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CAPURSO

ISABELLA CAPURSO, SACRO E URBANO – GATTOMERLINO, ROMA 2022

 Sacro e urbano di Isabella Capurso (Gattomerlino Edizioni) è tra i tre titoli vincitori della seconda edizione di Bookciak Legge, premio letterario che trasforma in corti, realizzati da giovani filmmaker, libri di autori italiani pubblicati da editori indipendenti. Il tema di questa edizione 2023 di Bookciak è stato “Storie per restare umani”, e ad esso si è adeguata l’intensità delle pagine di Isabella, milanese, specializzata in Sociologia urbana e studiosa del rapporto tra società e natura. Impegnata professionalmente nell’ambito di progetti inerenti a temi ambientali e sociali in alcune aree urbane dell’Europa, dell’Africa francofona e del Sud Africa, l’autrice è appassionata di scrittura e arti grafiche, e ha aperto a Milano il laboratorio Le Poisson Lumière in cui organizza mostre ed eventi culturali. Dal 2020 vive tra il capoluogo lombardo e una piccola comunità rurale in Calabria. Autrice di poesie e racconti, illustra con i suoi disegni copertine di libri, come nel caso di questa sua ultima pubblicazione.

Nel prologo a Sacro e urbano, afferma: “Questa raccolta nasce dalla volontà di riunire e sistematizzare una serie di piccole storie e riflessioni a oggetto la città, sia come diario di vissuti che come orizzonte di movimenti contemporanei di geografia umana e fisica”.

Il libro presenta descrizioni, brani di lettere, considerazioni – per lo più risentite e polemiche – riguardanti i contesti urbani in cui le persone si sono ridotte a vivere, rinunciando passivamente a interpretarli e modificarli, con una rassegnazione vicina all’abulia e al fatalismo. Sentimenti, questi, molto distanti dalla coscienza civile di Isabella, dal suo impegno culturale ed etico, vitalmente capace di sdegno e ribellione. La sua denuncia si rivolge contro il capitalismo inquinante, che depreda le risorse naturali, non sa smaltire i rifiuti, riduce gli spazi individuali domestici in favore di costruzioni industriali, magazzini e funerei falansteri.

Palcoscenico privilegiato della narrazione è la città in cui l’autrice è nata e cresciuta, Milano, con le sue due anime contrastanti, ricchezza-successo-eleganza da una parte, fatiscenza-disperazione-sfruttamento dall’altra.

Dal famigerato Parco Lambro, invaso da consumatori e spacciatori di droga, assediato da violenze di ogni genere, frequentato da migranti e senza tetto spesso in contesa tra loro, si passa ai vagoni della metropolitana dove si rifugiano mendicanti e storpi, al degrado assoluto in cui è lasciata la stazione centrale, ai fast food che smerciano cibo spazzatura, ai supermercati affollati, agli animali abbandonati o malati: “I colombi avvelenati dai metalli si ammalano di malattie / neurologiche. Girano intorno al proprio asse”.

In opposizione a questa realtà avvilente, esiste la Milano della finanza e della moda, delle cliniche private monopolizzate dall’Opus Dei, delle arterie stradali e dei treni ad alta velocità, dei Navigli ammorbati da cocaina e antidepressivi, delle discoteche come luoghi di rapporti superficiali e alienanti.

Il sarcasmo di Isabella è spietato verso l’ideologia dominante, che spaccia per opportunità e progresso la disumanizzazione delle relazioni umane, la conflittualità e la concorrenza, l’ingordigia economica.

“Sii felice!

Impongono imperiosamente!

In cambio avrai due punti aperte le virgolette

Privazione del sonno, cemento, anidride carbonica, piombo, prossimità forzata, cibo contaminato

Una imperiosa strenue implacabile richiesta di presentabilità sociale”

Là dove la ricerca del benessere materiale è spinta fino al parossismo, non esiste più alcun interesse per valori diversi: “Ci parliamo addosso. Ci siamo esauriti. E siamo pure vecchi… Siamo sempre costretti dentro ad argini pregressi… Piccoli, siamo diventati piccoli, e più volevano farci credere che consumando saremmo diventati grandi e ci saremmo distinti, più siamo diventati piccoli e tutti uguali”. Scollati dalla realtà, gli occidentali si vedono superare in energia, rabbia e speranza dai paesi sottosviluppati. L’autrice cita i luoghi che ha visitato, dalla Cina all’Africa all’ Australia, constatando ovunque la fine del sacro messa in atto da una livellatrice urbanizzazione internazionale. Alla propria ricerca di verità e autenticità non trova più rispondenze: “Nella mia anima vive un patimento sovversivo e un inestimabile amore”, sentimenti che dovrebbero aiutarci a “restare umani”, ma raramente vengono accolti e apprezzati, nel loro prezioso proporsi alla contemporaneità.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net           29 agosto 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

CARBOGNANI

GERMANA CARBOGNANI, UN GRANDE MONDO DI DONNE – ALICE, COMANO 1991

I bambini che oggi affidano al Nintendo i loro sogni e le loro proiezioni fantastiche, le adolescenti che si costruiscono i loro oroscopi personalizzati con il computer, trent’anni fa avrebbero forse interrogato le lucciole o le stelle cadenti per ricavarne presagi meno specifici ma certo più suggestivi. Trent’anni fa, in Carnia, poteva accadere che una ragazzina chiedesse a un grillo rubato a un prato in una notte di giugno, tenuto prigioniero sotto un bicchiere per ore, e poi lasciato improvvisamente andare, di indicarle nella fuga quale direzione avrebbe preso il suo futuro. E se il grillo correva («oracolo, speranza e un po’ di fato») verso il fiume, verso l’ovest, «dritto dove non c’era più paese», esprimendo con naturalezza una sentenza che equivaleva a una condanna, quella ragazzina poteva sentirsi morire. Cresciuta, avrebbe – come moltissimi altri carnici – lasciato le sue montagne per una vita matrigna da spendere chissà dove, tornando ogni tanto, col cuore e con gli occhi, alla sua infanzia e alla sua gente, magari scrivendone un libro-diario, un libro-memoria e testimonianza, come questo Un grande mondo di donne, di Germana Carbognani, dal titolo rassicurante e materno. Germana Carbognani vive da molti anni nella Svizzera Interna, e in Ticino presso le Edizioni Alice ha pubblicato la sua autobiografia, seguendo l’incoraggiamento di Saverio Tutino, direttore dell’Archivio Diaristico Internazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo). Non mi sembra si possa equivocare, come hanno fatto alcuni autorevoli commentatori, definendo il volume femminista: semmai femminile, donnesco, in quanto non contemplante l’universo maschile se non come assenza, lontananza. Mondo di donne, da sempre, è il mondo carnico. Donne sposate giovani e già gravide, ingravidate poi ogni anno a Natale dai mariti emigrati che tornavano per le feste dalla Francia, dal Lussemburgo: donne con la gerla sulle spalle e i “scarpéz” di pezza ai piedi. Buone a far la polenta, a far figliare le bestie, a lavare d’inverno nell’acqua gelida, crescendo i figli (maschi robusti e di poche parole, femmine caparbie e forti come loro) senza svenevolezze. Germana Carbognani, ultima di tre sorelle, vissuta con la madre, le zie, la nonna, si definisce da subito autrice in quanto donna, e donna di Carnia: «guardavo la vita con altri occhi. Occhi non solo di bambina, ma di piccola carnica, fiera come tutte le donne carniche e felice di esistere…».

Il “grande mondo” che racconta – grande non solo perché osservato con sguardo infantile, ma perché effettivamente grande e generoso rispetto alla miseria di quello presente – ha scenari di esterni e di interni particolarmente suadenti: abeti silenziosi e noci carducciani, corvi in cielo e ricami di ghiaccio alle finestre, strade polverose e cortili col fieno da seccare. Dentro le case, poi, cassettoni e madie intagliate, acquai di pietra. Il tempo era cadenzato in riti che avevano la rigida scansione delle ore, della stagioni, degli anni: il giorno del bucato, il Nédal, le nascite e le morti, le serenate sotto i balconi e i matrimoni, le partenze con addii secchi. Poca pietà per la gente (partigiane e suore, puttane e violentatori, maestri e organisti ciechi, molti bambini cresciuti in fretta) e quasi nessuna pietà per gli animali: maiali macellati festosamente e gatti randagi uccisi per divertimento. Tanto intenerimento, invece, per gesti e abitudini scomparse, come l’infilarsi nel lettone tra le lenzuola gelide, a intrecciarsi le gambe con le sorelle, addosso un camicione di flanella su biancheria che si cambiava poco; la partita a tris giocata coi fagioli su pezzi di cartone, la fame addomesticata spiluccando le croste della polenta rimasta nel paiolo. E soprattutto il linguaggio, la lingua straordinaria e ricca di una regione antica e di confine. Un “lessico famigliare” non borghese, non ebreo, non di città: ma paesano, carnale e carnico, anzi “cjargnél”. Parlata aspra, tormentata e scabra come i monti scoscesi, i fiumi ripidi della Carnia. Il paese del sogno ha un nome poco pronunciabile: Pradiscjàs, ricalcato su nomi simili (Pradamano, Pradiélis, Pràdis), sibilanti e arrotati, inquieti come la gente che li abita. Libri di memorie recuperate, di paesi ritrovati, di nostalgie pudiche ne abbiamo letti parecchi, a cominciare dall’indimenticabile Libera nos a Malo di Meneghello per arrivare agli ultimi di La Capria: ciò che ci rende così teneramente vicino questo della Carbognani è forse il «parlarsi essenziale» di una zona che si è, finora, raccontata poco, e con rabbiosa malinconia per «un grande mondo» che si è perso, a volte a causa di un destino cattivo (il terremoto, il lavoro lontano), più spesso per l’indifferenza, per l’insipienza di tutti.

 

«Eco di Locarno», 22 febbraio 1992

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CARDINI

FRANCO CARDINI, GESÙ, LA FALCE, IL MARTELLO – LA VELA, VIAREGGIO 2017

La giovane casa editrice viareggina “La Vela” ha raccolto in volume trenta articoli (editi e inediti, scritti tra il 2004 e il 2017), del Professor Franco Cardini (Firenze, 1940), storico medievalista, saggista, blogger, che molti spettatori conoscono e apprezzano come vivace opinionista per le sue frequenti e animose partecipazioni a trasmissioni culturali e talkshow televisivi. In una sorta di autobiografia intellettuale, di “journal intime” che spazia tra gli argomenti più vari di etica, politica e religione, l’autore rende omaggio alla propria coerenza di studioso, battagliero difensore dell’ortodossia cattolica, definendosi orgogliosamente un “vecchio tradizionalista reazionario”: «Amo l’ordine, la gerarchia, la disciplina. Credo molto più nei doveri che non nei diritti… Sono ammalato di superbia luciferina… Ho poco da rimpiangere e nulla da rinnegare». Fiero della sua indole polemica di toscano, delle sue origini popolari (i primi maestri: la nonna Augusta cattolica di ferro, il nonno Giulio socialista e anarchico, lo zio Roberto fascista impenitente, che insieme ai genitori gli insegnarono i valori fondamentali di onestà, rispetto, sincerità), Franco Cardini si scaglia con indomita veemenza contro “l’ipocrisia dell’Occidente/ Modernità”, deciso a onorare chi la combatte. Il libro è infatti dedicato a due umili “milites Christi”, un sacerdote martirizzato in Guatemala e un eroico missionario croato che ha dedicato tutta la sua vita ai poveri del Congo.

Appunto allo scandalo dello sfruttamento degli ultimi e all’indifferenza con cui ad esso guarda il civilissimo e farisaicamente cristiano mondo occidentale, sono dedicate molte pagine del volume, che con amara ironia è intitolato Gesù, la falce, il martello: «La miseria dei popoli causata e mantenuta in quanto condizione dell’opulenza di pochissimi non è più tollerabile. Non c’è pace senza giustizia e ciò è vero dalla Siria all’Afghanistan, dall’Africa all’America Latina. La giustizia, oggi, ha un nome solo: riequilibrio e ridistribuzione delle ricchezze e delle risorse, cioè rispetto della vita umana – di tutte le vite umane – e dei diritti del pianeta». Assolutamente ostile al marxismo e a tutte le sue derive culturali e modaiole, Franco Cardini si dichiara tuttavia contrario anche al neo-conservatorismo leghista e berlusconiano, razzista e xenofobo, che accusa di astorica miopia, e aspira invece a una visione non più appiattita sul bipolarismo destra-sinistra, poiché ormai «il nostro paese, l’Occidente, l’età che stiamo vivendo, sono un pozzo senza fondo di contraddizioni», non più catalogabili con categorie obsolete. In uguale maniera il cattolicesimo italiano, la politica vaticana, il pontificato di Francesco (“papa apocalittico” con cui si sente in forte sintonia) e la fede stessa si rivelano al suo sguardo severamente giudicante una miniera di antinomie, incoerenze e inesauribili ricchezze: dai protagonisti della cristianità del XX secolo, più o meno contestabili (Balducci, Milani, Ranchetti, Barsotti, Gallo, La Pira), alle inadempienze liturgiche, dalle stragi islamiche al diaconato femminile, dalle schizofrenie della teologia contemporanea alla debolezza della CEI, nessun aspetto della vita religiosa viene tralasciato dal suo commento.

La sua penna fustigatrice non si limita a indagare questioni ideologiche o di rilievo morale: commenta con umorismo anche le idiozie televisive, la sopravvalutazione delle problematiche sessuali, l’inciviltà diffusa tra gli utenti dei servizi pubblici, l’indifferenza all’ambiente naturale. Da laudator temporis acti come ama definirsi, Franco Cardini non disdegna però di immergersi nel presente, di cui sferza i comportamenti arroganti, le teorie alla moda, la cattiva coscienza collettiva, ma astenendosi dalle condanne senza appelli del passato, e sforzandosi di arginare la sua disapprovazione all’interno di una più tollerante condiscendenza.

 

© Riproduzione riservata           

www.sololibri.net/Gesu-falce-martello-Cardini.html        18 ottobre 2017

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CARIFI

ROBERTO CARIFI, ABLATIVO ASSOLUTO – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2021

Ciò che caratterizza principalmente il costrutto dell’ablativo assoluto è la sua totale indipendenza dalla proposizione principale, il suo essere “sciolto” dal contesto. Così ci insegnavano i professori impartendoci i primi, essenziali rudimenti della lingua latina. Ablativo assoluto è il titolo della più recente raccolta di versi di Roberto Carifi (Pistoia 1948), quasi a indicare la volontà del testo di spiegare se stesso essenzialmente attraverso se stesso, in un monologo che trova all’interno della propria espressione le ragioni del suo esistere.

“Settanta celle scavate nel linguaggio, ‘rovina dichiarata a bassa voce’, raccolta concava di ‘marmata preghiera’, i versi si offrono qui salati, scarni, deposti. E percepiamo il clima, a un tempo gelido e rovente, implicato dal taglio della parola, dall’incandescenza del trauma e da una resa lampeggiante alla corporeità della preghiera”: così esordisce nella sua dottissima e ammirata postfazione Benedetta Silj, dando della produzione di Carifi un’interpretazione che, a partire dalla concretezza della sofferenza fisica, si innalza verso la rarefatta spiritualità della sua meditazione trascendente.

Roberto Carifi – poeta, critico letterario, traduttore e filosofo – si è accostato alla scrittura attraverso l’insegnamento del concittadino Piero Bigongiari e le esperienze dell’ermetismo fiorentino. Studioso di Rilke e Heidegger, nella maturità ha approfondito l’interesse per la psicanalisi e il buddhismo, in particolare dopo la dolorosa prova della malattia, che dal 2004 lo costringe alla semi-immobilità. Temi fondamentali della sua ricerca letteraria sono il ricordo dell’infanzia (rivissuta soprattutto attraverso il recupero della figura materna e della città natale), la rivelazione epifanica della bellezza, l’utopia di una verità raggiungibile, il raccoglimento silenzioso intorno ai temi della morte e della mancanza.

La madre, abbandonata dal padre quando Roberto aveva tre anni, è il principale referente emotivo all’interno della sfera degli affetti, nel rimpianto e nella pena: “Guardo le giacche appese ai rami / mamma tu sai la guerra combattuta / come un salice spenzolo da un ponte, la notte sanguina nel tuo sonno / verso sud-nord / non ha importanza”, “Scese per me il tuo tramonto / fatto di pietra, mamma dove sei / in fondo ad un pozzo o nel Nirvana, / oggi mi esercito a morire / i corvi attendono me / o qualche altra cosa”. La morte della madre si sovrappone a quella temuta del poeta – prostrato dal male, stanco e impaurito – e all’agonia di tutte le creature innocenti che animano terra, cielo, acque: “Ora vorrei che mi portassi via, / dove c’è luce, / invece ci sono grotte, / cunicoli fangosi / lasciati alla mortalità”, “Nel mio povero letto / patisco le grotte, avvisaglie / del mio trapassare / cratere occhi cavati / presto si ammaleranno, / sarò tramutato in sasso”, “Mare scuro, pesci morti / gabbiano a strapiombo sopra una roccia, / stecchiti sopra il canale, / esistenza di piccoli passi / gli animali in fila / moriranno”.

Sollievo alla sofferenza è offerto dall’esercizio filosofico per raggiungere l’illuminazione interiore, appreso attraverso la pratica del buddhismo. Senza essere dei veri e propri haiku, molte poesie di Carifi riprendono temi e immagini dell’antica poesia sapienziale dell’Oriente, sulle orme dei suoi più noti maestri: Li Po, T’ao Ch’ien, Bashō, Ikkyū. Gli argomenti toccati dal poeta pistoiese sono l’abbandono alla dolcezza delle visioni naturali, l’esigenza etica di spogliazione dai beni materiali, l’esperienza del vuoto, l’imitazione della figura esemplare del monaco viandante, ricco solo della propria saggezza: “Prega con un pezzo di pane / il santo è ricco / senza avere più niente, / prende la sua ciotola di riso / e va di casa in casa”, “La perfezione della primavera / quando fioriscono i ciliegi / e i flutti somigliano al mare / il monaco prega in un angolo / e piange per le cose del mondo / e sorride per la propria morte / quando le cose del mondo / saranno sparite e anche lui sarà / tutt’uno con i ciliegi”.

Formalmente i versi esprimono il gusto ribadito per la levità, il minimalismo espressivo, l’indifferenza a qualsiasi sperimentalismo linguistico: abbandonandosi invece al conforto carezzevole della ripetizione e alla giustapposizione di immagini per analogia. La parola, allora, assume la gentile vibrazione della preghiera, della litania monastica, dell’armonia celeste di pianeti e stelle.

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Ablativo-assoluto-Carifi             7 aprile 2021

 

 

 

 

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CARLUCCI

VANNA CARLUCCI, LA PAROLA ANFIBIA – IL CONVIVIO, CASTIGLIONE DI SICILIA 2024

In un intervento pubblicato il 24 gennaio di quest’anno su La Poesia e lo Spirito, Vanna Carlucci così si esprimeva riguardo al suo rapporto con la parola poetica: “Come è possibile allora, per me, spiegare che esiste un animale selvatico che vive al centro del mio petto. È – come direbbe Milowsz – il daimon della poesia ‘come se fosse balzata fuori una tigre’. L’artiglio della parola è tra le sue zampe e dilania, ferisce e svela un linguaggio che è una forma che sanguina, una ferita. La poesia, quindi, è azione, movimento felino, contatto tra corpi”.

Un rapporto fisico, dunque, feroce e lacerante, un atto di violenza che incide la pelle e squarcia le vene, quello intessuto tra chi scrive in versi e il testo prodotto. Concetto che viene a più riprese ribadito nella recente raccolta dell’autrice pugliese, La parola anfibia, pubblicata dalle edizioni “Il Convivio” lo scorso marzo, e ben evidenziato dall’immagine graffiante della copertina

Parola anfibia, dalla duplice natura, salvifica e punitrice, è la parola della poesia: “La poesia, questa parete di luce /questo impianto di carne nell’universo” diventa “abisso senza protezione” in cui perdersi e dannarsi, che costringe a confessare la propria masochistica dipendenza: “il fremito di me che sono / la cassa sonante di una parola muta / terremotata nel costato / franata di luce”.

Una parola nata nell’oscurità, e dall’oscurità (“la parola nasce dentro il suo liquido nero e / si sparge lungo un campo di terra sterminato”), emersa e insieme minacciata da buio e da silenzio, i due sostantivi più ossessivamente ribaditi nel libro, diciotto e dieci volte ciascuno: “la risacca del buio”, “il buio dei nostri corpi”, “Nel buio dei respiri”, “il buio dietro gli occhi”, “sul mio volto buio”, “un piccolo silenzio pieno di sassi”, “nel silenzio della pelle trapassata, / c’è la violenza dello strappo” …

L’immagine del corpo sgualcito, ferito, sventrato, che macera, che si sgretola, ritorna spesso nelle pagine, ed è carne piagata dall’aggressione brutale inferta a volte proprio dalle parole scritte o pronunciate (“la bestia dimorata nel petto //… aspetto che mi divori e che lasci i miei resti sul cuscino”), a volte da immodificabile autolesionismo, a volte ancora patita in un sofferto rapporto di coppia.

La parola anfibia potrebbe infatti essere letta anche come un piccolo canzoniere amoroso, perché la presenza dell’amante è un “tu” che si rivela prezioso e insostituibile (“Tu, a cui affido il mio tremore”, “Io e tu / mai interamente compiuti / due polmoni affaticati / due occhi da neonati”), eppure velata da una sinistra premonizione, dal timore di un inevitabile allontanamento futuro. I due sembrano entrambi consapevoli della reciproca estraneità caratteriale, che induce lei a confessare l’impossibilità di un raggiungimento: “Tu dici Realtà / Io dico Pietra”, “Tu invece della vita hai fatto inconsistenza / cerchio mobile / soffio”. Tuttavia, la possibilità di una rinascita, di un recupero del rapporto viene affidato, ancora una volta, alla parola che è capacità di incontro e confronto nel canto, nel ritrovarsi di una voce poetica che accomuna e guarisce: “Risorgere, tu ed io, / come cicale”.

Attraverso un dettato aspro e frantumato, i versi di Vanna Carlucci (Bari 1987) trovano la giusta rispondenza alla sperimentazione dolente e ruvida della realtà, interiorizzata nel suo severo offrirsi all’interpretazione di un’acuta sensibilità poetica.

 

© Riproduzione riservata    «La Poesia e lo Spirito», 15 ottobre 2024

 

 

 

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CARNEVALI

EMANUEL CARNEVALI, AI POETI E ALTRE POESIE –  VIA DEL VENTO, PISTOIA 2012

La tormentata vicenda biografica di Emanuel Carnevali (1897-1942) ha in qualche modo nuociuto e in altro modo aiutato la sua fama di “black poet”. Nato a Firenze in una famiglia scissa da rapporti conflittuali, diciassettenne emigrò negli States, mantenendosi con i lavori più umili e sforzandosi di imparare l’inglese attraverso metodi non ortodossi. Iniziò a frequentare presto gli ambienti letterari del modernismo americano e a pubblicare poesie che suscitarono l’interesse di scrittori del calibro di Sandburg, Williams, Pound. Ammalatosi gravemente di encefalite, dovette rientrare nel 1922 in Italia, trascorrendo il resto della sua vita ricoverato in vari ospedali. Morì in quello di Bologna, strozzato da un boccone di pane. Le edizioni “Via del Vento” pubblicano una scelta di 18 composizioni, tratte dall’opera omnia uscita da Adelphi nel 1978. Si tratta di versi febbricitanti, scorticati, rivoltosi, rimbaudiani – secondo il postfatore Elio Grasso; poesie arrabbiate, che talvolta si avvicinano al surrealismo (“Le braccia oscillavano staccate / dalle giunture / e le gambe possedevano volontà propria”), e altre volte al futurismo (“Sulle nostre spalle / la tua sonora rabbia, ferrovia!”). Frequentissimi sono l’uso della metafora e l’espediente estraniante di dare anima alle cose, di personificare i paesaggi (“Le case in lunga schiera / hanno rosse facce arse dal vento”; “L’amore – lo pensavo come un lungo giro in battello / su un lago tranquillo”; “Il grande cadavere / è la folla”; “Quella mattina l’alba salì dai fradici grigi selciati cittadini, / era un respiro grigio e ammalato”). L’ossessione prevalente è per il corpo femminile, minaccioso, sporco, invecchiato: “non esser bigotta, vecchia signora: / le tue ferite sono piuttosto disgustose”, “Fango i suoi occhi. / La sua voce quella di uccello straziato”. L’odio antiborghese si esprime in violente immagini che insultano divinità, famiglia, decoro cittadino. Rabbia e infelicità in un poco conosciuto poeta disperato.

IBS, 4 febbraio 2014

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CAROTENUTO

ALDO CAROTENUTO, I SOTTERRANEI DELL’ANIMA – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023

 Lo psicanalista Aldo Carotenuto (Napoli, 1933Roma, 2005) è stato uno dei massimi esponenti dello junghismo internazionale: tra i suoi numerosi volumi, Bompiani ha scelto di ripubblicare un testo fondamentale nell’indagine del rapporto che lega la creazione artistica con il malessere psichico: I sotterranei dell’anima, edito per la prima volta nel 1993, e ora riproposto: con il sottotitolo Tra i mostri della follia e gli dèi della creazione e la cura di Erika Czako. Czako è stata allieva di Carotenuto, e oggi è un medico che si occupa dell’assistenza ai malati oncologici terminali: nella sua intensa prefazione al volume ricorda che il suo maestro aveva fondato nel 1992 il Centro Studi di Psicologia e Letteratura, ancora operante, sulla base della convinzione che la psicoanalisi sia un esercizio più prossimo all’arte che alla scienza, e lo psicoanalista un soggetto dotato dell’ipersensibilità e della vulnerabilità dell’artista. L’autore propone in questo testo un viaggio affascinante e inquietante negli angoli bui dell’anima, filtrato dalle pagine di alcuni capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi, in particolare da quelle di Fëdor Dostoevskij e Joë Bousquet.

Esiste un pregiudizio millenario, espresso già da Platone e poi ribadito soprattutto dai romantici, che individua nell’alterazione mentale la fonte dell’originalità creativa: il folle come poeta, il malato come profeta visionario. In realtà la sofferenza psichica, e ogni patologia che ne deriva, isterilisce e non nutre, poiché non è in grado di comunicare e di produrre incontro. I grandi psicanalisti del ’900 manifestavano una visione riduttivistica della creatività artistica, ritenendola determinata da processi di frustrazione o sublimazione (Freud), di riparazione di un danno subito (Melanie Klein), di compensazione (Adler), di depressione (Segal). Più generosamente aperti verso la disposizione artistica si sono dimostrati Jung e Neumann, che ritenevano l’arte frutto di una tensione, di una trasformazione messa in atto dialetticamente tra la personalità individuale dell’artista e quella storica della collettività.

Carotenuto sostiene che la grande letteratura sa attivare nel lettore dinamiche profonde, tali da consentirgli la scoperta di parti di sé rimaste nell’ombra, mettendolo in grado di affrontare i propri demoni, trasformandone totalmente la visione della vita. Lo specifico dell’arte consiste nella trasfigurazione estetica del dolore, che viene così traslato sul piano delle sensazioni configurate da immagini. L’uomo del sottosuolo di Dostoevskij ha segnato, nell’ambito della letteratura ottocentesca europea, un profondo mutamento della prospettiva narrativa, non più fondata su una rappresentazione oggettiva della vita sociale dell’epoca, ma sulla soggettività dei protagonisti. La focalizzazione da parte dello scrittore sulla dimensione interiore dei personaggi diventerà poi una peculiarità del romanzo novecentesco, come in Kafka e in Joyce. Il sottosuolo diventa metafora dell’inconscio, luogo demonico citato in tutte le mitologie, sede dei morti e di mostri, ma anche luogo di germinazione, di gestazione e di maturazione delle creature prima di affacciarsi alla luce. Il viaggio nella propria interiorità coincide sempre con il calarsi nella solitudine, nell’allontanamento dagli stimoli del mondo esterno: il protagonista dostoevskijano è consapevole della propria diversità, patita come sofferenza e malattia dell’anima, e lo afferma esplicitamente: “Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso… Non sono un uomo attraente … Io sono solo, mentre loro sono tutti… In tutta la mia vita non mi è mai riuscito di portare a termine nulla”.  Questo sentimento di inadeguatezza nei confronti degli altri, verso cui nutre sentimenti contrastanti e negativi, lo induce a trarre appagamento dal proprio male, dal proprio devastante nichilismo. Sentendosi incompreso, perseguitato dalla società, proietta su di essa il suo disagio, un vero e proprio odio: “Non posso soffrire la gente. La gente mi dà fastidio”. Carotenuto riconosce in questo atteggiamento masochistico un evidente intento autopunitivo, comune a molti pazienti che si rivolgono all’analista perché prigionieri del loro castello interiore abitato da fantasmi, ma insieme ammaliati dalle ombre sinistre e dagli angoli sordidi in cui si rifugiano, fino a trarre da questo disgusto di sé un piacere perverso. Nella sua rabbiosa sfida a un’esistenza senza progettualità e senza futuro, l’uomo del sottosuolo si definisce “un infelice topo”, dando di sé quest’immagine: “Niente sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né ribaldo, né onesto, né eroe, né insetto. E ora trascino la vita nel mio angolo, tenendomi su con la maligna e magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e che solo gli sciocchi diventano qualcosa”.

Nella propria lunga esperienza di analista, Aldo Carotenuto ha spesso osservato come in questi pazienti, che si sfiniscono in un processo di autoconoscenza e in “un dibattito incessante tra sé e sé e i propri immaginari interlocutori-giudici”, esista in realtà una grande ricchezza di visioni e fantasie interiori che spingono per uscire allo scoperto, e per farsi riconoscere dagli altri. Su questa occultata positività l’analisi deve operare, per permetterle una riemersione, come fa il pescatore di perle quando porta il tesoro recuperato in superficie.

Carotenuto, nella sua serrata indagine sul malessere masochista che si traduce in atteggiamenti autodistruttivi, prende in esame il meccanismo di identificazione con l’immagine paterna, che ha agito come elemento perturbante nella vita e nell’opera di Fëdor Dostoevskij. “Il rifiuto del modello genitoriale, il processo di differenziazione dalla potente immagine paterna” ha generato un soffocante senso di colpa, presente sia nell’esistenza dello scrittore sia nei suoi personaggi, spesso devianti dalla norma e dalla legalità (l’alcolizzato, il criminale, il giocatore, la prostituta…), e incapaci di adeguarsi al buon senso comune.

In chi rinuncia a confrontarsi con la realtà, in genere l’unica fonte di significato nell’interpretazione degli eventi diventa l’esercizio assoluto della ragione a discapito della dimensione emotiva e irrazionale, che viene negata e mortificata come indegna e umiliante, condannando in tal modo all’aridità dei sentimenti, alla paura delle emozioni, e a un’esistenza rigida e inappagante. “L’emozione coinvolge laddove la ragione controlla”. In tale pericolo è caduto l’uomo occidentale da quando ha negato a sé stesso l’energia vivificante e liberatoria che deriva dall’esercizio dell’immaginazione, della fantasia, dell’utopia in grado di superare i confini del reale, ipotizzando modelli e ideali di vita inediti.

La seconda parte del volume di Carotenuto prende in esame la vita e gli scritti di un autore all’epoca poco noto, e oggi rivalutato e riproposto da molti editori: il francese Joë Bousquet, che durante la prima guerra mondiale riportò una lesione alla colonna vertebrale, rimanendo paralizzato per i restanti trent’anni della sua vita. Costretto a vivere a letto, nella penombra della sua stanza, colpito nella carne e ferito nell’animo, seppe rispondere alla tragicità del suo destino in maniera creativa e feconda, universalizzando la sua esperienza, sublimando il proprio supplizio: “Ecco: distrutto a vent’anni, ho voluto attraversare l’ostacolo che l’infermità erigeva in me, renderlo trasparente… Volevo che la ferita avesse un senso”. Privato del proprio corpo, Bousquet accettò di vivere nella sofferenza e della sofferenza, mediante il corpo della scrittura, che divenne innanzitutto conoscenza soteriologica, metodo di salvezza, individuale e collettiva: “Se una simile afflizione non mi ha ridotto alla disperazione è perché mi è rimasta la voce…  Scrivo per aprire con la solitudine un largo cammino verso gli altri”.

Aveva già sperimentato, prima dell’incidente, la fascinazione della morte, sia nell’uso adolescenziale di droghe, sia nel tormento di amori sconvolgenti e distruttivi, in una inquietudine che lo portò a offrirsi volontario per il combattimento in prima linea, quasi predestinato da una intenzionalità inconscia, in una ricerca di verità ultime, fisiche e spirituali. Riuscì a resistere, in seguito, alla tentazione del suicidio, mantenendosi attento e disponibile a ogni trasalimento del cuore, a nuovi innamoramenti, alla passione per la letteratura, all’incontro con diversi amici e intellettuali (tra cui Simone Weil) che lo visitavano con regolarità nella sua cittadina di Carcassonne. Secondo Carotenuto, “Ciò che trapela dalle pagine dei suoi diari, e che rende la lettura delle sue riflessioni così stimolante, è proprio la forza psicologica che esse emanano, che gli ha consentito non solo di convivere col suo dolore, ma di trasformarlo in materia poetica”.

Due scrittori, Dostoevskij e Bousquet, che hanno conosciuto e abitato i sotterranei dell’anima, con dolore, rabbia, frustrazione, affrontandoli e illuminandoli con diversità di sguardo e destino.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2023

 

 

RECENSIONI

CARPI

ANNA MARIA CARPI, L’ASSO NELLA NEVE – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La postfazione di Fausto Malcovati al libro di versi di Anna Maria Carpi enuclea già tutti i temi della raccolta, lasciando poco spazio di commento ad eventuali critici (e i temi sono quelli che si trovano in ogni poeta che si interroghi, quindi in ogni poeta tout court: l’immagine di sé, l’infanzia, i luoghi, gli oggetti, l’amore e la morte…). Ma quello che a Malcovati preme è il sottolineare la peculiarità di questo dettato poetico: la limpidezza, il non nascondimento. La sincerità, la chiarezza. E infatti l’autrice non lascia nessuno spazio a fraintendimenti o interpretazioni fallaci, a ricostruzioni personali e inventive del lettore. Dice tutto, spiega tutto, quasi con un’ansia di definizione che prova nei riguardi di sé stessa prima che di chi legge. E l’ impressione che subito se ne trae è quella di un’infelicità senza desideri, rassegnata, pervasiva, che incombe su ogni aspetto del semplice esistere e perdurare nel tempo. E’ un’ accoratezza delusa che investe anche la stessa scrittura: «È il mestiere più sconcio che c’è. / Che cosa resterà di tutto questo, / di esorditi e abortiti, / di tutti noi che facciamo un po’ per amore, / un po’ per bisogno, ma soprattutto / per l’ansia di apparire / un istante / sullo sfacciato video del tempo. / Nulla, ma nessuno vuole che resti qualcosa».

Non c’è gioia, dunque, nello scrivere: forse di più nel leggere (si fanno i nomi di alcuni maestri: Bobbio, Celan, Yourcenar; ma «AD UNO AD UNO se ne sono andati / i padri / di questa mia dissennata giovinezza. // Fame di padri, fame senza fine») o nel lasciarsi trascorrere in una vita da cui non ci si aspetta più nulla: «Non voglio storia, non voglio tempo. / Solo il qui e ora, solo lui, / questo livido enigma», «La vita è questo. // Io perché non ne ho voglia?», «Si aspetta il verde, si traversa la strada, / si scende nel metrò, si fa la spesa, / si prenotano viaggi, si entra in banca. // E dopo e dopo e dopo?», «Dove sei, gioia? Dove sei, speranza?», «Che c’è vita lo sento da qualche suono anomalo, / il mio respiro, / il mio sfogliare un libro / che non voglio leggere, / no, né questo né un altro».

In questa totale apatia, senso di inappartenenza, delusione verso tutto e tutti, la più grave e incisiva scontentezza riguarda la propria persona, non all’altezza, non più all’altezza dello sforzo quotidiano di esistere, e con fantasie continue di morte: «Ma anche la metropolitana mi conforta, / perché prolunga il viaggio: se mai dovessi pensare al suicidio / lo farei quaggiù in mezzo agli altri», «Io un nulla incoronato / e votato a sconfitta. // Ho un posto, uno stipendio come tanti. / Visto da fuori, tutto ben riuscito», «Così io non ho misericordia di me stessa, / e non ho niente che mi abbracci dentro», «Io-sciagura, io mio unico male».

Gli amici non bastano a salvare, sono appendici inutili che volteggiano nei riti serali di inviti, chiacchiere salottiere, bevute, incontri che non rivelano più nulla: «Ora è l’altro che ascolta – ascolta? / No, pensa solo: non la fare lunga», «Ci vediamo di furia / solo per dire: non ci siamo persi, / poi è il sollievo di un ‘anche questa è fatta’», «Gli amici ancora vivi – chi saranno? // Voci. Ci telefoneremo sulle dieci. / Come stai? Non c’è male. / Hai visto come piove? / E oggi cosa fai?».

Anche l’amore è deludente, non risponde mai al desiderio di assoluto: «Ma il mio compagno è assorto / o tace o parla d’altro», «non mi devi parlare come a un comune umano, / amore è dire all’altro non hai fine. / O io sono immortale oppure niente», «ho una casa decente e faccio inviti, / ho un matrimonio in cui si va d’accordo / sulla guerra in Irak, non su me stessa». E’ strano osservare come nella prosaicità priva di lirismo di questa poesia ogni tanto sbuchino improvvisi degli endecasillabi molto cantati, quasi consolatori: come se ci si aspettasse uno spiraglio nella negatività, un raggio di sole nella nebbia: «E’ nella mia casa di sempre il male, / è dalla mia esistenza / che non dovrei passare anche se amo quegli alberi all’inizio del parco / e il loro inverno e la neve». Il percorso biografico di Anna Maria Carpi giustifica tanto dolore, tanta disperata assenza di bene? Figlia unica e tardiva di due genitori che non si amavano, da allora si è aperta una voragine che il tempo non ha saputo richiudere: «E rannicchiata dorme / nel letto con sua madre la piccola obbediente. / Mai sarà altro, mai di più che questo, / soltanto brava, brava e diligente». Viaggiare serve a poco, immaginare scenari diversi (la Russia innevata, con un Pietro il Grande bambino; la Germania troppo ordinata e asfissiante; i bistrot francesi che portano echi di una lingua dolce e malinconica) non libera mente e cuore. L’unica possibilità di resistenza al male di vivere sussiste nella ripetizione ordinata e priva di slanci dei gesti più banali: «Solo un metro più sotto / c’è la disperazione. // Ancora un’ora, poi berrai qualcosa, / poi guarderai le mail, il telegiornale, / poi qualcuno telefona». E la carta dell’asso fatta a pezzi e buttata nella neve da un soldato tedesco a Stalingrado per spregio contro i russi diventa metafora del gesto gratuito e inutile che forse solo può salvare dall’incombere ossessivo della presenza nemica.

 

«criticaletteraria», 25 novembre 2013

RECENSIONI

CARRERA

ALESSANDRO CARRERA, SAPERE – IL MULINO, BOLOGNA 2023, p. 152

Alessandro Carrera, professore di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas, è autore di numerosi volumi di critica letteraria, di romanzi e poesie; si interessa da sempre di musica, e per Feltrinelli ha tradotto tutte le canzoni e le prose di Bob Dylan, a cui ha dedicato diversi studi. È pienamente titolato, quindi, a interrogarsi – nel suo volume Sapere, edito da Il Mulino – sul valore della cultura e della sapienza che ad essa si collega nell’origine e nelle finalità: sapere inteso come “bene” non solo intellettuale, ma anche etico, civile, di collante sociale. “Il sapere non è né l’istruzione che ho ricevuto né la somma dei libri che ho letto. Inizia insieme all’umanità, ben prima che si formi la nozione di cultura. È, per prima cosa, il sapere delle origini…”

Quindi, il sapere è originario e collettivo, si differenzia presto dalla cultura, anche se spesso le loro strade si intersecano. Con un’azzeccata intuizione, Carrera definisce il sapere come l’inconscio della cultura, la quale può essere classificata, conservata in biblioteche, commercializzata e addirittura cancellata. Il sapere no, rimane, resiste, è indistruttibile, perché introduce alla visione delle idee, non ha una funzione eminentemente pratica. Il problema da porsi è come tramandarlo alle generazioni future, in maniera non dogmatica né gerarchica.

Il primo capitolo del libro si occupa proprio della gerarchizzazione del sapere, a partire dalle esperienze personali dell’autore: un suo primo impiego come caporedattore in un giornale di medicina e alimentazione alternativa, gli studi di estetica musicale, il trasferimento negli Stati Uniti nel 1987, un viaggio a Kyoto a visitare il parco Ryoanji. Esperienze che l’hanno convinto dell’irrilevanza delle teorie che pretendono di spiegare il reale, catalogandolo, quando invece vengono continuamente superate, modificate da nuovi paradigmi ideologici (hanno stancato molti -ismi idolatrati in passato: strutturalismo, personalismo, esistenzialismo, storicismo, cognitivismo ecc.). Al loro posto si stende un’orizzontalità assoluta, un vuoto che è anche immanenza ma in senso antigerarchico, disegnando una diversa topologia dei campi del sapere, dove non esiste “né sopra né sotto, né destra né sinistra”. Alla verticalità cristallizzata di valori – in scala a seconda della loro rilevanza e del loro prestigio culturale –, si sostituisce la ricchezza della compresenza di posizioni e situazioni non confrontabili tra loro, eppure ugualmente potenti. “I Beatles sono ‘come’ Stockhausen, Bob Dylan è ‘come’ Miles Davis”. Ogni prodotto culturale in futuro sarà letto con criteri interpretativi oggi sconosciuti: bisogna riuscire a considerare artefatti diversissimi tra loro sul piano della compresenza, pur sapendo che

appartengono a momenti temporali diversi e non paragonabili, per approdare a un pensiero non gerarchico, analogico, immediato. Il concetto di diacronia va relativizzato rispetto alla sincronia dei saperi nel momento in cui appaiono, globalmente e in maniera differenziata: la cultura dominante mezzo secolo fa oggi è considerata di nicchia, non più egemonica, e viene di continuo sostituita da nuovi saperi prima ritenuti periferici, di minoranza.

Quale sapere trasmettere, quindi, e come? Nel secondo capitolo Alessandro Carrera riflette sulla sua professione di docente, ora universitario, precedentemente in ogni grado di scuola. Ironicamente si definisce un disc jockey della cultura, dato che oggi i concetti di classicità, bellezza, significanza  sono stati profondamente modificati in senso funzionale: di efficienza, resa economica, produttività. Il tablet, nella sua piattezza unidimensionale, è più comodo del libro; la rapidità è preferibile alla lentezza; il progresso tecnologico è essenziale, mentre le discipline umanistiche non lo sono. Anzi, mancando di utilità pratica, costituiscono un privilegio.

Se il knowing how è più importante del knowing what, l’insegnante dovrà adeguarsi a una nuova metodologia di trasmissione del sapere, tracciando un ambiente di apprendimento non lineare, trasmettendo capacità di discernimento, idee, gusto, stile, e concependo collegamenti attraverso cui le opere confluiscono una nell’altra, in forme contigue che si incastrano tra di loro. Come fa il dj miscelando musiche diverse. Confessa Carraro: “Faccio girare qualunque remix riesco a trovare. Ho imparato a tagliare, mischiare, graffiare, campionare e sequenziare. Imposto le frequenze, passo da una playlist all’altra in dissolvenza incrociata e ci faccio sopra qualche rap. Ma sia chiaro che non sto insegnando nulla, e lo so benissimo. Certamente nulla di come è stato insegnato a me. Sto facendo il dj della cultura”. Insomma, l’interpretazione pare valere di più della comprensione, e la conoscenza non sembra importante quanto la comunicazione.

Ma anche la comunicazione presenta pericoli, equivoci, tranelli: negli ultimissimi anni, più che la pandemia, il cambiamento climatico, le guerre in Europa orientale e in Asia, o il divario economico tra i ceti sociali, l’opinione pubblica si è focalizzata su due problemi messi in luce dal movimento MeToo e dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis: le questioni riguardanti il sesso e la razza “hanno messo in gioco l’intera autopercezione della cultura occidentale, nonché di riflesso planetaria”, più di qualsiasi altro argomento politico internazionale. I gender studies e i race studies monopolizzano tutte le ricerche e discipline nelle facoltà umanistiche, provocando una radicalizzazione estrema delle scelte linguistiche

La political correctness e la cancel culture, pur giustificate negli obiettivi da raggiungere, utilizzano spesso metodi di sorveglianza sulla produzione scritta e orale capaci di creare faglie epistemologiche di difficile ricomposizione, senza riuscire a sanare le lacerazioni che qualsiasi approfondimento culturale e scientifico crea nelle coscienze più fragili. Quale soluzione si può proporre che non sia inibente nei riguardi delle varietà culturali? Forse, senza pretendere di fornire scandagli esaustivi di analisi alle nuove generazioni, basterebbe fornire loro ciò che è sufficiente “per passare all’azione, per vivere”, scendendo dalla cattedra, e ponendosi tutti assieme le stesse domande.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 30 marzo 2024

RECENSIONI

CARRERE

EMMANUEL CARRÈRE, A CALAIS – ADELPHI, MILANO 2016

Tra un bestseller e l’altro, Emmanuel Carrère ha trovato il tempo (due settimane) di recarsi a Calais – nell’inferno della cittadina francese sulla Manica, dove da molti mesi si accampano migliaia di disperati provenienti dalle zone più povere e tormentate dell’Africa e del Medio Oriente -, con il proposito di scrivere una sorta di pamphlet giornalistico su ciò che si trovava a osservare intorno a sé.
L’intenzione che lo ha motivato a redigere questo reportage sul campo è stata quella di “rivolgere lo sguardo alla città e ai suoi abitanti”, di sondarne gli umori e le rabbie, di verificare l’esistenza o meno di episodi di razzismo o intolleranza, di documentare lo sfinimento economico dei settantamila abitanti “costretti” ad accogliere “settemila disgraziati ridotti allo stremo, che dormono in tende di fortuna, nel fango, al freddo e che ispirano, a seconda del carattere di ciascuno, apprensione, pietà o sensi di colpa”.

In effetti, quello di recarsi nella cosiddetta “Giungla”, dove sono ammassate famiglie intere che vivono “un incubo di miseria e di insalubrità, in cui succedono cose terribili, regolamenti di conti e stupri”, è l’ultima cosa che Carrère fa, procrastinando ai momenti finali del suo soggiorno l’impatto con la sofferenza. Prima, cerca di comprendere quanto profondo sia il malessere dei residenti francesi, ridotti alla disoccupazione e a un’inerzia rassegnata, con la loro fiorente attività turistica andata a rotoli e con la secolare industria del merletto completamente decaduta.

Il famoso scrittore visita il teatro cittadino, siede ogni giorno nel caffè più frequentato di Calais – il Minck -, passeggia nelle piazze e lungo le banchine del porto, chiacchiera con giovani e vecchi, interroga intellettuali e commercianti, poliziotti e giornalisti, annusando passioni e ossessioni, animosità e slanci solidali. Viene anche contestato dagli attivisti pro e contro migranti, stufi di essere esaminati come cavie nei loro comportamenti e nei loro stati d’animo. “Perché in questa città niente va per il verso giusto. Tutto si è fossilizzato, i radical chic chiusi nella loro bolla di vetro, i fessi nei loro casermoni di periferia, i politici nel loro grottesco habitus politichese, i professionisti del filo spinato tutt’intorno alla circonvallazione e nella zona dell’Eurotunnel. È avvilente, caro Carrère…”

Pare non esistere più nessuna prospettiva futura, nessuna soluzione per riportare Calais, i suoi abitanti e i suoi poveri ospiti a una vita che abbia le sembianze della normalità: per lo meno, Emanuel Carrère non sa proporre nulla. Si limita ad accusare il trattato di Le Touquet firmato da Francia e Inghilterra nel 2003 di aver provocato un disastro insanabile: “Sembra di essere in un film di guerra o in un videogioco postapocalittico… È tutto un roteare di lampeggiatori, ululare di sirene, rincorrersi di uomini”.

Non basta più la comprensione generosa, la generosità fraterna per calmare gli animi avvelenati da una parte e dall’altra: non basta scriverne, nemmeno se si è una celebrità letteraria.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/A-Calais-Emmanuel-Carrere.html    27 luglio 2016