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RECENSIONI

BORGNA

EUGENIO BORGNA, LA DIGNITA’ FERITA – FELTRINELLI, MILANO 2013

L’ultimo volume pubblicato dal Professor Eugenio Borgna (Primario Emerito di Psichiatria a Novara e libero docente presso l’Università di Milano) traccia – con la consueta, acuta, sensibilità e con esemplare attenzione a vari e arricchenti contributi letterari – una mappa delle diverse ferite apportate alla dignità umana, «in emblematiche situazioni fenomenologiche e antropologiche, come quelle della malattia, della solitudine e dell’immigrazione», ma anche negli stati d’animo più fragili e nei momenti emotivi di più scalfibile sofferenza, quali le attese deluse, le speranze infrante, le terrificanti risonanze dell’ignoto, o lo spettro nullificante della depressione. Seguendo l’intuizione offerta dal titolo di un volume di Simone Weil (L’ombra e la grazia), Eugenio Borgna indaga sia la pesantezza del dolore, della sventura, della malattia mentale, sia le “stimmate luminose” della grazia, nelle declinazioni in cui essa sa offrirsi e consolarci: gentilezza, mitezza, sorriso e lacrime.
E in questa sua esplorazione degli «abissi dell’anima» si avvale della testimonianza della poesia, che più delle gelide e spesso indifferenti indagini psichiatriche, è in grado di descrivere ««il cammino friabile e oscuro» di ogni sofferto sentire umano: quindi i versi di Leopardi, Hölderlin, Rilke, Dickinson, Montale, Celan, Sachs sono alternati a riflessioni altrettanto emotivamente partecipi di grandi filosofi, medici, mistici come Sant’Agostino, Kierkegaard, Heidegger, Guardini, Binswanger, Hillesum, Bonhoeffer, e della stessa Simone Weil. Proprio la letteratura, con il suo «linguaggio rabdomantico e fosforescente» può consentire alla psichiatria di avvicinarsi al senso profondo della vita, esprimendo «l’inconoscibile e l’inesprimibile» di ogni oscura e tragica esperienza esistenziale.
Le tre parti in cui si articola il volume (dignità lacerata, dignità perduta, dignità salvata) affrontano da diverse e complesse prospettive i molteplici modi in cui la dignità di una persona può essere sfregiata dalla noncuranza, dall’egoismo, o addirittura dalla crudeltà e dal sadismo del mondo: ma anche in che maniera questa stessa dignità ferita possa venire curata e portata in salvo.
Nella prima parte, Eugenio Borgna si confronta con gli elementi formali, filosofici e giuridici che definiscono le fondazioni etiche dei diritti umani, riflettendo con amarezza sulle colpe morali di una psichiatria che spesso si è asservita (come nella Germania nazista) a un potere politico oppressivo e discriminante, o che tuttora si riduce a curare l’infermità mentale con metodi brutali, nell’esibito disinteresse verso la soggettività e l’autodeterminazione del malato. Con estrema empatia, l’autore denuncia l’insensibilità (il disprezzo, il pregiudizio) con cui la società contemporanea disattende le speranze di riscatto degli immigrati, degli anziani, delle donne, degli ultimi: «ogni uomo, al di là di ogni altra sua connotazione filosofica, conta», «solo l’uomo è persona, e questo significa che non è mai sostituibile». E il suo richiamo a una deontologia medica che metta in primo piano il dovere di «aiutare a vivere» il paziente, considerando dotata di senso ogni sua sofferenza, è forte e chiaro, «al di là delle selvagge associazioni farmacologiche oggi dilaganti», e delle terribili pratiche della contenzione.
La seconda parte del volume si occupa delle ferite inferte alla dignità in situazioni vitali più umbratili e meno facilmente definibili, quali le attese e le speranze deluse, gli incubi derivati dall’esperienza dell’ignoto, la malinconia e la fatica depressiva di vivere. Ecco allora pagine vibranti e commosse sull’attesa della morte (o di Dio, di una risposta, di un riconoscimento sociale e morale) e sull’aspettativa frustrata di un aiuto; sull’illusione di chi lascia il suo paese in cerca di riparo e salvezza, non solo economica, scontrandosi invece con i fantasmi perturbanti dell’ignoto; sui destini contrassegnati dalla tristezza, dalla depressione, dall’anoressia e dalla volontà di suicidio, esemplificati da Borgna in una stretta relazione simbiotica intrattenuta con una sua giovane paziente, dalle dolorose esperienze emozionali.
Infine, la terza sezione, forse la più ispirata e lirica del libro, descrive «forme di vita che cambierebbero davvero il mondo, rendendolo più umano e più capace di ascolto, e di attenzione agli altri»: la gentilezza e la mitezza, il sorriso e le lacrime. L’invito pressante dell’autore, in queste pagine che lui stesso definisce «errabonde e nomadi», e «extraterritoriali» rispetto alla psichiatria più ortodossa, è a volerci educare alla gentilezza, che «non costa nulla», per cui «non contano davvero la cultura, la lettura di libri, o la formazione psicologica». Una gentilezza e una mitezza d’animo che sappiano esprimersi in gesti discreti, in carezze, in incontri di sguardi, in accettazione della sofferenza altrui: «virtù deboli» che hanno forse un’inconsistenza mondana ma splendono di una loro «trascendenza oltremondana», spirituali e non materiali, estranee alla violenza, alla sopraffazione e all’offesa. Virtù inattuali, quindi, disusate: ma che secondo Eugenio Borgna «siamo chiamati a conquistare faticosamente ogni giorno; e questo è possibile se usciamo dai confini del nostro io», perché “non siamo prigionieri del nostro destino». Imparando o reimparando a sorridere, e a non vergognarci delle lacrime, quando sorriso e lacrime («queste nuvole del volto umano») siano espressione di delicatezza, e di «luce interiore dell’anima».

 

«criticaletteraria», 3 marzo 2014

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BORGNA

EUGENIO BORGNA, DI ARMONIA RISUONA E DI FOLLIA – FELTRINELLI, MILANO  2012

Le affermazioni che definiscono il senso e i fini della psichiatria, in questo volume del Professor Eugenio Borgna, sembrano essere molto più recise ed esplicite che nei suoi lavori precedenti (che nell’ultimo ventennio hanno indagato sempre, con estrema e profonda sensibilità, tutte le pieghe delle malattie dell’anima: dalla depressione alla schizofrenia, dalla solitudine alla malinconia): e forse è il caso di citarne alcune, nella loro convinta ed esigente severità.

«La psichiatria o è psichiatria sociale o non è psichiatria… scienza umana e non solo scienza naturale», «La psichiatria, quando si fa cura, non è se non incontro, dialogo, colloquio, comunità di destino, e non solo comunità di cura; … incontro fra un io e un tu che si realizzano fino in fondo solo nel noi, al di là di ogni categoriale distinzione fra malattia e non malattia, fra normalità e patologia…», «dilatare l’area della normalità nella follia, e della follia nella normalità».

Fautore appassionato di una psichiatria che sappia «scendere nelle strade», farsi ascolto empatico del dolore del paziente, Eugenio Borgna, da sempre considerato tra i più importanti clinici e studiosi della malattia mentale, a lungo solidale con la lotta di Franco Basaglia contro i manicomi («luoghi di sorveglianza e di esclusione»), esprime con categorica indignazione il suo rifiuto nei riguardi di cure farmacologiche e ospedalizzazioni che, evitando approcci più umani, attenti e partecipi alla sofferenza psichica, finiscono per produrre un «vortice di ostinati e persistenti fenomeni di emarginazione che trascinano con sé isolamento sociale e solitudine radicale». In questo libro l’autore si propone di indagare non solamente la malattia mentale in sé, ma anche quelle particolari fragilità, inquietudini, timidezze, ipersensibilità, emozioni ferite «oggi considerate come esperienze inutili e svuotate di senso: inconciliabili con le esigenze di efficienza e di produttività che sono gli idoli della modernità».
Da questi stati d’animo di accentuata emotività possono nascere anche folgoranti manifestazioni creative, non solo negli artisti più geniali, segnati talvolta da dolorose crisi psichiche, ma anche in comuni pazienti affetti da patologie: Eugenio Borgna include allora nelle sue pagine brani di diario, poesie, riflessioni strazianti e di fulgida bellezza di adolescenti autistici, di giovani anoressiche, di donne schizofreniche pietrificate nella non comunicabilità di un male oscuro e terribile, da lui avute in cura all’Ospedale Maggiore di Novara. E accanto a queste angoscianti espressioni e richieste di aiuto dei suoi pazienti, esplora con una partecipazione che è pure ammirata condivisione di eccellenze artistiche, le creazioni sublimi di poeti e narratori, pittori e registi, filosofi e mistici toccati da esperienze neurotiche o psicotiche di particolare gravità. Ecco quindi l’insondabile tormento espresso dai versi di Nelly Sachs e di Paul Celan, entrambi lacerati dalla tragedia della Shoah, o di altri poeti smarriti in una loro dolorosa e annientante solitudine come Hölderlin, Leopardi, Sylvia Plath, Antonia Pozzi, Georg Trakl (da una sua poesia è tratto il suggestivo titolo del volume). Poeti che sono arrivati talvolta ad immolarsi nell’estremo rifiuto del suicidio. Filosofi come Kierkegaard o Nietzsche o Simone Weil, scrittori come Virginia Woolf e Etty Hillesum, pittori come Van Gogh e Modigliani, straziati dalla follia, o altri in grado di rappresentare la malinconia con «affascinate risonanze emozionali»: Friedrich, Böcklin, Corot, e il nostro Daniele Ranzoni. Registi quali Lars von Trier o Bergman; grandi mistiche che hanno sperimentato l’estasi e il dubbio, la presenza luminosa e il silenzio di Dio: Teresa d’Avila, Teresa di Lisieux fino a Madre Teresa di Calcutta. Di ciascuno di loro Eugenio Borgna ci sa restituire le parole più disperate e toccanti, le più indifese e fragili, nella loro adesione alla ricerca dell’infinito e allo scandaglio del mistero che ci circonda. Esprimendo così la speranza che «anche un libro possa avere un suo significato nel sottolineare drasticamente la dignità della sofferenza psichica».

 

«Qui Libri», luglio 2013

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BORGNA

EUGENIO BORGNA, TENEREZZA – EINAUDI, TORINO 2022

In questo decimo libro pubblicato con Einaudi, Eugenio Borgna esplora uno dei sentimenti umani tra i meno considerati nel mondo contemporaneo, forse addirittura irriso per la fragile, delicata e disponibile attenzione attraverso cui si rapporta con l’alterità: la tenerezza.

Il Professor Borgna (Borgomanero 1930), esponente di punta della psichiatria fenomenologica, è stato Primario emerito di psichiatria dell’ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Ha firmato decine di pubblicazioni scientifiche e numerosi volumi divulgativi, indagando l’arcipelago delle emozioni (titolo di un suo successo librario del 2001) che investono l’essere umano, sia come patologia clinica (schizofrenia, depressione, malinconia, autismo, anoressia) sia come sentimenti che riguardano più generalmente la persona nella sua individualità e nel relazionarsi con l’esterno: ansia, solitudine, nostalgia, disperazione, senso di colpa, turbamento, sfiducia.

La sua scrittura si ricollega sempre non solo con l’esperienza medica vissuta in decenni di pratica ospedaliera, ma anche con le suggestioni derivate dalle molte, partecipi letture di autori amati e studiati per tutta la vita: Pascal, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Simone Weil tra i filosofi; Sant’Agostino, i mistici, Santa Teresa di Calcutta tra i religiosi; Leopardi, Emily Dickinson, Rilke, Celan, Mann, Cristina Campo, Antonia Pozzi tra gli scrittori e i poeti. Senza trascurare il cinema e la musica classica.

In questo saggio proposto nella collana einaudiana Le vele, Borgna rileva quanto la tenerezza, sorella della gentilezza, sia necessaria alla cura del corpo e dell’anima altrui, “nell’attenzione e nell’ascolto, nel silenzio e nella solidarietà”. In particolare allo psichiatra, più ancora che ad altri specialisti, è richiesto di avvicinarsi a chi soffre con empatia e generosa disponibilità. Criticando severamente le cure ospedaliere e universitarie asservite oggi al mito esasperato dell’oggettività e del rimedio farmacologico, l’autore sottolinea l’importanza fondamentale dell’avvicinamento soggettivo e interiore al paziente, da mettere in atto con l’uso di parole che sappiano aprirsi alla comprensione e alla rispondenza affettiva: “Non c’è comunicazione autentica se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime”.

Alle parole adeguate si deve accompagnare poi il linguaggio del corpo, dei gesti, degli sguardi. Borgna rivaluta l’importanza del sorriso, delle lacrime, delle carezze: segnali fisici che indicano grazia e vicinanza, comunione e umana simpatia, capaci di produrre vaste risonanze emozionali, sebbene spesso vengano interpretati come indice di debolezza e affettazione. La tenerezza si può e si deve imparare, ad essa ci si deve educare, non esclusivamente quando si esercitino professioni di servizio sociale, ma nei rapporti quotidiani di amore, amicizia, confronto che hanno il diritto di essere preservati dall’indifferenza e dalla noncuranza: altrimenti si smarriscono, svaniscono nella distrazione e nella superficialità. Parole educate e gentili, quindi, evitando aggressività e prepotenza; senso del pudore nell’approssimarsi alle emozioni altrui, soprattutto nell’età fragile dell’adolescenza; gesti misurati e non invasivi, lontani tuttavia dalla freddezza dell’impassibilità.

Ci sono stati psichiatri che hanno saputo trattare il disagio mentale con rispetto e dedizione, restituendo ai malati il senso della dignità e della libertà: Basaglia, Tobino, Callieri, Selz… Da loro Borgna ha tratto insegnamenti culturali e umani. Altrettanto riconosce di avere imparato da scrittori e poeti, le cui testimonianze letterarie vengono riportate con ammirazione e gratitudine, e con l’intenzione di celebrare “Il mistero della poesia che, quando è grande, ci fa conoscere l’indicibile nella vita, e le scintille di luce nelle notti oscure dell’anima”. Maestri di tenerezza sono stati Leopardi, Pascoli, i crepuscolari, Etty Hillesum, Antonia Pozzi. Leggendoli e rileggendoli, possiamo aprirci agli orizzonti della trascendenza e uscire dai confini asfittici del nostro io: “Nella tenerezza si incrinano le barriere che separano le une dalle altre le persone, e si rinnovano gli slanci del cuore, che sanno creare relazioni fondate sulla reciprocità”.

Ricordando l’amichevole frequentazione telefonica ed epistolare che anni fa ci aveva avvicinati, mi permetto di segnalare al Professor Borgna un distico di Sandro Penna, non citato nel suo libro, che potrebbe forse rappresentarne una degna e penetrante epigrafe: “La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 20 giugno 2022

 

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BORGNA

EUGENIO BORGNA, L’ORA CHE NON HA PIÙ SORELLE – EINAUDI, TORINO 2024

Il titolo dell’ultimo libro di Eugenio Borgna, L’ora che non ha più sorelle, è ripreso da un toccante verso di Paul Celan dedicato al tragico momento del distacco dalla vita. Il Professor Borgna, illustre neuropsichiatra, psicoanalista di indirizzo junghiano e saggista di fama, è stato dal 1963 direttore del servizio psichiatrico dell’Ospedale Maggiore di Novara, di cui ora è primario emerito: scrive qui non solo con evidente cognizione di causa, ma anche con l’acuta sensibilità che caratterizza ogni sua pubblicazione, del “mistero insondabile” del suicidio, soffermandosi in particolare sulla morte volontaria messa in atto dalle donne.

Borgna individua nella fragilità una delle premesse che possono portare all’atto autodistruttivo (sia pure condizionato da diverse motivazioni esteriori, o da stati depressivi e psicotici), a causa dell’esposizione al pericolo di ferite inferte “da contesti ambientali freddi e indifferenti, che destano con maggiore facilità dolorose risonanze interiori” nell’anima femminile.

Il suicidio maschile, numericamente più esteso a livello mondiale, rivela aspetti differenti, con tratti aggressivi, lucidamente pianificati, talvolta espressamente determinati da una ribellione ideologica o sociale. L’autore cita gli esempi della fine di alcuni scrittori novecenteschi (Pavese, Trakl, Benjamin, Zweig, lo stesso Celan), segnata da una disperazione e da un impeto lacerante lontano dalla rassegnata malinconia che contraddistingue la rinuncia alla vita delle donne.

Se di Virginia Woolf e di Amelia Rosselli è riconosciuta scientificamente la disposizione psicotica che le aveva portate a lunghe degenze ospedaliere e a pesanti cure mediche per tutto il corso dell’esistenza, in altre figure di scrittrici e poetesse care all’autore si delineava già dall’adolescenza una propensione al suicidio, non determinata da infermità mentali, ma dalla vulnerabilità della loro condizione ferita dalla solitudine, e dal desiderio disatteso di realtà diverse da quelle sperate, come in Marina Cvetaeva, Sylvia Plath, Simone Weil, Antonia Pozzi.

Forse che in Simone Weil la decisione di non nutrirsi più nell’estate del 1943, poco più che trentenne, devastata dall’angoscia per l’avanzare del nazismo, e da un senso opprimente di estraneità alla storia, non può a ragione venire considerata una precisa volontà di morte, già accarezzata nelle fantasie adolescenziali descritte nei suoi diari? E in Antonia Pozzi, poetessa amatissima da Eugenio Borgna, la malinconia leopardiana che ha accompagnato la sua breve esistenza, non ha accentuato il continuo desiderio di morire, che le sue relazioni, ogni volta franate e incomprese, hanno concorso a realizzare? I versi di Antonia tratti da composizioni adolescenziali (Largo, Novembre, La porta che si chiude, Prati, Grido) facevano già presagire la volontà di concludere la vita a ventisei anni, nel dicembre del 1938, annunciando ai genitori con una lettera agghiacciante e disperata la sua decisione (“voi dovete pensare che questo è il meglio. Ho tanto sofferto…”)

“O lasciate lasciate che io sia / una cosa di nessuno / per queste vecchie strade / in cui la sera affonda // – O lasciate lasciate ch’io mi perda / ombra nell’ombra”, “E poi – se accadrà ch’io me ne vada – / resterà qualche cosa / di me / nel mio mondo – / resterà un’esile scia di silenzio / in mezzo alle voci / – un tenue fiato di bianco”, “io sono stanca, / stanca, logora, scossa, / come il pilastro d’un cancello angusto / al limitare d’un immenso cortile”, “Non avere un Dio / non avere una tomba / non avere nulla di fermo / ma solo cose vive che sfuggono / – essere senza ieri essere senza domani / ed acciecarsi nel nulla – / – aiuto”.

Borgna nella sua lunga attività ospedaliera si è imbattuto in pazienti che esprimevano questa stanchezza di vivere, o che avevano tentato di uccidersi: racconta commosso di alcune di loro – Margherita, Emilia, Stefania – e dell’angoscia provata nel timore di non saperle aiutare, convinto che la propria missione di “psichiatra dell’interiorità” dovesse trovare la più alta e umana realizzazione soprattutto nella disponibilità all’ascolto, a una comprensione partecipe, in grado di allontanare ogni intenzione o progetto suicidario delle degenti a lui affidate.

 

© Riproduzione riservata      «SoloLibri», 24 novembre 2024

 

 

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BORLENGHI

RICORDO DI ALDO BORLENGHI

Scrivo di Aldo Borlenghi (1913-1976) a più di un anno dalla sua morte, che troppo pochi hanno ricordato, per affetto più verso il docente che verso il poeta. Ho seguito le lezioni di Borlenghi per tre anni, all’ Università Statale di Milano, ho dato con lui due esami: aveva fama di professore severissimo e quasi crudele, caustico e ironico nei confronti degli studenti, che trattava con gelida cordialità, senza mai tentare (se non con i suoi laureandi) approcci più profondi. Scrupoloso nella preparazione delle sue lezioni, non divagava mai; mai si lasciava coinvolgere in polemiche o discussioni che non riguardassero il suo corso. Nonostante il suo passato di antifascista, il suo fiero anticlericalismo, il suo cerebralissimo comunismo, nessun accenno veniva mai fatto alla situazione politica; il movimento studentesco, intervenendo nel suo corso, si trovava di fronte a una muro di indifferenza quando non di aperta ostilità. Ma non era, Borlenghi, un “potente” tra gli accademici. Non lo si poteva definire “barone”. Viveva in una dimensione estranea a ciò che gli accadeva intorno, superiore (con aristocratico disprezzo) a tutto e a tutti, eterea: era, se possibile, uno studioso puro. Ma pure un uomo in qualche modo disarmato e disarmante: e valgano a esempio questi due episodi.
Avvicinandosi a una studentessa che durante le lezioni leggeva il giornale, aveva tentato di rimproverarla, ma dinanzi alla reazione agguerrita di lei, aveva concluso con un timido «Credo che non si possa»; ancora, nel corso di una lezione difficile e noiosa, si era interrotto, e nel suo flebile e arguto toscano «Volevo sincerarmi che proprio nessuno mi ascoltasse». Io, veramente, quella volta lo ascoltavo, ma in realtà non gli importava avere o no studenti, allievi, persone che lo stimassero. La sua attività di poeta fu sempre strettamente collegata con quella di critico, ed entrambe procedettero secondo parametri comuni: meditato rigore di ricerca, severo controllo stilistico e formale, fastidio per gli schemi ideologici e tutti gli incalanamenti dottrinari, puntiglioso e assoluto riferimento alla parola, che veniva analizzata, scomposta e ricomposta, levigata, resa insieme intensa e impalpabile, puro suono. Il primo libro di versi di Borlenghi, che tuttavia fu un poeta precoce, risale al 1943, a un periodo per forza di cose poco attento alla poesia; ma già era stato preceduto dalla pubblicazione della sua tesi su Leopardi. Così, se i suoi versi uscirono ancora in edizioni molto distanziate tra loro (Mondadori 1952, Mondadori 1965: se lasciamo perdere due piccoli volumi a tiratura limitata, nel ’58 e nel ’72), i contributi critici furono invece più frequenti, accompagnando e puntellando la sua attività di insegnante universitario. Argomenti preferiti erano il Tommaseo, Machiavelli, il teatro del ‘500, la novellistica del ‘300, la critica letteraria ottocentesca, e ancora Leopardi. La sue poesie mantengono tuttora la fama e il fascino di una lettura difficile, di una penetrazione quasi impossibile. Ricordo uno splendido attacco: «Rifiuto, ai luoghi, qualunque / incidenza affettiva». Né i luoghi, né le persone o gli amori, né la sua stessa vita assumono una qualche importanza, nell’economia della sua poetica: tutto vale tutto, e di niente e con niente “fa” una poesia: «A che il metallo delle acque / sottometta riflessi / nel nulla della luce e al riparo a lungo / da un salire, a interminabile descrizione di larve, / di un incresparsi che alle tenebre già accosta; / a che, le incrinature sue di un metallo / che primo si cancellerà: di forme / assidue smaterializzata / profondità e non / accecante non correre cieco / e ripetersi e riprodursi».

«Quinta generazione», giugno 1977

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BORSO

DARIO BORSO, TRE QUADERNETTI INDIANI – EXORMA, ROMA 2019

Nonum prematur in annum, raccomandava Orazio. Ma Dario Borso (filosofo e germanista, uno dei nostri più stimati traduttori dal tedesco) ha moltiplicato per sei il suggerimento del poeta latino. Infatti solo dopo cinquant’anni ha osato far uscire dal cassetto e affidare alle stampe questo libro di viaggi e memorie, Tre quadernetti indiani.

Ventenne, durante un pellegrinaggio laico in India, si era imbattuto per caso al Crown Hotel di Delhi in un coetaneo milanese, Pietro Spiga: entrambi reduci da un altro tour iniziatico negli Stati Uniti, erano partiti insieme alla volta del Nepal. Dario poi, ammalatosi di malaria, era stato ricoverato in ospedale a Calcutta, quindi aveva raggiunto da solo Madras, iniziando a scrivere un resoconto dei suoi inquieti, affascinati, illuminanti itinerari fisici e mentali. Tornato in Italia, aveva chiesto all’amico Pietro di illustrare con disegni a china le sue narrazioni, e tali schizzi (incorniciati in quadri neri ‒ punteggiati, zebrati, stellati, animati da facce paesaggi animali vegetali) sono riprodotti nell’edizione romana di Exorma.

Un mese intero – ottobre ‒, passato girando da una città all’altra (Mamallapuram, Kovalam, Quilon, Alleppey, Cochin, Mahé, Hampi…) a piedi, in treno, in corriera, su ferryboat e barconi; incontrando i personaggi più incredibili provenienti da ogni parte del mondo; ascoltando musica orientale monocorde (“le voci indiane si rincorrono su tempi estenuanti senza mai raggiungersi”); fumando hashish e mangiando funghi allucinogeni, che producono in testa “tante storie sconnesse, come un film muto impazzito”; cibandosi di vivande piccanti e bevendo intrugli alcolici; leggendo e citando brani e poesie occidentali, oppure recuperando miti, leggende, divinità indù (Shiva, Kali, Parvati, Zarathustra, Ganesh, Krishna) indicanti nuove strade da percorrere, nuove mete intellettuali da raggiungere.

A ragione Valerio Magrelli nella prefazione scrive che Borso nel suo diario ha inteso coscientemente privilegiare l’aspetto visivo (e io aggiungerei coloristico) delle descrizioni, con i cieli di volta in volta blu inchiostro, “rosso porpora con increspature giallognole” o “di un grigio fosforescente elettrico”, nubi violacee, lune bianchissime, arcobaleni doppi e fulmini saettanti nel buio. Mare, spiagge, deserti, giardini, templi, città caotiche e affollate. Donne e uomini mezzi nudi o avvolti in vesti variopinte. Frutti (“ananas col suo bel ciuffo verde, una noce di cocco abbronzata ma pelosa, una papaya smunta e allampanata”). Animali minuscoli come le lucciole, zanzare e scarafaggi, o enormi come gli elefanti, e poi anatre, sorci, scimmie, vacche, tigri, capre, cammelli. E un’avventurosa Sylvie francese da amare con dolcezza, s’il vit…

Un turbinio di percezioni, suoni odori visioni che si accavallano, insieme alle parole (“Si sta seguendo un filo, si formula una frase, ed ecco che una parola qualsiasi, anche un avverbio, anche una particella, sale sul palco e chiama altre sorelle a improvvisare”). Eppure, in questo vortice di impressioni, chi narra mantiene non solo un suo stile composto, limpido, curato e quasi classico, ma addirittura rispolvera una propria disposizione meditativa, razionalmente critica, che lo porterà negli anni a insegnare filosofia nelle università milanesi. Così contesta l’ascetica severità di Wittgenstein in favore di una fisicità materiale più esuberante: “Non è detto che su ciò di cui non si può parlare si debba tacere. Si può sempre gridare, pregare, cantare”. Infatti, “certe cose dell’India costringono all’infanzia: la luce che va e viene spesso e volentieri, le ghiacciaie di legno e i furgoni con i blocchi del ghiaccio, i dodge polverosi dalle sponde tremolanti, gli altoparlanti in strada che trasmettono a tutto volume come al cinema parrocchiale nelle domeniche d’estate…”: allora gli anni bambini passati nel paesino veneto tornano alla memoria, insieme all’alito della mamma ritrovato nel giro lento del ventilatore, al parlare svelto di lei e a quello burbero del padre, al negozio da fruttivendolo di famiglia (“‒Mamma, mamma, hanno appeso le ciliegie all’albero! ‒. Finora le avevo viste solo da noi, in bottega”).

La breve postilla finale di Chandra Livia Candiani sottolinea lo sguardo mai giudicante, mai arrogante, con cui Dario Borso si volge all’India, rendendocela com’è: superficie indulgente su cui galleggiare, senza pretendere di scendere in profondità, puntando gli occhi agli orizzonti.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Tre-quadernetti-indiani-Borso.html            18 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

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BOVE

EMMANUEL BOVE, UN PADRE E UNA FIGLIA – IL NUOVO MELANGOLO, GENOVA 1997

Di Emmanuel Bove, importante letterato francese attivo tra le due guerre, si sono cominciati a ripubblicare i romanzi dopo trent’anni di eclissi. Beckett, Rilke, Barthes, Handke hanno dato della sua narrativa giudizi ammirati ed entusiastici, e del testo qui riproposto, Un padre e una figlia, pubblicato a Parigi nel 1928, Max Jacob scrisse “Uno dei più bei libri che conosca”. La trama è esile e facile da riassumere: il protagonista, Antoine About, è – come spesso in Bove – un perdente, un uomo dalle aspirazioni minime e dalle realizzazioni ancora più modeste: “L’aspetto trasandato, poco pulito, l’aria stralunata”.

About è un parrucchiere per signora che, dopo aver collezionato vari mestieri, licenziamenti e strategie di mantenimento, riesce ad aprire un suo negozio, a sposarsi, e a intraprendere un’esistenza dignitosa. Ma il suo sentimento ossessivo di inadeguatezza, di inferiorità, di sconfitta lo porta inesorabilmente a vergognarsi di se stesso, del suo lavoro considerato troppo umile, del suo aspetto fisico ordinario. Cerca un riscatto sociale e morale nelle figure della moglie Marthe e della figlia Edmonde, che hanno aspirazioni borghesi e artistiche ben più ambiziose delle sue, e che, pur approfittando della sua estatica ammirazione e sfruttandolo economicamente, finiscono poi per disprezzarlo, tradirlo e abbandonarlo.
Lui si riduce a vivere da solo, con un’anziana domestica che tenta senza successo di concupire e molestare sessualmente; beve, frequenta personaggi equivoci e si lascia andare verso una deriva esistenziale e psichica senza ritorno: “Smagrito, stizzoso, ricurvo, Antoine era un vecchio… Godeva della propria abiezione… Lo evitavano. Alcuni si voltavano al suo passaggio, altri si scostavano come temendo lo scarto di un ubriaco”.

La postfazione al volume di Carlo Alberto Bonadies, che ne ha curato anche la traduzione, è esemplare e approfondita sia nella ricostruzione della tormentata biografia di Emmanuel Bove, sia nell’indagine formale della sua scrittura.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Un-padre-e-una-figlia-Bove.html      14 marzo 2017

 

RECENSIONI

BOVE

EMMANUEL BOVE, LA TRAPPOLA – LE MANI, RECCO 1995

Questo romanzo che Emmanuel Bove scrisse nel 1945, poco prima di morire, e che da noi è stato pubblicato solo cinquant’anni dopo, con traduzione e postfazione di Carlo Alberto Bonadies, racconta – in una sospesa atmosfera kafkiana – le vicende allucinate, contorte e indecifrabili di un irrealizzato e pavido giornalista francese, Joseph Bridet, che nel settembre del 1940, dopo alcuni ondeggiamenti ideologici, si scopre oppositore del Maresciallo Petain e della Francia occupata dai nazisti, e cerca un suo personale riscatto e una più dignitosa via di scampo esistenziale nell’adesione al programma di De Gaulle. Tenta quindi di espatriare dall’Inghilterra, per raggiungere di lì il Nord Africa: e ricorre, in questo suo delirante disegno di salvezza, all’aiuto di vecchie conoscenze in realtà inserite politicamente in sordidi giochi di potere, ambizioni frustrate, tradimenti personali e corruzione morale. Irretito inoltre nelle spire di un matrimonio sull’orlo del fallimento, Bridet subisce senza opporre alcuna resistenza l’ingenuità inconcludente della moglie Yolande, sprovveduta preda di avvenimenti più grandi di lei: in un attivismo frenetico, la giovane donna tenta vanamente di salvare il marito dagli arresti e dai processi che si susseguono inspiegabilmente, alternandosi a insperate assoluzioni e a a repentini rilasci, fino all’accusa finale di sovversione e alla tragica condanna. “La trappola” non è un thriller, e nemmeno un pamphlet politico e di denuncia: la narrazione si muove lenta seguendo i passi del protagonista (inizialmente ignari, poi sempre più affannati e angosciati) nei meandri di una burocrazia ottusa e corrotta, tra funzionari incapaci e sadici, poliziotti violenti e ottusi, amicizie rinnegate e una società civile resa egoista, indifferente e sospettosa dal clima bellico. “Preso in una morsa che si stringeva implacabilmente”, Bridet va incontro all’ esecuzione con la dignità e il coraggio che non era riuscito ad avere in tutta la vita.

IBS, 27 luglio 2013

RECENSIONI

BOVE

EMMANUEL BOVE, BÉCON LES BRUYÉRES – IL NUOVO MELANGOLO, GENOVA 1999

Di questo breve testo, pubblicato da Emmanuel Bove nel 1927, Peter Handke ebbe a scrivere: “Va assolutamente letto. Descrive una periferia mitica con una scrittura assolutamente modesta. E’ la periferia assoluta”. Di questa “assolutezza” Bove dovette essere del tutto consapevole, al punto da proporre il libro in una collana monografica dedicata alle più interessanti città francesi, e da elevare una località priva di qualsiasi bellezza artistica o naturale a paradigma dell’ordinarietà e dello squallore della banlieue parigina. Già il nome ridicolo di questo quartiere, con un riferimento a fortificazioni e a variopinte vegetazioni, aveva reso Bécon ironicamente famosa tra la popolazione francese. E Bove ne demoliva l’immagine, riducendo la località a una stazioncina confinante con altri paesi, senza una propria individualità, occupata da alveari condominiali di otto piani, strade anonime, senza nemmeno l’ombra delle eriche che le avevano dato il nome. Usando con leggerezza l’arma puntuta dell’ironia, Bove descrisse di Bécon non solo l’immagine topografica, ma anche le abitudini dei suoi abitanti, cortesi ma indifferenti, educati ma rigidi. “Il cittadino di Bécon ama la sua città con discrezione. Ne parla poco, come farebbe un padre severo di un figlio burlone. La tenerezza che gli ispira il suo paese, la dissimula… Come in un principato, sembra che gli abitanti puliscano a turno le strade, assicurino l’ordine e riparino le condutture dell’acqua. E’ tutto l’anno come quando nevica in campagna, e ognuno si sgombra l’uscio di casa.” La stazione era il centro di Bécon, e solo il passaggio dei treni scandiva la monotona vita cittadina, per cui un guasto elettrico risultava il massimo pericolo incombente sul trantran quotidiano. “Tutto a Bécon è onesto e uniforme… E’ una città fragile quanto un essere vivente. Forse morirà tra qualche mese…”. Bove, grande scrittore, è stato cattivo profeta: Bécon vive, si è ingrandita e modernizzata, è diventata “assolutamente” comune.

IBS, 22 agosto 2013

RECENSIONI

BRAIDOTTI

ROSI BRAIDOTTI, FUORI SEDE – CASTELVECCHI, ROMA 2021

“Vita allegra di una femminista nomade”, recita il sottotitolo dell’ultimo libro di Rosi Braidotti, ironica e stimolante autobiografia di una delle pensatrici più autorevoli nell’ambito della teoria femminista contemporanea. Nata a Latisana nel 1954, dopo il ginnasio si è trasferita con la famiglia in Australia, laureandosi in filosofia a Canberra. Concluso il dottorato conseguito alla Sorbona, si è trasferita nei Paesi Bassi, dove insegna dal 1988, attualmente in qualità di Distinguished University Professor all’Università di Utrecht e di Direttrice fondatrice del Centre for the Humanities.

Una carriera accademica prestigiosa, che l’ha portata a rivestire importanti ruoli di ricerca a livello internazionale, e a ricevere riconoscimenti e lauree ad honorem in atenei di tutto il mondo. I suoi lavori riguardano i processi di formazione e l’emergere di soggetti sociali nuovi e alternativi, al di là delle categorie socialmente imposte delle rappresentazioni familiari, delle differenze di classe, razza, genere o affiliazione politica. Il suo intento prioritario è la rifondazione di una filosofia non più centrata sul pensiero del maschio bianco occidentale, ma aperta a un nuovo umanesimo cosmopolita, in campi attinenti al femminismo, agli studi etnici e al pensiero post-antropocentrico.

Il volume di cui ci occupiamo, opportunamente intitolato Fuori sede, consta di quattro saggi autobiografici tratti da pubblicazioni precedenti, in cui l’autrice suddivide le tappe fondamentali attraverso cui si è snodata la sua esistenza e la sua riflessione scientifica. Nell’introduzione, Braidotti afferma di sentirsi più a suo agio nell’indagare e raccontare la vita degli altri (vicini e lontani, amici e sconosciuti) piuttosto che la propria: “Io ho l’impressione di mancare a me stessa costantemente, di differire da me”. Ciò che viene ripetutamente e orgogliosamente sottolineato dall’autrice, è la necessità di disidentificarsi da ogni forma di identità autoreferenziale e narcisistica: cosa che le è stata resa più facile dalla propria vicenda di emigrata, dal nomadismo professionale e dal plurilinguismo acquisito, motivando in lei forti spinte egalitarie, femministe, post-nazionaliste e antirazziste.

Così confessa nel primo capitolo: “Quattro passioni fungono da forze motrici dei concetti e degli affetti che strutturano il mio percorso intellettuale: la scrittura, la filosofia, il femminismo e il presente”, e su tali linee portanti si sofferma con motivato fervore. Ci racconta quindi dei 193 quaderni di diario che aggiorna quotidianamente dall’adolescenza, delle prime pubblicazioni su riviste di Women’s Studies, della vita culturale di Parigi (il post-strutturalismo, la psicanalisi, il marxismo), dei maestri francesi – Foucault, Irigaray e Deleuze – che le hanno insegnato quali relazioni di potere operino all’interno del linguaggio. Descrive la carriera universitaria a Utrecht, i due libri di successo che l’hanno fatta conoscere all’intellettualità internazionale (Dissonanze e Soggetto nomade), l’incontro con la sua compagna di vita, Anneke Smelik, nel 1987.

Un intenso attivismo istituzionale ha portato Rosi Braidotti a occuparsi dell’aspetto progettuale di una nuova Europa, capace di superare sovranismi e arroccamenti egemonici, e a intessere rapporti fecondi con le nuove generazioni, ideando programmi di intercambio studentesco tra le varie nazioni.

Chi leggendo rimanesse impressionato dalla vastità delle ricerche dell’autrice, si sentirà ancor più coinvolto dalla narrazione commossa della sua infanzia e adolescenza nella bassa veneto-friulana degli anni ’50-’60, descritta nella terza sezione del volume, Una vita a zig-zag (“Il fatto di essere cresciuta vicino a una frontiera mi ha lasciato in eredità un forte sentimento d’instabilità, oltre che la sensazione netta di poter   vivere molte vite”). Famiglia, collegio, Sanremo, alluvioni, antifascismo, gli scout, i Beatles e Che Guevara, un amato zio prete; poi lo strappo dell’emigrazione forzata in Australia, l’immersione in un’altra lingua, l’indagine filosofica da cui ha preso avvio una brillante carriera di studiosa, i lunghi anni di analisi, l’omosessualità, il grande amore con Annike.

Se, come si dice, il destino di una persona è il suo carattere, Rosi Braidotti ha dimostrato nella sua esistenza raccontata in Fuori sede, non solo un temperamento risoluto, perseverante e anticonformista, ma anche un’indole simpaticamente ironica e apertamente gioiosa, come possiamo arguire già dall’espressione sorridente e fiduciosa del ritratto in copertina, che pare invitarci ad affrontare “le sfide epocali che ci aspettano con solenne e   insolente leggerezza”.

 

© Riproduzione riservata               21 dicembre 2021

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