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RECENSIONI

BURNSIDE

JOHN BURNSIDE, LA CASA DEL SILENZIO – MERIDIANO ZERO, PADOVA 2007

John Burnside è un poeta scozzese di sessantacinque anni. Un ottimo poeta. Che ha scritto anche alcuni romanzi. La casa del silenzio è il primo, composto nel 1997 e pubblicato da noi dieci anni dopo. Non è il suo libro più famoso, ma è senz’altro esemplare dello stile e degli interessi di questo autore, che si situano tra scienza, fantascienza e psicologia, mantenendo però uno sguardo attento ai valori etici della società contemporanea, così spesso contraddetti dalla corsa al successo e al profitto.

Il romanzo ruota intorno al tema del linguaggio: la parola come invenzione e come trappola, come salvezza e come condanna. Protagonista è Luke, un intellettuale trentenne interessato alla neurologia e al cognitivismo, non solo per passione scientifica, ma soprattutto per il desiderio di penetrare nella psiche altrui, sondando contemporaneamente anche le abilità esplorative della propria mente. La domanda principale che Luke si pone è se la capacità di parlare sia innata o acquisita. Tale questione lo affascina dall’infanzia, da quando la sua amatissima mamma, perduta precocemente, gli raccontava la storia dell’imperatore mogul Akbar, il quale aveva fatto costruire un edificio in cui dei servitori muti dovevano allevare alcuni neonati, in modo che non arrivasse loro nessuna parola, impedendo di fatto ai bambini qualsiasi possibilità di comunicazione. Luke già da piccolo subiva il fascino della reazione dei corpi al mutamento delle condizioni di vita: ossessionato dall’idea della morte, terrorizzato al pensiero di poter perdere sua madre, andava in cerca delle carcasse di animali per osservarne la decomposizione; collezionava vegetali per studiarne l’appassimento; teneva l’elenco di tutti i decessi di persone che aveva conosciuto.

La scrittura di Burnside, densa e precisa, sinuosa ma priva di pedanteria o autocompiacimento, segue con perspicacia psicologica il tortuoso avvilupparsi della perversione di Luke, sempre più coinvolto in un voyeurismo necrofilo: “C’era qualcosa di stupendo nell’immobilità della morte, nella sua irreversibilità, ma ora volevo qualcosa di più di un cadavere. Volevo aprire l’essere vivente, vedere il battito del cuore e la circolazione del sangue; volevo a un tempo essere testimone e celebrante di una sorta di rituale, volevo sentire pulsare gli organi, osservare la vita che sfuggiva… Volevo vedere com’era la vita quando finiva, e lasciava solo la materia inerte”.

Se, nella sua morbosa ricerca dell’origine della coscienza, da piccolo Luke dissezionava gli animali, crescendo comprende che il soffio vitale può essere reperito esclusivamente nel pensiero, e in ciò che lo esprime: la parola. Divenuto adulto, si interessa quindi ai ragazzi con ritardo nello sviluppo del linguaggio: bambini-lupo, bambini-selvaggi, bambini-cavie di esperimenti scientifici, attratto dall’idea di indagare qualche caso simile non solo sui libri, ma di persona. Viene così in contatto con una vicina affascinante ma gelida e formale, e del suo piccolo Jeremy, chiuso in un mutismo difficilmente classificabile (forse organico, forse comportamentale), preda di atteggiamenti aggressivi o catatonici. Mamma e bambino appaiono a Luke inquietanti, vittime di un feroce isolamento sociale, ma anche minacciosamente enigmatici. Con la madre Luke intreccia presto una relazione sessuale ambigua e violenta, da lei accettata in totale passività, mantenendo nello stesso tempo un rapporto professionale di studio sull’infermità del figlio.  Ben presto però l’uomo entra in un vortice di ansia e sadismo, espressi in atti di tortura fisica nei confronti delle sue vittime. Come succede nelle ossessioni maniacali, Luke non riesce a dominare i suoi impulsi, che lo porteranno a intrecciare un nuovo rapporto con Lillian, un’adolescente senzatetto semi-analfabeta e muta, schiavizzata da un gruppo di balordi. Invaghitosi di lei, la porta a casa sua costringendola in una sudditanza fatta di minacce e continui regali. Deciso a mettere in atto un progetto sperimentale accarezzato da anni, di diabolica gestazione, Luke si sbarazza brutalmente di chiunque possa rappresentare un ostacolo al suo piano, e si trasforma in un infernale demiurgo creatore di mostri. I due gemelli partoriti da Lillian diventano cavie della sua paranoica ossessione scientifica, letteralmente “animali da laboratorio”, immolati sull’altare della pazzia, in un’inaspettata e macabra soluzione finale.

Un ottimo romanzo, questo di John Burnside, dalla scrittura elegante e sostenuta, che non cede mai a volgarità o scaltrezze narrative, e indaga invece con controllata intelligenza i meandri della complessità mentale di un uomo lucidamente folle, riuscendo a offrire pagine di intensa poeticità nonostante i drammatici temi affrontati.

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https://www.sololibri.net/La-casa-del-silenzio-Burnside.html     I marzo 2020

RECENSIONI

BURROUGHS

WILLIAM BURROUGHS, VICOLO DEL TORNADO – STAMPA ALTERNATIVA, ROMA 1997 (ebook)

 

William Seward Burroughs (1914-1997) è stato uno degli esponenti più noti della letteratura beat, amico di Allen Ginsberg e Jack Kerouac. Nato a Saint Louis, laureato a Harvard, viaggiò e soggiornò a lungo in Messico, in Perù, In Europa e nel nord Africa, sperimentando ogni genere di droga. Dalla tossicodipendenza non riuscì mai a uscire definitivamente, nonostante lunghe cure di disintossicazione, e la sua critica feroce allo stile di vita americano e più generalmente occidentale continuò a esprimersi in modo radicale e violento sia nella scrittura, sia nelle scelte esistenziali e politiche. Omossessuale, appena tollerato ma sempre mantenuto dalla famiglia ricchissima, non ebbe mai un’occupazione stabile: si sposò due volte, e dalla prima moglie, uccisa accidentalmente maneggiando una pistola, ebbe un figlio. Scrisse diciotto romanzi, sei raccolte di racconti, quattro raccolte di versi, cinque libri di interviste, lettere e diari. Apparve in vari film e collaborò con numerosi musicisti e performer, ottenendo grandi riconoscimenti e premi internazionali.

“Ho usato droghe in molte forme” scrisse nell’introduzione al suo scandaloso capolavoro del 1962, Il pasto nudo. Ma già nel libro d’esordio Junkie, del 1953, fino a Terre occidentali del 1988, il tema della dipendenza veniva esplorato non solo negli effetti fisici e mentali, ma anche metaforicamente come schiavitù e assuefazione a qualsiasi altra forma di amorfa sottomissione: al sesso, al denaro, al lavoro, alla tecnologia, al nazionalismo, alla religione o a ogni altra ideologia possa rendere le persone meno libere e consapevoli delle proprie scelte.

L’ebook proposto da Stampa Alternativa nel 1997, e ancora acquistabile online a meno di un euro, può offrire al lettore una prima veloce impressione sia delle diverse tematiche, sia dei generi letterari con cui l’autore si è misurato (dall’horror al fantascientifico al trash), utilizzando – come scrive Massimo De Feo nella sua empatica introduzione -, “l’eccessivo, il rivoltante, il paradossale, la maschera del clown o il bisturi del chirurgo pazzo, per scagliarsi contro la religione del potere e i suoi derivati”.

In effetti, il filo che tiene legate queste sette brevi storie, si può chiaramente riconoscere nel dichiarato disprezzo verso il fariseismo della vita borghese, via via incarnata in rampanti giovanotti WASP, in uomini d’affari, in poliziotti corrotti e vendicativi, in medici e psicanalisti più morbosamente esaltati dei loro pazienti. Al di sopra di tutto, l’occhio vigilante e repressivo di uno stato che pretende il controllo totale e la soggezione ubbidiente dei suoi sudditi, a cui Burroughs oppose la ribellione brutale e quasi animalesca dei suoi personaggi.

Così il primo racconto si presenta come una beffarda preghiera recitata nel Giorno del Ringraziamento, festività che negli USA assume un rilievo familiare e religioso pari al Natale. L’ironica riconoscenza dello scrittore viene espressa elencando una serie di torbidi misfatti ecologici e sociali messi in atto contro la natura, gli animali, i poveri, i neri e gli indiani, i drogati e i malati: “Grazie per il tacchino e i piccioni viaggiatori, destinati a essere cacati attraverso le sane budella americane… Grazie per le rispettabili signore casa-e-chiesa con le loro facce meschine, smunte, sgradevoli, perverse… Grazie per gli adesivi ‘Ammazza un frocio in nome di Cristo’”.

Altri racconti micidiali nella loro rivoltante brutalità narrano di un ragazzo epilettico che usa come un’arma contro un raffinato perbenista le sue escrezioni corporee: sangue, sperma, saliva; di uno psichiatra che vorrebbe eliminare tutte le persone disturbate o devianti in cura da lui; di un uomo che si ritrova nell’intestino un millepiedi mutante che lo divora. E poi pusher, eroinomani, rapinatori, forze dell’ordine criminali. Violenza, lerciume, oscenità della malavita in risposta ad altrettanta sudiceria ufficiale e organizzata. “Tutto il mio lavoro è rivolto contro coloro che sono intenti, per stupidità o per programma, a far saltare in aria il pianeta o a renderlo inabitabile”, scriveva William Burroughs, cherubino osceno e arrabbiato.

 

© Riproduzione riservata        13 novembre 2019

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BUSSOLA

MATTEO BUSSOLA, SONO PURI I LORO SOGNI – EINAUDI, TORINO 2017

Matteo Bussola (Verona, 1971), architetto convertitosi alla fumettistica e alla scrittura, padre di tre bambine in età scolare, riflette in “Sono puri i loro sogni” sull’evoluzione (e sull’involuzione) dei nostri costumi nazionali nei riguardi dell’essere genitori e figli, insegnanti e alunni ed ex-alunni, cittadini più o meno responsabili della società e della convivenza civile. Lo fa in un tono garbato e lieve, con ironia priva di sarcasmo, senza nascondere dubbi, rimpianti e preoccupazioni.
Forse stiamo sbagliando qualcosa, se i rapporti all’interno delle famiglie e con le istituzioni sono diventati tanto frenetici, apprensivi, sospettosi, sempre sulla difensiva o sul piede di guerra. In particolare, c’è da chiedersi come mai siano talmente mutate le relazioni che intratteniamo con il mondo della scuola, di cui siamo o siamo stati tutti fruitori e partecipi, al punto che guardiamo ai maestri e ai professori dei nostri ragazzi con ostilità e diffidenza, ritenendoli spesso impreparati, scansafatiche, faziosi. E perché, se fino a qualche decennio fa l’insegnante veniva considerato con rispetto, oggi diviene spesso obiettivo di contestazioni, querele, motteggi e aggressioni non solo verbali, sia in sede scolastica, sia in cerchie non inerenti all’istruzione, sia online.
Matteo Bussola dedica i primi capitoli di “Sono puri i loro sogni” a stigmatizzare l’atteggiamento dei genitori (iperprotettivo, ansioso, impaurito) già da quando iscrivono i figli a scuola: nella scelta dell’istituto, degli orari, della mensa, dei trasporti, dei corsi facoltativi; ridicolizza bonariamente mamme-papà e nonni che accompagnano i pargoli fin dentro la classe, aspettandoli impazienti alla fine delle lezioni, indagando sui loro progressi nelle materie, incitandoli alla competizione, infuriandosi per ogni minimo fallimento – che ovviamente viene attribuito all’insensibilità del docente!

Ancora, indaga sul motivo che spinge i nostri giovani ad assumere comportamenti sempre più strafottenti e aggressivi, al limite del bullismo verso i compagni e gli insegnanti, in una contestazione priva di riferimenti ideologici, anzi spesso irrazionale, nevrotica, irrispettosa. Ecco: il rispetto, su cui molto insiste l’autore, pare mancare del tutto nel sodalizio che dovrebbe instaurarsi tra docenti, allievi e famiglie, in una solidale comprensione dei rispettivi diritti e doveri, delle mansioni che ciascuno è chiamato ad assolvere. Mia figlia Daria che insegna nel carcere di massima sicurezza di Opera mi assicura di aver trovato più attenzione ed educazione tra gli ergastolani che in qualsiasi altro istituto in cui ha operato. Da quali sensi di colpa sono pervasi oggi i genitori, se devono sempre ergersi in difesa dei loro figli anche qualora risultino indifendibili (maleducati, ignoranti, pigri, demotivati)? Probabilmente ci aspettiamo dall’istituzione scolastica la garanzia sul futuro delle nuove generazioni che essa non è più in grado di offrire, perché è cambiata la società, insieme al mondo del lavoro, e al valore stesso che si attribuisce all’autorità. O forse questo eccesso di paternalismo e mammismo protettivo è una caratteristica propria della nostra italianità, troppo individualista e troppo poco sensibile alle necessità degli altri: deleghiamo l’educazione dei nostri ragazzi alla scuola, perché abbiamo abdicato al nostro ruolo educativo, ma siamo prontissimi ad insorgere contro i docenti che non riteniamo all’altezza del loro compito. Temiamo l’autonomia e l’indipendenza, già quando si esprime nell’infanzia, che pretendiamo di sorvegliare e difendere persino da pericoli inesistenti.

Se posso accennare a una mia esperienza biografica, ricordo che avendo insegnato molti anni per il Ministero degli Affari Esteri in Svizzera, la mia famiglia si era dovuta adeguare alle abitudini del luogo: cosicché la nostra bambina più grande doveva attraversare Zurigo cambiando due tram per raggiungere da sola la scuola media, e la piccolina fin dalla prima settimana doveva recarsi all’asilo senza che la accompagnassimo, con l’unica protezione di un triangolo di plastica fluorescente sul petto (mentre mio marito si nascondeva dietro un’enorme quercia per seguirla almeno con lo sguardo finché la vedeva raggiungere la sua severa maestra Geissbūhler…). Altri metodi educativi, altri mondi. Ma davvero più insensibili e indifferenti del nostro? O solo correttamente responsabili? Rientrata in Italia, in un ridente paesino sul Garda, pativo la riprovazione delle altre mamme perché non accompagnavo le figlie, ormai più grandi, negli edifici scolastici vicinissimi.
Come ci ammonisce giustamente Matteo Bussola nei tanti esempi particolari che propone, non dobbiamo appropriarci delle esistenze dei nostri ragazzi, fagocitandoli nelle nostre paure e aspirazioni. “Sono puri i loro sogni”, non inquiniamoglieli già da piccoli. Non ingabbiamoli, impariamo ad essere per loro non “come mura che li tengono al riparo dalla vita, ma come porte da attraversare per raggiungerla”.

 

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www.sololibri.net/Sono-puri-i-loro-sogni-Bussola.html     15 ottobre 2017

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BUX

ANTONIO BUX, LA DIGA OMBRA – NOTTETEMPO, MILANO 2020

Antonio Bux (Foggia, 1982) ha al suo attivo numerosi e premiati volumi di versi (in italiano, spagnolo e dialetto pugliese), è presente in varie antologie, collabora a riviste e blog letterari, cura due collane di poesia. Il suo ultimo libro, pubblicato da Nottetempo, esprime una diversa consistenza tematica rispetto alla precedente produzione, una naturale coerenza stilistica determinata dall’intenso trasporto emotivo che ne attraversa le pagine.

Forse il termine che meglio suggerisce il carattere dell’intera raccolta è “sospensione”, nel senso che sospesa è l’atmosfera che l’avvolge tutta: l’ombra del titolo, ma anche le presenze aeree che la animano, e i sentimenti espressi nella loro lieve fugacità. Bux sembra prediligere l’inconsistenza materiale, nel repertorio di sostantivi che esibisce, spesso reiterandoli con una richiesta di rispecchiamento o addirittura di soccorso, pronunciata con la devozione di una giaculatoria laica ma miracolante (“Anni perché fate fiume, / dove e quanto il sogno dura, // se per durare si deve sparire d’acqua / evaporando un solo tempo / perché nel tempo si muore?”).

Angeli, dèi, rondini, nuvole si muovono leggeri e diafani in altezze più metafisiche che fisiche; vento, soffio, velo, nebbia, gocce di pioggia, piume, polvere sono gli elementi di una meteorologia incorporea e dilatata. Gli attributi relativi all’umano sono altrettanto immateriali, nell’esplicita volontà di evitare qualsiasi pesantezza: sonno, sogno, fiato, soffio, eco…

Le immagini si rincorrono e compenetrano in una imprevedibile sovversione della logica sintattica, con improvvisi capovolgimenti di soggetto, stravolgimenti di senso, quasi seguendo allucinazioni visive e uditive: “Sono stato di un albero / il sorriso che lui mi ha dato / per vedere dove un viso / è un anello, quel veto antico / che ora è già scorza / tiepida fino al vento / ma del vento sospira il luogo / freddo e così vede il cielo / sorridere se cade come foglia la foglia / che non cade mai”.

Più pacatamente diretti e freschi, più autenticamente sinceri, appaiono a chi legge i versi dedicati a una presenza femminile, amata e disamata nello stesso tempo: “Scrivere per averti perduta / non ti farà ritornare”, “Tu mi sei cara, così azzurra / e soffice quando sfiori il ramo, / ti piace l’albero, il suo svanire, / così come vedi il vento”, “Dire ancora il ricordo, e la bellezza di una schiena / ora che te ne stai girata, e davanti hai la tua vita // … ricorda per intero, quando mi hai cacciato via, / e avevo solo un corpo, il sogno di svanirti dentro, / ricorda proprio questo: che io ti bacio ancora”.

Anche gli attacchi di molte composizioni, nella loro icastica evidenza, esprimono il meglio della vocazione poetica di Antonio Bux, come si evince da questi esempi: “Sono sempre insieme le ombre. / Simili alle persone, ma più eterne”, “Sarà vero che non si muore mai. / Ma soli in vita, come un’autopsia, / conta esaminare i giorni, disperderli”, “Addio dolore. La tua sacca / chiusa è rimasta nel tempo”.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/La-diga-ombra-Bux.html      22 luglio 2020

RECENSIONI

BUX, GALLINA, GUGLIELMIN

ANTONIO BUX, FRANCESCO GALLINA, STEFANO GUGLIELMIN

L’editore milanese Marco Saya ha coraggiosamente scelto di dedicare la sua attività alla poesia, arte poco redditizia e di difficile divulgazione. Nel suo catalogo sono compresi sia opere classiche (da Esiodo a Leopardi, da Laforgue a Yeats, da Poe a Rilke), introdotte da illustri e competenti prefatori, sia volumi di critica letteraria, e soprattutto testi di autori contemporanei. Tra di loro, i nomi di Sonia Caporossi, Nicola Vacca, Luca Vaglio, Maria Angela Rossi, Gabriele Galloni, Franz Krauspenhaar, Annamaria De Pietro, Giulio Maffii, Giorgia Meriggi, Andrea Carraro e di numerosi altri poeti, si sono segnalati a livello nazionale, ricevendo premi e attestazioni di valore.

Quest’anno, le edizioni Saya hanno proposto ai lettori i lavori di Antonio Bux, Francesco Gallina, Stefano Guglielmin.

Iniziando proprio da quest’ultimo (Schio, 1961), docente alle scuole superiori e fondatore del blog Blanc de ta nuque, possiamo affermare che il suo libro Dispositivi si distingue non solo per il pensiero ideologicamente critico sotteso alle composizioni, ma anche per la coraggiosa e provocatoria scelta stilistica, lontana dagli esiti lirici della tradizione letteraria italiana, estranea a facili accomodamenti e recuperi espressivi. I dispositivi cui si riferisce Guglielmin sono quelli messi in atto dalla cultura, dai media, dal potere politico e finanziario che ci dominano per determinare i nostri comportamenti quotidiani, le nostre scelte nel lavoro, nell’alimentazione, nella vita sentimentale e sessuale, nei rapporti comunitari, nel sistema scolastico, nelle abitudini riguardanti la salute. E, ovviamente, anche nella scrittura, troppo spesso asservita alle imposizioni del mercato editoriale. I versi, oscillanti tra il sarcastico, il rabbioso e l’amaramente rassegnato, dispensano lampi di consapevolezza, volontà di resistenza, desiderio di opposizione: “non c’è ospedale o lente non c’è / olezzo o stridore che soccorra, ma dissenso vero o dispersione / per moto involontario: scegliere al bivio un senso provvisorio, / crederci, oppure tornare all’infinita diversione / ossia vivere, appunto”, “Smonto teorie e piccole chiese. Sbanco terra / promessa. Cerco garanzie sulla morte di Dio. / Offro in cambio collezione in plastica di falle / e reliquie, praticamente eterne”.

Francesco Gallina (trentenne, anch’egli docente di lettere alle superiori, ricercatore all’Università di Parma e saggista), con Medicinalia approfondisce, attraverso l’indagine sul mondo scientifico e ospedaliero investigante sintomi e cure di morbi e patologie varie, il collegamento che unisce la poesia – malattia dello spirito – con il dolore del corpo. Ogni singola infermità radiografata dall’autore, trova quindi la sua corrispondenza in una sofferenza dell’anima, che la scrittura poetica è incaricata di sondare e possibilmente guarire. La poesia colta, esplorativa, cerebrale di Francesco Gallina, disserta di cellule, cromosomi, ossa, viscere; cita nomi di famosi clinici, genetisti, farmacologi, anatomisti, psichiatri (Netter, Milgram, Evans, Koebner…); elenca malesseri fisici di ogni tipo, dal raffreddore alla cataratta al morbo di Basedow; passeggia tra i reparti ospedalieri; illustra prodotti, articoli, macchinari, suppellettili presenti nei nosocomi.  “il museo delle armi: il divaricatore / di Beckman, il fissatello atraumatico, / l’enterostato, il mosquito (avresti preferito / un mojito, ma va be’), il passafilo, / il portaaghi, rovi di forbici e forcipi / e altri ordigni barocchi”, “a vetro smerigliato il polmone / radiopaco è una costellazione / nodulare di supernove / dense, come colonie / di biomasse a legno ceppi radici, / incielate lucciole nel parenchima”. Per constatare leopardianamente, infine, che il dì natale è comunque funesto, perché “non c’è cura dalla morte, ma dal mal che deriva / dal passare dentro un corpo”.

Antonio Bux (Foggia, 1982), traduttore, critico letterario, blogger e curatore di collane editoriali, nel suo Diario dell’intruso riporta il lettore in un ambito poetico più tradizionale, che utilizza risorse e metodi tipici del patrimonio poetico universale. Le descrizioni naturali di paesaggi ed elementi vegetali o animali si rincorrono di pagina in pagina (fiori, insetti, uccelli, condizioni atmosferiche o astrali); i sentimenti, assolutamente privi di aggressività, rancore o acredine, sono orientati verso la tenerezza di rapporti amorosi e consolanti memorie infantili; lo stile è piano, scevro di azzardi sperimentali, e affidato perlopiù a frasi paratattiche e ripetizioni, nella ricerca di un’equilibrata musicalità, e in un’atmosfera di pacata limpidezza che fa dubitare di qualsiasi estraniante o negativa intrusione: “nei fischi // su in aria di un merlo / l’eco e la notte sono fuori / e tu devi imparare”, “c’è del tempo che mai si perde / quello d’una mano messa a sfiorare / le corde luminose a maggio del grano / nel verde che sale come onda di pace”.

 

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 26 aprile 2022

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CACCIARI

MASSIMO CACCIARI, DOPPIO RITRATTO – ADELPHI, MILANO 2012

Ottantasei pagine molto dense e appassionate, queste che Massimo Cacciari pubblica per Adelphi in omaggio al Santo d’eccellenza, la cui esistenza fu pervicacemente radicata nella esemplarità della vita di Cristo: San Francesco. Il titolo del libro si presta a diverse interpretazioni: doppio è il ritratto che Giotto e Dante fecero del frate di Assisi, doppia la loro interpretazione della figura e del ruolo di Francesco nella storia della Chiesa e della cristianità. Ma doppio anche il leggendario ritratto che Giotto dipinse di se stesso e di Dante su una parete del Palazzo Pubblico, di cui parla Villani; e doppio il ritratto che Dante fa nel Paradiso di Francesco e Domenico attraverso le parole di Tommaso e Bonaventura. La persona e la missione di Francesco («nel suo tentativo inaudito di armonizzare il cuore di una mistica cristocentrica, fondata sull’imitazione del Modello… con la Chiesa storica, per necessità approssimabile soltanto a quella spirituale») ispirò ovviamente tutti i linguaggi artistici della sua epoca, pervasa da «tensioni e dissonanze», irradiandola e irradiandosi da essa sia nel fulgore accecante della sua spiritualità, sia nel rivoluzionario rovesciamento dei valori incarnato dalla sua concreta vicenda storica. Destino umano, culturale e teologico di Francesco, tenacemente votato alla perfetta imitatio di Cristo, fu quello di imitare Cristo anche nell’essere tradito: dal suo Ordine, dalla Chiesa, da chi lo interpretò, narrandolo nell’arte.
Cacciari si interroga sulla possibilità di confrontare il ritratto dantesco di Francesco con quello lasciatoci da Giotto nella Basilica Superiore di Assisi, partendo proprio dalle differenze ideologiche ed esistenziali dei due artisti: differenze che si riflettono acutamente proprio nel modo in cui consegnano il Santo alla tradizione e alla storia. La lettura che Dante fa della vita di Francesco privilegia senz’altro la sua concreta appartenenza alla realtà del suo tempo, alla missione di riforma della Chiesa, alla sua de-cisione dal mondo «per correre alle nozze mistiche con Povertà», alla sua sete di testimonianza e di martirio manifestate in particolare nella predicazione. Una lettura storica, incardinata nel suo tempo, quella che Dante ci tramanda di Francesco: «Il grande intellettuale vede in Francesco l’incarnazione di elementi essenziali del proprio progetto culturale, politico e religioso».
Molto diversa, più leggendaria e popolare, «commista a un preciso disegno edificante, governato dalla Chiesa» l’interpretazione giottesca della vita del Santo. Il Francesco di Giotto predica ai fiori e agli uccelli, esprime una nuova idea di natura, è giullare e poeta, innamorato lodatore di Dio e del Creato: «Il ciclo francescano di Assisi vuole essere immagine di questo accordo tra l’escatologia spirituale… e la dovuta reverenza all’autorità papale e alla gerarchia ecclesiastica». Giotto interpreta la volontà dei Frati Minori di radicare Francesco nella sua comunità e in un Chiesa restaurata e riappacificata, eliminando dall’iconografia del Santo tutti i tratti più straordinari e stridenti: censurando addirittura alcuni episodi della sua vita (l’incontro con il lebbroso, il dolore e lo strazio delle malattie e della morte, i chiodi delle stigmate, la scelta privilegiata e drastica della Povertà). Il Francesco di Giotto è umile, ilare, ubbidiente, «aureolato». Non «pauper». Sia Dante sia Giotto convergono nella volontà di rimuovere il tratto più scandaloso della santità di Francesco: la rinuncia, il «va’ e vendi tutto» evangelico.
E l’ultimo capitolo del libro di Cacciari assume un tono quasi profetico e ispirato nel rivendicare la portata rivoluzionaria della scelta francescana di «elezione del ptochós», del povero. «Povero non è il bisognoso, colui che manca-di, ma all’opposto, il teleios, il perfetto, colui che perfettamente imita il Figlio. Per Francesco, cioè,… il cristiano è povero o non è. Mendicante è il cristiano, così come è peregrinus et advena». La cultura del 900 ( e Cacciari cita, contestandoli, Rilke, Lukács, Heidegger, Nietzsche) non ha compreso pienamente la grandezza del messaggio francescano, che collega povertà a kenosis, allo svuotamento. Non solo dei beni, delle proprietà, ma del nostro possesso più geloso: la nostra psiché. Svuotarsi del Sé, liberarsi di ciò che ci è proprio per accogliere l’altro, «in tutti i volti con cui ci viene contra», «spossessarsi di tutto per risorgere con e per ogni ente», «La mistica francescana è amore ri-creante», «Paupertas è energia agente»: così il messaggio di Francesco ha giocato un ruolo fondamentale anche nel rinnovamento dei linguaggi artistici. Spogliandosi di ogni possesso, amando, benedicendo, non giudicando. Povertà, misericordia, letizia, perdono. Cacciari sottolinea l’aspetto femminile, materno della santità francescana, che Dante e Giotto sono riusciti a rappresentare solo parzialmente. Perché Francesco li oltrepassa e sovrasta, così come la sua “figura futuri” supera ogni progetto religioso, teologico, politico: «esattamente come quella del suo Modello resiste oltre ogni cristianesimo».

 

«Mosaico di pace»,  giugno 2012

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CACCIARI

MASSIMO CACCIARI, GENERARE DIO – IL MULINO, BOLOGNA 2017

I dieci brevi capitoli in cui si suddivide il saggio di Massimo Cacciari Generare Dio, che inaugura la collana “Icone” delle edizioni Il Mulino, indagano il mito della «fanciulla dolcissima e dolente» che da più di duemila anni esercita un fascino impareggiabile e indiscutibile non solo nella devozione popolare, ma anche e preminentemente nell’arte, nella letteratura e nella filosofia.

Maria – colma di grazia, umile e alta, omnium patrona, regina coeli, sedes sapientiae, stella maris, refugium peccatorum, rosa mistica… – viene rivisitata dal filosofo attraverso le parole dei poeti (Dante, Jacopone, Hölderlin, Rilke, Rebora, Auden), di mistici, teologi e padri della Chiesa (Origene, Efrem il Siro, Meister Eckhart, Böhme, Silesius, von Balthasar, Florenskij), e soprattutto in un percorso commosso, addirittura ispirato, che illustra alcune fondamentali opere d’arte, là dove “l’icona eccede la parola”. La vita di colei che appena adolescente accettò di Generare Dio, in uno svuotamento kenotico di sé che si riempie dell’Altro, è scandita nei tre momenti basici dell’attesa, della cura, del patire. Ecco quindi una Maria silenziosa e turbata, che nei Vangeli di Matteo e Luca riceve l’annuncio inaudito di “Gabriele, l’arcangelo in tutto il suo splendore”, raffigurata in maniera indelebile nell’Annunciazione di Simone Martini, mentre dubbiosa se “scegliere di concepire colui che l’ha scelta” sembra ritrarsi impaurita davanti al messo celeste che la guarda quasi innamorato, estasiato. La fanciulla ascolta, e medita, maturando Dio dentro di sé. Diversamente, ma con uguale potenza espressiva, la ritraggono Piero della Francesca e Beato Angelico nel momento irripetibile in cui, accettando, accoglie il fuoco e la spada che sarà Gesù, e per sempre diviene Madre.

«Lascia che l’ombra si spanda su di lei e in lei, come un fiato silenzioso e leggero… Essa entra in Maria come il silenzio nel discorso, come la pausa nel canto». E l’ombra si fa carne, diventa l’infante, il puer innocente e pauper che “è” Dio: sua madre lo tiene in braccio, tenerissima e presaga del dolore futuro, lo protegge misericordiosa, nell’immagine struggente di Andrea Mantegna che giustamente Cacciari ha scelto per la copertina (sfocata quella frontale, definita e coinvolgente quella sul retro, forse con un’allusione alla Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo). Madonne col Bambino in tutta l’arte medievale e rinascimentale dell’Occidente, e nelle icone bizantine, a suggellare nell’immaginario collettivo l’idea di una maternità protettiva, misericordiosa, clemente: anche se il figlio si fa altro, non viene più compreso, “è fuori”, come Gesù quando si allontana e non può essere trattenuto nemmeno da sua madre. Il volume riproduce due ritratti di Mantegna e due di Giovanni Bellini, esploranti in maniera differente il mistero della cura oblativa di chi ha generato. Infine, nei dipinti di Giovanni Bellini, Rogier van der Weyden e Masaccio, Maria sotto la croce si fa “prossima” al figlio, sorreggendolo nella sofferenza, pregando per lui e con lui, com-patendo, finché “trafitta” dalla sua morte lo depone sulle proprie ginocchia. «Esemplare immagine di pazienza… Costruzione assoluta, necessaria, di una monumentalità che contraddice ogni enfasi».

Lontano da qualsiasi devozionismo e sentimentalismo, Massimo Cacciari restituisce al lettore un’immagine della Madonna intesa anche come “figura sacerdotale-sapienziale”, in un’esegesi filosofica che potrà forse infastidire alcune interpretazioni clericali ortodosse, altre materialiste, altre ancora visceralmente femministe. Gli ultimi tre capitoli del suo saggio commentano i Vangeli apocrifi, la gnosi e l’iconografia orientale,  privilegianti una donna «pneûma, sostanza spirituale… eleva[ta] spiritualmente oltre ogni differenza, lacerazione o molteplicità», in una rinuncia al corpo e alla sessualità che oltrepassa la divisione maschio-femmina, e ambisce tornare all’Uno originario, fuori dal tempo: «Essere perfettamente vergini come vergine, integro è l’Uno». La natività, la passione, la resurrezione diventano qui «un momento del grande mito cosmogonico volto alla reintegrazione dell’unità del pleroma». Quanto la gnosi smaterializza, tanto l’Occidente esprime «la realtà dell’incarnazione del Logos, nella molteplicità dei suoi momenti, dei suoi volti, delle sue sofferenze». Ma entrambe le rappresentazioni della figura mariana convergono nell’affermazione della sua “sovra-naturalità”, radice di tutta la creazione perché in essa si incarna il Logos.

La ricchezza con cui la pittura universale raffigura la Madonna, manifesta quanto complessa sia la simbologia alla quale fa riferimento: figlia, madre, sposa e sorella, mediatrice tra l’umano e il divino, tra relativo e Assoluto, Maria accogliendo nel suo grembo Gesù-Dio ha coniugato in sé e per noi eterno e presente, inizio-fine-e ancora inizio.

 

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www.sololibri.net/Generare-Dio-Massimo-Cacciari.html   novembre 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CADIOLI

ALBERTO CADIOLI, LA RICEZIONE – LATERZA, BARI 1998

In questo piccolo volume, supportato da una densissima bibliografia, Alberto Cadioli analizza “il posto che occupa la ricezione nel processo di comunicazione”: essa è “il punto d’arrivo del processo – più o meno lineare – seguito da un messaggio dopo essere stato emesso”. Ogni emittente affida infatti al suo messaggio la funzione di raggiungere un destinatario, e quindi anche su quest’ultimo è necessario che si concentri la critica letteraria. Per ciò che riguarda la letteratura, davanti ad ogni opera in prosa o in versi, ci si trova di fronte a tre elementi costitutivi: la scrittura e chi scrive, il testo nella sua autonomia una volta pubblicato, e la lettura, ovvero la ricezione del testo stesso. Cadioli in questo saggio si concentra appunto sulla destinazione del testo, delineando una breve storia della critica della ricezione così come si è venuta delineando nell’ultimo scorcio del novecento. Tra i precursori di queste indagini, più storico-sociologiche che estetico-ermeneutiche, individua Walter Banjamin, Eric Auerbach, Jean-Paul Sartre e Paul Ricoeur. Ma indicando poi i nomi che, a partire dagli anni ’60, con più originalità si sono occupati sia degli aspetti produttivi e distributivi del libro, sia del suo consumo da parte del pubblico: Roberto Escarpit, Hans Robert Jauss, Wolfgang Iser. Di ciascuno di loro analizza i contributi di pensiero che hanno arricchito di nuovi significati l’interpretazione letteraria: dallo studio del mercato editoriale alla differenziazione delle varie tipologie di lettori, dall’attitudine al tradimento del testo all’orizzonte di attesa in cui esso si colloca, fino alla trasformazione della realtà e alla creazione di un nuovo immaginario prodotto dalla lettura. Il libro non è quindi “un oggetto stabilizzato sulla base di caratteristiche immodificabili”, ma si definisce come “risultato del processo di integrazione tra il testo e il lettore”.

IBS, 30 maggio 2014

RECENSIONI

CALAMARO

LUCIA CALAMARO, NOSTALGIA DI DIO – EINAUDI, TORINO 2020

L’editore Einaudi, che già in passato ha pubblicato testi teatrali di Lucia Calamaro, propone ora la sceneggiatura della pièce Nostalgia di Dio, presentata a Venezia nel corso della Biennale Teatro nell’estate del 2019, con regia dell’autrice.

Sul palcoscenico agiscono quattro personaggi, uniti tra loro da una rete di rapporti simbiotici e malati, tentando di districarli in una serie di dialoghi e monologhi esplorativi che in realtà finiscono per scavare più a fondo trincee difensive. Francesco e Cecilia sono divorziati, hanno due figli e mantengono una corretta familiarità, pur nella morsa di un’incombente nevrosi e nella diversità delle aspettative: lui (“dubbioso su tutto”) vorrebbe tornare a vivere con la moglie, lei (“antropologa, vitale”) anela a recuperare la propria indipendenza. Francesco ha due cari amici: Alfredo (“prete, esistenzialmente provato”), consacratosi al sacerdozio dopo aver interrotto una giovanile relazione con Cecilia, e Simona, insegnante single assillata dal desiderio di maternità.

Poche e usuali le azioni che movimentano la rappresentazione: una partita a tennis, una cena tra amici, un pellegrinaggio notturno attraverso le chiese di Roma. Intensa e conflittuale invece la dinamica delle relazioni che lega i protagonisti, spingendoli verso un oltre del pensiero, un aldilà della contingenza logistica e temporale, a un passato mitizzato dalla nostalgia e dal rimpianto, a un futuro utopistico e temuto, perché riconosciuto come irrealizzabile. I palleggi sul campo da tennis con cui si apre la prima scena sono un’evidente metafora delle battute (sincopate, ironiche, taglienti) scambiate tra i personaggi. I dialoghi riguardano il nulla, oppure argomenti di notevole spessore culturale: teologia, arte, società diventano terreno di confronto e critica tra i duellanti, o di autoanalisi nel tentativo vano di capire se stessi e gli altri.

Simona, complessata sia dalle sue titubanze affettive, sia dalla propria inadeguatezza intellettuale, si esibisce in discorsi para-filosofici (“lo penso sempre bambino questo nostro Dio…E se avesse avuto il tempo di crescere, Dio, se fosse diventato adulto, c’avrebbe creato? No, non credo proprio che c’avrebbe creato. Dio è rimasto bambino… noi siamo lo sfogo, il capriccio di un Dio bambino. Questo siamo”). Francesco non lesina frecciate rancorose e ricattatorie alla moglie: “Da quando ti sei separata, tu da me, tu, non io da te, sai cosa faccio io? Bevo e faccio sport, ma preferisco bere … Mi piace, mi stordisce. Qualcosa mi perdona quando bevo”). Cecilia è insoddisfatta e nevrotica, ossessionata da ogni rumore che avverte (“io ora sono diversa, ho un’altra dimensione, i pensieri miei, i mondi miei, sto studiando, sto cercando di arrivarci… Ci tengo enormemente al rumore delle cose, al rumore dell’altro, anche al vostro… questo brusio, questo scricchiolare delle sedie… ci tengo e lo cerco, mi interesso”). Il sacerdote Alfredo si interroga sull’inutilità della sua missione (“tutto il giorno fermo ad aspettare che il mondo venga a cercarmi, ma ultimamente il mondo non mi cerca più… Quella creatura lassù è scricchiolante, piena di tarli…. fatta di niente, solo di parole, che se ti c’appoggi traballa”).

Dopo le partitelle a tennis, anche la cena a quattro in casa di Cecilia si rivela occasione di reciproche accuse e ripicche, nella sottile analisi di Francesco: “Guardate che il fatto che tutto il nostro parlare, pensare, interagire sia, nel sottotesto, abitato da parole e quindi giudizi e senso di colpa cattolici non è anodino, qualcosa vorrà dire”. Infine, il pellegrinaggio “cattolico” serale proposto con disinvoltura da Don Alfredo (“Da quant’è che non si fa un po’ di sport tutti e quattro? È una cosa bella, fate finta che facciamo un’escursione tutti insieme, fa team building”), compiuto attraversando una Roma dissestata da buche e calcinacci, invasa da gatti randagi e sorci enormi, assume tratti più sarcastici che mistici persino all’interno delle sette chiese. La ricerca di Dio, di un dio padre-protettore-rifugio, sembra puro pretesto al bisogno di un tepore amicale, al desiderio di sentirsi amati anche nelle proprie fragilità, alla speranza di un nuovo inizio. I quattro protagonisti, consapevoli di non riuscire a evadere dal proprio ruolo, dal proprio ambiente “alto borghese rétro”, si provocano vicendevolmente nel tentativo di leggersi nell’anima, di stanarsi dai propri ripari emotivi, o semplicemente di stringersi affettuosamente in una solidarietà sognata e temuta. Urla, litigi, abbracci, fantasie, imprecazioni e carezze, come in una normale famiglia allargata, rimangono l’unica maniera si sentirsi partecipi ed essenziali nella vita altrui.

 

https://www.sololibri.net/Nostalgia-di-Dio-Calamaro.html

© Riproduzione riservata         16 dicembre 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CALANDRONE

MARIA GRAZIA CALANDRONE, LA VITA CHIARA – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La foto di copertina dell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, tutta giocata tra il nero e il marrone, in uno sfondo plumbeo che sembra evocare una tromba d’aria o marina, stride volutamente con il titolo della raccolta: La vita chiara, inciso in caratteri bianchi, per una poesia che da subito si offre invece magmatica, densa, scavata, lontana da qualsiasi leggerezza o ironia. Di non facile e immediata decifrazione, anche se non ermetica, vibrante di un’ansia controllata, tesa in un dolore reso esplicito da immagini violente, da ricorrenti motivi di accesa aggressività, di sconvolgente sopraffazione. Il volume è diviso in quattro sezioni dedicate ai quattro elementi empedoclei, e tutti individuati nella loro sovrumana forza distruttiva, impetuosa. Così per l’acqua il simbolo prescelto è ovviamente il mare, vissuto soprattutto come minaccia nei suoi insondabili abissi o sulla superficie popolata da presenze animali e vegetali specificate con una precisa terminologia biologica, chimica, climatologica: «l’albatro cammina / sull’olio plumbeo dell’acqua, le orche deglutiscono boccate / d’acqua e sciami di alici nelle forme / di calamita e anelli scardinati, pulviscolo / di lische». Acqua inquinata e corruttrice, melmosa e corrosiva, spesso rievocata anche nell’impetuosità assassina dei fiumi, cui il subconscio sofferto dell’autrice torna nella rievocazione ossessiva dell’incubo che ha segnato la sua venuta al mondo. Il fuoco, poi, è cenere e vento, distruzione e annientamento in una sezione in cui la natura non è mai sollievo o consolazione («il gelsomino / colma di fango tenebroso / le corolle», «i sassi / trasportati dai vermi / nella bocca»). Anche le variazioni d’amore ricostruite nei dialoghi con il mistico persiano Hafez rappresentano una sorta di schiavitù di rapporti in cui non si sa chi sia padrone o servo, vittima o carnefice: («sono una piccola catasta di membra / che la sua nudità dovrà pur / calpestare»). E’ lo stesso «amore ammalato» che ritroviamo nella splendida e terribile poesia dedicata a Natasha Kampush e al suo rapitore, in cui la pietà per un sentimento divorante e distruttivo rivendica quasi una sua giustificazione agli occhi del mondo civile e perbene che non potrà mai comprendere. Proprio qui riappare un sintagma che, con una variazione significativa («sotto gli occhi di tutti», «sulla bocca di tutti») è spesso presente nella poesia di Maria Grazia Calandrone: a esibire la teatralità compiaciuta e orgogliosa della sua poesia, ma nello stesso tempo a indicare che il mistero di ogni anima e di ogni gesto rimane sempre, esclusivamente, privato e irraggiungibile  («Non sia esposto il segreto che brucia nell’urna del cuore», recita il titolo di un paragrafo del libro).
Il capitolo più corposo del volume è dedicato alla terra, alla concretezza della storia che invade e violenta la vita dei singoli, distorcendone i percorsi esistenziali, distribuendo macerie e lutti: immagini forti che dipingono scenari ancora una volta drammatici, da declamare sulle scene, con un alto senso della denuncia civile. Quindi Guernica, le stragi di Sant’Anna, rastrellamenti, donne sventrate, eccidi, madri che piangono i figli torturati ( e Maria è ovviamente il nome-icona di una maternità violata e offesa, nel sacrificio eterno di ogni crocifissione innocente). Ma ancora l’ossessione della materia e del corpo si concretizza nella narrazione di episodi di cronaca ambientati in un meridione contadino e superstizioso, abitato da pleniluni e sortilegi, uomini imbestialiti ululanti e donne marchiate da una fisicità lontana da qualsiasi possibilità di riscatto.
Non c’è salvezza, non c’è leggenda o mito, non c’è innocenza: è tutto realtà di tenebra e notte, senza alcuna clemenza, incardinata in una natura impietosa e mai confortante, in una storia che divora inesorabile. Lo stile si adegua, ovviamente, ai contenuti, ignorando quasi provocatoriamente qualsiasi collaudata tradizione letteraria: quindi versi lunghi o lunghissimi, alternati a quinari incisivi e asseverativi – con frequentissimi enjambements, spezzature, interruzioni, ripetizioni-, privi di rime o assonanze, indifferenti a ogni rigidità metrica. Una scrittura personalissima che non conosce tregue o cedimenti, imperativa, forte; nemmeno la sezione finale, dedicata all’aria, si addolcisce in una volatile o delicata armonia, ma rimane concretamente realistica anche nel tratteggiare due personaggi simbolo di spiritualità e sensibilità : Teresa d’Avila e Chopin.
L’estasi della prima sembra tutta concentrata nel voler negare il corpo e la tentazione della materia, ma ad essa e alla «bassezza del marmo» ritorna e si riduce implacabilmente («il mio corpo è bersaglio / e colonna di fuoco / è setaccio / e tamburo»); la dolcezza estenuata dei Preludi e dei Notturni del secondo viene oscurata dalla fatica delle esecuzioni, dalla sanie della tubercolosi, da incubi e visioni animalesche e malate.
Forse un ultimo rilievo o curiosità da evidenziare in questa raccolta dai toni baudelaireiani è la presenza, in quasi ogni poesia, della parola “cuore”, mai in senso immateriale, di anima, bensì in quello corposo e realistico di muscolo anatomico, di interiorità pulsante nell’unica realtà concreta del nostro esistere: il corpo. «Mon coeur mis à nu», appunto.

 

«Poesia» n.266, dicembre 2011