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RECENSIONI

CANETTI

ELIAS CANETTI, AFORISMI PER MARIA LOUISE – ADELPHI, MILANO 2015

Del piccolo volume pubblicato da Adelphi nel 2015, Aforismi per Maria Louise di Elias Canetti, più della metà è occupato dalla splendida postfazione di Jeremy Adler, che ne illustra le vicende di composizione e ritrovamento, inserendolo all’interno della produzione letteraria e filosofica dell’autore austriaco. Elias Canetti scrisse gli aforismi dedicati alla pittrice Marie-Louise von Motesiczky tra il 1941 e il 1942, probabilmente facendogliene dono il giorno del suo trentaseiesimo compleanno, il 24 ottobre 1942. Il manoscritto, ritrovato tra le carte della destinataria dopo la sua morte, era vergato con inchiostro blu scuro, con titolo e dedica in giallo, e presentava le pagine forate in due punti all’estremità superiore, legate da un cordoncino dorato che gli conferiva l’aspetto di omaggio solenne e gratificante.

Per stessa ammissione dell’autore, questi 129 appunti (così preferiva definirli, anziché aforismi, massime, bozzetti o riflessioni), erano stati composti come “valvola di sfogo” durante l’onerosa e opprimente stesura del suo capolavoro, Massa e potere, durata quarant’anni e conclusasi con la pubblicazione nel 1960. Non rappresentano comunque un’opera secondaria, bensì si definiscono come un concentrato della sapienza, cultura, sapidità che ha caratterizzato l’opera omnia dell’autore, ponendolo nella scia di produzione di massime e frammenti che da Karl Kraus risale a Nietzsche, La Rochefoucauld, Montaigne, Pascal, fino ai presocratici. “L’appunto, in Canetti, va inteso come scrittura aperta, una scrittura che si muove liberamente fra l’immediatezza del diario e il rigore della riflessione. È in questa tensione che si dispiega la forma breve”, puntualizza Adler nel suo commento.

Elias Canetti, nato in Bulgaria nel 1905 da famiglia ebrea colta e benestante, ebbe come lingua materna il ladino, ma in seguito imparò il tedesco, che utilizzò per scrivere tutte le sue opere, quindi il bulgaro, l’inglese, il francese, lo spagnolo: acquisizioni rese necessarie dalle frequenti peregrinazioni in tutt’Europa. Visse infatti a Manchester, Vienna, Francoforte, Berlino, Parigi, Londra, Zurigo, dove morì nel 1994 e dove è sepolto, accanto alla tomba di James Joyce. Si laureò in chimica, materia in cui conseguì anche un dottorato, senza mai praticarla a livello professionale. Sposò nel 1934 la scrittrice sefardita Veza Taubner-Calderòn, donna affascinante con cui ebbe un sodalizio affettivo e culturale profondo e tormentato, conclusosi con il suicidio di lei nel 1963. Conobbe e frequentò gli intellettuali più importanti della sua epoca: Brecht, Babel’, Grosz, Musil, Berg, Alma Mahler. Fu traduttore, autore teatrale (Nozze, La commedia della vanità, Vite a scadenza), romanziere (Autodafé), saggista (oltre al già citato Massa e potere, anche Le voci di Marrakech). Naturalizzato cittadino britannico, nel 1971 Canetti sposò in seconde nozze la museologa Hera Buschor, dalla quale ebbe l’unica figlia Johanna. Nel 1981 ricevette il premio Nobel per la letteratura, “per opere contraddistinte dalla visione ampia, dalla ricchezza di idee e dalla potenza artistica”. Forse il suo lavoro più rappresentativo rimane l’autobiografia divisa in tre parti (La lingua salvata, Il frutto del fuoco e Il gioco degli occhi), pubblicata fra il 1977 e il 1985.

Destinataria del testo di cui trattiamo era la pittrice Marie-Louise von Motesiczky (1906-1996), come lui ebrea, ma discendente da un casato facoltoso e aristocratico, frequentatrice della Vienna più illustre. Si erano conosciuti a Londra, entrambi esiliati dall’Austria nazista, e rimasero uniti per tutta la vita in una relazione amorosa e intellettuale, tollerata da entrambe le mogli di lui. Bellissima, alta, elegante, emotivamente fragile, Marie-Louise condivideva con Elias lo stesso spirito curioso, la stessa indipendenza culturale da fedi religiose o appartenenze politiche, e interessi coltivati sia in un’assidua frequentazione personale (nella casa di lei rimase sempre a disposizione di Canetti un’intera stanza con annessa biblioteca) sia un vivace epistolario, arricchito da fotografie e ritratti, alcuni dei quali riprodotti nel libro adelphiano. “Tutto si può uccidere: una persona, un’opera, un nome e persino un dio, ma non un amore vero”, recita uno degli aforismi dedicatele dall’amante.

La maggior parte degli appunti (scritti in uno stile veemente e appassionato, utilizzando toni spesso caustici e grotteschi) ruota intorno ai tre temi fondamentali su cui si è sostanzialmente basata l’intera riflessione teorica di Elias Canetti: Dio, la morte, la guerra.

La divinità cui si ispirano non ha tratti specificamente ebraici, cristiani, buddisti: piuttosto assume un’identità oppressiva, ingiusta o tuttalpiù indifferente rispetto alle sorti del genere umano, che d’altra parte non risulta meritevole di grande considerazione da parte di alcun essere supremo. “Guardati in particolare da tutte le filosofie che cercano di ricondurre la vita a un unico principio. In questi casi si tratta sempre di una riduzione della vita; del suo impoverimento e della sua meccanizzazione; di una sorta di tirannide divina; il dio può anche essere un apprendista”, “Il Dio della Bibbia è interessante, non è mai esistita una creatura tanto assetata di potere: punisce solo il traditore, premia solo il servo fedele; ed entra in scena con la pretesa di possedere tutto, perché tutto lui ha creato”, “Gli amici di Dio sono irrimediabilmente disperati per la sua grandezza”, “Dio è morto perché il suo nome è stato profanato, adesso lo invochino pure quanto vogliono”.

La morte ispira a Canetti un odio e un rancore inestinguibile, poiché avvertita come una condanna iniqua, stupida, ingiustificabile, ed espressione massima della sopraffazione materiale e metafisica. Quasi istericamente, non ne accetta l’inevitabilità: “Fintanto che esiste la morte, tutto ciò che vien detto è detto contro di lei”.

Altrettanto feroce è il suo disprezzo verso la guerra, manifestazione di brutalità, idiozia, primitivismo bestiale. Quando questi aforismi venivano scritti, infuriava il secondo conflitto mondiale, Londra veniva bombardata quotidianamente, si inaspriva la persecuzione contro gli ebrei, l’assedio di Stalingrado sembrava non avere fine. Canetti ne parla mettendone in luce gli aspetti più truci e sanguinari. “Combattono fra le dita dei piedi, nell’ombelico, dentro le narici, combattono nel didietro, sotto le ascelle, dentro le orecchie e in bocca, non c’è luogo nascosto, non c’è palmo, non c’è poro, nelle cui profondità non combattano l’uno contro l’altro all’ultimo sangue”, «Mi ha rubato l’orecchio sinistro. Gli ho preso l’occhio destro. Mi ha fatto cadere quattordici denti. Gli ho cucito le labbra. Mi ha bollito il didietro. Gli ho rivoltato il cuore. Ha mangiato il mio fegato. Ho bevuto il suo sangue. – Guerra”, “Ha salvato dalla guerra il mignolo del figlio minore”, “Chiunque riderà a guerra finita, sia messo a morte per averla dimenticata con tanta leggerezza”, “Si aboliscono tutte le armi, e durante la prossima guerra non sarà consentito altro che mordere”, “Durante l’ultima guerra i tedeschi portavano ancora i guanti; a maglie di ferro, a dire il vero, e con quelli ti colpivano in faccia; ma li chiamavano pur sempre guanti”.

Disgusto, rabbia, amarezza, condensati nel più feroce e amaro di questi appunti: “L’uomo è la misura di tutti gli animali”, che modifica ironicamente la celebre tesi di Protagora.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 3 gennaio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CANFORA

LUCIANO CANFORA, PER UNA STORIA DELLE BIBLIOTECHE – IL MULINO, BOLOGNA 2018

Mantengo un vivido e grato ricordo delle biblioteche che ho frequentato nel corso dei miei anni più giovani: la Civica e la popolare di Verona, la Comunale e le universitarie di Milano, la Nazionale di Roma, la controllatissima Zentralbibliothek di Zurigo. Ricordo i loro saloni dai soffitti alti e dai pavimenti di marmo, le scaffalature impolverate, i tomi dei classici conservati con cura, gli addetti premurosi o annoiati nei grembiuli neri, e il silenzio rispettoso degli utenti, interrotto solo da qualche bisbiglio e dal fruscio delle pagine. Altri tempi, altro fascino. Immagino che adesso l’atmosfera negli scrigni del sapere universale sia più asettica e informatizzata, ma mi illudo mantenga ancora un suo segreto incanto.

Chi ama la lettura, si sarà comunque chiesto come fossero le biblioteche del passato (rinascimentali, medievali), e quelle del trapassato. Lo storico Luciano Canfora ha confezionato un volume che risponde egregiamente a molte domande su La storia delle biblioteche, a partire dalle epoche più antiche. Già dal 1600 si pubblicavano descrizioni delle raccolte librarie nel mondo classico, utilizzanti fonti diverse: Varrone, Plinio, Svetonio, e soprattutto Aulo Gellio. Quest’ultimo attribuiva a Pisistrato (tiranno ateniese del VI secolo a.C.) il merito di aver fondato la prima biblioteca pubblica per dare un assetto stabile ai libri omerici: notizia probabilmente falsa, in quanto all’epoca non esistevano corporazioni di scribi. Ma le leggende sulla nascita e la distruzione di biblioteche in epoca greca ed ellenistica si sprecano. Il contributo del professor Canfora aiuta a fare chiarezza in proposito.

Per tutta la fase storica precedente ad Aristotele, i libri venivano conservati in nicchie scavate nelle pareti dei templi, o in copie custodite nelle case degli eredi e dei conoscenti dell’autore; la scarsità degli esemplari dipendeva sia dal prezzo elevato del papiro sui cui erano scritti, sia dalla minima alfabetizzazione della popolazione: «In una società in cui prevale la comunicazione orale, il libro è considerato un veicolo non primario di comunicazione». I titoli più antichi e rarissimi potevano limitarsi a rotoli quasi unici (i manoscritti di Solone, alcune copie ippocratiche o tucididee). Fu appunto Aristotele il primo a riordinare nella sede del Peripato una raccolta organizzata di libri di discipline diverse, e fu il suo modello bibliotecario a influenzare la creazione delle biblioteche ellenistiche e poi romane, a partire da quella più famosa e fornita di Alessandria.

Sulle vicende della biblioteca del Museo di Alessandria, Luciano Canfora si sofferma a lungo. Racconta della sua fondazione, ad opera di Tolomeo II Filadelfo (285-246 a.C.), che incoraggiò la copiatura e la traduzione di tutti i volumi recuperabili nei paesi con cui l’Egitto aveva rapporti, e sulle navi che facevano scalo nei suoi porti. Vantando un patrimonio librario di circa 500.000 rotoli, il miraggio perseguito dalla dinastia tolemaica fu quello di costituire una biblioteca universale, con l’intento esplicito di confrontarsi con la cultura greca allora dominante. Da ricordare che in questo periodo fu intrapresa la traduzione in greco dell’Antico Testamento, nota come “Bibbia dei Settanta”. Sulla tragica distruzione della biblioteca alessandrina, Canfora puntualizza (in polemica con altre ipotesi poco obiettive o politicamente condizionate) le diverse fasi in cui essa si è realizzata: dall’incendio cesariano del 48 a.C., che determinò danni marginali, alla guerra di Aureliano del 270 d.C. che rase al suolo la reggia e il Museo, al saccheggio perpetrato dal fanatismo del vescovo cristiano Teofilo nel 391 d. C., fino alla distruzione completa di quanto restava durante la conquista araba del 642. Romani, cristiani e musulmani, insomma, corresponsabili dello sfregio portato all’umanità, e delle successive censure e depistamenti storiografici tesi ad accusarsi e discolparsi a vicenda.

Gli altri saggi contenuti nel volume, parimenti interessanti, riguardano la diffusione delle biblioteche nella Roma antica, la formazione di quelle private e pubbliche (citando Fozio, Papa Sisto V, i Cardinali Mazzarino e Borromeo), la cesura culturale rappresentata dalla Rivoluzione francese, i differenti ruoli e rilievi delle Biblioteche Nazionali italiane. L’appendice è poi costituita da un intervento di Ugo Fantasia sulle raccolte librarie nelle poleis ellenistiche.

 

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https://www.sololibri.net/Per-una-storia-delle-bibliotecCanfora.html            27 febbraio 2018

RECENSIONI

CANFORA

LUCIANO CANFORA, LA SCOPA DI DON ABBONDIO – LATERZA, BARI 2018

“È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più”. Luciano Canfora ha scelto la frase pronunciata da don Abbondio nel XXXVIII capitolo dei Promessi Sposi come epigrafe all’ultimo volume edito da Laterza: La scopa di don Abbondio, composto da undici capitoli e da un’appendice di interventi di Togliatti, Nenni e Thomas Mann.

Oggetto del libro è una riflessione, amara ma realistica, sulla crisi sociale e politica delle democrazie occidentali, sulle dinamiche e i rapporti di forza che orientano il “movimento sinuoso” della storia mondiale, sull’arretramento della sinistra nei paesi industrializzati e infine sul dovere di non affossare gli ideali di libertà, fraternità e uguaglianza sanciti dalla Rivoluzione Francese. Impietoso il ritratto che Luciano Canfora (professore emerito all’Università di Bari) fa della situazione politica attuale: dalle considerazioni sull’ideologia di Donald Trump, brutalmente razzista e egocentricamente conservatrice, a quelle sulla subalternità impotente dei paesi europei che vi si adeguano. La Francia di un Macron neoliberista e ondivago, l’Austria paranazista di Kurz, l’Inghilterra della Brexit e delle barriere a Calais, l’Ungheria e la Polonia oscurantiste e discriminatorie, fino alla nostra Italia, vassalla degli Usa e prona al nuovo strisciante fascismo. Analizzando il quale, si constata la straordinaria abilità della nuova destra nel coinvolgere le masse con la combinazione di sciovinismo e promesse di welfare, amor di patria e disprezzo dello straniero. A questa astuta strategia manipolatoria, la sinistra non ha saputo opporsi, avendo perso qualsiasi rapporto di fiducia e rappresentatività con il popolo, e avendo abdicato all’ideale di una maggiore giustizia sociale in nome di una fittizia fedeltà a un’Europa guidata da “burocrazie non elettive”, tese a difendere gli interessi economici delle nazioni più forti e del capitale finanziario internazionale. “La partita appare dunque truccata su entrambi i versanti: l’ex-sinistra si è assunta il ruolo di puntello dell’élite sedicente europeista; il parafascismo leghista e lepenista si propone come paladino del ‘popolo’, mescolando torti e ragioni”.

Nel libro si fanno esplicitamente nomi e cognomi di chi mette in atto o affianca l’operazione antidemocratica in Italia: non solo, ovviamente, degli attuali detentori del potere, ma anche di coloro che hanno spianato la strada alle politiche anti-migratorie (Gentiloni e Minniti), e dei giornalisti e columnist acquiescenti (soprattutto all’interno dei nostri due maggiori quotidiani). L’indignazione diventa vibrante quando si commentano i programmi criminosi e scellerati di un certo capitalismo internazionale: “la delocalizzazione verso luoghi dove la forza-lavoro è trattata e retribuita in modo semi-schiavile; la diffusione di tale rapporto di dipendenza anche in aree dell’Europa meridionale e del Nord Africa; e la complicità di grandi gestori e utenti del narcotraffico e della tratta di esseri umani con il sistema bancario-finanziario”. Fallita ogni utopia egualitaria e rivoluzionaria vagheggiata dalla visione eurocentrica del primo marxismo, al vecchio continente non rimane altra prospettiva che una resistenza etica, basata sul proprio patrimonio culturale e sui valori umanitari affermati nel 1789: “Gli uomini nascono e restano  liberi e uguali”. La spinta all’uguaglianza ribadita da tutte le rivoluzioni succedutesi dall’antichità (anche se ciclicamente i loro esiti risultavano inficiati da nuove risoluzioni reazionarie) ci ha insegnato che la storia non si ferma, ripetendosi in termini diversi ma sempre nella direzione di un progresso ineludibile e irrinunciabile: “Nessun ritorno è davvero un ritorno al punto di partenza”. Ogni cambiamento introduce infatti “modificazioni molecolari nell’esistenza di tutti. Esse penetrano nel costume, nella mentalità e, una volta acquisite, difficilmente si perdono”.

Luciano Canfora (dopo aver bollato come inconcludenti e velleitarie molte posizioni ecologiche, religiose, sociali nate nell’utlimo mezzo secolo) si dice convinto che l’umanità possa evolversi solo favorendo un’alfabetizzazione di massa, che renda consapevole ogni individuo, gradualmente e singolarmente, dei suoi diritti: al lavoro, alla salute, alla casa, alla cultura, a un equo trattamento economico, alla libertà.

 

© Riproduzione riservata                   «Il Pickwick», 29 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CANOZZI – DE PIETRO

MARIA PAOLA CANOZZI, SETTEMBRE SAREBBE UN BEL MESE – MARCO SAYA, MILANO 2014
ANNAMARIA DE PIETRO, RETTANGOLI IN CERCA DI UN PI GRECO – MARCO SAYA,
MILANO 2014

Per le edizioni milanesi di Marco Saya, sono usciti recentemente due volumi al femminile, il primo di narrativa, il secondo di versi, scritti rispettivamente da Maria Paola Canozzi e Annamaria De Pietro.
In un paesino collinare dell’alta Toscana, lussureggiante di vegetazione selvatica e di coltivazioni curate, popolato da ogni specie di animali (terrestri, fluviali, celesti), è ambientato il primo di questi volumi, breve romanzo ecologista della scrittrice fiorentina Maria Paola Canozzi. «Questo è un autentico piccolo paradiso, non a caso si chiama Valbenedetta. Per essere perfetto gli manca solo che tornino le mucche e le pecore a pascolare nei campi. E che spariscano i cacciatori».
La protagonista del racconto, alter ego dell’autrice, è una signora che professionalmente si occupa di restauro, amante della natura e dell’arte, animata da una risentita e vigile coscienza civile e ambientalista, «vegetariana quasi vegan»: trascorre l’estate nella vecchia casa di campagna dei nonni, e il resto dell’anno a Firenze. Nelle settimane di vacanza si trasforma in una sorta di savonaroliana giustiziera delle violenze e degli abusi sugli animali, perpetrati da ottusi e crudeli bracconieri e uccellatori, e vilmente tollerati dall’amministrazione comunale e dal resto della popolazione. Valbenedetta «è un paese di gente che alza le spalle», insensibile nei riguardi di cani, cinghiali, uccellini e scempi naturalistici. La villeggiante pasionaria si incarica di far fuori i più brutali cacciatori simulando maldestri incidenti, e la sua ferocia punitiva lentamente si espande anche a diverse, oltraggiose situazioni urbane. Arriva così a liberare i maiali trasportati sadicamente in camion-mattatoi, e a denunciare le sevizie inflitte alle aragoste durante le feste natalizie cittadine, in una Firenze divenuta invivibile preda di traffico, turisti incivili, indifferenza culturale. La narrazione alterna con ironia ed eleganza episodi surreali e comici ad allarmanti dati informativi sul suicidio a cui il genere umano si sta precipitosamente votando, attraverso l’inquinamento, la corruzione, e ogni tipo di comportamento individuale egoista e distruttivo nei confronti dell’ambiente e degli animali. Settembre sarebbe un bel mese, se non si aprisse la stagione dello sport più feroce e inutile: la caccia. A ciascuno di noi si rivolge l’appello indignato dell’autrice perché si ponga fine a questa barbarie impunita.
Nel secondo volume preso in esame, la poesia di Annamaria De Pietro costituisce un riuscito esempio di come anche l’inflazionato e disinnervato esercizio della scrittura in versi possa trovare nuova, originalissima linfa dal meditato connubio di cultura, mestiere, ironia, intelligenza. In più di trecento quartine, talvolta «caudate scodinzolanti», severamente ligie alla più collaudata tradizione letteraria (endecasillabi, rime ABBA, ABAB…), l’autrice elabora un suo «laboratorio malcerto» di esplorazione esistenziale su tutti gli argomenti possibili, dello scibile e dell’ignoto: dai sentimenti, ai ricordi, agli oggetti, alla storia, alla scienza. Nel tentativo di far quadrare il cerchio, di individuare il grimaldello di un pi greco che riesca a dare significanza al «rettangolo inesatto» del nostro vivere. Quartine di non facile lettura e non subitanea comprensione, giustificate spesso più da assonanze, ritmi, analogie visive che dalla coerenza di una logica interpretativa: e a questa difficoltà sembra voler soccorrere la poetessa con un commento (differenziato anche graficamente) posto in calce a ciascuna di esse. Glossa che talvolta risulta più fuorviante e immaginosa della stessa poesia, con l’intenzione esplicita di sconcertare il lettore, obbligandolo a fermarsi, a rimeditare, a trovare da solo una qualche illuminazione che lo aiuti a penetrare il significato – fulmineo e nascosto – che si cela nella lapidarietà, gnomica, sentenziale, dei versi. «Un’epitome del cosmo» orgogliosamente provocatoria, quella che propone Annamaria De Pietro, sfidando un eccesso di intellettualismo, un’esibizione quasi compiaciuta di perfezione stilistica, spavaldamente e sarcasticamente controcorrente, come in questa «dichiarazione di poetica»: «Non vada cinta della veste sciatta / buona articolazione d’ossi e vene – / ne segua augusta veste le serene / corrispondenze per misura esatta». Forse più accattivanti risultano le quartine in cui l’autrice si diverte, seriosa ma ammiccante, a prendersi in giro, prendendoci in giro tutti, come in questo esempio: «Non so da quale parte della porta / io stia, se quella fuori o quella dentro. / Fra le maniglie la distanza è corta / e, quando l’attraverso, esco? – entro?» O in questo: «Teme che le si strappi il cuore a brani, / ma dove mettere i brani ordinati, / poi, se i cassetti sono già stipati / e se lo strappo le strappò le mani?», a cui segue l’ironico commento: «Il mio libro di economia domestica delle medie recitava: ‘Un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto’. Perché hanno abolito quella materia così pragmatica, così profittevole?» In favore dell’informatica, si suppone.

 

«Leggendaria» n. 111, maggio 2015

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CANTARELLA

EVA CANTARELLA, SOPPORTA, CUORE… – LATERZA, BARI 2013

La scelta di Ulisse è stata, come si sa, una scelta di libertà. Una consapevole e coraggiosa capacità di costruire il proprio destino, non solo assecondando il volere degli dei, ma seguendo con intraprendente intelligenza il cammino indicatogli dai propri sentimenti, e dai propri desideri.
La storica Eva Cantarella introduce il lettore, in questi nove documentati e interessanti brevi saggi, nel mondo omerico, e nelle vicende del suo eroe antonomasico, con l’intenzione di esplorare «il lungo, difficile, a volte tortuoso percorso che ha portato alla nascita dei concetti di colpa e responsabilità morale, e poi giuridica».

Concetti che non sono nati casualmente, ma sono il prodotto di un secolare evolversi della coscienza individuale e sociale, a partire dal X secolo a.C. fino ai giorni nostri. Un cammino che non si è ancora concluso.
Ulisse è stato un eroe complesso, vissuto all’interno della “cultura della vergogna”, cioè in una società in cui il rispetto delle regole non si ottiene attraverso l’imposizione di regole (che se infrante scatenano angosciosi complessi di colpa, come nelle culture di tradizione cristiana), ma proponendo modelli positivi ed eroici di comportamento cui adeguarsi, che se non vengono raggiunti fanno incorrere nel biasimo sociale. Non dimostrarsi all’altezza del modello priva dell’onore, e l’onore consiste nel difendere la propria reputazione. Valori riconosciuti nell’età omerica erano il coraggio, la forza fisica, la bellezza, l’abilità di parola, l’astuzia, l’autocontrollo. Tutte qualità che Ulisse possedeva al massimo grado.
Eva Cantarella ripercorre la storia omerica attraverso gli episodi che hanno sottolineato in Ulisse la capacità di costituire un modello (lo stratagemma del cavallo di Troia, l’accecamento di Polifemo, la strage dei Proci…), suggerendo attraverso quali passaggi graduali il mondo occidentale ha elaborato i concetti di giustizia, responsabilità morale, consapevolezza della propria individualità.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Sopporta-cuore-Eva-Cantarella.html                30 dicembre 2015

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CAPODAGLIO

ENRICO CAPODAGLIO, DANTE CREATURALE – GRAFICHE FIORONI 2021

“La Commedia è un sistema artistico e immaginativo in cui tutto si corrisponde e in cui tutti i conti sulle cose dette tornano, sempre restando all’interno del sistema. Intendo che, come nel sistema geometrico o filosofico, una volta accettati i principi, gli assiomi, le definizioni, tutto il resto consegue in modo coerente di necessità”.

Così afferma il Professor Enrico Capodaglio nel volume Dante creaturale, insistendo sulla logica coesione della complessa architettura del poema, nonostante le frequenti ripetizioni e incoerenze narrative in cui incorre il sommo Poeta. Ma aldilà di questa straordinaria e calibrata forma costruttiva delle tre cantiche, per l’autore del volume risulta originale e audace soprattutto la capacità di un uomo del Trecento di confrontarsi con temi e concetti poco usuali, senz’altro eterodossi nel panorama letterario, filosofico e teologico della cultura a lui coeva.

I primi due saggi sono dedicati infatti alla rappresentazione della figura femminile nella Commedia, il terzo e quarto al francescanesimo dantesco. Che immagine si ricava del ruolo, della sensibilità, del fascino muliebre attraverso le parole di Dante? “Nell’opera poetica tutto ciò che è ‘animico’, spirituale, interiore tende sempre a convertirsi del resto in fisico e in visibile”. Disincarnate eppure pienamente donne sono Francesca, nel V Canto dell’Inferno, e Beatrice nel Paradiso. Esistono ovviamente tante altre figure femminili nel poema: bibliche e mitologiche, caste e lussuriose, fedeli e spergiure, umili e regali, sante e peccatrici.

Tutte incarnano “il conflitto tra amore passionale e cristiano, tra ragione e sentimenti, tra voglia di felicità e necessità di una disciplina ascetica, tra regole matrimoniali, religiose, sociali, e innamoramento, tra libertà poetica e dogma, tra pietà e giustizia divina”. Ma Francesca e Beatrice si stagliano più di ogni altra nella loro nobiltà d’animo, generosità e profondità di sentimenti: appassionata la prima, celestiale la seconda, incastonate in endecasillabi indimenticabili: “questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante”, “dentro a li occhi suoi ardeva un riso / tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo / de la mia gloria e del mio paradiso”.

Enrico Capodaglio si dice convinto che lo spirito di Dante sia più francescano che tomistico, più legato alla vita concreta che a quella intellettuale, vicino al dolore e alla povertà sperimentate nell’esilio piuttosto che alla speculazione teologica. Nel poeta “si manifesta una più ampia coscienza del creato, della rivelazione di Dio nella natura, in ogni sua forma, così come della rilevanza della condotta morale pratica e corporale” rispetto a un’esistenza puramente intellettiva. La vicinanza emotiva di Dante al Santo di Assisi si svela soprattutto nell’interesse verso l’umanità comune, per il mondo delle piante e degli animali (un capitolo del libro è proprio dedicato alla presenza degli animali nella Commedia). Nel canto XI del Paradiso si trova il famoso elogio di Francesco pronunciato da Tommaso, che di lui loda “lo slancio mistico e irrazionale”, la terrestre solidarietà con gli ultimi, i miti, gli indifesi: “ Ma perch’io non proceda troppo chiuso, / Francesco e Povertà per questi amanti /prendi oramai nel mio parlar diffuso. / La lor concordia e i lor lieti sembianti, / amore e meraviglia e dolce sguardo / facieno esser cagion di pensier santi”. Il dolce sguardo e i pensieri santi di Francesco sono rivolti alle creature più piccole come alla bellezza del cosmo: uguale è in Dante l’amore e l’attenzione verso ciò che è minimo e ciò che è sublime.

Il volume di Enrico Capodaglio è corredato da due incisioni originali di Laura Martellini e Agostino Cartuccia.

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Dante-creaturale-Capodaglio21 settembre 2022

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CAPRIOLO

PAOLA CAPRIOLO, UNA LUCE NERISSIMA – MONDADORI, MILANO 2008

Un libro inquietante, questo di Paola Capriolo, scritto con l’eleganza e il rigore stilistico, con la discrezione e il gusto per l’approfondimento culturale che sempre contraddistinguono questa autrice, riservata e non abbastanza apprezzata dal nostro establishment letterario. Più che un romanzo, sembra di leggere una lunga e misteriosa fiaba, con motivi che intrecciano storia e mito, religione e leggenda: ambientata in un’epoca atemporale, forse del tardo impero romano, o durante un qualche pogrom medievale, o addirittura nel novecento delle persecuzioni naziste, e in un luogo dai confini indefiniti, in una capitale mediterranea o orientale, e “nel labirintico intrico del ghetto, avviluppato intorno alla sinagoga, le cui casupole dai muri sghembi si contendono con accanimento il poco spazio disponibile crescendo quasi l’una sull’altra come in una disordinata boscaglia”. In questa zona circoscritta e oscura, sovrasta le altre costruzioni la sinagoga, abitata da un anziano rabbino circondato da discepoli appassionati interpreti delle Scritture, e accudito da una giovane e delicata servetta, Miriam. Nella soffitta della sinagoga è invece rinchiusa “una creatura incompleta, appena sgrossata, una mente troppo rozza e informe per poter riversarsi nei preziosi, delicati recipienti delle parole”. Si tratta di Yossel, gigantesca presenza semiumana creata dal rabbino, forza mostruosa capace di incredibili trasformazioni ed esplosioni: “nato non dal ventre di una donna, ma da un mucchio d’argilla scavato nel greto del fiume”. Paola Capriolo non parla esplicitamente del Golem, ma suggerisce nella descrizione di questo enigmatico personaggio, capace di suscitare negli altri solo compassione e orrore, il rappresentante inconsapevole di una giustizia ingiusta e violenta, il tramite innocente e bestiale tra l’umanità e il divino, il vendicatore del potere sopraffattore, ma anche l’assassino che travolge nella sua autodistruzione la rovina di tutto il mondo che lo circonda.

IBS, 21 AGOSTO 2013

 

RECENSIONI

CAPRIOLO

PAOLA CAPRIOLO, MARIE E IL SIGNOR MAHLER – BOMPIANI, MILANO 2019

“Il signor Mahler e Marie non hanno mai potuto conoscersi, perché appartengono a due diverse sfere dell’essere: rispettivamente, la realtà storica e l’invenzione letteraria”, così Paola Capriolo afferma nella nota finale del suo ultimo libro Marie e il Signor Mahler, pubblicato da Bompiani. Ricostruzione storica e immaginazione si intrecciano nel romanzo, in cui l’autrice ripercorre “con mano lieve e luminosa… la figura immensa e piena di ombre” del musicista boemo (1860-1911). Le vicende biografiche del compositore sono state ricostruite attraverso i suoi scritti, il diario della moglie Alma, le testimonianze della stampa dell’epoca e gli approfonditi studi critici susseguitisi nell’arco dell’ultimo secolo: Paola Capriolo si è concessa qualche minima licenza narrativa, nel comporre il testo che appare subito al lettore come “il frutto di un lungo amore”, un omaggio sentito e riconoscente a Gustav Mahler.

La co-protagonista è Marie, personaggio totalmente inventato: nipote quindicenne dei proprietari del maso dove il Kapellmeister trascorse le ultime tre estati della sua vita, era stata incaricata dagli zii di accudirlo nella casetta di legno in mezzo al bosco in cui il Maestro aveva scelto si rinchiudersi per comporre senza essere disturbato Il canto della terra, la Nona e la Decima Sinfonia. A Toblach, oggi Dobbiaco, in Alto Adige, nel silenzio delle montagne tirolesi, tra gente semplice e priva di inquietudini intellettuali. Gustav Mahler era diverso da tutte le persone che Marie aveva incontrato: non solo per il genio riconosciuto universalmente, o perché risiedeva in eleganti dimore tra Vienna e New York, o per la sua origine ebraica considerata con diffidenza, ma soprattutto perché “era qualcuno che, mentre viveva tra loro, seguitava ad appartenere nel suo intimo a un’altra, sconfinata dimensione”, preclusa a chiunque. Forse non a lei, però, che gli si avvicinava con docile devozione, comprendendo e giustificando i suoi misteriosi silenzi, le improvvise rabbie, le malinconiche meditazioni. Alla ragazza il Maestro confidava la miseria dell’infanzia, i numerosi lutti familiari, le fatiche di un’affermazione pubblica troppo spesso contestata, gli intrighi dell’ambiente musicale austriaco e americano. Le insegnava ad apprezzare la novità delle sue composizioni, con le loro discordanze, gli attriti, i contrasti capaci di urtare e scandalizzare il pubblico più tradizionale, convinto che la musica dovesse esprimere insieme rassegnazione e speranza, morte e resurrezione, dolore profondo e assoluta gioia. Si faceva accompagnare nelle passeggiate che il suo cuore malandato affrontava con passo lento, interrotte da frequenti pause per osservare le nuvole in cielo, i piccoli funghi che spuntavano sui sentieri erbosi, da non calpestare. Marie seguiva le sue parole con una fedeltà stupita e attenta, e un’indulgenza maggiore di quella dimostrata dalla giovane e bellissima moglie di lui, Alma, sinuosa nei movimenti e volitiva nelle azioni, che talvolta non riusciva a celare l’insofferenza per l’esibita nevrastenia del marito. Mahler adorava la sua sposa, e così ne parlava a Marie: “Io sono tutto dubbi, lei, per volontà del destino, tutta certezze. Per me la bellezza è nostalgia, per lei tranquillo possesso”. Il Kapellmeister e la quindicenne, tanto lontani per età ed esperienza, “cercavano rifugio l’uno nell’altra con uno slancio istintivo in grado di superare tutte le differenze di cultura e di ceto”: lei, ingenua adolescente, lui artista tormentato e famoso.

Paola Capriolo ci accompagna nella quotidianità laboriosa della ragazza, tra i lavori domestici e agricoli, nelle feste paesane, nei litigi col cugino Andreas già destinatole come sposo, e insieme ci fa seguire passo dopo passo la composizione del capolavoro mahleriano Das Lied von der Erde (che “deve svanire senza concludersi, finire senza finire… perché anche la morte deve essere eterna, o non potrebbe esserlo la vita”) e delle due ultime sinfonie, in cui grottesco e macabro si confondono con la nostalgia del cielo, e le scomposte dissonanze si addolciscono in un’indicibile armonia.

Gustav Mahler, essendosi votato totalmente alla musica (“dolcissimo e amaro calvario”) si interrogava spesso sulla propria fede e missione di compositore e direttore d’orchestra: “Perché proprio musica, se la musica non è meno effimera dei fiori di campo, del fiato degli animali, di un rintocco di campane la cui eco svanisce a poco a poco nel cielo del mattino? Appunto a queste cose effimere, sin dall’inizio, io mi sono sforzato follemente di dare voce, quasi mi illudessi di sottrarle alla morsa del tempo, mentre in realtà non facevo altro che consentire alla morte, alla caducità, di insinuarsi sempre più nel cuore della mia opera”. Il toccante addio alla vita dell’Adagio della Nona Sinfonia, composta nel capanno di Toblach, era già un presagio della morte del compositore, avvenuta a Vienna nel 1911, un anno dopo aver ottenuto un tributo entusiasta alla Neue Musik-Festhalle di Monaco per l’esecuzione dell’Ottava, interpretata da un organico di mille elementi. In platea, aveva applaudito il Maestro un pubblico d’eccezione: da Henry Ford a Thomas Mann, da Richard Strauss ad Arnold Schönberg, da Stefan Zweig a Max Reinhardt, da Siegfried Wagner alla principessa Thurn und Taxis. Ma Mahler rimaneva ai propri occhi “Uno che è tre volte straniero: come boemo in Austria, come austriaco in America, come ebreo in tutto il mondo…”. Estraneo al mondo, vicino però alla candida sensibilità di una ragazzina tirolese, forse la più sincera nel piangerne la morte, appresa con dolore dai compaesani e dal giornale in cui tenacemente cercava testimonianze dei successi internazionali del suo illustre amico.

Paola Capriolo ha reso omaggio, con questo romanzo, al rapporto inusuale e profondo che si può instaurare tra due anime, esprimendo inoltre un doveroso sentimento di gratitudine alla grandezza di chi con la sua musica ha reso il mondo migliore. Gratitudine che condivido anch’io, quando ogni cinque anni mi reco a Vienna per posare tre rose bianche sulla tomba del cimitero di Grinzing.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 11 settembre 2019

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CAPRONI

caproni

 

APPUNTI SULLA POESIA DI CAPRONI – 1976

 

Per parlare della poetica di Giorgio Caproni, ho scelto Il Terzo libro e altre cose, un volumetto edito da Einaudi nel ’68, che ha il pregio di presentare una scelta di versi limitata ma significativa, e, secondo l’autore, indicativa della direzione della ricerca degli anni dal ’44 al ’54, «anni di bianca e quasi forsennata disperazione».
Il Terzo libro è tratto dalle raccolte del ’56, ’59 e ’65, e comprende otto distinte sezioni. Nella prima parte, costituita da I due sonetti e da Gli anni tedeschi (quest’ultima sezione divisa ne I lamenti e Le biciclette), una cosa colpisce subito: l’essenzialità (l’unicità) del tema, che è quello dell’incubo ossessivo nato dal contrasto vita-morte, in cui la presenza di una realtà oscura e tremenda, quella della guerra, costringe l’esistenza quotidiana e la poesia stessa. Qualsiasi presenza di vita – il tram che passa, gli animali, «le giovinette così nude e umane / senza maglia sul fiume», la stessa figura della donna amata (il suo passo, «le ariose collane») – è insidiata da voci di morte, di assenza, di distruzione. L’ambiente fisico è sempre raggelato in una rappresentazione invernale («l’inverno lungo» e il freddo sono i protagonisti di questi anni genovesi). La realtà è fatta di vapori di bar all’alba, di venti che premono nei portoni, di ululati di cani, di pavimenti di pietra, di «tempo di pruni incolori e bruciaticcio», colori grigi che spengono qualsiasi impeto, qualsiasi «vano desiderio del sole», in un ripetersi assiduo di medesime immagini poetiche (il vento, il cane, le porte, il freddo; sassi, gelo, brina, lamenti). E questa scarnità di paesaggio poetico viene sottolineata dalla sapiente utilizzazione degli aggettivi, anch’essi ripetuti e ossessivi (ermo, deserto, distrutto, soffocato, acre, arido: alcuni di impianto e reminiscenza leopardiana. Così scolpiti, e a volte vibranti di sottile arcaicità). Albe indimenticabili, quindi, echi di disastri – fucilazioni lontane, esecuzioni – nei rumori quotidiani. Attacchi pregnanti che hanno nella loro arida luminosità qualcosa di mediterraneo, di gitano, di caldo («Le carrette del latte ahi mentre il sole / sta per pungere i cani», «Una chitarra chi accorda in un bar») e finali freddi di nebbia, di “tremori” e “tremiti” nordici. La guerra «penetrata nell’ossa» ha dissolto e impedito ogni umana e giovane speranza di vita, e resa «senza scampo ogni fede».
Eppure in questa piattezza invernale e in questa distruzione, il poeta (che si interroga – ed è la domanda di sempre – sull’opportunità e l’onestà di fare poesia: «Pastore di parole, la tua voce / che può?») riesce ancora a trovare qualcosa da dire, qualcosa per cui parlare, a cui aggrappare l’immaginazione come ultima salvezza:

Io che via / via sto calando nell’anno che inclina / già alla sua fine, in una conceria / nauseabonda perché trovo la mia / voce – trovo campane d’acqua, e in cima / ai rami assiderati tanta brina?

E tu ancora / chiuso nella tua stanza, inventa l’erba / facile delle parole – fai un’acerba / serra di delicato inganno, all’ora / ch’ opprimendoti viva a un tratto serba / per te il lamento che il petto ti esplora.

Più complessa delle precedenti è la poesia Le biciclette, composizione in otto strofe di 16 versi endecasillabi dedicata a Libero Bigiaretti. Canzone delicata di rimpianto: «Le biciclette umide» dal «tenue ronzio di raggi e gomme» sono nella loro corsa mattutina «sui bianchi asfalti / al bordo d’un erba millenaria» odore di giovinezza, «sale che corresse la mente», «fughe con le ali!», «nutrita / spinta di giovinezza nella calda / promessa». Ma questa acerba incoscienza giovanile è ormai «tempo diviso», si è fatta coscienza consapevole della fuga del tempo, del disastro che avanza: è l’alba in cui il poeta vede «il sole frantumarsi per sempre», in cui «fu fulminato il suo giorno». Fantasia interrotta, «scialba geografia del mondo»: qualcosa è intervenuto a cambiare la scena. E’ stato «il corpo acido» di Alcina, le sue ginocchia «umide e bianche»? Questa donna che penetra impietosa («acqua appena squillata») diventa «la scoperta improvvisa d’una spinta / perpetua nell’errore», «la china dove il freno si rompe». Oppure è la guerra, per cui «i bicicli ronzano funesti» e «l’uomo s’intana nella notte»? La storia diventa «sommersa», poi «travolta». E’ Alcina stessa, la guerra, un suo presagio? O ne è lo scampo estremo? Comunque, al «corno di guerra» scompaiono Alcina e le biciclette: qui, però. Da noi. O nel cuore del poeta. Altrove, qualcuno pedala ancora, altri visi scolorati promettono nuove illusioni, e il mare ancora rabbrividisce, in una storia che non è davvero «conclusa».
Le seguenti tre sezioni del libro (Stanze della funicolare, All alone e Il passaggio d’Enea) hanno tutte, di nuovo, lo sfondo genovese. Ma uno sfondo quanto mai evidenziato, vivo, con caratteri più personali. Non è la solita città che si offre come compagna alle prime esperienze giovanili, partecipa materna alle prime delusioni: oppure, è anche questo. E’ questo e altro, è:

La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale, / e, su dal porto, risucchi di vita / viva fino a raggiungere il crinale / di lamiera dei tetti

E’ un po’ la Trieste di Saba, una donna da amare, pendii erti, uomini frettolosi e uomini miti, prostitute e ragazze che si bagnano al mare:

e al mare / reca ragazze il cui sciame discende / fresco le scalinate – arde di chiare / maglie la lana e l’acuta profluvie / di capelli e di risa, e gli arrossati / calcagni acri nei sandali tra esuvie / di conchiglie ristora e vetri.

Queste tre sezioni sono costituite ciascuna di tre poesie: l’introduttiva (Interludio o Didascalia), quella centrale, più vasta (Versi) e la finale (Epilogo, che nella prima parte prende il titolo di Sirena). Ma analizziamole singolarmente.
Stanze della funicolare: già nel titolo quelle “stanze” evoca un tipo di poesia di salde e antiche tradizioni nella nostra letteratura. Si tratta effettivamente di stanze di sedici versi, in cui, come nel precedente Le biciclette e nel seguente All alone, ogni stanza termina con le stesse parole, che in questo caso ribadiscono l’impossibilità, l’inutilità, l’incapacità di «chiedere l’alt», di invocare chiarezza, di aspettare una risposta, mentre la funicolare sale, nella notte, prima percorrendo un tunnel, poi all’aperto. E sotto l’immagine poetica è facile scorgere l’evidente analogia con l’epoca stessa del narratore, il nero periodo post-bellico, in cui è necessità procedere al buio, guidati da una tenue illusione di una luce finale che dissipi ogni oscurità. Così dalla domanda iniziale «Una funicolare dove porta, / amici, nella notte?», non si arriva a nessuna risposta, se alla fine c’è

nebbia che acqua / (solo acqua di nebbia) ha nella nebbia / molle del sole in cui vana scompare / l’arca alla vista.

L’arca («la barca a fune») era già all’inizio la funicolare, un mezzo di salvezza, una scialuppa cui aggrapparsi, eppure anch’essa ondeggiante, insicura, pesante su

quella pigra / corda inflessibile che via trascina / de profundis gli utenti e li ha in balia / nei sobbalzi di feltro!

La luce che all’uscita dal tunnel disorienta («dentro gli occhi / d’improvviso feriti»), la brezza che scompiglia i capelli, e «un’urbe / cui i marciapiedi deserti già i primi / fragori di carrette urgono», sono tutte immagini dirompenti, che squassano la «lieve nausea», che coi loro colori rompono la monotonia dell’attesa («a un tratto al sole / ahi quale orchestra frange fresca il mare / col suo respiro di plettri»). Ma chiedere l’alt è sempre impossibile (c’è buio, c’è caos, fugge l’ora: scuse tenui, appigli discutibili. Sembra quanto basti a rimandare, a dilazionare una probabile resa dei conti. C’è il rifugio nella poesia che offre la città, lo scampo di una traversata in funicolare quasi inghiottiti tra altre presenze, e sopra i primi brulichii di esistenza). La minaccia di una realtà oscura è però sempre incombente («la mano corallina che saluta / trasparente di sangue»): i casamenti grigi di un rione popolare, «la frigida erbata / fra il pietrisco e i bucati», per cui il poeta si chiede «o forse è l’ora / fra i panni scialbi di chiedere l’alt? // Forse qui è l’urto…Ma no!».
Quindi, la funicolare avanza, «dolce», «bagnata e celeste», in una pioggia minuta che rinfresca l’aria, che apre il petto al viaggiatore. Avanza fino ad approdare finalmente alla banchina, al lungomare dove si stagliano i «magri bar» di cui «una donna che in ciabatte / lava la soglia». E’ la fine, o l’inizio, l’erebo in cui inoltrarsi, in un’alba che «non ha calore di figure e di suoni». E la donna «che sciacqua / i nebbiosi bicchieri» è Proserpina forzata a restare in quell’inferno di cui conosce ormai ogni andito, è la stessa Proserpina di Interludio, Alcina de Le biciclette, Euridice del Passaggio d’Enea. Presenza ingiustificata ma giustificante, da lei si aspetta il gesto che illumina («la mattina / è lei che apre alla nebbia»), anche se compiuto con ottusità inconsapevole e incolpevole («e nebbia ha / nella cornea la donna che in ciabatte»).
Passando alle tre poesie di All alone si rimane però nello stesso ambito: sempre Genova che incombe. Fondamentale nella Didascalia e nell’Epilogo, l’iniziazione del giovane alla vita:

Era un portone in tenebra, / di scivolosa arenaria: / era, nell’umida aria / promiscua, il mio ingresso a Genova.

E notiamo qui come Genova si sovrapponga nella mente del poeta alla ragazza che per prima l’ha “iniziato” all’amore («e a aprirmi / veniva sempre (impura / e agra) una figura / di donna lunga e magra / nella sua veste discinta»): con evidenti – per quanto magari non meditati, inconsci – richiami sessuali (vedi il «portone in tenebra, di scivolosa arenaria» in cui entra; l’ «andito buio e salino», ecc.). Eppure Genova ritrovata nella sua pulitezza, nel suo candore marino ritorna a lui solo dopo che egli ha respinto l’amore “impuro” oltre la porta stretta in cima alle scale, «la porta verde da poco tinta»:

e, solo, nella tromba / delle scale, indietro / mi ritorsi, la tomba / riaprendo della porta / già scattatami dietro. // Che fresco odore di vita / mi punse sulla salita! / Ragazze ormai aperte e vere / in vivi abiti chiari / (ragazze come bandiere, / già estive, balneari)

Sempre Genova, dunque, e sempre il mare, che freme di una esistenza quasi animale:

e il mare / io lo sentivo bagnare / la mia mano

il nero umidore del mare / o il fiato della mia compagna. // Avevo infatti una cagna

I Versi centrali della raccolta sono ancora stanze strutturate come le precedenti: questa volta però non sono le battute finali a costituire la cadenza ripetuta a ogni strofa. Qui è l’inizio che si ripete sempre uguale: «Uomini miti…», storie piccole di uomini innocui che tornano a casa la sera, immersi in una solitudine patetica in cui unici rumori sono:

un umano / fragile strappo di catarro /…i tondi scalzi dei topi // … i flebili docili suoni / d’insetto che la lunga serratura / d’angelo ha nei suoi scatti // … il colpo del portone / …ovattato di polvere

Rumori domestici, che sottolineano l’immobile silenzio che pervade l’ambiente. Uomini che per farsi compagnia modulano sull’ocarina «una leggera / Napoli d’acqua», e che «cauti una Venere / tolgono dalla borsa», la foto di una ragazza (e in quel “cauti” c’è tutto l’uomo mite, nella sua timidezza, che si teme spiato anche nella sua stanza; che vigila fedele su un sentimento); creando così un’atmosfera in cui fingere immagini d’amore, lasciare campo a fantasie:

via trasporta a Margellina / fra collane di risa e di coralli / salini, sulle barche ove la prima / ragazza scalza del cuore ha di falli / tinnuli intorno al collo nudo una / mandolinata celeste.

Tutta qui, la loro vita, ad accarezzare amori nuovi che non vengono, fino a quando torna l’ora di riconsegnarsi al lavoro, ai loro «minimi traffici». Modesti, sostituibilissimi, senza importanza:

Uomini miti che di soprassalto / sobbalzati dal letto, con la borsa / sgusciano nell’albume – di soppiatto/ scantonano dai vicoli, e in rincorsa / scandendo il primo tram la cui campana / già ha squillato sui selci, parlottando / soli raggiungono l’area lontana / dei loro minimi traffici.

Ancora dal finestrino del tram «battono vanamente altra speranza», si illudono sempre di un amore intravedendo una figura: né si arrendono alla loro mitezza, anche se «la loro stanza / sanno che nella notte umida è». O proprio per questo. Così All alone, alla luce di questa parte centrale, si spiega come un insistere sulla solitudine che è di tutti (di un ragazzo in una città amica-nemica, della donna che è impura ma si lascia amare, degli uomini miti) e che il mare raccoglie, annacqua, nutre.
Credo che la sezione Il passaggio d’Enea (anch’essa suddivisa in Prologo-Versi-Epilogo) fosse parte centrale nel libro omonimo, per dirla con Caproni, «ben più folto». Il significato fondamentale che assume agli occhi del poeta questo mitico “passaggio”, è quello del viaggio verso una salvezza, che non si sa bene quale sia e quanto, in effetti, salvi; è il viaggio verso una risposta da tanto attesa e cercata. Questo mitico Enea che fugge portando in salvo padre e figlio, che cerca uno scampo da Troia che brucia, che brama un rifugio sicuro:

Enea un pontile / cerca che al lancinante occhio via mare / possa offrire altro suolo – possa offrire / al suo cuore di vedovo (di padre, / di figlio – al cuore dell’ottenebrato / principe d’Aquitania), oltre le magre / torri abolite l’imbarco sperato / da chiunque non vuol piegarsi

è un po’ tutti gli uomini costretti a un esilio non volontario, a lasciare un luogo certo e caro per una meta vaga e insicura; è l’emigrante che fugge per necessità, non Ulisse che viaggia per “canoscenza”. Questo Enea può essere quindi anche il Caproni dell’epilogo, che in «una sera di tenebra» si allontana da Genova («nel sangue i miei rancori / bruciavano, come amori»), verso Pegli o Sestri, verso un appiglio che lo salvi e che è, ancora una volta, il mare. Eppure, anche il raggiungimento della meta non riesce a tradursi in meritata consolazione e calma:

ma sentivo / già prossimo ventilare / anche il respiro del mare. //…Avevo raggiunto la rena, / ma senza avere più lena. / Forse era il peso, nei panni, / dell’acqua dei miei anni.

Questo Enea è anche tutti «gli ammotorati viandanti» che di notte, illuminando coi fari la strada, si dirigono, in lunga processione speranzosa, al mare, in un uguale desiderio di salvezza, di riscatto. Di notte, i fari giocano scherzi di luce-ombra sul soffitto («di lunari / vampe fanno spettrali le ramaglie / e tramano di scheletri di luce / i soffitti imbiancati»), le gomme delle macchine scivolano sull’asfalto, producono «lievi stritolii / lucidi del ghiaino che gremisce / le giunture dell’ossa», le foglie secche, fuori, scricchiolano, e tutto insomma contribuisce ad aumentare un senso di mistero, di paura o sconforto, che si veste di immagini spettrali: «silenzio mortale», «il rumore / di tenebra, in cui il battito del cuore / ti ferma in petto il fruscio delle streghe!»,

al paesaggio / di siero, lungo i campi dei Cimmeri / del tuo occhio disfatto, riconosci / il tuo lèmure magro (il familiare / spettro della tua scienza)

Nell’avvampo / funebre d’una fuga su una rena / che scotta ancora di sangue

Ma alla fine, a Enea che vaga, alla processione di automobili che rombano verso le spiagge, a sé stesso che fugge Genova cercando un altro mare, una domanda crudele, spietata, impone la riflessione, l’indagine sulle cause, e l’umile confessione del fallimento:

che scampo / può mai esserti il mare (la falena / verde dei fari bianchi) se con lui / senti di soprassalto che nel punto, d’estrema solitudine, sei giunto / più esatto e incerto dei nostri anni bui? //…E, / con l’alba già spuntata a cancellare / sul soffitto quel transito, non è / certo un risveglio la luce che appare / timida sulla calce – il tremolio / scialbo del giorno in erba, in cui già un sole / che stenta a alzarsi allontana anche in cuore / di quei motori il perduto ronzio.

Le quattro poesie che compongono la sezione Sul cantino eseguono, secondo Caproni,

temi più leggeri e più personali, da accennare appunto sul cantino, quasi ad adombrare, chissà, che gli altri potrebbero essere i temi sulla Quarta corda: i temi di maggior pompa, o prosopopea, o importance.

La prima poesia risale agli anni ’40, ma la data non è precisata con esattezza: si rimane nel vago anche riguardo alla situazione che l’ha prodotta. Un soggiorno a Bari – quindi ancora in una città di mare e di gabbiani -, il padre malato, Caproni giovane e insofferente (o sofferente), di un’ansia inspiegabile: «il cuore sbigottito / in un silenzio inaudito //…Ma io ero da me via, / e di passaggio, a Bari»; il sentirsi altro da tutto, estraneo a tutto, rifiutato dalla città e dal suo cielo («piangevo in quell’albania / di gabbiani – di ali». La poesia (Albania, e se il titolo può significare un puro riferimento geografico, richiama anche l’alba, a ribadire un gioco di chiaroscuri e di colori, che rimane nella composizione l’intuizione più interessante) riprende certi temi e parole – ormai chiave – in Caproni: il cuore che “urla”, “gli squittii rotti”, la rima (baciata o alternata) sempre attentamente ricercata.
La seconda composizione, molto più lunga, è L’ascensore, ed è ancora un lamento per il tempo passato, per Genova, per il mare, per la madre morta, per il tempo che non è l’attuale, di Roma, con la moglie e i figli, con il lavoro adulto. La poesia era là (l’amore era là), là era il paradiso da raggiungere. Così:

Quando mi sarò deciso / d’andarci, in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto, nelle ore / notturne, rubando un poco / di tempo al mio riposo.

Un ascensore – come quello di allora di Castelletto – per salire (tornare) in paradiso. E questo paradiso è il luogo già visto, si sovrappone nell’immaginazione alla beata scenografia della giovinezza. Per salirvi, il poeta deve tornare bambino tra i bambini («Ci andrò rubando (forse / di bocca) dei pezzettini / di pane ai miei due bambini»), giovane accanto alla madre, in versi che sono tra i più belli del libro:

Con lei mi metterò a guardare / le candide luci sul mare. / Staremo alla ringhiera / di ferro – saremo soli / e fidanzati, come / mai in tanti anni siam stati. / E quando le si farà a puntini, / al brivido della ringhiera, / la pelle lungo le braccia, / allora con la sua diaccia / spalla se ne andrà lontana: / la voce le si farà di cera / nel buio che la assottiglia / dicendo: “Giorgio, oh mio Giorgio / caro: tu hai una famiglia”. // E io dovrò ridiscendere, / forse tornare a Roma. / Dovrò tornare ad attendere / (forse) che una paloma / blanca da una canzone / per radio, sulla mia stanca / spalla si posi.

La terza poesia, più tarda, è Il becolino, ancora una lirica di rimpianto e desolazione. Forse troppe lacrime e troppi tremori in certi versi di Caproni. Anche in questa:

Piangevo in una grande casa / piena di stanze morte // …Piangevo la patria mia / disertata, ed anche / piangevo la donna dalle anche / ladre // …Piangevo in costernazione / il giorno della trasmutazione. / Piangevo la latteria / dove con lei la mia anima debole // …Piangevo senza saper dire / il seme del mio morire.

E’ un dolore che non ha ragioni attuali e definibili, ma nasce da sintomi di oscuro avvenire, e coglie presagi sinistri intorno: «Scuotevano le impennate / violente, le ventate»; «Sentivo alla catena / abbaiare più forte / la cagna».
L’insicurezza e la tragedia di questi anni trovano altri penetranti e accorati accenni nell’ultima poesia di Sul cantino: A Giannino. Che è una poesia d’amore: «…perché il mio amore (il mio amore) / l’ho conosciuto tardi: / l’amore mio che stava ad aspettarmi / solo su una panchina». Incuriosisce la frequenza con cui Caproni inserisce nei versi ripetizioni parentetiche di brevi frasi o avverbi: credo che questa caratteristica – una novità di cui non mi tornano in mente precedenti nella nostra poesia – si metta sullo stesso piano dell’uso sistematico delle rime, della ripetizione regolare di intere strofe: cioè miri ad accentuare un ritmo della poesia, a “renderla musica”. Come certe ballate popolari in cui i ritornelli scandiscono il tempo, sottolineano gli spazi e le pause, così le liriche di Caproni che sempre narrano di fatti e situazioni intime, personali, suggerite piano al lettore, riescono attraverso questi accorgimenti (tecnici?) essenziali, a farsi più corali, più cantate e cantabili (dove l’aggettivo perde completamente il senso negativo che generalmente gli si attribuisce). In tal modo una poesia che è raffinata, che è squisita eleganza, sa diventare (anche) poesia “popolare”. Allora, questa tenerissima A Giannino è un esempio riuscito di musica in versi, e di immagini in versi (il tram vuoto, la brina, la ragazza sola che si scalda le mani col fiato): è una poesia di amore accennato, accarezzato col pensiero. Sembra una poesia di gratitudine e di stupore, per la vita buona.
Con l’ultima sezione del libro, Altre cose, scopriamo il nuovo Caproni (alcune poesie sono tratte dal Congedo del viaggiatore cerimonioso, le ultime tre entreranno nel Muro della terra), un Caproni ironico, che sa sferzare e ferire: il Caproni del Gibbone, ad esempio, che si estrania in un isolamento che è metà profetico e metà da paria:

Qua / – fra tanta gente che viene, / tanta gente che va – / io sono lontano e solo / (straniero) come / l’angelo in chiesa dove / non c’è Dio. Come / allo zoo, il gibbone.

O in Arpeggio, che ritrova l’intensità del desiderio religioso («Cristo ogni tanto torna, / se ne va, chi l’ascolta…»), mescolata ad un evidente fastidio per la gente ottusa che fa invece dell’irreligione la sua bandiera. Ritroviamo lo stesso motivo nella parte finale di quella cosa perfetta che è Lamento (o boria) del preticello deriso:

Capii a quali danni / portassero gli immondi affanni. / E mi sentii morire, / credetemi, con un’irreligione / che, senza fare eccezione, / pone nell’arricchire / (e nel riuscire) il solo / scopo delle sue mire. // Rimasi, come dire? / stranito. Come un usignolo. / Mi feci piccolo. Solo. / In disparte. E se l’arte / posso ancora ammirare / vostra, che con le carte / in regola a costruire / v’indaffarate un presente / che non guarda al domani / (io, vi giuro: le mani / mi tremano) non so più agire / e prego; prego non so ben dire / chi e per cosa; ma prego: / prego (e in ciò consiste / – unica! – la mia conquista) / non come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista.

L’esistenza di Dio – la sua inesistenza, sono i temi che torneranno più insistentemente ne Il muro della terra: la passione di credere, la voglia di un trascendente che tutto giustifichi, l’impossibilità di rassegnarsi al nulla che ci aspetta, e dall’altra parte l’esigenza del razionale, la coscienza della nostra totale solitudine e ingiustificazione. Non può dare risposte («Che mai volete / da me – da questa mia / miseria senza teologia?»), il preticello che non crede in Dio e che ha preso i voti per troppo amore, è un’alternativa concreta alla disumanità della gente che ha «il piede / saldamente posato / sulle cose concrete», e degli altri che per troppo credere finiscono per dimenticare il mondo.
Ultime due liriche: Oss’Arsgian, una poesia tutta colorata, dedicata a un paese che pare dipinto, e a «gente da malta / e da mattoni». Poesia che termina con un azzardo linguistico, non nuovo in Caproni («acqua che acqua / vacua nel vacuo e sterpi / porta in questi burroni»). E la conclusiva Palo, descrizione di un’attesa di qualcosa di indefinito, fuori dal tempo:

Sapevo che non si trattava / di partenza, e nemmeno / d’arrivo; né sapevo / se cane fosse o treno / o cuore (o la rosa, forse, della mia inesplosa / domanda) l’avventura / morta che mi legava al palo / morto della mia paura.

Dove ancora una volta tutto è vago, la stazione è circondata da nebbia «vuota», una «lunga figura nera» segnala con la lanterna al treno, e tutto insomma non è che un’avventura morta, senza senso, kafkiana.
Questo minuzioso studio esplicativo, che numera poesia per poesia le pagine de Il Terzo Libro, per arrivare a concludere che Caproni è uno di quei poeti da conoscere assolutamente, perché insegna come si fa poesia nella forma e nei contenuti. Perché salva forma e essenza, suonando e dipingendo. Perché recupera atmosfere di primo novecento (l’ansia sottile, la paura di un pericolo incombente), restituendole moderne al lettore.

 

«Quinta Generazione» n. 25-26, luglio-agosto 1976

RECENSIONI

CAPRONI

GIORGIO CAPRONI, IL TERZO LIBRO E ALTRE COSE – EINAUDI, TORINO 2016

Il «Terzo libro» e altre cose di Giorgio Caproni, edito da Einaudi nel ’68 e da poco ripubblicato, ha il pregio di presentare una scelta di versi limitata ma significativa e – secondo quanto scrisse allora l’autore – indicativa della direzione della sua ricerca negli anni dal ’44 al ’54, «anni di bianca e quasi forsennata disperazione».
Il volume, con una puntuale prefazione di Enrico Testa e un esaustivo saggio di Luigi Surdich, è tratto dalle raccolte del ’56, ’59 e ’65 (Il Passaggio di Enea, Il seme del piangere, Congedo del viaggiatore cerimonioso), e comprende otto distinte sezioni.
In nuce si rintracciano tutti gli stilemi e i temi presenti nelle prove successive di Caproni: la stessa poesia dicibile, transitiva, diretta, formalmente nuova benché ancorata alla tradizione, con l’uso convinto e ribadito della rima, l’iterazione di figure retoriche, i versi a gradino, le frequenti parentetiche, gli esclamativi e interrogativi, il lessico volutamente dimesso, l’attenzione descrittiva agli ambienti e ai personaggi, l’affidamento a una musicalità mai banale o scontata.

Tra i contenuti più tipici, ritroviamo Genova e il mare («La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale, / e, su dal porto, risucchi di vita / viva fino a raggiungere il crinale / di lamiera dei tetti», «a un tratto al sole / ahi quale orchestra frange fresca il mare / col suo respiro di plettri!»), da cui sempre hanno tratto ispirazione e linfa i versi del poeta.
Incombe anche l’incubo ossessivo nato dal contrasto vita-morte, in cui la presenza di una realtà oscura e minacciosa (dapprima quella della guerra, in seguito quella della separazione, della lontananza, della difficile sopravvivenza materiale) costringe l’esistenza quotidiana, insidiata dal vuoto e dalla distruzione. L’ambiente fisico è spesso raggelato in rappresentazioni di freddo invernale, di vapori mattutini nei bar, di venti che premono nei portoni, di ululati di cani e colori grigi che spengono qualsiasi «vano / desiderio del sole». Questa livida secchezza viene sottolineata dalla sapiente utilizzazione degli aggettivi, anch’essi ripetuti e inquietanti (ermo, deserto, distrutto, soffocato, acre, arido…). Ad attacchi luminosi che hanno nella loro morbida solarità qualcosa di mediterraneo, di gitano, di caldo («Le carrette del latte ahi mentre il sole / sta per pungere i cani!», «Una chitarra chi accorda in un bar») seguono finali freddi di nebbia, di “tremori” e “tremiti” nordici, in albe sospese tra echi di fucilazioni lontane. La guerra «penetrata / nell’ossa» pare aver dissolto e impedito ogni giovane speranza di vita, coprendo con la sua notte «una fede senza scampo».
Altro argomento che affiora nella raccolta è l’interrogarsi sul ruolo del poeta e sull’opportunità e l’onestà di scrivere ancora poesia «Pastore di parole, la tua voce / che può? Io che via / via sto calando nell’anno che inclina / già alla sua fine, in una conceria / nauseabonda perché trovo la mia / voce – trovo campane d’acqua, e in cima / ai rami assiderati tanta brina?»

Ma è soprattutto nella descrizione della figura femminile che riscopriamo il gentile pudore, il tenero abbandono proprio di tutta la poesia caproniana. Ecco quindi «le giovinette così nude e umane / senza maglia sul fiume ragazze il cui sciame discende / fresco le scalinate.Ragazze ormai aperte e vere / in vivi abiti chiari / (ragazze come bandiere, / già estive, balneari)», di cui il poeta non riesce tuttavia a condividere la gioiosa adesione alla fisicità, sempre in preda com’è a un’implacabile malinconia, a una meticolosa introspezione che lo blocca in qualsiasi slancio vitale.
La donna è anche tentazione manchevole, cedimento a una sensualità corruttrice: «e ad aprirmi / veniva sempre (impura / e agra) una figura / di donna lunga e magra / nella sua veste discinta». Oppure àncora di salvezza, epifania, resurrezione: «…perché il mio amore (il mio amore) / l’ho conosciuto tardi: / l’amore mio che stava ad aspettarmi / solo su una panchina».

Le figure femminili assumono quindi molteplici aspetti e significati: sono la Proserpina di Interludio, Alcina de Le biciclette, Euridice del Passaggio d’Enea, presenze sempre giustificate e giustificanti, da cui Caproni aspetta un gesto che illumini («la mattina / è lei che apre alla nebbia»), anche se compiuto con ottusità inconsapevole e incolpevole («e nebbia ha / nella cornea la donna che in ciabatte»…). Il ruolo definitivo della donna è comunque quello protettivo e rassicurante dei versi dedicati alla madre, tra i più intensi e commossi non solo di questo volume, ma dell’intera produzione letteraria del nostro secondo novecento: «Con lei mi metterò a guardare / le candide luci sul mare. / Staremo alla ringhiera / di ferro – saremo soli / e fidanzati, come / mai in tanti anni siam stati. / E quando le si farà a puntini, / al brivido della ringhiera, / la pelle lungo le braccia, / allora con la sua diaccia / spalla se ne andrà lontana: / la voce le si farà di cera / nel buio che la assottiglia / dicendo: “Giorgio, oh mio Giorgio / caro: tu hai una famiglia”. // E io dovrò ridiscendere, / forse tornare a Roma. / Dovrò tornare ad attendere / (forse) che una paloma / blanca da una canzone / per radio, sulla mia stanca / spalla si posi».

L’universo maschile narrato da Caproni è invece quasi sempre stranito, disilluso, titubante, incapace di forti azioni e reazioni. I suoi sono “uomini miti”, sconfitti dalla vita; uomini innocui dai movimenti cauti, rassegnati alla loro insignificanza: «Uomini miti che di soprassalto / sobbalzati dal letto, con la borsa / sgusciano nell’albume – di soppiatto / scantonano dai vicoli, e in rincorsa / scandendo il primo tram la cui campana / già ha squillato sui selci, parlottando / soli raggiungono l’area lontana / dei loro minimi traffici».

Quella raccontata da Caproni, con un’empatia e una solidarietà più sentimentale che intellettuale, è un’umanità che si teme abbandonata, probabilmente anche da Dio («Cristo ogni tanto torna, / se ne va, chi l’ascolta…»), costretta a vivere in un presente mortificato, e privo di qualsiasi riscatto futuro. Così, nella splendida Lamento (o boria) del preticello deriso spetta a un prete dubbioso offrire un minimo spiraglio di speranza in una possibile-impossibile trascendenza catartica: «Capii a quali danni / portassero gli immondi affanni. / E mi sentii morire, / credetemi, con un’irreligione / che, senza fare eccezione, / pone nell’arricchire / (e nel riuscire) il solo / scopo delle sue mire. //… (io, vi giuro: le mani / mi tremano) non so più agire / e prego; prego non so ben dire / chi e per cosa; ma prego: / prego (e in ciò consiste / – unica! – la mia conquista) / non, come accomoda dire / al mondo, perché Dio esiste / ma, come uso soffrire / io, perché Dio esista».

Nei personaggi a cui dà voce poetica, negli ambienti urbani o marini che descrive, nell’incertezza di un destino indecifrabile comune a tutti i viventi, Giorgio Caproni si fa portavoce del più umano dei timori, quello di non contare nulla, di non avere scopo: eppure di questa insensatezza dell’esistenza sa – e riesce a comunicare al lettore – la gratuita e grandiosa bellezza. «Sapevo che non si trattava / di partenza, e nemmeno / d’arrivo; né sapevo / se cane fosse o treno / o cuore (o la rosa, forse, della mia inesplosa / domanda) l’avventura / morta che mi legava al palo / morto della mia paura». Con Giorgio Caproni abbiamo perduto uno dei nostri massimi poeti: Il «Terzo libro» e altre cose ce lo ricorda con la stessa discreta mitezza che apparteneva alla sua persona, ma anche con l’uguale, incancellabile forza che traspare dalla limpidezza di un pensiero mai omologato, e di una rara, preziosa sensibilità.

 

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www.sololibri.net/Il-terzo-libro-Giorgio-Caproni.htm     16 aprile 201

«Poesia» n.315, maggio 2016