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RECENSIONI

CAMON

FERDINANDO CAMON, LA MIA STIRPE – GARZANTI, MILANO 2012

Nel 1978 Ferdinando Camon aveva pubblicato  Un altare per la madre, romanzo epico e tenerissimo che concludeva “il ciclo degli ultimi”, fondendo abilmente storia privata e pubblica nell’omaggio commosso e riconoscente alla figura materna. Oggi torna, con questo bel volume edito da Garzanti, su quegli stessi temi, rivisitati con uguale e partecipe emozione, ma con una più matura e sottilmente ironica visione di ciò che in questi trent’anni siamo riusciti a raggiungere, o a perdere, come collettività. E in uno stile più sciolto e leggero che nelle precedenti prove. Questa volta il punto di partenza, sempre radicato nella vicenda della famiglia originaria dell’autore, è la malattia del padre, colpito da ictus e privato della facoltà di parlare. Intorno alla sua stanza d’ospedale si radunano i figli ormai maturi, e tutti in qualche modo estranei. Soprattutto ha tralignato lo scrittore, allontanandosi dalla civiltà contadina che l’ha partorito e cresciuto, dai suoi valori eterni e soffocanti, guadagnando in consapevolezza e forse in infelicità. Eppure al capezzale del padre, il figlio diventato intellettuale, opinionista, narratore premiato e tradotto in tutto il mondo si ritrova a considerare le sue origini come ancora fondanti e vive, fertili e castranti insieme: sente la colpa di aver tradito e l’orgoglio di aver osato percorrere nuove strade, rinunciando a tradizioni millenarie, ma anche a superstizioni ottuse, a insensibilità nei riguardi del mondo naturale e animale. Nel padre morente rivede i suoi lineamenti, quelli dei suoi figli e dei nipoti, le stesse abitudini fisiche e malattie che si tramandano da generazioni. «È come se il suo corpo ricalcasse il mio corpo che ricalca un altro corpo…E’ senso della stirpe, che in dialetto si dice razza…» Ripercorre quindi la storia del nonno, soldato nella prima guerra mondiale e estratto vivo per miracolo da una valanga: la sua fede obbediente alla patria e alla casa reale, che in queste pagine il nipote scrittore stigmatizza con sarcasmo e sacrosanta indignazione, ridicolizzando la figura mediocre di Vittorio Emanuele IV. Ripercorre anche la storia del padre, lui pure combattente nella seconda guerra mondiale, di cui era riuscito a evitare il fronte iniettandosi nel ginocchio acqua infetta. Il padre rivisitato nei suoi anni giovani, nel fidanzamento con la madre «cussì bella» e venerata come una madonna la domenica, in chiesa, nei pochi incontri precedenti il matrimonio. Nonno e padre avevano fatto entrambi un voto, mai mantenuto: quello di andare a Roma in pellegrinaggio dal Papa, in atto di riconoscenza e di sottomissione. Tocca al figlio scrittore, ora, rispondere a quella chiamata: al suo cattolicesimo mai rinnegato, ma certo più annacquato e critico di quello dei parenti contadini. Il papa tedesco lo convoca insieme a 250 artisti internazionali cui viene demandata la trasmissione del messaggio cristiano nel mondo: onore e onere. Orgoglio, trepidazione animano Camon che si sente eletto e trascurato contemporaneamente, quando intuisce che la sistemazione degli invitati dipende dalla loro rilevanza mediatica: ai primi posti nella Cappella Sistina, più vicini al Pontefice e sotto lo sguardo paralizzante e potente del Cristo michelangiolesco sono i cantanti, gli attori di commedie volgarotte, il regista freudiano, il tenore cieco. Eppure lui, ironico e contrito, si genuflette di fronte al Vicario di Cristo, offre alla sua benedizione le fotografie del nonno e del padre che nasconde sotto la camicia, a implorare un viatico per tutta la sua famiglia: antenati e discendenti, i due figli lontani, i nipotini così diversi e così uguali a chi li ha preceduti nel sangue e nei pensieri. Le ultime pagine del romanzo, divertenti e intenerite, raccontano un viaggio in treno verso Venezia con le bambine del figlio, docente universitario in un’altra città: i loro discorsi ingenui e modernamente smaliziati insieme, la loro visione del mondo multietnico in cui stanno crescendo e la loro irriverente religiosità, tanto diversa da quella del Veneto arcaico da cui vantano le radici. Nipotine tuttavia così simili nel profilo e nei gesti inconsapevoli alla bisnonna analfabeta, la madre di Camon «cussì bella». Destini differenti, un’unica stirpe.

«incroci on line» 11 giugno 2014

RECENSIONI

CAMON

FERDINANDO CAMON, UN ALTARE PER LA MADRE – GARZANTI, MILANO 1978

Ferdinando Camon ha scritto il suo quarto romanzo che, riallacciandosi a Il quinto stato (1970) e a La vita eterna, viene a concludere la trilogia del “ciclo degli ultimi” dedicata al mondo contadino della campagna padovana, mondo da cui lo stesso Camon proviene. E’ un libro sofferto, scritto e riscritto continuamente per tre anni, che prende spunto da una dolorosa circostanza autobiografica, la morte della madre, per intessere un lamento che è insieme elegia, preghiera, testimonianza. Il ricordo della madre, come esce da un susseguirsi di squarci, di immagini (lei che ride portandosi una mano sul cuore, lei che cerca di parlare in italiano, lei che si incipria prima di andare a messa: questi sono i ricordi più personali, quelli più individuali. In altri gesti, la madre sembra ripetere quelli propri di tutte le contadine: nel risparmiare su tutto, nel lavorare fino allo stremo, nella discrezione di chi rimane ultimo, diventa una figura esemplare, tipica dell’ambiente in cui vive); questo ricordo dovrebbe quindi essere il filo conduttore di tutta la narrazione. In realtà mi sembra che il motivo fondamentale sia la resa dei conti che il figlio tenta di fare con se stesso: tutto il romanzo è infatti un interrogarsi sulla morte e sulla vita (indicativo è il brevissimo, gnomico capitolo XII), sul mondo contadino che è stato abbandonato e sembra finire del tutto con la morte della madre, e sulla propria sradicatezza, quindi, sia dalla cultura dei campi, sia da quella della città. Di fronte a una civiltà contadina, che è cultura perché è creazione di mito e religione, l’inurbato si sente “espropriato” della sua dimensione più vera. Questo è il primo romanzo che Camon scrive in prima persona, ma riesce a parlare di sé solamente come “figlio”: della madre, certo, e anche del padre che pure è una figura straordinaria – ma soprattutto di un ambiente. Di una terra, di una gente, di una religione. Questo è infatti un romanzo cristiano: non direi nemmeno religioso, ma proprio cristiano. L’atmosfera è quella delle funzioni, delle processioni, dove non c’è posto se non per l’obbedienza, il rispetto, la fede, a volte l’esaltazione: «Se ciascuno avesse vissuto come vuole la società, che vita vergognosa avrebbe avuto. Cristo c’è, ed è ineguagliabile. Se non ci fosse Lui, vivere sarebbe un’insulsa pazzia».

È soprattutto un romanzo, l’abbiamo visto, contadino: e non, come si poteva dire per gli altri libri di Camon, perché ci sia contrapposizione polemica con il mondo borghese. Qui il mondo contadino diventa assoluto, non c’è più nemmeno il confronto con altre società, e l’immersione in esso diviene totale, tutta emotiva. La storia della morte della madre, che è una storia privata, diviene storia corale, oggettivamente partecipata da tutta la comunità contadina: l’altare che il padre aveva costruito in suo ricordo, diventa l’altare della chiesa del paese, e la madre ne risulta in qualche modo santificata. L’estraneità finisce per essere anche un’estraneità culturale nello stesso stile adottato da Camon: vengono abbandonati i vari registri usati nelle opere precedenti, e anche gli strumenti interpretativi più colti, quali la psicanalisi, la sociologia. La scrittura è tesa, concisa, lontana dagli sperimentalismi di La vita eterna o di Occidente, in qualche punto addirittura faticosa. Perché pensata in dialetto: «Scrivo queste cose in italiano, cioè le traduco in un’altra lingua. Colui che non gli è permesso di usare la propria lingua non può essere felice e sentirsi libero. Più scrivo, più mi lego. Questo sarà un libro breve, perché in fondo non è che un’epigrafe».

Il mondo borghese che ha sempre snobbato la civiltà degli ultimi, il quinto stato dei “fuori storia”, si vede una volta tanto snobbato: il libro è scritto rispettando fedelmente la struttura mentale del contadino, in una lingua che viene solo presa a prestito dalla cultura borghese, per poter costruire un altare di parole che testimoni la vita della madre anche a chi è estraneo al mondo di lei.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 13 aprile 1978

RECENSIONI

CAMPANA

NADIA CAMPANA, VISIONE POSTUMA – VERSO LA MENTE, RAFFAELLI EDITORE, RIMINI 2014

Di Nadia Campana (Cesena,1954Milano,1985) l’editore riminese Raffaelli ha pubblicato nel 2014 due volumi: Visione postuma e Verso la mente. Il primo (curato da Milo De Angelis, Emi Rabuffetti e Giovanni Turci) raccoglie testi critici rimasti a lungo inediti, talvolta incompleti o allo stato di abbozzo: registrando gli interessi letterari della poetessa romagnola, essi rivelano la sua ricettiva empatia soprattutto nei riguardi della scrittura femminile. Infatti, se le brevi recensioni finali sono dedicate ad alcune letture, spettacoli teatrali ed esperienze didattiche compiute negli anni ’80, è soprattutto nei saggi iniziali che si esprime la sua straordinaria competenza critica nei riguardi della parola poetica delle donne.

Se per poesia si deve intendere (come afferma nel testo che dà il titolo al libro, Visione postuma) il discrimine “tra mondo interpretato e assenza del mondo”, comprensione del caos da trattenere in “una misura stretta”, conoscenza che aumenta “il dolore come esercizio” con “furibondi attacchi di malinconia”, e infine “sfracellamento contro gli scogli del quotidiano”, è specificamente nella scrittura femminile che Nadia avverte la possibilità originaria di un’autoesclusione, non solo dalla vita concreta, ma addirittura dal proprio corpo, per una sorta di dissoluzione del desiderio quando questo si scontra con la banalità del reale, e produce stanchezza, “voglia di essere inerti… precoce invecchiamento”.

Nei due testi dedicati a Emily Dickinson, di rara perspicacia interpretativa e introspezione psicologica, si mette in luce essenzialmente la rivoluzione linguistica effettuata dalla poetessa americana, la sua invenzione di un nuovo inglese, di una inedita sintassi espressa nell’utilizzo della concisione, di un ritmo musicale rapido, e di elementi linguistici inediti, che Nadia Campana da esperta traduttrice ben sapeva individuare (predilezione del congiuntivo, arcaismi, tecnicismi, voci dialettali, accelerazioni e pause, soppressione di congiunzioni-pronomi-ausiliari, sostantivazione del verbo, scambio soggetto-oggetto, fusione di metri diversi, sostituzione della punteggiatura con la lineetta…). Una rivoluzione linguistica pagata dalla Dickinson con la sua eccentricità rispetto al mondo, con la devianza dai valori comunemente accettati nel puritanesimo ottocentesco del New England. “La sua goffaggine svela l’estraneità al commercio mondano e una sordità a ogni luogo comune. Ella rifiuta di sostenere la funzione di civiltà che alle donne è sempre stata affidata: quella di seguire le inclinazioni emotive, le regole amorose e cosiddette naturali… sceglie di essere un’asceta”. Orgogliosa della propria “posizione di monade, l’unica cosa che la salda alla storia è la parola”, intuita come luogo di indipendenza e di pace, di autonomia differenziante, di consapevole ribellione alla vacuità della chiacchiera invadente. Una poesia, quella dickinsoniana, lontana dalla fisicità dei fatti, dalla fenomenicità, dal fascino dell’incontro partecipato con gli altri, e invece tutta protesa verso la vertigine della riflessione, dell’intelligenza delle cose, nella conquista di significati cruciali capaci di oltrepassare psicologia e morale: “La scrittura al posto del corpo, un pezzo di carta al posto di un’emozione toccabile, mostrata”. Nadia Campana polemizza violentemente contro una critica votata al pettegolezzo, tendente a ridurre Emily Dickinson alla sua biografia, e a descriverla come “una figuretta inerme, schiacciata sotto il peso di una vita vuota, di una nevrosi che la costringeva nella sua cameretta a rimuginare e a rifiutare in contatto col mondo se non attraverso bigliettini fatti passare sotto la porta”. Tale meschinità da rotocalco si intromette nelle vite private in modo ammiccante e indiscreto, insinuando che la verità di un poeta vada cercata al di fuori della sua poesia. “Il mito di un poeta-donna spesso finisce col far passare in secondo piano i valori letterari e l’indagine critica si risolve in una ricerca di disastri emotivi di cui la poesia non sarebbe che una citazione”.

Quale disastro emotivo avrebbe allora portato un’altra grande artista, Marina Cvetaeva, al suicidio? In due saggi Nadia esplora ‒ con un’immedesimazione quasi presaga della propria drammatica scelta finale ‒ il dolore e l’amore che hanno animato e reso eterni i versi della poetessa russa, nella cui morte volontaria sembra iscritto il destino ineluttabile di chi si getta “contro le cose, fuori dall’adeguamento e dalla registrazione, per toccarle con l’incandescenza”. La dedizione generosa e appassionata con cui Marina Cvetaeva interiorizzava ogni altro da sé aveva qualcosa della sacralità del sacrificio, dell’abnegazione di un’offerta che sa annullarsi, non essendo più desiderio o possesso, ma tenerezza, affetto, fratellanza, sym-patheia priva di qualsiasi opacità. “La sua scrittura, come la figura tragica del saltimbanco di Zarathustra, compie un ultimo volteggio nel vuoto, come un ultimo dono, senza richiesta di contraccambio né tantomeno di ammirazione o pietà. È già oltre, nel territorio puro dell’aria che le darà nuovamente la forza di uscire dalla deriva del mondo privato e di abbandonarsi a una forza sorgiva”. Forse non è improprio ricordare che Nadia Campana scelse anche lei, il 6 giugno del 1985, un salto nel vuoto, cercando l’infinito.  E sul tema del suicidio, proprio in questi due testi si sofferma con parole che hanno la durezza e la trasparenza del quarzo: “Il suicidio è l’atto di cancellazione del passato, quando il ricordo non si dà se non sotto le forme del fallimento e della stanchezza. C’è una stanchezza anche dell’essere tristi: allora il racconto della sofferenza non trova più dichiarazioni d’amore, fiabe, immagini, se non quella della migrazione nel più puro territorio dell’anima. L’itinerario della mente alla perfezione si svolge ora nella fuga verso la dimora di ciò che non ha forma, di ciò che è semplicemente schiarito e che non deve più misurare il peso dell’avvilimento. Là tutto può essere perfetto, bello, elevato. L’immaginazione non incontrerà alcun ostacolo e il sogno sarà onnipotente e senza difetto”. Nostalgia di un passato irrecuperabile, malinconia per un futuro che si teme, logoramento del presente, estraneità alla “mascherata” del mondo. Cvetaeva nel suo biglietto di addio scrisse: “Come si dice, / l’incidente è chiuso. //… Con la vita ora sono pari”.

Nadia Campana in una poesia sembra farle eco: “Avendo già avuto a che fare / con la resa, scelgo / le processioni del riposo”. La sua produzione poetica, quantitativamente esigua, è stata raccolta, con un’interessante introduzione di Milo De Angelis, in Verso la mente; qui si ribadiscono sia l’esigenza di un lavoro assiduo di rinnovamento del linguaggio, sia il continuo richiamo alla morte, temi presenti anche nei saggi critici che abbiamo esaminato (“già veduto già rotolato / già rimandato il corpo sospeso / tra le rocce lacerato”, “è il tempo di arrendersi al contagio / covato dalle solitudini / disarmarsi per le ferite”). Stilisticamente, questi versi franti e fortemente caratterizzati da simbologie, possono ricordare lo sperimentalismo di Amelia Rosselli, le invenzioni lessicali di Antonio Porta, l’autobiografismo scomposto di Sylvia Plath o di Anne Sexton: “poesia del contrasto”, la definisce De Angelis, perché nei temi si alternano caldo e freddo, nero e bianco, esuberanza e tristezza, sogno e verità, mito e cronaca familiare. Affiorano qua e là colori vivaci, campi assolati, acque di torrenti e mari, uccelli e altri animali, presenze giovani e vocianti; eppure ogni immagine ritorna quasi strozzata da un’invincibile angoscia, un’implacabile e minacciosa inquietudine.

Sempre ricompare quindi l’aspirazione al tiepido riparo di un approdo, all’affettuosità di un abbraccio protettivo: forse quello del padre, perduto nell’adolescenza per un incidente sul lavoro, o quello di un “eroe mattutino e chiaro”: “Per te, io ti, io te sono / che mi contiene nel tremante ricorso / del tuo silenzio vienimi incontro / orizzonte e allarga esso”, “l’estate occupa tutto lo spazio / come te / e lì io ti chiuderò”, “io vengo a farmi in te / vuoto fedele”, “pregavi le cose che davo / se volevo bere / le gobbe dell’oceano / si rifugiavano sotto le tue braccia / quando il sole se ne andò mi nascondesti”. In una delle ultime composizioni antologizzate, la previsione luttuosa si fa infine scongiuro e preghiera: “il più lento morire dei pulviscoli / capogiro / che occupa molto / mi sento sparire continua / i fianchi trionfano in gara / balzano contro i fondi inermi / nella fretta / neve giovane e sonno resta / dicono scendi mitezza / venissi a temperare la sete”.

I due ritratti fotografici nelle quarte di copertina (entrambi di Giovanni Turci, curatore dei volumi) ci mostrano una Nadia bella e dolce, con i capelli scuri a caschetto e la frangia che le copre la fronte, un pullover a collo alto e una lunga collana bianca. Nella foto più intensa, la giovane donna guarda l’obiettivo con un sorriso sospeso tra timidezza e ironia, quasi rivolgendosi a noi lettori per chiederci: “Avete capito qualcosa del mistero della poesia e della vita? E di me, avete capito qualcosa?”

 

© Riproduzione riservata                    «Nazione Indiana», 3 aprile 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CAMPETTI

LORIS CAMPETTI, MA COME FANNO GLI OPERAI – MANNI, SAN CESARIO DI LECCE 2018

In questa interessante inchiesta sulla condizione operaia nelle fabbriche del Nord Italia, Loris Campetti (per quarant’anni redattore de Il Manifesto) indaga le ragioni che hanno portato i lavoratori dell’industria non solo a una indubbia precarietà occupazionale ed economica, ma anche a una marginalizzazione del loro ruolo culturale, sia nella società sia all’interno dei partiti che tradizionalmente li rappresentavano.
Campetti in Ma come fanno gli operai ha raccolto decine di testimonianze tra giovani e meno giovani, specializzati e generici, rassegnati o rabbiosi, in stabilimenti in crisi come in aziende modello e competitive (dalla Luxottica alla Fincantieri, dalla Brembo alla Beretta, dall’Agusta all’Aermacchi, dalla Maserati all’ex Pininfarina), evidenziando come il disagio dei salariati stia aumentando a livello individuale e collettivo.
Di ognuna delle aziende visitate traccia le origini e gli sviluppi, elencandone le varie sedi sparse nel mondo, il numero delle maestranze, gli sbocchi del mercato, i risultati tecnologici raggiunti.
Pur nella differenza dei casi citati, appare simile la situazione economica degli intervistati, tra coloro che vantano lauree scientifiche, come tra gli informatici e i progettisti meccanici: uno stipendio mensile che si aggira dai 1300 ai 1800 euro, un premio di produzione annuale che in genere non supera i 5000 euro, nessuna copertura sanitaria, scarse possibilità di carriera, pressanti richieste di mobilità all’interno dei reparti. Comune è anche la disposizione ideologica, molto critica nei riguardi della politica renziana e del PD, rancorosa verso il jobs act, la riforma Fornero, la cancellazione dell’articolo 18; propensa invece alla novità rappresentata dal M5S, e sensibile all’insofferenza leghista per l’immigrazione. Si avverte tra i lavoratori un’omologazione al pensiero dominante, un individualismo crescente e il venire meno della solidarietà di categoria: il compagno di squadra viene spesso percepito come un minaccioso rivale, l’extracomunitario come un corpo estraneo eccessivamente tutelato. Il sindacato è vissuto in genere come un apparato burocratico indifferente ai reali bisogni degli operai, proiettato invece verso la negoziazione politica e parlamentare, con l’unica eccezione per l’agire concreto e fattivo della Fiom.
Gli esempi offerti da Loris Campetti sono numerosi e vari: dai dipendenti delle Coop emiliane fallite e finite in tribunale, ai rider di Foodora che consegnano la pizza o la spesa a domicilio, arruolati con un sms e pagati a cottimo; dagli elicotteristi di Finmeccanica super-specializzati al personale garantito dal welfare d’eccezione della Luxottica, fino al cassaintegrato cinquantenne e alla facchina con preparazione universitaria che hanno visto crollare l’utopia cooperativa a Reggio Emilia.
Emblematico è il racconto del ventunenne Federico, operaio interinale del weekend (inchiodato alla catena di montaggio solo di sabato e domenica, senza diritto alla mensa e agli straordinari) alla Brembo (BG), leader mondiale dei sistemi frenanti. Federico frequenta l’università a Milano, sogna di diventare ingegnere musicale, di specializzarsi a Londra per poi emigrare negli USA o in Canada, ma accetta una sottoccupazione per motivi di pura convenienza e sopravvivenza. Nessun giovane condivide più la simbiosi con la fabbrica, l’amore viscerale per il marchio dell’azienda nutrito dai genitori e dai nonni: i ragazzi lavorano per vivere, e non viceversa, delegando i propri momenti di felicità al tempo libero, ai viaggi, alla musica, all’amore.
Il volume si conclude con alcune considerazioni amare e perplesse sul mondo del lavoro così come si presenta oggi, e sulle sue prospettive future. Attualmente l’ideologia del mercato e del profitto ha sostituito l’ideale di mutualità e solidarietà, inteso come strumento trasformativo della società; salute, anzianità e sicurezza sul posto di lavoro non sono più garantiti; la competizione tra occupati, sottooccupati e disoccupati anima risentimenti; le assunzioni sono perlopiù a termine; l’attenzione ai consumatori ha prevalso su quella dovuta ai produttori, e la politica si è consegnata a un neoliberalismo sfrenato.
«L’insicurezza produce paura e la paura può diventare il catalizzatore di una guerra tra poveri», cioè tra personale assunto a tempo indeterminato e nuovi schiavi. Un progetto collettivo di cambiamento può sorgere forse da un diverso modello di sviluppo, dalla sensibilizzazione individuale ai diritti di tutti i lavoratori, dalla rinascita consapevole delle organizzazioni sindacali.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/Ma-come-fanno-gli-operai-Campetti.html          18 aprile 2018

RECENSIONI

CAMPO

AAVV, CRISTINA CAMPO. SUL PENSARE POETICO – FEERIA, FIRENZE 2011

Secondo l’editore di questa antologia di saggi che dieci studiosi hanno dedicato a Cristina Campo, «nei convulsi anni di autocelebrazioni narcisistiche in cui viviamo, ci sta di fronte con una sorprendente e sia pur impervia esemplarità» la figura di questa sensibilissima, colta, vulnerabile poetessa e intellettuale bolognese, vissuta a lungo sia a Firenze sia a Roma. Guido Ceronetti la definì «filatrice dell’inesprimibile», «trappista della perfezione», protagonista di un «umbratile, filtrato viaggio nell’esistenza» che la portò a indagare i percorsi segreti dell’anima, attraverso lo studio appassionato della mistica e della liturgia orientale e ortodossa, la frequentazione di letture spirituali (da Eckhart a Silesius a Simone Weil) e dei più importanti poeti e filosofi a lei contemporanei (Luzi, Merini, Alvaro, Zolla, Emo), l’interesse per la musica e la fiaba, ma anche l’impegno civile nei riguardi di tutti gli avvenimenti politici, culturali e religiosi della sua epoca. Il volume esplora con analitico rigore i vari aspetti della produzione letteraria di Cristina Campo: dal suo ricchissimo epistolario (1942-1976), definito dalla studiosa Maria Pertile «residuo dell’assoluto», alla sua empatia nei riguardi degli ultimi e dei fragili, alla devozione verso la letteratura intesa quasi come pratica religiosa, fino alla sua biografia vissuta all’insegna della riservatezza e della discrezione, che la portò ad affermare severamente: «Che nulla traspaia dell’intimo cuore, nulla sia noto di noi che il sorriso».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

CANALI

LUCA CANALI, LAMPI – PASSIGLI, FIRENZE 2011

Lampi, ha voluto intitolare la sua raccolta di versi il latinista Luca Canali, intellettuale di vastissime letture e molteplici interessi letterari: lampi che squarciano il buio, illuminazioni repentine e abbaglianti come dovrebbero essere le poesie, quando si avvicinano alla perfezione. Il volume si divide in due sezioni: Gente  e  Ich, quasi che la presunzione di dire io in italiano, e quindi di un’autoaffermazione, venga mitigata dalla traduzione tedesca. E infatti il poeta non si mette in primo piano: sotto la sua lente acuta e disincantata stanno persone e oggetti, paesaggi periferici e urbani, animali e vegetazione. Tutti amaramente costretti a un destino di disfacimento, di rassegnata estinzione (farfalle e umili edere, pie donne in processione e prostitute disfatte, città stravolte dal traffico disumano e campagne violentate dal degrado): ogni cosa è soggetta a una dura legge di consunzione («primato / genetico della casualità»). Non si salvano le notti, con cani che latrano infelici; le estati canicolari («Il cielo è senza colore, / un sole svergognato… dardeggia sicario invisibile / su padri in canottiera»); nemmeno il Natale («nulla passa più in fretta / di un giorno simbolo di buone / intenzioni, d’amore, di pace… // in strade mercantili cieche / di buio festivo dove neanche / pisciano i cani»). Tutto è soggetto a una necessità crudele e matrigna, una “ananché” che rende caduca e banale qualsiasi esistenza («Effimera la vita dell’uomo: sortito dall’alvo / materno comincia l’imprevedibile / count-down…per torpida usura / di aorta, blitz di batteri, raffica d’armi da guerra»).
Non si salva la storia quotidiana, fatta di violenza e di abusi («E invece la terra / gira, l’universo si espande, si formano / bande, si stupra, si spara, il suolo / s’intride di sangue, si uccide»), e neanche il sesso riesce ad assumere una sua gioiosa, liberatoria consistenza, ma acquista una sembianza quasi animalesca, volgare: “Li guarda / senza invidia dal bus la serotina / fichina delle 20,15 scialante all’ignoto / pene di turno puntato sul suo / posteriore targato Jesus», «una baldracca inesperta/ dopo il suo orgasmo senza compenso…». I giovani non sono guardati con invidia o clemenza dall’anziano poeta, ma con severa amarezza: «e faccio / largo ai giovani che / non sanno rubare, rapinano / sparano, stuprano, po / vanno tranquilli al mare». Si respira un’aria di risentito sospetto (così il fringuello impallinato dal cacciatore si vendica accecandolo col becco; il passante solitario intravisto dall’ auto in corsa potrebbe abbracciare in lacrime il poeta, oppure piantargli nel cuore un coltello…; il lunedì lavorativo è una routine drogata che salva dalla noia della domenica…). Eppure i momenti di grazia esistono, rari, ma «quasi perfetti», e nascono da un’inattesa e insperata contemplazione di un prato, di bambini che giocano, di cieli infuocati. E nella poesia, provengono da rime improvvise che addolciscono il ritmo serrato delle composizioni, dal constatare inaspettato che la vita non si riduce a impressioni di negatività o puro sconforto. Il varco, la salvezza può presentarsi in un lampo minimo: «rimango / -il mozzicone acceso- ad ascoltare / cadere in terra la cenere / con la stessa dolcezza di queste / carezze alle tenebre, interpunzioni / di quiete fra guerre di giorni / di fuoco».  E il finale che si sogna per la propria esistenza non è un banale consumarsi, ma «un’esplosione / muta, un lampo al magnesio, una sparizione / assoluta tra fumi di effetti / speciali del cine»; o in una terribile e senechiana minaccia ( che ricorda la lettera 70 a Lucilio)  «Mi è stata / però accordata / l’estrema libertà, / sia pure spietata, / fissare del morire / il modo e la data». Ma noi lettori speriamo in nuovi libri e in nuovi versi, in cui Luca Canali incontri magari minuscole presenze o creature pronte a regalargli di nuovo un sorriso: «Su un prato / invece della mondana ho trovato / a riconciliarmi con il creato una graziosa, piccola rana», «Passo / il tempo a mirare / un rospo che si avventura / dal ciglio erboso a / traversare la strada, lo spingo a ritroso / al passare di un’auto, penso / al fluttuare del mare, mi sento / per attimi anch’io / un giullare di dio».
Il volume è introdotto da una sapiente e complice presentazione di Giuliano Ladolfi.

«Incroci»,  n. 26 – gennaio 2013

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CANALI

LUCA CANALI, ALLA MANIERA DI – CROCETTI, MILANO 1987

Più di dieci anni fa, G.Almansi e G.Fink avevano pubblicato un libro molto intelligente e divertente (forse per questo trascurato da critica e pubblico), in cui proponevano la parodia come nuovo genere letterario, presentando diversi brani narrativi scritti Come se, alla maniera di. Ora Luca Canali ripete l’esperimento, offrendo «inediti apocrifi di poeti moderni», usciti presso l’editore Crocetti, intitolati appunto Alla maniera di.

Finissimo traduttore di classici latini, risentito poeta in proprio, critico attento e severo di versi altrui, Canali ha le carte in regola per cimentarsi in questo che è – avverte – «anche un gioco», ma soprattutto «chiave di lettura, e identificazione di poetiche, cioè critica attraverso una nemesi in versi». I poeti prescelti per questo esercizio di stile sono 17 italiani e 5 stranieri, rigorosamente elencati in ordine alfabetico e con un numero di poesie che varia da due a sei. L’intento parodistico con cui Canali rifà il verso ad alcuni di loro, accentuandone stilemi e tic espressivi, è ben evidente nel caso di Maurizio Cucchi (di cui si sottolinea l’attenzione eccessiva ai particolari più minuti) e di Giovanni Giudici, decisamente – ma poco verosimilmente – preso in giro per l’eccesso di autobiografismo e per gli intercalari discorsivi (i “no”, i “sai”, i lombardismi) della sua prima produzione, e la “maniera” trobadorica dell’ultima. Anche Caproni sconta in Canali alcuni abusi tematici (lo scontro io/Dio, il doppio, l’inconsistenza dell’io) e stilistici (l’artificio delle interrogazioni). Con più affetto e maggiore riuscita imitativa, dovuta probabilmente ad una consonanza culturale ed espressiva, vengono trattati Bertolucci (di cui si ricostruisce l’ambientazione nella provincia emiliana, il collegio, gli amori giovanili: ma anche la sapienza nell’uso dell’aggettivazione) e Mario Luzi, ripercorso con discrezione nei temi e nella pacatezza del tono narrativo. Le imitazioni di Montale e Sandro Penna risultano particolarmente felici: l’uno inchiodato ai suoi termini (albale, abbaglio, blasfema, crinale, balugina, gomena, approdo…), allo stile dei primi tre libri; l’altro rivissuto e riportato in vita in versi assolutamente penniani: «Andavano di sera indifferenti / e belli giovanotti in canottiera». Ma anche la nevrosi stilistica e l’inventivo plurilinguismo di Zanzotto, il sermoneggiare di Fortini, l’aulicità di G.Conte, l’abbandono romantico di Raboni, l’onirismo di Gatto e l’ansante spietatezza di Balestrini sono ben resi, a dimostrare quanto vasto sia il raggio di intuito critico, di abilità parodistica di Canali.

Viene da interrogarsi sul perché di alcune esclusioni di poeti facilmente riducibili ai loro “topoi” stilistici: Sanguineti, tra i maturi, e De Angelis tra i giovani. Mentre è evidente che la sapienza tecnica dell’imitatore molto deve alla perizia del traduttore, soprattutto là dove la polemica e la tentazione del confronto perdono mordente, come nelle abilissime imitazioni degli stranieri, tutti, tra l’altro, morti: Borges, Eliot, Kavafis, Thomas, Trakl.

«Agorà» (Svizzera), 27 gennaio 1988

RECENSIONI

CANDIANI

RITRATTO DI POETESSA: CHANDRA LIVIA CANDIANI

Ho conosciuto Chandra Livia Candiani in una giornata primaverile del 1986, quando si è presentata nel nostro appartamento zurighese in compagnia di Vivian Lamarque, dei suoi giovani editori reggiani Giorgio Messori e Beppe Sebaste, e di un suo amico. Erano venuti per festeggiare in terra elvetica il quarantesimo compleanno di Vivian, e noi li avevamo accolti con una merenda accompagnata da una tentatrice torta di panna e fragole. Chandra mi era parsa da subito un po’ intimidita: minuta, silenziosa, se non a disagio appena spaesata, quasi interrogativa nel guardarsi attorno e nel soppesare meditabonda e lontana da qualsiasi intenzione giudicatrice le nostre chiacchiere, le nostre prevaricanti esibizioni di loquacità. Le mie bambine, Daria e Silvia, avevano allora sette e un anno, e Vivian, presentando Chandra alla più grande, l’aveva così avvertita: «Vedi questa ragazza? È un folletto!» E in effetti, con la sua espressione di infantile stupore, i capelli corti, biondi e dritti sulla testa, il corpo agile e inquieto, Chandra ben si prestava a incarnare una vaporosa figurina boschiva. Quando poi la Polaroid rese a noi, increduli e divertiti, una foto di gruppo in cui il viso del poetico folletto risultava coperto da una luminosa bolla a raggiera, una sorta di sole o simbolo azteco, mia figlia fu convinta definitivamente della straordinarietà extraterrestre della nostra ospite. Per più di venticinque anni non ci siamo riviste o risentite, ma mesi fa le poesie di Chandra Livia Candiani sono apparse, insieme alle mie e a quelle di altre dieci poetesse, nel volume einaudiano Nuovi Poeti Italiani n.6, curato da Giovanna Rosadini. Ed è stato commovente e rivelatore leggere i suoi versi, introdotti da una presentazione particolarmente affettuosa e partecipe. La curatrice infatti così la tratteggia: «Personalità schiva e appartata… un talento genuino e prolifico… leggerezza è il termine che la contraddistingue. Ci sono, nella serenità e nello spirito compassionevole e lieve della poetessa, una profonda sapienza e saggezza, nutrite di consapevolezza psicanalitica e ricerca religioso-filosofica».

Effettivamente da moltissimi anni Livia Candiani, nata a Milano nel 1952 da famiglia di origini russe, si è convertita al buddhismo, ha passato lunghi periodi di tempo in India e vive nel capoluogo lombardo traducendo dall’inglese testi buddhisti: ma non appena può si ritira in un monastero sulle colline del Northumberland, ai confini con la Scozia. Il suo nome elettivo, “Chandra”, significa “Luna”, e del suo interesse per la meditazione e la spiritualità sono pervasi tutti i suoi testi. Che ora possiamo avvicinare, proprio partendo dall’antologia einaudiana uscita nel giugno del 2012. Dopo aver esordito con la pubblicazione di libri di fiabe (Fiabe vegetali, 1984, e  Sogni del fiume, 2001), Chandra Livia si è concentrata soprattutto sulla poesia, e dalla sua feconda produzione -in gran parte tuttora inedita- sono stati editi nell’ultimo decennio quattro piccoli volumi. I testi presenti in  Nuovi Poeti Italiani n.6 sono tratti dalle raccolte Versi d’asino, Il sonno della casa, Bevendo il tè con i morti e Pianissimo per non svegliarti.
Dalle venti composizioni antologizzate nel volume Einaudi si trae, è vero, una prima impressione di sottile e discreta lievità, che tuttavia viene subito contrastata, ad una lettura più attenta, dalla consapevole rivelazione di una vena meditativa più profonda e malinconica, di una assidua e sincera ricerca di significati ultimi, di verità illuminanti: «Noi siamo i vetri / non c’è un dietro per noi / da cui poter guardare / parvenze di altri, / siamo rivolti a tutte / le intemperie / dell’anima e dell’aria», «Noi siamo l’incisione / tra spazio e tempo / taglio netto e profondo / dormiamo così / calpestati da chi sale / e chi scende bare / e culle mattine e notti / feroci e opache, / i testimoni delle scale: / gocciola in silenzio / su di noi la paura dei passaggi».

Se il “noi” di una fratellanza universale, di un comune destino cosmico che unisce tutte le creature viventi, e le lega a tutte le generazioni passate e future («resta / questo filo teso di contati / respiri sopra l’abisso. / Che ci ama. / Tutti.») è il sentimento prevalente della riflessione filosofica di Chandra Livia, la sua storia personale, di gioia-amore-sofferenza-lutti non viene occultata da una retorica sentimentale livellatrice, ma viene assunta e esplicitata nelle sue luci e nelle sue ombre: «dunque la gioia / è questo sangue che bussa / ai polsi, questo amico / dei rintocchi», «Sono matassa di smarrimenti / senza disegno, sono calce / viva sotto pelle / di tamburo che vibra / a ogni sfioramento sono / bambino sbucciato / corso via perdutamente e poi caduto / a terra, come sparato, / al cuore».

L’amore ha il suo spazio, importante, fondamentale, nel riconoscimento del proprio sé nell’altro, nella condivisione del tempo e dei sogni, nel dono di una reciproca generosità: «Io farina / tu pane / io goccia d’acqua / tu sete / io orlo / tu veste celeste. / Scambiami per un tuo pensiero, un difetto / nella tua smemoratezza, / un inciampo. / Inciampa in me / come in un parente avvinghiato». E alla base di questa capacità e volontà di affidarsi a tutto ciò che avvolge e accoglie il nostro piccolo io, c’è senz’altro questa tranquilla fede nella bontà di un ascolto trascendente: «La saggezza del giorno / si scioglie in pioggia, / sono ascoltata: / goccia per goccia / si stende il velo / pietoso / di un udito / che non ha premura / accoglie / il gradino / su cui si stende preciso il gatto / l’oro nero dell’olmo / l’asfalto lucido e stellato».
Le tre sezioni che compongono il volume che Livia Candiani ha pubblicato da Campanotto nel 2005, Io con vestito leggero, hanno in comune la levità delle atmosfere e delle parole, quasi avessero timore di ferire, o di incidere una realtà che la poetessa desidera solamente sfiorare: con la delicatezza di un soffio leggero, di uno sguardo appena posato, e subito rivolto altrove per discrezione. Si avverte addirittura qualcosa di volutamente svagato, distratto, programmaticamente inteso ad evitare il troppo di ogni passione, di ogni dolore. Ambienti e personaggi vivono la stessa, magica estraneità al mondo concreto delle figure di Lewis Carroll, lontane dalla pesantezza calcolata dell’età adulta. Così La Signora protagonista del primo capitolo «si è seduta sui rami», «è nata ieri / e già la polvere la insegue», «cade tra le pupille imprestate», «chiude i giorni / come fossero veli», «prepara il letto di foglie»: è una fata, forse, o una fantasia, o una promessa di bene. Vive circondata da alberi, foglie, cieli, nuvole e uccelli. Tutte «cose leggere e vaganti», direbbe Saba. Nella seconda sezione, Lettere mai scritte, la malinconia per ciò che non è avvenuto, ed è rimasto sospeso, irrealizzato, si fa più evidente, pur rimanendo circoscritta ad un’impressione sfumata di tristezza: «con quali passi / si finisce se stessi / in una lettera», «Anche una lettera d’affari / è nostalgia / di un impossibile parlarsi», «Come vorrei saper scrivere / una lettera ai boschi / a un fiume o a una / qualità del cielo», «Strano mettere la data alle lettere come fossero / valide solo per oggi».

Il capitolo conclusivo che dà il titolo all’intero volume, ha il merito di aprirsi a versi che offrono il ritratto più esaustivo della loro autrice: «m’inchino ai semafori / e accarezzo con le suole l’asfalto», «Sospendo il petto / ai fili del bucato /…è mia questa capacità / d’amare senza possibilità / d’oggetto», «non siamo rose / né uccelli / né il vento / ma l’attesa di soffiare / di volare / di sbocciare».
Ma c’è un’ ultima, fondamentale, raccolta di versi che Chandra Livia ha pubblicato nel 2007: Bevendo il tè con i morti ( Viennepierre, Milano), in cui i trapassati, sia quelli che abbiamo amato o appena conosciuto, sia quelli che appartengono alla memoria comune, alla fantasia, all’aria, recuperano una loro voce dimenticata o trascurata in vita, memento alla nostra distrazione quotidiana, affettuoso rimprovero per le nostre disattenzioni o temporanee insensibilità. Qui «celeste e terrestre si compenetrano», come suggerisce Giovanna Rosadini, e come appare evidente da questi esempi: «Verso sera / i morti siedono sui fili della luce / come gocce di pioggia / che è già caduta», «il morto che ha paura di vivere / si alza di notte / rassetta la terra / cambia l’acqua ai fiori / della tomba / si siede a guardare le stelle / da lontano. Sfugge / le rassicuranti chiacchiere / dei vissuti», «Non ai morti / si addice la tristezza / ma al bugiardo / perdurare dei vivi », «La morta / con il canarino sulla spalla / dice che come l’uccello / dalla gabbia / lei dal corpo / è sfuggita», «Il passo sboccia / da un’andatura del pensiero / forti come nuvole / passano i morti».

In questa Spoon River milanese, dagli esotici accenti orientaleggianti, Chandra Livia Candiani riflette la sua sensibilità ricettiva e premurosa, con una voce che si riconosce assolutamente femminile e lontana da paludate tradizioni letterarie del nostro novecento: più vicina semmai alla delicatezza delle liriche cinesi, a una storia millenaria di ascolto e aconfessionale preghiera.  La stessa discrezione partecipe che la tiene lontana dai circuiti editoriali e mediatici di produzione poetica tanto in voga oggi, e invece attiva conduttrice di seminari di poesia nelle scuole elementari. Forse proprio in uno di questi appuntamenti con i più piccoli, Chandra ha incontrato la ragazzina cui dedica i versi finali dell’antologia einaudiana: «Fatema, la bambina rom, ha scritto: / è bello / vedere l’aria felice». Ecco, questa sembra essere l’ambizione più assoluta della sua poesia: una condivisione gioiosa di purezza, di verità.

© Riproduzione riservata             «La poesia e lo spirito», 7 novembre 2012

RECENSIONI

CANDIANI

CHANDRA LIVIA CANDIANI, IL SILENZIO È COSA VIVA – EINAUDI, TORINO 2018

Chandra Livia Candiani negli ultimi anni ha pubblicato con successo due raccolte di poesie nella collana bianca di Einaudi: La bambina pugile e Fatti vivo. Presso la stessa casa editrice è uscito da poco un suo breve saggio sulla meditazione, Il silenzio è cosa viva, che raccoglie ventitré capitoli luminosi e illuminanti, pacati e dolcissimi. Un avvicinamento laico alla spiritualità, che non si pone in maniera didascalica o imperativa, non mira ad insegnare nulla al lettore: semplicemente offre una testimonianza, raccontando un percorso nel buio della sofferenza e nella luce di una speranza, di una consolazione, di un risveglio.

Partendo da alcune considerazioni sul fine vita, e sulla dolorosa morte della sorella Anna (“l’addio” e il “buon viaggio” come termini chiavi per l’accompagnamento di chi ci lascia), Chandra invita all’accettazione consapevole di ogni afflizione: “Spesso si pensa che la soluzione al dolore sia altrove, ma è nel dolore la soluzione del dolore, sentendolo, abitandolo, assaporandolo, a poco a poco diventa parte di noi”. Accettare, accogliere, aspettare: «Imparare a stare. Imparare a essere vasti e navigare ogni mare e scoprire tra onda e onda un porto». Questo Chandra ha appreso dalla frequentazione della meditazione buddhista, dai suoi viaggi in India alla ricerca di risposte, ma soprattutto alla ricerca del sé più riposto e interiore, in cui poter recuperare la propria verità. Verità che non consiste nel divenire eccezionali, esemplari, eroici, ma solamente nel permettere alle cose di essere così come sono, rimanendo in un atteggiamento di fiduciosa e silenziosa attesa riguardo a ciò che succede in noi e intorno a noi, senza interferire, senza pretendere di modificare. Non ci sono gerarchie di valori nella pratica del pensiero buddhista: il piccolo serve quanto il grande, l’ordinario quanto lo straordinario, e i più banali gesti della quotidianità valgono quanto la più alta preghiera, se li compiamo con il rispetto e l’attenzione che ci richiedono e che meritano.

La stanza vuota che l’autrice ha predisposto nella sua casa per raccogliersi a meditare è diventata un tempio domestico, uno spazio dove coltivare silenzio e fiducia: «L’abilità di stare in una stanza vuota è quella di rendere altrettanto vuoto il proprio cuore, lasciar cadere le proprie opinioni, deduzioni, pregiudizi, lasciar scivolare quelle degli altri su di noi, lasciare che si riveli lo spazio vuoto di abitudini, un’altra possibilità». Così si arriva alla consapevolezza di ciò che si è nel corpo e nei processi mentali, riscuotendosi dal torpore di un pensiero adulterato e addormentato, imposto dall’esterno. Allontanandoci dai luoghi rischiosi e inaffidabili che abitiamo, dalle convenzioni e dalle abitudini logoranti, cancellando in noi brame e attaccamenti eccessivi, possiamo trovare un rifugio, un asilo protetto, una via (“la Via”), da intraprendere utilizzando alcune modalità di comportamento fisico (quali l’inchino a terra, il congiungimento delle mani, la regolazione del respiro, l’attenzione all’ascolto, la cadenza del passo) che ci sollecitano all’umiltà, al superamento di ogni dualismo, al controllo delle emozioni fuorvianti. «Non si tratta di essere imperturbabili, ma imperturbati dal turbamento… Onorare tutto quello che ci attraversa senza diventarne preda».

Chandra Livia Candiani utilizza la sua decennale esperienza di traduttrice di testi buddhisti e di insegnante di poesia nelle scuole elementari, tra i malati e i senza casa, per offrire ai lettori citazioni e spunti di riflessione tratti da testi letterari e filosofici, o dalle splendide e commoventi composizioni dei suoi allievi bambini: per rammentarci che tutto ciò che ci tocca nel profondo ci trasforma, ci aiuta a superare i nostri limiti, a comprendere, a com-patire, ad aprire il cuore.

 

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https://www.sololibri.net/Il-silenzio-e-cosa-viva-Candiani.html          9 ottobre 2018

 

RECENSIONI

CANETTI

ELIAS CANETTI, IL LIBRO CONTRO LA MORTE – ADELPHI, MILANO 2017

Elias Canetti nacque in Bulgaria nel 1905 da una famiglia ebrea colta e benestante: la sua lingua materna fu il ladino, ma in seguito imparò il tedesco, che utilizzò per scrivere tutte le sue opere, quindi il bulgaro, l’inglese, il francese, lo spagnolo: acquisizioni rese necessarie dalle frequenti peregrinazioni della sua famiglia in tutt’Europa. Visse infatti a Manchester, Vienna, Francoforte, Berlino, Parigi, Londra, Zurigo, dove morì nel 1994 e dove è sepolto, accanto alla tomba di James Joyce. Si laureò in chimica, materia in cui conseguì anche un dottorato, senza mai praticarla a livello professionale. Sposò nel 1934 la scrittrice sefardita Veza Taubner-Calderòn, donna affascinante con cui ebbe un sodalizio affettivo e culturale profondo e tormentato, conclusosi con il suicidio di lei nel 1963. Conobbe e frequentò gli intellettuali più importanti della sua epoca: Brecht, Babel’, Grosz, Musil, Berg, Alma Mahler. Fu traduttore, autore teatrale (Nozze, La commedia della vanità, Vite a scadenza), romanziere (Autodafé), saggista (il fondamentale studio Massa e potere, pubblicato nel 1960, che gli costò quarant’anni di lavoro, e Le voci di Marrakech). Naturalizzato cittadino britannico, nel 1971 Canetti sposò in seconde nozze la museologa Hera Buschor, dalla quale ebbe l’unica figlia Johanna. Nel 1981 ricevette il premio Nobel per la letteratura, “per opere contraddistinte dalla visione ampia, dalla ricchezza di idee e dalla potenza artistica”.

Forse il lavoro più rappresentativo di Canetti fu l’autobiografia divisa in tre parti (La lingua salvata, Il frutto del fuoco e Il gioco degli occhi) e pubblicata fra il 1977 e il 1985. Ma anche il volume da poco uscito presso Adelphi, Il libro contro la morte, riveste un’importanza eccezionale, perché raduna nelle sue pagine in maniera asistematica “frasi sparse e paradossali”, noterelle, riflessioni, emozioni, bozzetti di racconti, satire, aforismi composti nell’arco di tutta l’esistenza, con un unico e ossessivo tema: l’ostilità nei riguardi della morte, la non accettazione della sua inevitabilità, avvertita come una condanna ingiusta, stupida, ingiustificabile, ed espressione massima della sopraffazione di un potere materiale e metafisico.

La stesura dei primi appunti risale al 1942, e durò fino al 1988, occupando in caratteri stenografici decine di taccuini, da cui furono tratte nel corso degli anni pubblicazioni parziali severamente revisionate. L’edizione attuale ha raccolto materiale in gran parte inedito, ricostruito con sapiente attenzione filologica, selezionato sia sulla base della fedeltà al tema della morte, sia privilegiando i toni più pungenti, sarcastici e provocatori. Uscito postumo in Germania nel 2014, con postfazione di Peter von Matt, esaudisce un proposito che Canetti aveva espresso forse già dalla morte prematura del padre, avvenuta quando lui aveva solo sette anni; o più probabilmente dalla scomparsa della madre, a cui era morbosamente attaccato: “Voglio riprendermela dalla bara, dovessi anche allentare ogni singola vite con le labbra. Lo so che è morta. Lo so che è decomposta. Ma non lo accetterò mai. Voglio farla tornare in vita. Dove ritrovo le sue parti? Il più è ancora nei miei fratelli e in me. Ma questo non basta. Voglio ritrovare ogni persona che l’ha conosciuta. Voglio riavere tutte le parole che lei ha pronunciato. Dovrò posare il piede dove lo ha posato lei, odorare le piante che ha odorato lei, i discendenti di quei fiori cui lei ha accostato le sue vigorose narici… Dove sono le sue ombre? Dov’è la sua collera? Io le presto il mio respiro. Lei camminerà con le mie gambe”. Forse a partire da quel tragico e devastante lutto, Canetti decise di diventare un Todfeind, un nemico della morte, uno spregiatore della dissolvenza nel niente: non solo del proprio inevitabile finire, ma dell’annullarsi di qualsiasi fibra vivente, vegetale, animale, umana. E la sua prometeica ribellione ha preso inevitabilmente per oggetto ogni illusoria e ingannatrice religione, ogni divinità di qualsiasi credo, sbeffeggiata e insultata per aver creato la morte, per averla permessa, per non essere stata capace di vincerla.

“A cento dèi mi sono avvicinato e ciascuno di essi ho guardato dritto negli occhi, odiandolo per la morte degli uomini”, “Dio, il tuo carnefice”, “Dio leva il braccio per l’ultimo colpo”, “D’improvviso i risorti, in tutte le lingue, accusano Dio. Il vero Giudizio Universale”, “Dio, il paranoico che annienta gli uomini perché dagli uomini si sente perseguitato”, “E Dio sta a guardare come dalla morte un uomo venga rapito all’altro”, “Prima o poi troverò frasi che faranno vergognare Dio al mio cospetto. A quel punto non morirà più nessuno”.

L’impotenza e l’indifferenza del cielo fa sì che si crei una solidale alleanza tra le creature, legate affettuosamente tra loro da vincoli di amore e amicizia: alle persone, amiche e sconosciute, lo scrittore guarda con rimpianto e pietà, proprio perché consapevole della loro indifesa transitorietà: “Questa convulsa tenerezza per gli uomini, quando si sa che potrebbero morire fra poco; questo disprezzo per tutto ciò che prima si è trovato in loro, di buono e di cattivo, questo amore irresponsabile per la loro vita, il loro corpo, i loro occhi, il loro respiro!”. Amore per gli esseri umani e per ogni aspetto dell’esistenza, passione viscerale per l’attimo presente, il passato da recuperare, il futuro da attendere: “C’è in me, fortissimo e potentissimo, il senso della santità di ogni vita, davvero di ogni singola vita… Io non ammetto la morte di nessuno…Tutte le morti che finora sono avvenute altro non sono che migliaia di omicidi legali che io non posso autorizzare”.

Non sono perdonabili le estinzioni di massa dei popoli, gli eccidi razziali, gli attentati, le guerre, le stragi, gli assassinii, che Canetti patisce come uno sfregio irreparabile e mai giustificabile alla sacralità dell’esserci, un’esibizione sopraffattrice del potere contro cui è doveroso ribellarsi: con improperi e maledizioni, e quando non fossero bastanti, con sarcasmo e irrisione. Ma imperdonabili sono anche le morti private, quelle della gente comune e quelle dei maestri: ne vengono raccontate alcune (Buddha, Molière, Pascal, Tommaso Moro…), insieme alle ultime parole pronunciate (che bella la frase finale di Rabelais: “Vado alla ricerca di un grande forse”!). Nemmeno trascurabili paiono le agonie delle formiche, delle api, il cadere delle foglie, il marcire delle erbe: tutta la sofferenza inutile e innocente del mondo. Chi non vive più ci salva, quando ci immergiamo nel suo ricordo, concedendoci di continuare a esistere: nella stessa misura in cui noi permettiamo ai morti di tornare a vivere nella nostra memoria, unica reale forma di sopravvivenza: “Improvvisamente, repentinamente si sa di nuovo su di loro ciò che si credeva dimenticato, si odono i loro discorsi, si sfiorano i loro capelli e si fiorisce nel fulgore dei loro occhi… È possibile  che adesso tutto sia in loro più intenso di una volta, è possibile che solo in questo improvviso apparire diventino interamente se stessi. È possibile che ogni morto aspetti la sua perfezione in questo risorgere che un superstite gli offre”.

Il libro contro la morte è stato per Canetti il «libro per antonomasia», una testimonianza contro la rassegnazione, un lascito programmatico perseguito per cinquant’anni, lavoro in costante divenire, proposito mai abbandonato eppure mai rifinito del tutto, quasi a voler dimostrare che anche la scrittura non deve accettare la conclusione, ma sempre rinnovarsi, proseguire rinascendo da se stessa, farsi dono gratuito e irricambiabile: resistenza.

 

«Il Pickwick», 30 novembre 2017