevole affabulazione.

Molto interessanti sono le considerazioni che Borges fa sull’individualità, che non ha alcun rilievo come culto della propria immagine personale, in quanto siamo tutti inessenziali e destinati a morire e a venire dimenticati: “L’umanità è immortale, non l’individuo. Io non voglio essere immortale in quanto individuo… Solo la poesia e l’arte non possono morire”. Riguardo alla sua attività di autore, afferma: “Ho fatto di me questa strana cosa, un uomo di lettere, un uomo il cui destino è cambiare le sue emozioni in parole, scriverle, forse pensare non tanto al loro senso quanto alla loro cadenza, alla loro musica, alla loro suggestione, e creare sogni”.

Convinto che uno scrittore debba essere fedele non tanto alle proprie idee, quanto ai propri sogni, Borges ritiene essenziale che un poeta si dimostri sensibile a ogni cosa, e sappia poi trasformare le cose in parole: in ciò risiede il suo dovere etico. “Non so che cosa significhi la mia opera. Non so se ho un’opera. Sono piuttosto frammenti, abbozzi in cui però la gente ha trovato qualcosa e in cui, forse, c’è veramente qualcosa, nonostante le mie intenzioni”. Noi lettori prendiamo atto stupiti della modestia con cui uno dei massimi letterati del ’900 si esprime in queste conversazioni: l’umiltà delle anime grandi, che si riconoscono piccole nei confronti dell’infinito temporale e spaziale. Completano l’ebook una breve nota biobibliografica e una galleria di ritratti dell’autore.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Sognare-e-scrivere-Borges    7 gennaio 2022

 

 

 

RECENSIONI

BORGES-BIOY CASARES-OCAMPO

BORGES-OCAMPO-BIOY CASARES, ANTOLOGIA DELLA LETTERATURA FANTASTICA – EINAUDI, TORINO 2007

«Una sera del 1937 parlavamo di letteratura fantastica, discutevamo i racconti che ci sembravano migliori; uno di noi disse che se li avessimo riuniti, aggiungendo i frammenti dello stesso tipo annotati nei nostri quaderni, avremmo ottenuto un buon libro. Abbiamo messo insieme questo libro». Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares e sua moglie Silvina Ocampo diedero avvio in questo modo, un po’ casuale e improvvisato, all’ideazione di un’Antologia della Letteratura Fantastica che è diventata un caso letterario mondiale, tracciando un percorso di studi e analisi di un genere fino ad allora sottovalutato.

Prima edizione nel 1940, seconda nel 1965; nel 1980 l’edizione italiana, ripresa poi da Einaudi nel 2007. Senza enunciare alcun canone del fantastico, nelle prefazioni gli autori parlano solo del criterio edonistico che ha guidato le loro scelte, secondo uno sguardo soggettivo deciso a rivendicare a se stesso la responsabilità di includere o scartare autori diversi per epoche e origini, per fama e stile, ma accomunati dalla volontà di “raccontare una storia fantastica sostenuta da una trama precisa”, in polemica con la letteratura psicologica o realistica imperante a livello mondiale tra 800 e 900. I tre antologisti scelsero di allineare i testi in ordine alfabetico, aldilà di qualsiasi classificazione cronologica o geografica o di valore, creando così nel lettore effetti di straniante sospensione, attesa, curiosità. Così autori medievali seguono o precedono scrittori d’avanguardia, il nostro Papini succede all’americano O’Neill, Kafka anticipa Kipling. Si passa da uno stile all’altro, da un argomento all’altro, da una lunghezza di parecchie pagine alle poche righe di un aforisma.

«Antiche come la paura, le storie fantastiche precedono la scrittura», scriveva Bioy Casares nella prefazione del 1940, assicurando che spettri, incubi e fantasmi esistevano già nella Bibbia, in Omero, nelle Mille e una notte; da sempre ciò che caratterizza un racconto fantastico è l’ambiente in cui si svolge, l’atmosfera di mistero, la sorpresa, la dislocazione spaziale o temporale, l’esaudimento di desideri, la metamorfosi, l’orrore, il fatto soprannaturale o metafisico. Insomma, tutto ciò che non è facilmente e razionalmente spiegabile e motivato. In questo senso, aggiungeva Borges, «tutta la letteratura è fantastica»: proprio perché non si potrà mai ridurre a calcolo, profitto economico o interesse politico. E concludeva: «Le più belle antologie le fa il tempo», salvando nella memoria dei lettori anche pagine consunte dal trascorrere di decenni e secoli: infatti qui troviamo Petronio, Niu Sengru, Rabelais, Carlyle. Ma anche Poe, Wells, Joyce, Cortàzar e gli stessi tre autori. Perché, come scrive Ernesto Franco nella presentazione, questa più che un’antologia, «è l’autoritratto di un’amicizia».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Antologia-letteratura-fantastica.html   27 febbraio 2017