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RECENSIONI

BUKOVAZ

ANTONELLA BUKOVAZ, AL LIMITE – LE LETTERE, FIRENZE 2011

Antonella Bukovaz è poetessa originaria di un piccolo paese sul confine italo-sloveno, e insegna appunto sloveno in una scuola in provincia di Udine. Si occupa dell’interazione tra parola, suono e immagine, ed è attivamente partecipe delle più nuove tecniche di video-audioinstallazione. Anche questo suo libro di versi pubblicato da Le Lettere è accompagnato da un dvd, ad indicare il suo specifico interesse verso la multimedialità. Ma è proprio la sua condizione di bilinguismo quella che più emerge dalla sua scrittura poetica come riflessione sulla produzione letteraria, “al limite” tra espressioni diverse. Un suo poemetto molto interessante, recentemente riproposto nell’antologia Einaudiana  Nuovi Poeti Italiani 6, si apre con una lunga citazione di Pasolini sulla reciproca compenetrazione tra italiano e friulano, ufficialità e marginalità, nostalgia e regressione da una parte e rappresentazione “civile” dall’altra. Ed ecco dunque la sofferta condizione poetica della Bukovaz: «Parlo dal bordo e solo mi capisce / chi arretra per dare spazio / alla respirazione della distanza / tra una lingua e l’altra», «parlo da questa compresenza / in cui sempre cerco la parola persa», «i suoni slavi compongono il mondo / che appena mi consola», «È il linguaggio l’unico altrove che mi resta». Con la consapevole e orgogliosa affermazione della sua unicità di interprete di due diverse anime ed espressioni: «Lingua sconfinata / io ti sono sentiero!». In altre poesie, l’ intenso rapporto vissuto con un paesaggio-persona («Ho deciso di stare dove posso comprenderti tutto… andiamo uno nell’impronta dell’altro…  e pago questo amore sconfinato / con la fragilità di ogni mio respiro») evidenzia comunque questo bisogno assoluto di radicamento (il deittico “qui” viene ripreso in continuazione, a ribadire l’esigenza di un posizionamento nella fedeltà a un luogo: «mi sono fermata qui… posso stare qui… Qui le cose tendono a ciò che è bene»), la necessità di preservare la realtà conquistata, allontanando il timore di una sua scomparsa o dissolvimento: «Distesa lungo l’ultimo sentiero / sono la tua forma senza inganno / traccia di scomparsa / che appare se mi volto dentro / in assenza di percezione».

 

«Leggendaria» n. 97/98, gennaio 2013

RECENSIONI

BUKOWSKI

CHARLES BUKOWSKI, UNA TORRIDA GIORNATA D’AGOSTO – GUANDA, PARMA 2014

«sto usando questa poesia per riempire lo spazio / mentre bevo / il mio ultimo bicchiere di vino //
stasera // è stata una serata soddisfacente: ho visto un / eccellente incontro di pugilato / prima //
messo l’antipulci ai gatti // risposto a due lettere / scritto quattro poesie. / certe notti scrivo dieci
poesie / rispondo a sei lettere»

Quale fosse il rilievo che Charles Bukowski attribuiva alla sua attività poetica risulta evidente dai versi citati: scrivere poesie, o lettere, o i racconti che gli venivano sollecitati – e ben retribuiti – da editori di pornografia, gli richiedeva la stessa concentrazione e dedizione che occuparsi dei suoi amati gatti. Ironizzava molto sul suo essere un «grande scrittore americano», simile a Norman Mailer nei «10 chili in sovrappeso», e invitato a conferenze in giro per il mondo, quando in realtà si riteneva un poeta mediocre, e commentava sarcasticamente la produzione sua e di altri famosi colleghi: «gli stessi poeti che leggono e / rileggono negli stessi posti; sono imbarazzato per / loro e per / me stesso: / pensiamo davvero di forgiare la lingua in modo / più in- / consueto rispetto alle previsioni della borsa o / del tempo? // tutte quelle parole – che scriviamo a profusione – / ancora e ancora – la maggior parte di noi vive vite / ordinarie e senza coraggio – siamo folli a pensare / che i nostri / discorsi siano eccezionali?»

Nessun rispetto per la tradizione letteraria, nemmeno quella classica, che volutamente tendeva a smitizzare: «metto giù Rabelais / e gli strizzo l’occhio. / questo è quello che gli / scrittori si fanno / a vicenda. // al posto suo, mi / prendo una pastiglia di / vitamina C. //… Rabelais / eri un / ragazzo tanto tanto / interessante».

Nello stesso modo sbeffeggiava lo stile tradizionale, con i suoi versi smozzicati, interrotti a metà, volutamente prosastici e ignari di maiuscole, sia all’inizio che all’interno delle poesie, quasi a voler sottolineare un polemicamente divertito understatement. Più interessato all’alcol, alle corse dei cavalli, al sesso, alla banalità della vita quotidiana, ai soldi facili, Bukowski esibiva anche rabbiosamente il suo sostanziale e motivato distacco dal mondo artefatto del sogno americano, e la sua assoluta, solidale preferenza per gli emarginati, gli ubriaconi, le puttane, le camere d’albergo, i bar più squallidi. «Be’, copuli e copuli. / lasci la casa di questa e / vai nella casa di quella e confronti / copriletto / salviette del bagno / televisori / carta igienica / e il contenuto dei / frigoriferi; la mia lunga esistenza è sempre stata / solo questo e niente di / più; non c’era / altro da / fare / se non scopare; Vicini ottusi e impiccioni, lavori sopportati a malapena e per poco tempo, riti-doveri-cerimonie borghesi (Natale, Capodanno, servizio militare, tasse, pulizia corporale, civismo farisaico) da rispettare per quieto vivere:; mi scoccio quando mi fotto con le mie stesse mani;se vuoi spedirmi in un inferno anticipato / costringimi a passare una giornata intera a / Disneyland».

Gli affetti familiari gli suonavano irrimediabilmente retorici e insopportabili (la moglie querula, la suocera che gli rimproverava le parolacce, un padre detestato che gli aveva rovinato l’infanzia): «i piedi di mio padre puzzavano e aveva il sorriso / come un / mucchio di merda di cane. // essere lo stesso sangue di quell’odiato sangue / rendeva le finestre intollerabili, / e la musica e i fiori e gli alberi / brutti. // ma si vive: il suicidio prima dei dieci anni / è raro».

Cosa può salvare dallo sconforto, se nemmeno la scrittura offre più scampo? Forse solo la magia di una «mattina strana», come quella narrata in una lunga poesia che descrive lo spontaneo e immotivato adunarsi di una folla di uomini davanti a un bar: varia e inconcludente umanità che si ritrova solidale intorno al nulla di un mezzogiorno libero da qualsiasi impegno. Oppure la rara e rivelatrice consapevolezza che al puro esistere bisogna comunque e sempre rimanere grati: «trovi una sedia, ti siedi, accendi un sigaro. / di ritorno da un migliaio di guerre / guardi fuori da una porta aperta nella notte. / Sibelius suona alla radio. / nulla è stato distrutto. / soffi fumo nella notte nera, / sfreghi un dito dietro l’orecchio / sinistro. / ehi bello, in questo momento, sei in cima al / mondo».

 

«nazioneindiana», 15 aprile 2014

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BUKOWSKI

CHARLES BUKOWSKI, SVASTICA – STAMPA ALTERNATIVA, TARQUINIA 2011

“Il Presidente degli Stati Uniti d’America entrò nell’auto, circondato dagli agenti. Prese posto sul sedile posteriore. Era una mattina anonima e scura. Nessuno parlò”. È l’incipit di un racconto di Charles Bukowski, Svastica, inserito nell’edizione americana originale di Storie di ordinaria follia, e mai pubblicato nelle corrispondenti edizioni italiane. Il motivo di questa censura viene ipotizzato da Raffaello Gramegna, curatore di questo volumetto, nella sua appassionata introduzione. “In Svastica l’ambiente non è il solito manicomio, né il bar, né la camera dai muri screpolati. Qui, per la prima volta in un libro di Bukowski, si comincia dalla massima espressione di ambiente socialmente sano: the White House, signori, la Casa Bianca”. In effetti, il racconto non è molto tipico della narrativa bukowskiana: nemmeno sfiorato dall’ossessione del sesso, dell’alcol, e delle secrezioni corporee, è invece centrato sulla leggenda del ritorno del Führer. La violenza, che è un tema tipico dello scrittore americano, qui è ovattata, pervasiva e priva di connotati fisici; essa caratterizza il potere, capace di modificare i rapporti umani e addirittura il corso della storia mondiale.

La narrazione si apre con il rapimento del Presidente degli USA, che in un giorno di pioggia battente viene condotto dalla sua scorta, anziché verso la meta programmata dell’aeroporto, in un luogo segreto, attraverso stradine sterrate e fangose (con successivi trasferimenti di auto e depistaggi per evitare ipotetici pedinamenti), in una vecchia pensione situata in aperta campagna. Impaurito e stupefatto, si trova davanti un Hitler ottuagenario, ma vigile e concentrato in un suo diabolico piano.

“Questo è un gran giorno per la Storia”, dice uno degli agenti segreti. Il Presidente e il Führer, sottoposti a un’incredibile e futuristica operazione plastica, si scambiano connotati e ruoli. Il dittatore, che dopo la fine della guerra e il falso ritrovamento del suo cadavere nel bunker di Berlino, ha continuato a dirigere le sorti del mondo in incognito, si dirige in pompa magna verso la Casa Bianca, dove occuperà l’Oval Office e la cameraa da letto del Presidente, mentre quest’ultimo finirà recluso in una clinica psichiatrica, da dove continuerà a proclamare la sua vera identità, deriso da medici e degenti.

Il raccontino in sé non ha un particolare valore letterario, e forse l’unico interesse che può riscuotere sta appunto nel fatto di essere stato escluso dalla più famosa raccolta di Bukowski. Ma l’edizione di Stampa alternativa ha invece il merito di proporre il testo originale in inglese, e un’attenta ricostruzione biografica e ideologica del curatore, che difende l’autore dalle accuse di simpatie naziste, sottolineando la sua anarchica opposizione a ogni potere, e il suo essere sempre stato “CONTRO; contro i comunisti, contro il governo americano, contro i padroni, contro le femministe, contro gli ecologisti, contro i blue collars, contro i cristiani praticanti, contro la Beat Generation, contro sé stesso”.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Svastica-Bukowski.html               5 novembre 2019

 

 

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BULETTI

AURELIO BULETTI, REGINE – ADV, LUGANO 2016

“Madamina, il catalogo è questo”, viene da canticchiare leggendo il libro di versi di Aurelio Buletti: una sorta di Don Giovanni filosofico al contrario, alquanto misogino, beffardo e risentito, nel presentare il suo inventario di Regine, reginette, principesse, marchese, proletarie, commesse, cameriere, artistoidi, casalinghe, attricette, puttanelle, nobildonne e intellettuali sfigate. Un po’ frigide un po’ assatanate, mantidi religiose o bacchettone, le femmine di Buletti vengono schedate con impietoso sarcasmo, in un lussureggiante e fantasmagorico elenco di divertite metafore: Notte Profonda, Degna di Lode, Stanca di Tutto, Ventata di Allegria, Foresta Nera, Tabula Rasa, Acqua Passata, Anima Pura, Spesa Folle, Sola Soletta, Pesca Matura… In crudelissimi distici, terzine o quartine, l’autore inquadra vizi reali e false virtù dell’intero universo muliebre, con relativi imbalsamati o rimbambiti accompagnatori: non si salvano mamme e nonne, mogli e fidanzate, insegnanti e studentesse, tutte accomunate da una teatralità infingarda, tesa a macchinare trappole per irretire ingenui maschioni, da sfruttare sessualmente ed economicamente. «Spesa Folle non ama Preventivo, / detesta addirittura Consuntivo», «Gara D’Appalto ha molti spasimanti: / sceglie per lei Autorità Preposta», «Dolce Brezza accarezza Prato Bello, / gli sussurra di esistere per quello», «Figlia dei Fiori si sente smarrita: / la consola la vecchia Anny Sessanta», «Turris Eburnea vive isolata: / quanti ne incontra invece ogni giorno / Refugium Peccatorum», «Voce Poetica / quando si crede voce di Messia / ogni testo lo chiude in così sia». I luoghi comuni vengono rivitalizzati in una spiazzante e sogghignante resa ritmica, sottolineata dall’aculeus finale, sempre intelligente nella sua esacerbata “agudeza”, e la copertina del volume (rosa con tante silhouette di intercambiabili figure femminili) si adegua elegantemente all’ésprit dei versi.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Regine-Aurelio-Buletti.html       11 settembre 2017

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BUNSTON DE BARY

ANNA BUSTON DE BARY, SONGS OF LAKE GARDA – RAFFAELLI, RIMINI 2015

Della scrittrice inglese Anna Bunston de Bary (1869-1954), pressoché dimenticata o addirittura ignorata nella sua patria, in Italia si sapeva poco o nulla. Recentemente l’editore riminese Raffaelli ha dedicato a quest’autrice un elegante volumetto, Songs of Lake Garda, contenente tredici testi poetici illustrati da cartoline d’epoca (con originale a fronte, note biografiche e critiche), che viene non solo a colmare un vuoto nella cultura letteraria della prima metà del ‘900, ma ci regala immagini e versi luminosi su uno dei paesaggi più ammirati e romantici del nostro paese. Curato e tradotto da una studiosa veronese, Eleonora Padovani, con il supporto di ricerche d’archivio dello storico gardesano Marco Faraoni, il «breve canzoniere» – come viene definito dalla prefatrice Rita Severi – ritrae lo scenario lacustre e l’ambiente contadino quale dovette apparire ad Anna Bunston de Bary negli anni della Prima Guerra Mondiale. Infatti, la sua prima e forse unica visita sulle sponde del Benaco è testimoniata nel 1917, e la pubblicazione di nove poesie relative ad essa risale al 1919. Il volume raccoglie inoltre quattro testi comparsi successivamente, in un’antologia poetica del 1947, più due poesie di D’Annunzio e Vittorelli tradotte in inglese dall’autrice.

Anna Bunston de Bary, nata da un insegnante e pastore anglicano, essa stessa insegnante e moglie di un pastore protestante, fu scrittrice di versi, romanzi, racconti, testi teatrali e resoconti di viaggio. Attiva nei circoli letterari della sua epoca, dedicò una raccolta di poesie ai soldati inglesi impegnati nei combattimenti della Grande Guerra, e ottenne un discreto successo componendo una tragedia in versi sul personaggio biblico di Jefte.   Le tredici poesie qui presentate hanno riferimenti toponomastici precisi (Garda, Malcesine, Toscolano, Maderno, Sirmione, Gargnano…) e di queste località benacensi descrivono colori e profumi, vegetazione e costruzioni, abitanti colti nelle loro abitudini e mestieri:

«Così semplice, così austera / La vista che qui mi trattiene – / Un colle, un olivo grigio, / Una piccola Casa del Signore imbiancata / dove solo i poveri pregano!», «Le acque del lago sono brillanti, / Gli oleandri in fiore, / I colli sono ammantati di un verde scintillante / Sotto i loro cappucci di neve», «E ogni barca da pesca dipinta / Che fluttuava in silenzio / Sembrava una creatura vivente alata, Un grande uccello incantato», «Oltre i cipressi di San Vigilio / Guardammo a Garda sull’azzurra sua baia…// Quando la morte mi reclamerà e dovrò pregare / Le mie labbra ostinate saranno pronte a dire / “Se mi devi prendere con te, fallo sulla via / Di Garda e Malcesine”», «Si può essere tristi dove crescono gli olivi? / Ella portava i rami d’olivo e piangeva».

Olivi, vigneti, cipressi, chiesette, monaci, pescatori, lavandaie, baie di acqua azzurra, cieli tersi: alle descrizioni in versi di Anna Bunston de Bary prestano uno sfondo suggestivo le antiche cartoline artistiche riprodotte tra le pagine del volume, in massima parte firmate dal pittore bavarese Zeno Diemer (1867-1939), che offrono al lettore, con la loro patina rétro, scorci idilliaci di atmosfere scomparse.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Songs-of-Lake-Garda-Bunston.html    2 novembre 2016

 

 

 

 

 

RECENSIONI

BUONAIUTI

ERNESTO BUONAIUTI, GESÙ IL CRISTO – E/0, ROMA 2019

Ernesto Buonaiuti (Roma1881-1946), uno dei maggiori esponenti del modernismo cattolico, professore di storia del cristianesimo all’università di Roma, storico insigne e direttore di diverse riviste teologiche, era stato ordinato sacerdote nel 1903, ma nel 1926 venne colpito da scomunica ed esonerato dall’insegnamento, quindi destituito per non aver prestato giuramento al regime fascista. Come studioso indagò molti aspetti e figure della storia della Chiesa, spesso in polemica con le direttive e le gerarchie vaticane.

Il saggio Gesù il Cristo è la sua opera più controversa, iscritta nell’Indice dei libri proibiti come eretica da papa Pio X. Fu pubblicata per la prima volta nel 1926, e due anni fa è stata ripresa dalle edizioni E/O nella “Collana di pensiero radicale” diretta da Goffredo Fofi.

Perché questo piccolo libro ha potuto creare tanto scandalo in ambito ecclesiastico? Si tratta di un emozionante e appassionato excursus sulla vita di Gesù, inserita nel contesto storico cui apparteneva. Aprendo la sua narrazione con le parole profetiche di Malachia (“Sulle vostre fronti, tementi il mio nome, sorgerà un sole di giustizia, i cui raggi arrecheranno la guarigione. Voi ne trasalirete di gioia e ne tripudierete, come vitelli tratti fuori dalla loro clausura”), Buonaiuti celebra il sole di giustizia che si annuncia per gli uomini con la venuta di Cristo, dopo il regno di Erode il Grande e durante la dominazione romana.

Un Gesù uomo tra gli uomini, quindi, che appare all’interno di eventi storici luttuosi, violenti, iniqui, a divulgare parole di pace e giustizia, di mitezza e speranza. Lo precede la ribellione anti-romana di un fanatico zelota, Giuda; lo precede Giovanni il Battezzatore che purifica nelle acque del Giordano chi è alla ricerca di un rinnovamento interiore; lo precede una “inquietudine aspra e tremante di ansiose aspettative, nutrite di brividi e di singhiozzi”.

In una prosa forbita, immaginosa e inebriante, Buonaiuti ripercorre tutta la vicenda umana dell’“artigiano trentenne, venuto da Nazareth”, descrivendone l’anelito spirituale, l’ansia missionaria, i dialoghi amichevoli e le discussioni infervorate, i luoghi attraversati, i desideri e le delusioni. Quindi il distacco dalla famiglia e dalla bottega del padre, l’abbandono della sospettosa e ingrata città natale, l’arrivo a Cafarnao, le prime predicazioni e i primi seguaci, i prodigi e le guarigioni attuate in mezzo a “una folla oscillante di curiosi, di malati, di pezzenti, che sembrava suggere dalle sue parole un segreto e inesprimibile sentimento di sollievo e di conforto”.

Come e cosa insegnava Gesù? “Egli impartiva il suo insegnamento semplice e disadorno, cogliendo le più modeste occasioni, facendo appello ai motivi più familiari della vita quotidiana, traendo lo spunto dagli incontri meno previsti, utilizzando le più consuete nozioni della tradizione religiosa ufficiale”.

Perché un libriccino così ispirato e intenso ha provocato reazioni tanto feroci e isteriche all’interno del Vaticano? Più che al contenuto del testo, le censure e i timori clericali erano rivolti al diffondersi della filosofia modernista, di cui Ernesto Buonaiuti era uno dei principali esponenti. Il modernismo cattolico proponeva infatti di ripensare il messaggio cristiano alla luce delle istanze della società contemporanea, suggerendo una lettura razionalista della Bibbia e dei riti religiosi, rispettosa dell’autonoma determinazione dell’individuo e collettività, emancipata da ogni prospettiva e sistema di valori compiuto e di carattere assolutistico. La Chiesa aveva già condannato il modernismo come eresia a partire dagli inizi del ’900. In epoca fascista, di dittatura ideologica e di compromessi con l’istituzione cattolica (ricordiamo che i Patti Lateranensi furono firmati nel 1929!) tale condanna fu ribadita e aggravata da scomuniche e persecuzioni varie.

La tesi del libro che più poteva sembrare pericolosa era la distinzione tra il Cristo della fede e il Gesù della storia, narrato dai Vangeli canonici, che nulla potevano o dovevano affermare della sua divinità. La severa accusa di fariseismo rivolta alla tradizione religiosa vigente nella Palestina neo-testamentaria venne letta dalla gerarchia ecclesiastica come allusione alla precettistica illiberale e dogmatica, al formulario legalista e alla liturgia codificata messa in atto dalla Chiesa del XX secolo.

Come poteva essere altrimenti? Ecco le parole innamorate che Buonaiuti scriveva sul Figlio dell’Uomo: “La stupenda originalità del suo messaggio sarebbe stata tutta nella riduzione, così della disciplina etica farisaica come dell’aspettativa escatologica cantata nella letteratura apocalittica”, in favore del “programma rovesciatore” espresso nel Discorso della Montagna: “Quattro promesse di beatitudine, quattro minacce di maledizione, null’altro. Ma in esse era racchiusa la dottrina sociale più sottilmente sovvertitrice che fosse mai stata bandita al cospetto degli uomini”.

Di un Gesù rispettoso della Legge (“Non un accento ne sarà cancellato”), ma altresì convinto della necessità di un rinnovamento del culto, il teologo scomunicato scrisse: “Gesù rivendica la santità elementare della legge morale, eterna quanto il cielo e la terra. Ma in pari tempo sa di bandire un messaggio cui i poteri costituiti e le autorità religiose resisteranno con accanimento barbaro e con violenza cieca, tratti da una fatalità tragica a reagire brutalmente contro chi ripristina i valori da cui pure essi trassero i titoli e le ragioni della loro esistenza, e con ciò stesso, a segnare, inconsapevoli, il proprio verdetto di morte”.

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 29 luglio 2021

 

 

 

 

 

 

 

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BURGER

HERMANN BURGER, L’ILLETTORE – L’ORMA, ROMA 2017

«Cara Signora e sovrana di Blankenburg, Amica del cuore, eccelsa Lettora, La ringrazio anzitutto per l’indefessa lettura, chi meglio di me, affetto da illessia …». Così inizia la prima delle sette lunghe lettere pseudo-autobiografiche (il sottotitolo del romanzo suona “una confessione”) che il protagonista scrive a una coltissima e illuminata Principessa, cultrice delle Arti e della Letteratura, raccontandosi e raccontandole del proprio esistere fuori dal mondo, ossessionato da fantasmi mentali e paure, idiosincrasie ed esaltazioni improvvise: ma soprattutto straziato da una misteriosa malattia, il “morbus lexis” (una sorta di catatonia cerebrale, derivata dall’infiammazione delle “terminazioni nervose pre-sinaptiche”) che gli impedisce di leggere, o anche solo di avvicinarsi fisicamente alla carta stampata.

L’Illettore – che si definisce Accantato, morto vivente, catalettico – vive recluso in uno scantinato (catapecchia, tubo, cappella fredda, cisterna, arca) senza rapporti con il prossimo, fatta eccezione per la stizzosa “serva druda” che tre volte la settimana gli riordina il bugigattolo, ragguagliandolo un poco sulle novità esterne. Dal suo buco infossato nel buco imperviamente e nebbiosamente naturale di Schruns-Grächen in Austrizzera, l’uomo scontento di sé comunica epistolarmente con Donna von Fürstenfeld (Lettora suprema, Signora benigna, musa degli intarsi variopinti, bibliofila contessa, regina delle mille e una veste, Governatora, onnivora liseuse, nobile Corsiva gotica), la quale vive in uno sfarzoso castello incastonato all’interno di un ancora più sfarzoso parco a Blankenburg, servita e riverita dal domestico Loontien e dal segretario Arpagaus. In tono sarcasticamente reverenziale e beffardamente rispettoso, l’Illettore illustra alla sua amica di penna la propria esistenza amorfa e sprecata di recluso, in passato gran divoratore di libri al punto da diventare egli stesso una lettera dell’alfabeto («ho assorbito così in profondità queste pietre preziose dell’umano spirito che nessuno le potrebbe estirpare dalle mie viscere e dalle mie ghiandole») e, all’invito di lei a trasferirsi nel suo castello come esperto bibliotecario, confessa orgogliosamente di sapersi accontentare di una conversazione epistolare «elisia e sferica e serafica ed eolica».

Il turbinoso e caleidoscopico monologo del protagonista si nutre di citazioni letterarie soprattutto di area germanica, con rapsodiche incursioni tra gli scrittori russi; ma anche di considerazioni sui mala tempora politici e sociali, e di descrizioni paesaggistiche dei panorami montuosi della Svizzera interna, supportate da un’approfondita conoscenza delle scienze naturali (geologiche, stratigrafiche, morfologiche, icnologiche). Le sue divagazioni narrative si avvolgono a spirale, in una scrittura fagocitante, alimentata di se stessa, che esibisce uno sfoggio di erudizione sottilmente compiaciuto e ironico nell’affrontare gli argomenti e le discipline più varie: dall’architettura alla neurobiologia, dalla linguistica all’erboristeria, e disserta sul fumo, sulla posta, sui costumi popolari, per tornare sempre al tema principe, la letteratura. L’amore per il libro, inteso anche come oggetto di culto e da collezione, sovrasta ogni altra passione: l’Illettore, privato a causa del suo “morbus lexis” di qualsiasi interesse per la concretezza della quotidianità, vive di memorie librarie, e forse proprio grazie ad esse, in conclusione del volume, riuscirà a ritrovare la salute e la capacità di uscire dalla sua tana: «Mi darò da fare, voglio provarci».

L’autore di questo “testo multiforme” (come lo definisce l’attenta traduttrice Anna Ruchat), pubblicato nel 1986 e per la prima volta adesso dalle edizioni romane de L’Orma, è uno dei più importanti e originali scrittori svizzeri, Hermann Burger (1942-1989), che qui ha inteso sperimentare non solo una tecnica narrativa provocatoriamente dissacrante, ricca di citazioni, neologismi, excursus eruditi, didascalismi, cacofonie verbali: ma anche e soprattutto ha voluto offrire ai lettori il documento di uno stato paralizzante di depressione clinica, descritta nel breve saggio conclusivo, di cui egli stesso ebbe a soffrire per anni, e che lo portò a suicidarsi, proprio come uno dei poeti più citati in queste pagine, Paul Celan, che in un suo verso incoraggiava inutilmente se stesso a vivere: «Smetti di leggere: guarda!»

Libri che salvano, libri che annientano. Hermann Burger (l’illettore) scriveva con severità: «in letteratura le cose non vanno diversamente che nella vita, ovunque ci si giri, si incontra subito l’incorreggibile plebaglia dell’umanità, onnipresente a legioni, e tale folla innumerevole lorda ogni cosa, come le mosche d’estate; di qui il numero mostruoso di cattivi libri buoni o di buoni libri cattivi, nessuno dei quali, nel giro di dieci anni, sarà sopravvissuto». Eppure, una scrittura meritevole come quella di Burger continua a vivere e a interessarci, sopravvivendo ad ogni depressione, mentale e culturale.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/L-illettore-Hermann-Burger.html;     7 aprile 2017

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BURNSIDE

JOHN BURNSIDE, LA CASA DEL SILENZIO – MERIDIANO ZERO, PADOVA 2007

John Burnside è un poeta scozzese di sessantacinque anni. Un ottimo poeta. Che ha scritto anche alcuni romanzi. La casa del silenzio è il primo, composto nel 1997 e pubblicato da noi dieci anni dopo. Non è il suo libro più famoso, ma è senz’altro esemplare dello stile e degli interessi di questo autore, che si situano tra scienza, fantascienza e psicologia, mantenendo però uno sguardo attento ai valori etici della società contemporanea, così spesso contraddetti dalla corsa al successo e al profitto.

Il romanzo ruota intorno al tema del linguaggio: la parola come invenzione e come trappola, come salvezza e come condanna. Protagonista è Luke, un intellettuale trentenne interessato alla neurologia e al cognitivismo, non solo per passione scientifica, ma soprattutto per il desiderio di penetrare nella psiche altrui, sondando contemporaneamente anche le abilità esplorative della propria mente. La domanda principale che Luke si pone è se la capacità di parlare sia innata o acquisita. Tale questione lo affascina dall’infanzia, da quando la sua amatissima mamma, perduta precocemente, gli raccontava la storia dell’imperatore mogul Akbar, il quale aveva fatto costruire un edificio in cui dei servitori muti dovevano allevare alcuni neonati, in modo che non arrivasse loro nessuna parola, impedendo di fatto ai bambini qualsiasi possibilità di comunicazione. Luke già da piccolo subiva il fascino della reazione dei corpi al mutamento delle condizioni di vita: ossessionato dall’idea della morte, terrorizzato al pensiero di poter perdere sua madre, andava in cerca delle carcasse di animali per osservarne la decomposizione; collezionava vegetali per studiarne l’appassimento; teneva l’elenco di tutti i decessi di persone che aveva conosciuto.

La scrittura di Burnside, densa e precisa, sinuosa ma priva di pedanteria o autocompiacimento, segue con perspicacia psicologica il tortuoso avvilupparsi della perversione di Luke, sempre più coinvolto in un voyeurismo necrofilo: “C’era qualcosa di stupendo nell’immobilità della morte, nella sua irreversibilità, ma ora volevo qualcosa di più di un cadavere. Volevo aprire l’essere vivente, vedere il battito del cuore e la circolazione del sangue; volevo a un tempo essere testimone e celebrante di una sorta di rituale, volevo sentire pulsare gli organi, osservare la vita che sfuggiva… Volevo vedere com’era la vita quando finiva, e lasciava solo la materia inerte”.

Se, nella sua morbosa ricerca dell’origine della coscienza, da piccolo Luke dissezionava gli animali, crescendo comprende che il soffio vitale può essere reperito esclusivamente nel pensiero, e in ciò che lo esprime: la parola. Divenuto adulto, si interessa quindi ai ragazzi con ritardo nello sviluppo del linguaggio: bambini-lupo, bambini-selvaggi, bambini-cavie di esperimenti scientifici, attratto dall’idea di indagare qualche caso simile non solo sui libri, ma di persona. Viene così in contatto con una vicina affascinante ma gelida e formale, e del suo piccolo Jeremy, chiuso in un mutismo difficilmente classificabile (forse organico, forse comportamentale), preda di atteggiamenti aggressivi o catatonici. Mamma e bambino appaiono a Luke inquietanti, vittime di un feroce isolamento sociale, ma anche minacciosamente enigmatici. Con la madre Luke intreccia presto una relazione sessuale ambigua e violenta, da lei accettata in totale passività, mantenendo nello stesso tempo un rapporto professionale di studio sull’infermità del figlio.  Ben presto però l’uomo entra in un vortice di ansia e sadismo, espressi in atti di tortura fisica nei confronti delle sue vittime. Come succede nelle ossessioni maniacali, Luke non riesce a dominare i suoi impulsi, che lo porteranno a intrecciare un nuovo rapporto con Lillian, un’adolescente senzatetto semi-analfabeta e muta, schiavizzata da un gruppo di balordi. Invaghitosi di lei, la porta a casa sua costringendola in una sudditanza fatta di minacce e continui regali. Deciso a mettere in atto un progetto sperimentale accarezzato da anni, di diabolica gestazione, Luke si sbarazza brutalmente di chiunque possa rappresentare un ostacolo al suo piano, e si trasforma in un infernale demiurgo creatore di mostri. I due gemelli partoriti da Lillian diventano cavie della sua paranoica ossessione scientifica, letteralmente “animali da laboratorio”, immolati sull’altare della pazzia, in un’inaspettata e macabra soluzione finale.

Un ottimo romanzo, questo di John Burnside, dalla scrittura elegante e sostenuta, che non cede mai a volgarità o scaltrezze narrative, e indaga invece con controllata intelligenza i meandri della complessità mentale di un uomo lucidamente folle, riuscendo a offrire pagine di intensa poeticità nonostante i drammatici temi affrontati.

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/La-casa-del-silenzio-Burnside.html     I marzo 2020

RECENSIONI

BURROUGHS

WILLIAM BURROUGHS, VICOLO DEL TORNADO – STAMPA ALTERNATIVA, ROMA 1997 (ebook)

 

William Seward Burroughs (1914-1997) è stato uno degli esponenti più noti della letteratura beat, amico di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Nato a Saint Louis, laureato a Harvard, viaggiò e soggiornò a lungo in Messico, in Perù, In Europa e nel nord Africa, sperimentando ogni genere di droga. Dalla tossicodipendenza non riuscì mai a uscire definitivamente, nonostante lunghe cure di disintossicazione, e la sua critica feroce allo stile di vita americano e più generalmente occidentale continuò a esprimersi in modo radicale e violento sia nella scrittura, sia nelle scelte esistenziali e politiche. Omossessuale, appena tollerato ma sempre mantenuto dalla famiglia ricchissima, non ebbe mai un’occupazione stabile: si sposò due volte, e dalla prima moglie, uccisa accidentalmente maneggiando una pistola, ebbe un figlio. Scrisse diciotto romanzi, sei raccolte di racconti, quattro raccolte di versi, cinque libri di interviste, lettere e diari. Apparve in vari film e collaborò con numerosi musicisti e performer, ottenendo grandi riconoscimenti e premi internazionali.

“Ho usato droghe in molte forme” scrisse nell’introduzione al suo scandaloso capolavoro del 1962, Il pasto nudo. Ma già nel libro d’esordio Junkie, del 1953, fino a Terre occidentali del 1988, il tema della dipendenza veniva esplorato non solo negli effetti fisici e mentali, ma anche metaforicamente come schiavitù e assuefazione a qualsiasi altra forma di amorfa sottomissione: al sesso, al denaro, al lavoro, alla tecnologia, al nazionalismo, alla religione o a ogni altra ideologia possa rendere le persone meno libere e consapevoli delle proprie scelte.

L’ebook proposto da Stampa Alternativa nel 1997, e ancora acquistabile online a meno di un euro, può offrire al lettore una prima veloce impressione sia delle diverse tematiche, sia dei generi letterari con cui l’autore si è misurato (dall’horror al fantascientifico al trash), utilizzando – come scrive Massimo De Feo nella sua empatica introduzione -, “l’eccessivo, il rivoltante, il paradossale, la maschera del clown o il bisturi del chirurgo pazzo, per scagliarsi contro la religione del potere e i suoi derivati”.

In effetti, il filo che tiene legate queste sette brevi storie, si può chiaramente riconoscere nel dichiarato disprezzo verso il fariseismo della vita borghese, via via incarnata in rampanti giovanotti WASP, in uomini d’affari, in poliziotti corrotti e vendicativi, in medici e psicanalisti più morbosamente esaltati dei loro pazienti. Al di sopra di tutto, l’occhio vigilante e repressivo di uno stato che pretende il controllo totale e la soggezione ubbidiente dei suoi sudditi, a cui Burroughs oppose la ribellione brutale e quasi animalesca dei suoi personaggi.

Così il primo racconto si presenta come una beffarda preghiera recitata nel Giorno del Ringraziamento, festività che negli USA assume un rilievo familiare e religioso pari al Natale. L’ironica riconoscenza dello scrittore viene espressa elencando una serie di torbidi misfatti ecologici e sociali messi in atto contro la natura, gli animali, i poveri, i neri e gli indiani, i drogati e i malati: “Grazie per il tacchino e i piccioni viaggiatori, destinati a essere cacati attraverso le sane budella americane… Grazie per le rispettabili signore casa-e-chiesa con le loro facce meschine, smunte, sgradevoli, perverse… Grazie per gli adesivi ‘Ammazza un frocio in nome di Cristo’”.

Altri racconti micidiali nella loro rivoltante brutalità narrano di un ragazzo epilettico che usa come un’arma contro un raffinato perbenista le sue escrezioni corporee: sangue, sperma, saliva; di uno psichiatra che vorrebbe eliminare tutte le persone disturbate o devianti in cura da lui; di un uomo che si ritrova nell’intestino un millepiedi mutante che lo divora. E poi pusher, eroinomani, rapinatori, forze dell’ordine criminali. Violenza, lerciume, oscenità della malavita in risposta ad altrettanta sudiceria ufficiale e organizzata. “Tutto il mio lavoro è rivolto contro coloro che sono intenti, per stupidità o per programma, a far saltare in aria il pianeta o a renderlo inabitabile”, scriveva William Burroughs, cherubino osceno e arrabbiato.

 

© Riproduzione riservata        13 novembre 2019

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RECENSIONI

BUSSOLA

MATTEO BUSSOLA, SONO PURI I LORO SOGNI – EINAUDI, TORINO 2017

Matteo Bussola (Verona, 1971), architetto convertitosi alla fumettistica e alla scrittura, padre di tre bambine in età scolare, riflette in “Sono puri i loro sogni” sull’evoluzione (e sull’involuzione) dei nostri costumi nazionali nei riguardi dell’essere genitori e figli, insegnanti e alunni ed ex-alunni, cittadini più o meno responsabili della società e della convivenza civile. Lo fa in un tono garbato e lieve, con ironia priva di sarcasmo, senza nascondere dubbi, rimpianti e preoccupazioni.
Forse stiamo sbagliando qualcosa, se i rapporti all’interno delle famiglie e con le istituzioni sono diventati tanto frenetici, apprensivi, sospettosi, sempre sulla difensiva o sul piede di guerra. In particolare, c’è da chiedersi come mai siano talmente mutate le relazioni che intratteniamo con il mondo della scuola, di cui siamo o siamo stati tutti fruitori e partecipi, al punto che guardiamo ai maestri e ai professori dei nostri ragazzi con ostilità e diffidenza, ritenendoli spesso impreparati, scansafatiche, faziosi. E perché, se fino a qualche decennio fa l’insegnante veniva considerato con rispetto, oggi diviene spesso obiettivo di contestazioni, querele, motteggi e aggressioni non solo verbali, sia in sede scolastica, sia in cerchie non inerenti all’istruzione, sia online.
Matteo Bussola dedica i primi capitoli di “Sono puri i loro sogni” a stigmatizzare l’atteggiamento dei genitori (iperprotettivo, ansioso, impaurito) già da quando iscrivono i figli a scuola: nella scelta dell’istituto, degli orari, della mensa, dei trasporti, dei corsi facoltativi; ridicolizza bonariamente mamme-papà e nonni che accompagnano i pargoli fin dentro la classe, aspettandoli impazienti alla fine delle lezioni, indagando sui loro progressi nelle materie, incitandoli alla competizione, infuriandosi per ogni minimo fallimento – che ovviamente viene attribuito all’insensibilità del docente!

Ancora, indaga sul motivo che spinge i nostri giovani ad assumere comportamenti sempre più strafottenti e aggressivi, al limite del bullismo verso i compagni e gli insegnanti, in una contestazione priva di riferimenti ideologici, anzi spesso irrazionale, nevrotica, irrispettosa. Ecco: il rispetto, su cui molto insiste l’autore, pare mancare del tutto nel sodalizio che dovrebbe instaurarsi tra docenti, allievi e famiglie, in una solidale comprensione dei rispettivi diritti e doveri, delle mansioni che ciascuno è chiamato ad assolvere. Mia figlia Daria che insegna nel carcere di massima sicurezza di Opera mi assicura di aver trovato più attenzione ed educazione tra gli ergastolani che in qualsiasi altro istituto in cui ha operato. Da quali sensi di colpa sono pervasi oggi i genitori, se devono sempre ergersi in difesa dei loro figli anche qualora risultino indifendibili (maleducati, ignoranti, pigri, demotivati)? Probabilmente ci aspettiamo dall’istituzione scolastica la garanzia sul futuro delle nuove generazioni che essa non è più in grado di offrire, perché è cambiata la società, insieme al mondo del lavoro, e al valore stesso che si attribuisce all’autorità. O forse questo eccesso di paternalismo e mammismo protettivo è una caratteristica propria della nostra italianità, troppo individualista e troppo poco sensibile alle necessità degli altri: deleghiamo l’educazione dei nostri ragazzi alla scuola, perché abbiamo abdicato al nostro ruolo educativo, ma siamo prontissimi ad insorgere contro i docenti che non riteniamo all’altezza del loro compito. Temiamo l’autonomia e l’indipendenza, già quando si esprime nell’infanzia, che pretendiamo di sorvegliare e difendere persino da pericoli inesistenti.

Se posso accennare a una mia esperienza biografica, ricordo che avendo insegnato molti anni per il Ministero degli Affari Esteri in Svizzera, la mia famiglia si era dovuta adeguare alle abitudini del luogo: cosicché la nostra bambina più grande doveva attraversare Zurigo cambiando due tram per raggiungere da sola la scuola media, e la piccolina fin dalla prima settimana doveva recarsi all’asilo senza che la accompagnassimo, con l’unica protezione di un triangolo di plastica fluorescente sul petto (mentre mio marito si nascondeva dietro un’enorme quercia per seguirla almeno con lo sguardo finché la vedeva raggiungere la sua severa maestra Geissbūhler…). Altri metodi educativi, altri mondi. Ma davvero più insensibili e indifferenti del nostro? O solo correttamente responsabili? Rientrata in Italia, in un ridente paesino sul Garda, pativo la riprovazione delle altre mamme perché non accompagnavo le figlie, ormai più grandi, negli edifici scolastici vicinissimi.
Come ci ammonisce giustamente Matteo Bussola nei tanti esempi particolari che propone, non dobbiamo appropriarci delle esistenze dei nostri ragazzi, fagocitandoli nelle nostre paure e aspirazioni. “Sono puri i loro sogni”, non inquiniamoglieli già da piccoli. Non ingabbiamoli, impariamo ad essere per loro non “come mura che li tengono al riparo dalla vita, ma come porte da attraversare per raggiungerla”.

 

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www.sololibri.net/Sono-puri-i-loro-sogni-Bussola.html     15 ottobre 2017