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RECENSIONI

BRE

SILVIA BRE, LE CAMPANE – EINAUDI, TORINO 2022

Più denso e concentrato, più meditato formalmente e ricco di tensioni emotive di quanto non siano le ultime pubblicazioni apparse nell’einaudiana collana bianca di poesia, l’esile volume di versi di Silvia Bre (Bergamo, 1953), pluripremiata poeta e traduttrice soprattutto dall’inglese, si presta a svariate intuizioni critiche. A partire dal titolo, Le campane, che nel rimando a un’immagine tradizionalmente benevola e innocua, quasi da sagra paesana, stride sia con i temi inquietanti, sia con l’ordito linguistico oscuro, avviluppato, del testo.

Costante è il richiamo al senso dell’udito, nell’inventario dei termini ad esso connessi (suono, canto, silenzio, ascolto, voce, orecchio, corda vocale, musica, note, rintocco, ritmo, cori, assoli, rumore, mugolio, rimbombo…). Altrettanto presente l’organo della vista, con i fulminei passaggi tra buio e luce, splendore ed eclissi, trasparenza e opacità. Il contrasto, visivo e uditivo, ha una sua motivazione nella presenza-assenza, vicinanza-lontananza, fatticità-astrattezza del mondo che ci ospita, e da cui siamo contemporaneamente espulsi verso spazi interplanetari abissali, verso tempi oscillanti tra passato remoto e futuro insondabile, con scarsa evidenza del momento presente.

Così, nelle grotte di Chauvet, le pitture parietali risalenti al Paleolitico, primo esempio al mondo di arte preistorica, si propongono come battesimo dell’atto gratuito, di apertura all’eterno. “È l’origine”, elementare desiderio di oltrepassare i limiti della finitezza materiale, proiettandosi in un altrove disincarnato: istintuale, arcaico germe di poesia. La storia si definisce appunto nella consapevolezza di quanto ci ha preceduto e di quanto ci sopravviverà: “discendere da loro / in un destino // nel fumo // negli spazi // essere stati il futuro di qualcuno”.

Dal passato millenario in cui si muoveva l’homo sapiens, alla relatività einsteiniana, fino alla proiezione di un antropocene sconosciuto, in questo rincorrersi delle epoche indifferenti a chi le abita, si schiude uno spiraglio di consistenza umana, il pensiero primordiale della creazione poetica: “Anche ora s’incrina una fessura / tutto il cosmo che passa è / metallo fuso, un ritratto tanto uguale a qualcosa / che mi esalta, creare un gorgo e poi esserne inclusa”. La voce della poesia è sempre testimoniale, “porta incisa una malora / e una resurrezione astrusa”, “l’ambizione incendiaria” di lasciare un segno: “Mi si dica, lo chiedo in ginocchio, / dica qualcuno in tempo che c’è una figura, un’ombra / un gesto di pietà da offrire a un altro / a chiunque, e qualcuno lo ha fatto o lo farà / in un tempo astrale senza saperlo”. Tra la consapevolezza della fragilità della parola, della sua probabile inutilità, e la speranza di servire (a qualcosa, a qualcuno: pronomi indefiniti che si ripetono, proprio a rimarcare l’assenza di un destinatario esplicito), si pone la figura del poeta, presenza gratuita e misconosciuta, ma forse salvifica: “Non sono mai nessuno i poeti – / nel vuoto dell’amore, dai vuoti di memoria / pugnalano in lingue il lontano. / Poi l’aurora”. Dicono cose artificiose, eppure indicano una necessità: “tu, meraviglia, / perché ti riconosco, sbandieri / che divampa su tutto, il ritmo antico del tutto”.

Le campane, dunque, diventano metafora di un annuncio di verità, che solo la parola poetica può formulare. È un appello, sebbene monco, imperfetto, che non ha il rilievo e il prestigio della parola politica o filosofica: si accontenta del suono: “dillo trionfando che non ci sei, non hai cuore, / è un’altra l’unità da pronunciare, ebete, / e non sai quale, non sai farlo”; “da qui si scorge la belva che esiste per sparire / e guarda in verticale, riempie di salti, di verbo / il frammezzo tra sole e terra, la cogli nell’arco siderale / che è l’amore sfinito per i giorni, / nell’opera che resta inconclusa a fissare l’eterno”.

Silvia Bre nella sua scrittura compressa, elusiva e allusiva, ammette con impudenza la propria difficoltà di farsi ponte tra l’essere e il dire, nonostante sappia servirsi anche di stratagemmi tradizionali, come rime, anafore, endiadi, metonimie, ecc. Rimane enigmatica persino quando si misura con il concreto, con il “mosaico di dolore” dei migranti morti affogati, o della sua città natale, Bergamo, devastata dalla pandemia.

L’oscurità eraclitea del divenire fa di lei una messaggera del transeunte, “profeta dell’inaccessibile con la voce di cera”, la cui misteriosa verità va sviscerata, sgomitolata, per scongiurare che il rintocco lontano delle campane sia un funereo presagio del nulla a venire.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 1 marzo 2022

 

 

 

 

RECENSIONI

BROCK

GEOFFREY BROCK, CONFLUENZE – ELLIOT, ROMA 2021

Le edizioni romane Elliot hanno pubblicato, con la cura del poeta Paolo Febbraro e testo originale a fronte, il volume di versi Confluenze di Geoffrey Brock, tradotto da Damiano Abeni, Moira Egan e dallo stesso Febbraro. Brock (Atlanta,1964) è docente universitario, traduttore e autore di due premiati volumi di poesia, oltreché di numerosi saggi letterari.

La sua è una poesia limpida, facilmente “percorribile” e insieme autorevole, nutrita di sapienza antica e di maestria formale, come suggerisce il prefatore. Poesia descrittiva, di luoghi e di persone, che prende spunto da episodi marginali come da esperienze fondanti del passato, o da posti visitati turisticamente (un cimitero di guerra, un’antica necropoli, la spiaggia vicino a Roma, il Messico) ritrovati con nostalgia nella memoria. Ma anche da brani letti casualmente o studiati con accanimento, opere liriche, documenti storici, trattati di ornitologia, quadri famosi, sogni che si confondono con la realtà: tutto quello, insomma, che nutre la quotidianità di qualsiasi individuo, filtrato dalla coscienza emotiva e scalfibile del poeta. I ricordi, come i sogni, gli incubi, le associazioni fantastiche, sfociano in qualcos’altro che non è, o non è più, la realtà: una verità riformulata, quando i dati concreti possono rivelarsi minacciosi, nella loro appurabile spietatezza. La fidanzata infedele non è tornata indietro pentita, ma si è felicemente risposata; una particolare battaglia tra i Sioux e i soldati bianchi non è mai stata combattuta; lo splendido animale apparso nel bosco a due osservatori spaventati (“annidati come / cucchiai in un cassetto di coltelli”) era forse un fantasma…

“Parlando sommessamente, Brock è in ascolto delle ondulazioni armoniche e degli ultrasuoni che le sue voci, i suoi luoghi producono”, commenta Febbraro. Una voce volutamente smorzata, quella con il poeta americano cui si esprime, lontana da ogni stentorea sicurezza, persino nell’indignazione della denuncia politica, nelle rivisitazioni mitologiche, nelle ricostruzioni epiche. Come lui stesso scrive in una delicata composizione, La stanza al piano di sopra, in cui confessa di tendere l’orecchio con trepidazione per captare i rumori provenienti dall’appartamento dei vicini, testimonianza di presenze umane: “Ed è così / che in me è cresciuta l’assuefazione / al silenzio: al telefono parlo sommessamente, / levo l’audio alla TV”.

Per Brock tutto diventa passibile di poesia, anche l’avvenimento più banale e prosaico: una cena offerta da un facoltoso compagno d’università, la partita a frisbee giocata in un gelido pomeriggio a Filadelfia, il picchio alla finestra del soggiorno, una donna anziana che legge al parco, lo spazzolino da denti. Tanto più, quindi, gli incontri carichi di affettività, come quello con la vecchia madre, in una delle poesie più belle del volume (Viale Per sempre): “Ho incontrato mia madre, sfiorita, / l’altra notte in un sogno febbrile, / soprabito nero come terriccio, / la chioma un bluastro senile. // Dapprima non la riconobbi, / gli anni ebbero il sopravvento: / la spina dorsale mutata a virgola, / ed ogni passo più lento. // … Offrii il braccio a quella donna, / ma lei mi volse un volto sdegnato: / ‘Cos’è che ora ti riporta / alla strada in cui sei nato?’ // La bocca le si chiuse di scatto / come la lama di un pescatore, / il viso mutò in quello di mia figlia, / mia figlia mutò in mia moglie, // e tutte cantavano ‘Happy Birthday’ / come fece Marilyn al Presidente, / e il loro soprabito si schiuse, / e io sentii di cadere nel niente. // Chiunque fosse ora mi stava baciando, / le labbra sulle mie come ghiaccio. / Mi risvegliai in un mare di sudore – / da solo, in fiamme, diaccio”.

Il sentimento prevalente è quello della perdita, il pensiero accorato e pungente riguardo a ciò che non è più recuperabile: l’infanzia, un amore giovane, una casa abbandonata. “Il passato – ecco dove troverai il tuo paradiso. // … Qualunque cosa ora ti sia di fronte / non sarà stato un paradiso finché non è perduto”.

La poesia di Geoffrey Brock non nasconde nulla, è percettiva, dichiarativa, non lascia spazio al lettore per una interpretazione personale del testo, anche quando si stempera in aloni onirici. In questa sua trasparenza oggettivata si accomuna alla quasi totalità della poesia americana degli ultimi cinquant’anni, differenziandosene tuttavia per una cura levigata dello schema stilistico, lontano dallo spontaneismo e dall’improvvisazione. L’utilizzo sapiente delle rime e di una metrica composta hanno fatto parlare alcuni critici di formalismo. In realtà Brock aderisce in maniera consapevole e meditata più che a tradizioni obsolete, all’equilibrio rispettoso che debbono avere le parole quando si incastonano nel ricamo elegante della composizione poetica: all’interno di argini collaudati, come giustamente suggerisce Paolo Febbraro, senza strabordare.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › Confluenze-Geoffrey-Brock                                               28  marzo 2021

 

 

 

 

 

 

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BROGI

DANIELA BROGI, LO SPAZIO DELLE DONNE – EINAUDI, TORINO 2022

Quello a cui Daniela Brogi (docente di Letteratura Contemporanea presso l’Università per Stranieri di Siena), allude nel saggio einaudiano Lo spazio delle donne, può risultare risaputo e scontato. Che la cultura femminile sia stata per millenni assente dalla considerazione e dal riconoscimento pubblico, che la tradizione patriarcale e monologica abbia “oscurato, silenziato, internato” il lavoro materiale e creativo dell’altra metà del cielo, è un concetto acquisito e assodato. Le donne sono state addestrate a non avere talento, ad accettarsi supinamente in ruoli definiti dall’universo di pensiero e di pratica maschile. Continuare a ribadire tale indiscutibile affermazione potrebbe risultare addirittura controproducente, nella sua monotona e lamentosa ripetitività.

Brogi sceglie quindi una tattica operativa diversa, più intelligentemente proficua, proponendo un’indagine sulla produzione culturale femminile attraverso una prospettiva meno consueta, analizzata attraverso il termine chiave di “spazio”, inteso come campo di espressione e verifica delle identità. Spazio occupato dalla fisicità delle donne, dal loro operare concreto e quotidiano, dalla loro narrativa, soprattutto per ciò che riguarda gli ultimi due secoli. Prevalentemente rinchiuse in ambienti limitati e separati dal mondo esterno – salottini, cucine, camere da letto, orti, collegi, monasteri –, sono rimaste bloccate in complessi di insicurezza e sfiducia.

Dalla stanza tutta per sé reclamata da Virginia Woolf al “pezzetto di giardino” conquistato da Sibilla Aleramo, dallo studio reclamato da Alice Munro al tinello di Grazia Deledda, ecco che “la domanda di spazio, come dispositivo fisico e simbolico di un riconoscimento sociale” indica l’esigenza di possedere un luogo proprio, dove potersi riconoscere in quanto soggetti liberi dal dominio esercitato sui loro corpi. Gli spazi destinati alle donne hanno funzionato per migliaia di anni come “cifra di un destino imposto”, che le ha costrette a vivere in “recinti di minorità”, fuori dai campi professionali pubblici.

Cosa fare, quindi, e come reagire per recuperare la visibilità e l’identificazione sottratte al mondo femminile, per farne emergere capacità e ingegni inabissati? Daniela Brogi propone di cambiare linguaggi e prospettive, sfruttando qualsiasi interstizio che permetta forme diverse di espressione, mappando tutte le occasioni in cui si professi cultura e si elaborino strategie di intervento politico, occupando ambiti istituzionali trascurati, riscoprendo la sapienza e il coraggio di autrici dimenticate, utilizzando attivamente ogni “fuori campo” alternativo, multietnico, extra-generazionale.

Si tratta, in fondo, di trovare il coraggio di “dispatriarcarsi”, e di assumere uno sguardo su se stesse autonomo da quello maschile (quante letterate e artiste si sono mimetizzate dietro a uno pseudonimo, o al cognome del marito…), con la coscienza di essere brave senza doversene vergognare. Si deve rileggere la storia delle donne sia relativamente allo spazio che non hanno avuto, sia a quello che hanno affettivamente avuto, ma che “è stato reso invisibile, irrilevante, dimenticabile, o persino caricaturale”. Eccole, allora, le tante eccezionali scrittrici che Brogi elenca, invitando a rileggerle tutte, riguadagnandone la complessità attraverso le competenze e i codici necessari, forniti soprattutto dalle lenti dell’ottica femminista. Tra le italiane, per non limitarsi alle conclamate Morante e Ginzburg, si citano Serao, Negri, Percoto, Banti, Masino, Campo, Guiducci, Livi, Romano, d’Eramo, Passerini…

Riflettendo sulla scrittura e la creatività delle donne, Daniela Brogi individua le problematiche che hanno reso difficile l’emergere delle loro potenzialità. Il tempo che esse dedicano a se stesse è da sempre vissuto come strappato ad altro, a urgenze familiari e domestiche più pressanti, e quindi vissuto con sensi di colpa, se non addirittura come un tradimento. Lo stesso luogo delimitato in cui possono lavorare artisticamente nasce da una situazione artificiale, perché costruito apposta, e in seguito a una scelta personale volontaria: “Scrivere significa collocarsi in uno spazio di autorevolezza e credibilità, anche narrativa, dove non era affatto scontato o naturale trovarsi”.

Proprio a causa “del silenziamento, oscuramento, inabissamento, estirpazione e perfino istupidimento delle donne praticato per secoli dalla cultura patriarcale”, la produzione artistica femminile non sempre è riuscita a raggiungere i livelli linguistici, espressivi e contenutistici richiesti dai canoni di valore letterario riconosciuto, e ha occupato un ruolo marginale in termini di merito; parlare di memorie autobiografiche, amori delusi, tormentosi rapporti familiari, disagio del corpo ha troppo spesso relegato tali argomenti in ranghi estranei alla rilevanza formale, svalutandoli in modo pregiudiziale.

Le donne hanno così finito per interiorizzare come debolezza strutturale e incapacità personale una reale condizione di svantaggio e di minorità sistemica, derivata da radicate e ininterrotte ingiustizie sociali, da asimmetrie legali, politiche, ideologiche.

Daniela Brogi termina la sua riflessione sull’autorevolezza e il prestigio negati alle donne auspicando che possano essere riconosciuti e riconquistati, nella nostra contemporaneità abitata da tante pluralità differenti, a cui è più che mai necessaria una cultura democratica del rispetto, dell’inclusione e della considerazione delle voci femminili.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 22 marzo 2022

RECENSIONI

BRUCK

EDITH BRUCK, TI LASCIO DORMIRE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2019

Sessant’anni di amore hanno unito la scrittrice Edith Bruck al poeta e regista Nelo Risi, e Ti lascio dormire è il commovente racconto che ne dà una lucida, sincera e affettuosa testimonianza.

Edith Bruck, nata nel 1932 in un’umile famiglia di ebrei ungheresi, ai confini della Slovacchia, ultima di sei figli, ha attraversato il ’900 scontando sulla sua pelle tutti le discriminazioni e le sofferenze impartitele dalle drammatiche vicende del secolo. Come ha scritto in un suo verso, “Nascere per caso nascere donna nascere povera nascere ebrea è troppo in una sola vita”: deportata a tredici anni ad Aushwitz, è stata in seguito trasferita in altri quattro campi di concentramento, fino a venire liberata nel 1945 dal lager di Bergen-Belsen, dopo lo sterminio di buona parte dei suoi familiari. In seguito a un periodo trascorso in Israele, nel vano tentativo di recuperare le proprie radici ebraiche, si è trasferita a Roma, dove vive tuttora, dedicandosi alla scrittura.

Autrice di numerosi e premiati romanzi – documentazioni sofferte della Shoah -, ha sceneggiato e diretto tre film e svolto attività teatrale, televisiva e giornalistica, sempre impegnandosi in coraggiose campagne di sensibilizzazione sui problemi dell’antisemitismo, del pacifismo e delle ingiustizie sociali.

Il suo lungo sodalizio sentimentale e artistico con Nelo Risi, scomparso nel 2015 dopo una dolorosa malattia neurodegenerativa, ha costituito terreno fertile per numerose e commosse rivisitazioni narrative. Appunto quest’ultima opera letteraria è il resoconto di un’amicizia amorosa, di una fiduciosa solidarietà che ha unito due esseri umani, due artisti, in una convivenza complice e valorizzante, in cui reciprocamente e alternativamente hanno tamponato o riacutizzato le loro ferite, smussato gli spigoli, alleggerito tensioni: capaci anche di allegria, di scoperte quotidiane, di amicizie, letture, viaggi condivisi.

Edith alterna le sue memorie di infanzia tragica e poverissima, con i ricordi feroci dei campi di concentramento, e li puntella con i versi dei poeti ungheresi amati e tradotti per il pubblico italiano, con quelli di Nelo, con la corrispondenza conservata dagli anni del fidanzamento (si chiamavano vicendevolmente Munzilo e Munzila, Nano e Nana). Rievoca gli ultimi anni trascorsi con il marito ammalato, vegliato giorno e notte insieme alla fedele governante Olga: il momento della morte, le ore convulse del funerale, e la silenziosa solitudine che ne è seguita.

Del marito tratteggia un ritratto ammirato: lo descrive intellettualmente (ateo, laico, freudiano), moralmente (schivo, onesto, riservato, poco interessato al denaro e al successo), fisicamente (asciutto e agile come un ragazzo); a lui che era il suo tutto (“lingua patria famiglia padre e madre”) raccontava la persecuzione patita dai nazisti, le piaghe inguaribili dell’anima, il rancore ancora insopprimibile, cercando conforto e comprensione. Teme ora, rimasta sola, di averlo ossessionato con la propria inquieta malinconia e con la narrazione delle vessazioni subite: “Ah caro, caro, episodi simili ne hai sentiti da me anche troppi, buttati sulle tue fragili spalle, sul cuore e sulla mente indignati per l’assoluto della barbarie umana… Ero troppo per te, dicevi”.

Ma quegli sfoghi quotidiani, quel troppo di sofferenza veniva mitigato dalla ricchezza del lavoro comune, dalle frequentazioni intelligenti con personalità dell’arte e della cultura, dai film e dai libri goduti insieme. E dalla dedizione, materna e filiale insieme, con cui lei – moglie attenta e discreta – lo accarezzava la mattina, quando svegliandosi presto, gli ripeteva “Ti lascio dormire”.

 

© Riproduzione riservata        9 giugno 2020

https://www.sololibri.net/Ti-lascio-dormire-Bruck.html

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BRUGNARO

FERRUCCIO BRUGNARO, VOGLIONO CACCIARCI SOTTO – BERTANI, VERONA 1975

Presso l’editore Bertani di Verona, è uscito l’anno scorso nella collana Letteratura Operaia il primo libro di Ferruccio Brugnaro, Vogliono cacciarci sotto. Bertani si è da tempo qualificato con una serie di iniziative culturali che inserite nel panorama della nostra editoria, e in particolare di quella veneta, possiamo definire senz’altro coraggiose. Editore dichiaratamente “di sinistra”, a lui Dario Fo ha affidato la stampa di tutti i testi de La Comune, e sta iniziando un lavoro di recupero dei patrimoni culturali popolari, non ufficiali, contadini e operai: altre sue pubblicazioni si definiscono “di intervento militante”. Questa premessa era forse necessaria per spiegare che il libro di cui voglio parlare si inserisce in un preciso campo ideologico e la scelta dell’editore non lascia spazio a dubbi sulla posizione dell’autore. Per presentare Brugnaro a chi non ne avesse mai sentito parlare (L’Espresso lo ha citato più volte in inchieste sulla letteratura “subalterna”), possono bastare queste brevi note biografiche: nato nel 36 a Mestre, da 20 anni lavora come operaio a Porto Marghera, membro del suo Consiglio di Fabbrica; prima di questo libro diffondeva le sue poesie tramite ciclostilati nelle fabbriche e nei quartieri. Lui stesso nell’introduzione precisa (sembra con l’imbarazzo e il pudore di chi non è abituato al “mestiere” di poeta), come la sua poesia si proponga come MEZZO, e non FINE, come non creda all’assoluta catarsi affidata al messaggio artistico: «la poesia è utile se nasce come strumento di lotta, di riflessione e azione, strumento di intervento reale… essa diventa per me e per i miei compagni un momento di riflessione, di arresto per poi ripartire subito con più chiarezza, con più forza». «Solo per un attimo / che tutto sia semplice / concreto», dice in un verso: e in omaggio a questa concretezza e semplicità, Brugnaro fa un discorso piano, chiaro, se vogliamo modesto, nel senso che non si propone mete irraggiungibili, ma traguardi concreti, definiti: «Voglio dire ancora che lo scrivere versi per me non significa altro che fare delle azioni di lotta; azioni concrete perché la società in cui viviamo abbia a cambiare presto, perché gli uomini e il mondo vengano sottratti presto alla cecità e alla sete di sangue del capitalismo. Non potrò mai intendere una poesia che non tenga conto di questa realtà, della realtà bruciante quotidiana dell’uomo». Zanzotto, in una nota al libro, afferma che la poesia di Brugnaro, forse spingendosi oltre (o contro) le sue intenzioni, è anche “atto poetico”, invenzione di forma. Fa un parallelo indovinato con il primo Ungaretti, non solo per certi moduli stilistici, ma soprattutto perché la realtà di fabbrica dell’uno si può avvicinare alla realtà di guerra (ossessiva, tragica, squallida) dell’altro.

Premesso tutto questo, leggendo Brugnaro ci si aspetterebbe una poesia molto più “arrabbiata”: invece troviamo dei versi che fanno tesoro di alcune cadenze ed espressioni tra le più borghesi della nostra letteratura, che si avvicinano a volte alla tenerezza di affetti espressa dai crepuscolari: «Noi conoscemmo la luce / del silenzio come nessuno, sentimmo come / nessun altro venire con la notte / l’amore degli astri e il cuore morire»; «Di silenzio ora / l’anima è al completo / come una vasta / distesa di neve». E ciò stupisce. Siamo lontanissimi dalle denunce di Vincenzo Guerrazzi, dagli sfoghi rabbiosi di Vogliamo tutto e altra letteratura industriale. Della condizione di operaio, viene messa in luce la brutalità, la disumanizzazione, ma con un accento di rassegnazione accorata, di sconforto che è nuovo: «Siamo pronti a soccombere / sino in fondo / senza alcun gesto di protesta»; «Avremmo dovuto forse odiare, / ma non pensammo neanche lontanamente»; «Non stancatevi, cari; date / date tutto sempre quanto / vi chiedono! / Non piangete / sulla mano che vi recide».

Per spiegare tutto questo, credo sia necessario richiamarsi all’origine veneta di Brugnaro: un operaio di diversa provenienza avrebbe scritto, credo, diversamente le sue poesie. Radicata è invece in Brugnaro la mitezza dei padri, la discrezione, il misticismo proprio della sua razza. Scrive poesie d’amore, e non di rabbia; fa dell’amore un obiettivo concreto da raggiungere: «il mio pensiero guarda solo all’amore: /con lui solo discorre / giorno e notte e va per la terra»; «Non un istante della mia vita / deve andare più perduto. Voglio / spenderla tutta in amore». Non c’è in lui odio di classe. Parla di Dio, di Cristo, come presenze illuminanti, vere: il suo bisogno di preghiera e di luce è intensissimo: «Tu che ascolti i poveri, / Tu che segui quelli che piangono / e più di tutti hai pianto, / insegnami che altri giorni / ha la vita, non questi, / residui d’ombre / per poco ancora tolti alla morte»; «Ho una voglia di pregare / stamane / che non ho mai avuta prima. / Non ho mai sentito / così vivo desiderio d’inginocchiarmi»; «Alzate le braccia, compagni, in segno di gioia / fate rumore senza infrangere nulla del profumo notturno… / Fate festa! Fate festa! / Attorno l’icona sbiadita / dei nostri visi / palpiteranno in milioni e milioni i cuori»; «Sono tremendamente felice ora. / Non avrei mai creduto poter / ricevere in questo angolo / la vista del sole».

Il Brugnaro operaio assume contorni più decisi e polemici in due sezioni del libro: Mattine di sciopero e Quotidianamente: qui scopre la solidarietà nella lotta, la durezza impietosa del nemico, la dignità della sua persona in fondo alla condizione di sfruttato. E all’operaio (che in più di una poesia viene avvicinato alla figura di Cristo, proprio perché portatore di un messaggio di riscatto sociale), affida un compito gravoso e sublime: «Raccogliete tutte le ferite / i colpi a tradimento / gli sputi. La terra attende da molto / raccogliete il messaggio / d’amore, raccogliete il grido del mondo più vero»; «Un seme dobbiamo piantare / compagni / sotto queste valvole, queste tubazioni. / Un albero grande deve crescere subito…»; «Il muro di solitudine, di secoli / si sta sbrecciando / sta venendo verso di noi un gran sole»; «Ma non sanno, non sanno / – è loro sfuggito – che il sole / vive proprio qui tra noi. Non sanno, non sanno / delle nostre conversazioni silenziose / col sole / ogni mattina / del nostro grande progetto di lotta, di vita».

Per «distruggere il fuoco immenso delle fabbriche», Brugnaro invoca altro fuoco, per sé, per i compagni; invoca un’arma che non ha nulla a che vedere con la dinamite, con la rivoluzione storica, materiale: il suo è un appello di una purezza e di un’ingenuità sconcertante, il richiamo ai primissimi valori cristiani, alla solidarietà. Quando fa sciopero, lo fa contro la fabbrica, non contro gli interessi e i padroni della fabbrica: sembra dolersene come di una violenza che non è consona al suo carattere. Poesie, quindi, le sue, di un uomo mite, violentato dalla realtà, che trovano i loro accenti più veri in certe descrizioni desolate di ambienti nudi, disumani, nella pena dei compagni abbrutiti, uccisi addirittura dalla violenza delle macchine: un S.Francesco di Marghera, Ferruccio Brugnaro, un poeta che fa l’operaio, e non il contrario, come vorrebbe, come la sua coscienza ideologica gli imporrebbe. Alla fine del libro, ci si accorge che le premesse teoriche sono state capovolte, oppure che per noi, borghesi disincantati, intellettuali scafati, il mondo «semplice concreto» di un operaio e della sua poesia non riesce a mantenere il suo fascino sottile, leggero. E la colpa, in questo caso, si intende che è nostra.

 

«La Tenda», anno IV, n.6, giugno 1976

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BRULLO

DAVIDE BRULLO, S – MARIETTI, MILANO 2010

La sinuosa S che dà il titolo a questo eccellente libro (romanzo? meditazione filosofica? diario? affresco immaginoso? epistolario?) di Davide Brullo, potrebbe alludere a una marea di significati diversi. Forse indica l’iniziale di un nome di donna (l’amata, l’odiata, la sola immaginata…) o di un figlio (il Samuele bambino cui si deve il disegno della tartaruga in copertina) o di un luogo (e allora la mitica e irraggiungibile Samarcanda, o l’infernale carcere di Sing Sing). Ma potrebbe anche voler suggerire salvezza, sesso, satana, serpente, sacrificio, storia, speranza, silenzio, sortilegio, specchio, schizofrenia, sofferenza, strategia, suicidio («Debbo sempre ringraziare mio padre: il suo suicidio ha concesso il mio esordio nella storia – o la mia definitiva espulsione: la sua morte è la sola garanzia della mia regalità. Senza di essa non sarei nulla, da allora sono costretto a riscattarla, forzandomi a vivere»). E la condanna a vivere è per Brullo anche costrizione ad esprimersi sulla pagina, attraverso la scrittura: che salva e vendica, inchioda ed esalta. «S» come scrittura, quindi, celebrazione della parola intesa come Verbo, unica possibilità di incarnazione e immortalità («le parole sono gesti inesorabili», «Alcuni pensano che la scrittura dovrebbe far esplodere le cose, i corpi, espanderli fino all’irragionevole: io so che deve contenerle, custodirle come dentro un astuccio in cui si strofinano anelli», «Una scrittura che afferma, precisa e superiore come un ordine, non reclama un lettore ma un fedele»). Custode del miracolo dell’ espressione, artefice di una creazione che lo assimila a un dio minore è quindi lo scrittore, il poeta, il regista che sa intrecciare frasi e immagini in un caleidoscopio vorticoso e assillante di emozioni e turbamenti, cui si deve negare solamente il rigor mortis dell’imperturbabilità, dell’indifferenza, della freddezza. «S», dunque, soprattutto come  «sé» . E il libro di Davide Brullo è un gigantesco monumento, una narcisistica, ammirata, ansiosa ricostruzione ed esaltazione del proprio io psichico, della propria coscienza di uomo e artista: vita brulicante e malattia paralizzante, animali e cose, infanzia e senilità, corruzione e nobiltà, bene e male, persino dio, sembrano vivere in funzione della rappresentazione dell’occhio implacabile, feroce, di chi li descrive, distruttivo e violento anche nei riguardi di se stesso. Una sorta di Zarathustra «radicale… intransigente», animato da una «truce ossessione», è il ritratto che Brullo offre di sé:

«Sono inappagato e famelico», «domando l’inconcepibile, pretendo l’inafferrabile…. pretendo devozione», «non sopporto le cose parziali, interrotte, misere», «so di essere incapace e inadempiente, per questo sono superbo»», «non posso pensare a una creatura che non abbia il mio volto», «ogni mio giudizio è infallibile, inappellabile», «Semplicemente, ambisco al genio, ed esso, nella sua ambivalenza e tirannia, si dimostra con perfezione nella scrittura», «La mia qualità è quella di essere un uomo espulso dalla storia: pervertendo ogni idea di destino sono immune alla pena e alla compassione…». In questa ansiosa bramosia di assoluto, in questo totale e ossessivo scorticamento di sé e del reale, insofferente di qualsiasi tenerezza e indulgenza, Davide Brullo incide con l’analitica cupezza di un anatomopatologo il rapporto con ogni alterità. L’amore assume contorni cannibaleschi e onnivori, in uno sbranamento reciproco che non lascia alcuno spazio alla leggerezza, all’affettuosa comprensione, alla delicata e rispettosa dedizione. Una vertigine dei sentimenti e della fisicità possiede gli amanti, scorporandoli dalle loro individualità per farne un essere unico e mitico, quale forse quello del Simposio: «Ti amo come se fossi il prototipo dell’uomo prima della caduta, poi abortito: come se tu fossi la valle e io l’eco che la stringe e crea. Ma ciò che ti dico non ha testimoni, è nostro. Concedimi questo spreco. Di essere mortale e assoluto, consumandomi ora, per te… Se ti dicessi che spero in una catastrofe di cui noi saremmo il solo resto, cosa penseresti? Probabilmente ci odieremmo, giungeremmo a sopprimerci, perché è l’impossibilità dell’unione a unirci, la perversione del tradimento a darci l’idea dell’ebbrezza e dell’eternità».

Il mondo intorno assume allora i caratteri apocalittici di un day-after, rovinoso e perturbante, in perpetua e orrifica metamorfosi, in cui persino gli oggetti più quotidiani (una tazza, un barattolo, una piastrella…) si deformano alterando i loro confini, trasformandosi in altri oggetti, corpi, animali.   Le città, desolate in un’atmosfera kafkiana di solitudine metafisica, sono invase da colonie di insetti, lucertole, gabbiani, cani e lupi (o dal preistorico, minaccioso varano), che le costringono in scenari da incubo, da flagello biblico e maledizione cosmica: «Vedo scorrere sulla via, di fianco al cancello screpolato, moribondo, bestie impreviste. Creature che non ricordo di aver visto in alcun manuale, esseri che forse reclamano un creatore. Sfilano di fronte a me, in una marcia dimostrativa».

È straordinaria e ammirevole la maestria descrittiva di Brullo, la sua capacità visionaria di squadernare sotto gli occhi del lettore immagini di una concretezza quasi filmica, coinvolgendolo emotivamente, impressionandolo. Se poi la scrittura si concentra nell’analisi delle figure umane, ecco che da pura rappresentazione figurativa assurge a meditazione filosofica sull’imprescindibilità del male, sulla sua non riscattabile necessità. Vecchi e bambini dominano la scena del mondo, gli uni mortificati nel disfacimento repellente del loro corpo («Gli occhi della vecchia erano bianchi e vertiginosi, e nel loro incavo si era impiantata una colonia di formiche…»), gli altri vendicativi, crudeli, mutanti, in preda a istinti omicidi e distruttivi: non esiste innocenza, nell’infanzia descritta da Brullo, né pietà o solidarietà.

«A turno, manovrando un coltello di pietra, i bambini affrontarono il colpevole, stordito, estasiato, scavandolo ed estraendo un pezzo dal suo corpo. Roteavano, ebbri, ciascuno con il proprio coccio sanguinante, come se fossero mostri primordiali che illuminino il cosmo muto, sabbioso, impugnando stelle comete». Quali possono essere le radici di cui si è nutrita negli anni la scrittura così sapiente, meditata e vibrante di Davide Brullo? Senz’altro ritroviamo i toni appassionati dei profeti, da Isaia a Geremia, e le esaltate allucinazioni dell’ Apocalisse; ma anche l’indignazione dei mistici e dei predicatori medievali, e qualche immagine dantesca. E la lettura partecipe dei più noti narratori americani del 900, da Faulkner all’ultimo McCarthy; passando attraverso il rumeno Cioran di  Squartamento, fino all’assorbimento di alcuni echi da Ceronetti e Sgalambro. Frasi severe, asseverative, pregne di un gusto gnomico per la sentenza, per l’aforisma dilatato in constatazione, in tesi teorica che non ammette deroghe o appelli. Alla densità compatta di questo libro, e all’altezza indiscussa della sua prosa, nuocciono forse una ventina di pagine finali, una sorta di memento composto da illuminazioni poetiche, simil-versi scanditi da trattini di separazione, che poco aggiungono alla ricchezza fremente delle pagine precedenti. Le quali trovano la loro disperante giustificazione in affermazioni come questa: «Non ho alcuna ambizione se non quella di estenuarmi, liberandomi dal carcere delle parole e della mia storia». Ovviamente non condivisibile da chi legge Davide Brullo, e si augura invece che lui continui a scrivere narrativa così nobile e coinvolgente, sofferta e imperiosamente rigorosa.

«Atelier» n. 68, febbraio 2013

RECENSIONI

BRUNI

LUIGINO BRUNI, FIDARSI DI UNO SCONOSCIUTO – EDB, BOLOGNA 2015

Il Professor Luigino Bruni, che insegna Economia Politica all’Università Lumsa di Roma, ed è firma illustre del quotidiano cattolico “L’Avvenire”, offre in questo libriccino alcune auree regole intese a coniugare capitalismo e gratuità, mercato e carità, sulla base degli insegnamenti evangelici e delle sette virtù teologali-cardinali. Se quindi il “nostro capitalismo individualistico-finanziario, che sta trasformando il mondo in un ipermercato senza persone, senza incontri, senza parole, senza onore e riconoscimento dell’altro” risulta in effetti l’incarnazione disumana, sfruttatrice, impietosa del Male cosmico, immanente e trascendente,… secondo le francescane indicazioni del Professor Bruni ad esso dobbiamo strenuamente opporci appellandoci ai valori cristiani della fiducia reciproca, della speranza, della comprensione e del perdono, della giustizia e della sobrietà. Così, e solo così, il mondo avrà la forza di contrastare la finanza predatrice di Wall Street, l’ingordigia della Borsa, la strafottente cupidigia dell’homo oeconomicus contemporaneo. Tornando magari alla benevola e virtuosa teoria del “giusto prezzo” medievale, forse al baratto, e soprattutto alla “fede dei nostri antenati, capaci di dar inizio a cantieri di vere grandi opere perché animati dalla fede in cose più grandi della loro esistenza terrena”. Per intenderci, alla disinteressata fede di Comunione e Liberazione, al rifiuto del possesso dello Ior, agli attici cardinalizi, alla Divina Provvidenza pugliese…Convintamente cattolico, Luigino Bruni indica in Abramo, possessore solo della tomba della moglie Sara, un campione di questo nobile sprezzo di qualsiasi proprietà, dimenticando quali e quante ricchezze avesse accumulato il patriarca, non sempre simbolo di coraggiosa virtù. E sorvolando anche sui propri elzeviri nel giornale della Cei, così spesso aggressivi, diffamatori, volgari, irrispettosi nei riguardi dell’altro, verso cui predica solidarietà e agape.

IBS, 22 LUGLIO 2015

 

RECENSIONI

BRUNI

LUIGINO BRUNI, CAPITALISMO INFELICE. VITA UMANA E RELIGIONE DEL PROFITTO

GIUNTI & SLOW FOOD EDITORE, 2018.

 

In una recente serie di conversazioni radiofoniche nella rubrica Uomini e Profeti di Radio3 Rai, Luigino Bruni (professore ordinario di Economia politica all’Università Lumsa di Roma ed editorialista del quotidiano Avvenire) ha affrontato il tema del rapporto tra capitalismo e cristianesimo, fede e denaro, mercato e solidarietà civile. Argomenti trattati in tutte le sue numerose pubblicazioni, con effervescente vis polemica e piacevolezza di stile, secondo un’ottica manifestatamente cattolica.

In Capitalismo infelice, volume del 2018 coedito da Giunti e Slow Food, Bruni si pone due obiettivi: la contestazione dell’ideologia capitalistica (basata sull’individualismo, l’idolatria del denaro e del consumo, la negazione del bisogno, l’enfatizzazione del merito e della concorrenza, la santificazione del business) e la proposta di un nuovo modello di sviluppo, in grado di riconfigurare l’economia e trasformare il mercato in un laboratorio di virtù etiche e civili, costruendo organizzazioni bio-diversificate e riscoprendo valori comunitari responsabili.

L’autore attribuisce al capitalismo contemporaneo, così radicalmente diverso da quello degli ultimi due secoli (descritto da Saint-Simon, Karl Marx e Max Weber),, altrettanto feroce ma meno spersonalizzante, un’enorme capacità di “creazione distruttiva” soprattutto in ambito umanistico, là dove per creare merci da vendere finisce per distruggere ogni spazio di libertà personale.

Dominato dal tecnicismo e dalla finanziarizzazione, esso si presenta come ideologia globale del successo e della ricchezza, avente come dogmi la meritocrazia, l’organizzazione manageriale del lavoro, gli incentivi di produzione. Relegando le relazioni private, i sentimenti, la creatività in un ambito di non-essenzialità, privilegia nei luoghi di lavoro e della vita quotidiana rapporti frammentati, funzionali a interessi economici, elettivi e molto circoscritti tra consimili.

“La società di mercato ha bisogno di individui senza legami forti e radici troppo profonde… Le persone con relazioni interpersonali significative, con una vita interiore coltivata, sono sempre consumatori imperfetti e difficili da gestire”. Da ciò deriva la necessità di “controllare, arginare, normalizzare” qualsiasi pericolosa indipendenza di giudizio, contestazione, spirito critico di chi consuma: siamo stati svuotati di senso e riempiti di cose, con lo scopo di attivare emozioni, codici simbolici, desideri e sogni catalizzati intorno all’acquisto e al possesso.

È cambiato il concetto di lavoro, parcellizzato e privato di motivazioni personali. Il vecchio spirito calvinista del capitalismo, centrato sull’operosità e la produzione, era ancora essenzialmente e naturalmente sociale, basato sull’attività collettiva, di cooperazione e mutualità. Oggi, la parola d’ordine delle rivendicazioni politiche e sindacali sembra si stia spostando dal “lavoro per tutti”, che era il grande ideale del XX secolo, al “consumo per tutti”. L’incancrenirsi del sistema economico su se stesso ha provocato una visione riduttiva sia degli esseri umani sia dell’ambiente, e ha prodotto un isterilimento delle risorse emotive, facendo prolificare nuovi culti idolatrici, votati a feticci mercantili, a un totemismo degli oggetti da acquistare, da possedere, di cui saziarsi anche in mancanza di effettiva necessità. Da un lato ha creato estese aree di indigenza, dall’altro una bulimia fisica e psichica, un’obesità diffusa e ingorda nell’accaparramento di beni materiali.

Luigino Bruni sottolinea il fatto che a un conformismo indotto nei comportamenti si è sovrapposto un ancora più dannoso conformismo ideologico attraverso l’imbonimento mediatico (pubblicità pervasiva e condizionante, talkshow sempre più urlati e volgari, preponderanza ossessiva di temi riguardanti la salute, la cucina, il sesso, la performance).

Anche la religione ha ceduto alle lusinghe della spettacolarizzazione e della produttività, riducendo la spiritualità a merce acquistabile (le indulgenze…), e conducendo a una deriva consumistica della fede. Alle liturgie ecclesiastiche si sono sostituite ritualità laiche (team building, business school, giochi di ruolo, sessioni di escape room, meditation room, convention imprenditoriali, piece teatrali): stratagemmi miranti a intensificare la produzione e il profitto, i cui celebranti sono i nuovo leader aziendali, manager carismatici in grado di motivare i dipendenti rendendoli devoti adepti dell’impresa, in questa new age materialistica che celebra la natura spirituale del denaro.

L’autore, commentando alcune delle più note parabole evangeliche (dei talenti, dell’operaio dell’ultima ora, del figliol prodigo), suggerisce una loro rilettura non più come giustificazione dello spirito imprenditoriale e capitalistico, ma nel senso di una condanna cristiana delle ricchezze inique, del sistema economico-sociale basato sulla meritocrazia e sull’esclusione degli svantaggiati. La vera specificità del messaggio cristiano rimane infatti il primato della gratuità, della misericordia, della grazia. “Ieri e oggi le meritocrazie hanno un solo grande nemico: la gratuità, che temono più di ogni cosa perché scardina le gerarchie e libera le persone dalla schiavitù dei meriti e dei demeriti… Se oggi volessimo spezzare la spirale di ineguaglianza e di esclusione, dovremmo dar vita a politiche educative anti-meritocratiche… Nulla è più trasgressivo del dono, nulla è più libero. È trasgressivo e libero ovunque, ma nell’ambito economico i suoi effetti sarebbero particolarmente devastanti. Perché spezzerebbe le regole dei contratti, minerebbe la gerarchia”.

Se la pars destruens, più criticamente corrosiva, del libro di Luigino Bruni risulta convincente nella sua impetuosa e polemica condanna del “capitalismo infelice”, riescono meno persuasivi i capitoli dedicati alla proposta di nuove soluzioni di organizzazione economica, capaci di rispettare le libertà dell’individuo, incoraggiandone la crescita culturale e spirituale, e intensificando la solidarietà e la generosità nei rapporti interpersonali.

Nell’ultimo capitolo del volume, intitolato utopisticamente Il lavoro di domani sarà bello, Luigino Bruni immagina una rivoluzione epocale che permetta a uomini e donne di lavorare di meno, liberando tempo e spazi privati, incoraggiando la creazione di cooperative sociali in ambiti finora non abbastanza utilizzati, a partire dai beni culturali, artistici, religiosi, turistici.

L’auspicio finale dell’autore, che forse l’attuale tragico momento pandemico rende meno illusorio, è di poter adattare la metafora vegetale al sistema economico, ancorandosi alla territorialità come le piante al suolo, in una sopravvivenza sussidiaria più sobria, essenziale, resiliente e sana. Potremmo trasformarci così in un organismo collettivo pulsante, che come una foresta apporti nuovo ossigeno nelle nostre asfittiche ed egoistiche società moderne.

 

© Riproduzione riservata                    «Gli Stati Generali», 13 aprile 2020

 

 

 

 

 

 

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RECENSIONI

BUARQUE DE HOLLANDA

CHICO BUARQUE DE HOLLANDA, IL FRATELLO TEDESCO – FELTRINELLI, MILANO 2017

Con questa recensione voglio rendere omaggio a un mito della mia adolescenza, che ha accompagnato con le sue canzoni i miei pomeriggi di ragazzina solitaria, illuminandoli non solo della particolare saudade della musica brasiliana, ma anche di una poesia civilmente impegnata, coraggiosa, esplicitamente contraria a ogni violenza dittatoriale: politica-ideologica-di costume.

Chico Buarque de Hollanda (Rio de Janeiro, 19 giugno 1944) non è stato solo uno dei più noti autori e interpreti della bossanova, insieme con Vinicius de Moraes, João Gilberto e Tom Jobim (come non ricordare le famosissime incisioni interpretate anche in italiano, e riproposte da Mina, Enzo Jannacci, Mia Martini, Ornella Vanoni, Fiorella Mannoia: A banda, Pedro Pedreiro, Tem mas samba, O que serà, Funeral de um lavrador…). È stato anche sceneggiatore, poeta, romanziere di successo: e proprio in quest’ultima veste verrà qui presentato. Ma prima di commentare il suo libro più recente, pubblicato da Feltrinelli, Il fratello tedesco, vorrei ricordare che Chico è stato ed è tuttora per il suo paese un simbolo di impegno politico contro la dittatura militare, che lo portò all’arresto nel 1968, cui fece seguito un esilio auto-imposto in Italia nel 1969. Nel nostro paese conobbe la solidarietà e la collaborazione di molti intellettuali come Morricone, Endrigo, Bardotti, Luis Bacalov, Gianni Minà, Amilcare Rambaldi.

Il fratello tedesco si apre con la descrizione di un vasto e serioso appartamento di San Paolo, tappezzato di scaffali c librerie che accolgono circa ventimila volumi, capolavori di tutto lo scibile umano, in edizioni rare e antiche, provenienti da tutto il mondo. Dalle loro vissute e meditate pagine, che trattengono cenere di sigarette e polvere, sbucano velocissimi scarafaggi di ogni dimensione, insieme a biglietti del tram, liste della spesa, francobolli, cartoline.   In uno di questi tomi il protagonista Francisco, secondogenito inquieto sessualmente e intellettualmente, scopre una lettera scritta in tedesco e indirizzata a suo padre, firmata da una misteriosa Anne. La fa tradurre da un amico, scoprendo così che l’austero genitore Sergio de Hollander, stimato storico e accademico, durante un soggiorno di studio in Germania nel 1931 aveva concepito un figlio con una ragazza tedesca, che aveva poi abbandonato con il bambino, ritornando in Brasile. La vicenda alterna quindi l’esteriorità dell’esistenza vivace del giovane (passata tra scorribande notturne, studi universitari, delusioni sentimentali, dimostrazioni politiche, visite ai bordelli, sbronze, gelosia rancorosa nei riguardi del fratello Domingos), con l’ansia filiale di confrontarsi col modello paterno, mitizzato e irraggiungibile, ma improvvisamente ridimensionato in una sfera più privata, fragile e manchevole. Francisco tenta vanamente di recuperare qualche traccia del fratellastro tedesco, in una vorticosa spirale di incontri e abboccamenti con transfughi nazisti e rifugiati ebrei, nella ricostruzione di documenti inviati da diverse ambasciate e uffici ministeriali, nel pedinamento di sconosciuti sulla base di vaghe somiglianze fotografiche: con l’unico e inconfessato intento di penetrare nell’indifferente silenzio del padre, di farsi prendere in considerazione da lui. Ma il professor Sergio de Hollander, noto intellettuale trinceratosi all’interno di una fortezza fatta di libri e scrittura, morirà rimbambito senza confessare il suo segreto: mentre intorno a lui il mondo del figlio incompreso va a pezzi sotto l’assedio di allucinazioni da Lsd, incubi, rastrellamenti della polizia, esecuzioni sommarie, in un Brasile sempre più feroce e indecifrabile. Eppure, quello che sembrava il delirio ossessivo di un giovane traumatizzato da una storia familiare e dalla tragedia politica del suo paese, trova un’eco risolutiva nella vita reale di Chico Buarque de Hollanda, che settantenne riesce finalmente a ricomporre l’esistenza del fratellastro tedesco in un uomo abbandonato dai genitori naturali, adottato con un altro nome e morto di cancro nel 1981: inseguito per decenni e mai incontrato.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Il-fratello-tedesco-Chico-Barque.html       25 ottobre 2017

 

 

RECENSIONI

BUBER

MARTIN BUBER, IL CAMMINO DELL’UOMO – EINAUDI, TORINO 2023

Einaudi ripropone un testo canonico di Martin Buber, Il cammino dell’uomo, definito da Herman Hesse “un dono prezioso e inesauribile”. Nato come conferenza tenuta in Olanda nel 1947, e uscito per la prima volta come libro l’anno successivo, questo testo propone al lettore un itinerario in sei capitoli volto alla conoscenza del sé, per progredire verso la maturità spirituale e comportamentale. Secondo Enzo Bianchi, che ne ha scritto la prefazione, “Buber ci vuole parlare dell’uomo nel suo rapporto con sé stesso, con gli altri esseri umani, con il mondo e con Dio, e lo fa con una preoccupazione pedagogica”.

Martin Buber (Vienna 1878 – Gerusalemme 1965), è stato uno dei maggiori studiosi del Ḥasidismo, corrente mistica dell’ebraismo nata in Polonia nel 1700, tesa a rinnovare il giudaismo attraverso un processo di riscoperta nella vita quotidiana di un sentimento interiore di pietà, finalizzato al raggiungimento di uno stato di eterna gioia e unione con Dio. Nella sua vasta produzione filosofico-teologica, oltre alla raccolta di una serie di leggende e racconti ḥasidici e al fondamentale saggio Io e Tu del 1923, Buber si impegnò in una laboriosa traduzione della Bibbia dall’ebraico al tedesco.

Per lui, la vita va modulata come relazione, intersoggettività, dialogo, comunicando con  la creazione e il Creatore, in una concezione unitaria dell’essere.

Ne Il cammino dell’uomo sono numerosi i riferimenti alla tradizione ḥasidica e alle varie interpretazioni sapienziali delle Sante Scritture di Israele, intervallati da esempi, parabole e brevi resoconti di leggende talmudiche. I sei capitoli in cui si suddivide il volumetto portano titoli esemplificativi: Prendere coscienza di sé, Il cammino particolare, Risolutezza, Cominciare da sé stessi, Non dedicarsi a sé stessi, Là dove ci si trova, e indicano come progredire gradualmente alla realizzazione del proprio essere più profondo e autentico. Un viaggio verso la trasformazione da intraprendere senza rimpianti o ripensamenti, per ritrovare la pace interiore. “Solo quando un essere umano ha trovato la pace in sé stesso, può andare a cercarla nel mondo intero”. Si tratta di un lungo cammino, che può durare l’intera vita, e si compie inizialmente da soli per individuare debolezze, paure, fallimenti, ma esplorandosi con sincerità, rimettendosi continuamente in discussione. “Primo: ognuno deve custodire e santificare la propria anima secondo l’indole e il luogo a lui propri, senza invidiare l’indole e il luogo di altri; secondo, ognuno deve rispettare il mistero dell’anima dei suoi simili, senza penetrarlo con impudente curiosità e servirsene; terzo, ognuno, nella vita con sé e nella vita col mondo, deve guardarsi dal mirare a sé stesso”.

Assumersi come punto di partenza, non come meta finale; conoscersi, ma senza preoccuparsi troppo di sé; cercare la via migliore, ma non senza gli altri. E non è necessario spingersi in terre lontane per realizzarsi come esseri umani, né si devono affrontare esperienze straordinarie per imparare a conoscersi: “L’ambiente che percepisco come naturale, il contesto che mi è stato assegnato come destino, ciò che mi accade giorno dopo giorno, ciò che mi si richiede giorno dopo giorno: eccolo qui il mio compito essenziale, eccola qui la completezza esistenziale così come mi si apre di fronte”.

Un libriccino di sapienza millenaria, un insegnamento che travalica la sua stessa origine ebraica, ricco di massime illuminanti, venate talvolta di amara ironia, ma sempre con un fiducioso abbandono al progetto divino.

 

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9 marzo 2023