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RECENSIONI

CAROTENUTO

ALDO CAROTENUTO, I SOTTERRANEI DELL’ANIMA – BOMPIANI, FIRENZE-MILANO 2023

 Lo psicanalista Aldo Carotenuto (Napoli, 1933Roma, 2005) è stato uno dei massimi esponenti dello junghismo internazionale: tra i suoi numerosi volumi, Bompiani ha scelto di ripubblicare un testo fondamentale nell’indagine del rapporto che lega la creazione artistica con il malessere psichico: I sotterranei dell’anima, edito per la prima volta nel 1993, e ora riproposto: con il sottotitolo Tra i mostri della follia e gli dèi della creazione e la cura di Erika Czako. Czako è stata allieva di Carotenuto, e oggi è un medico che si occupa dell’assistenza ai malati oncologici terminali: nella sua intensa prefazione al volume ricorda che il suo maestro aveva fondato nel 1992 il Centro Studi di Psicologia e Letteratura, ancora operante, sulla base della convinzione che la psicoanalisi sia un esercizio più prossimo all’arte che alla scienza, e lo psicoanalista un soggetto dotato dell’ipersensibilità e della vulnerabilità dell’artista. L’autore propone in questo testo un viaggio affascinante e inquietante negli angoli bui dell’anima, filtrato dalle pagine di alcuni capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi, in particolare da quelle di Fëdor Dostoevskij e Joë Bousquet.

Esiste un pregiudizio millenario, espresso già da Platone e poi ribadito soprattutto dai romantici, che individua nell’alterazione mentale la fonte dell’originalità creativa: il folle come poeta, il malato come profeta visionario. In realtà la sofferenza psichica, e ogni patologia che ne deriva, isterilisce e non nutre, poiché non è in grado di comunicare e di produrre incontro. I grandi psicanalisti del ’900 manifestavano una visione riduttivistica della creatività artistica, ritenendola determinata da processi di frustrazione o sublimazione (Freud), di riparazione di un danno subito (Melanie Klein), di compensazione (Adler), di depressione (Segal). Più generosamente aperti verso la disposizione artistica si sono dimostrati Jung e Neumann, che ritenevano l’arte frutto di una tensione, di una trasformazione messa in atto dialetticamente tra la personalità individuale dell’artista e quella storica della collettività.

Carotenuto sostiene che la grande letteratura sa attivare nel lettore dinamiche profonde, tali da consentirgli la scoperta di parti di sé rimaste nell’ombra, mettendolo in grado di affrontare i propri demoni, trasformandone totalmente la visione della vita. Lo specifico dell’arte consiste nella trasfigurazione estetica del dolore, che viene così traslato sul piano delle sensazioni configurate da immagini. L’uomo del sottosuolo di Dostoevskij ha segnato, nell’ambito della letteratura ottocentesca europea, un profondo mutamento della prospettiva narrativa, non più fondata su una rappresentazione oggettiva della vita sociale dell’epoca, ma sulla soggettività dei protagonisti. La focalizzazione da parte dello scrittore sulla dimensione interiore dei personaggi diventerà poi una peculiarità del romanzo novecentesco, come in Kafka e in Joyce. Il sottosuolo diventa metafora dell’inconscio, luogo demonico citato in tutte le mitologie, sede dei morti e di mostri, ma anche luogo di germinazione, di gestazione e di maturazione delle creature prima di affacciarsi alla luce. Il viaggio nella propria interiorità coincide sempre con il calarsi nella solitudine, nell’allontanamento dagli stimoli del mondo esterno: il protagonista dostoevskijano è consapevole della propria diversità, patita come sofferenza e malattia dell’anima, e lo afferma esplicitamente: “Sono un malato… Sono un malvagio. Sono un uomo odioso… Non sono un uomo attraente … Io sono solo, mentre loro sono tutti… In tutta la mia vita non mi è mai riuscito di portare a termine nulla”.  Questo sentimento di inadeguatezza nei confronti degli altri, verso cui nutre sentimenti contrastanti e negativi, lo induce a trarre appagamento dal proprio male, dal proprio devastante nichilismo. Sentendosi incompreso, perseguitato dalla società, proietta su di essa il suo disagio, un vero e proprio odio: “Non posso soffrire la gente. La gente mi dà fastidio”. Carotenuto riconosce in questo atteggiamento masochistico un evidente intento autopunitivo, comune a molti pazienti che si rivolgono all’analista perché prigionieri del loro castello interiore abitato da fantasmi, ma insieme ammaliati dalle ombre sinistre e dagli angoli sordidi in cui si rifugiano, fino a trarre da questo disgusto di sé un piacere perverso. Nella sua rabbiosa sfida a un’esistenza senza progettualità e senza futuro, l’uomo del sottosuolo si definisce “un infelice topo”, dando di sé quest’immagine: “Niente sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né ribaldo, né onesto, né eroe, né insetto. E ora trascino la vita nel mio angolo, tenendomi su con la maligna e magrissima consolazione che un uomo intelligente non può in verità diventar nulla e che solo gli sciocchi diventano qualcosa”.

Nella propria lunga esperienza di analista, Aldo Carotenuto ha spesso osservato come in questi pazienti, che si sfiniscono in un processo di autoconoscenza e in “un dibattito incessante tra sé e sé e i propri immaginari interlocutori-giudici”, esista in realtà una grande ricchezza di visioni e fantasie interiori che spingono per uscire allo scoperto, e per farsi riconoscere dagli altri. Su questa occultata positività l’analisi deve operare, per permetterle una riemersione, come fa il pescatore di perle quando porta il tesoro recuperato in superficie.

Carotenuto, nella sua serrata indagine sul malessere masochista che si traduce in atteggiamenti autodistruttivi, prende in esame il meccanismo di identificazione con l’immagine paterna, che ha agito come elemento perturbante nella vita e nell’opera di Fëdor Dostoevskij. “Il rifiuto del modello genitoriale, il processo di differenziazione dalla potente immagine paterna” ha generato un soffocante senso di colpa, presente sia nell’esistenza dello scrittore sia nei suoi personaggi, spesso devianti dalla norma e dalla legalità (l’alcolizzato, il criminale, il giocatore, la prostituta…), e incapaci di adeguarsi al buon senso comune.

In chi rinuncia a confrontarsi con la realtà, in genere l’unica fonte di significato nell’interpretazione degli eventi diventa l’esercizio assoluto della ragione a discapito della dimensione emotiva e irrazionale, che viene negata e mortificata come indegna e umiliante, condannando in tal modo all’aridità dei sentimenti, alla paura delle emozioni, e a un’esistenza rigida e inappagante. “L’emozione coinvolge laddove la ragione controlla”. In tale pericolo è caduto l’uomo occidentale da quando ha negato a sé stesso l’energia vivificante e liberatoria che deriva dall’esercizio dell’immaginazione, della fantasia, dell’utopia in grado di superare i confini del reale, ipotizzando modelli e ideali di vita inediti.

La seconda parte del volume di Carotenuto prende in esame la vita e gli scritti di un autore all’epoca poco noto, e oggi rivalutato e riproposto da molti editori: il francese Joë Bousquet, che durante la prima guerra mondiale riportò una lesione alla colonna vertebrale, rimanendo paralizzato per i restanti trent’anni della sua vita. Costretto a vivere a letto, nella penombra della sua stanza, colpito nella carne e ferito nell’animo, seppe rispondere alla tragicità del suo destino in maniera creativa e feconda, universalizzando la sua esperienza, sublimando il proprio supplizio: “Ecco: distrutto a vent’anni, ho voluto attraversare l’ostacolo che l’infermità erigeva in me, renderlo trasparente… Volevo che la ferita avesse un senso”. Privato del proprio corpo, Bousquet accettò di vivere nella sofferenza e della sofferenza, mediante il corpo della scrittura, che divenne innanzitutto conoscenza soteriologica, metodo di salvezza, individuale e collettiva: “Se una simile afflizione non mi ha ridotto alla disperazione è perché mi è rimasta la voce…  Scrivo per aprire con la solitudine un largo cammino verso gli altri”.

Aveva già sperimentato, prima dell’incidente, la fascinazione della morte, sia nell’uso adolescenziale di droghe, sia nel tormento di amori sconvolgenti e distruttivi, in una inquietudine che lo portò a offrirsi volontario per il combattimento in prima linea, quasi predestinato da una intenzionalità inconscia, in una ricerca di verità ultime, fisiche e spirituali. Riuscì a resistere, in seguito, alla tentazione del suicidio, mantenendosi attento e disponibile a ogni trasalimento del cuore, a nuovi innamoramenti, alla passione per la letteratura, all’incontro con diversi amici e intellettuali (tra cui Simone Weil) che lo visitavano con regolarità nella sua cittadina di Carcassonne. Secondo Carotenuto, “Ciò che trapela dalle pagine dei suoi diari, e che rende la lettura delle sue riflessioni così stimolante, è proprio la forza psicologica che esse emanano, che gli ha consentito non solo di convivere col suo dolore, ma di trasformarlo in materia poetica”.

Due scrittori, Dostoevskij e Bousquet, che hanno conosciuto e abitato i sotterranei dell’anima, con dolore, rabbia, frustrazione, affrontandoli e illuminandoli con diversità di sguardo e destino.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2023

 

 

RECENSIONI

CARPI

ANNA MARIA CARPI, L’ASSO NELLA NEVE – TRANSEUROPA, MASSA 2011

La postfazione di Fausto Malcovati al libro di versi di Anna Maria Carpi enuclea già tutti i temi della raccolta, lasciando poco spazio di commento ad eventuali critici (e i temi sono quelli che si trovano in ogni poeta che si interroghi, quindi in ogni poeta tout court: l’immagine di sé, l’infanzia, i luoghi, gli oggetti, l’amore e la morte…). Ma quello che a Malcovati preme è il sottolineare la peculiarità di questo dettato poetico: la limpidezza, il non nascondimento. La sincerità, la chiarezza. E infatti l’autrice non lascia nessuno spazio a fraintendimenti o interpretazioni fallaci, a ricostruzioni personali e inventive del lettore. Dice tutto, spiega tutto, quasi con un’ansia di definizione che prova nei riguardi di sé stessa prima che di chi legge. E l’ impressione che subito se ne trae è quella di un’infelicità senza desideri, rassegnata, pervasiva, che incombe su ogni aspetto del semplice esistere e perdurare nel tempo. E’ un’ accoratezza delusa che investe anche la stessa scrittura: «È il mestiere più sconcio che c’è. / Che cosa resterà di tutto questo, / di esorditi e abortiti, / di tutti noi che facciamo un po’ per amore, / un po’ per bisogno, ma soprattutto / per l’ansia di apparire / un istante / sullo sfacciato video del tempo. / Nulla, ma nessuno vuole che resti qualcosa».

Non c’è gioia, dunque, nello scrivere: forse di più nel leggere (si fanno i nomi di alcuni maestri: Bobbio, Celan, Yourcenar; ma «AD UNO AD UNO se ne sono andati / i padri / di questa mia dissennata giovinezza. // Fame di padri, fame senza fine») o nel lasciarsi trascorrere in una vita da cui non ci si aspetta più nulla: «Non voglio storia, non voglio tempo. / Solo il qui e ora, solo lui, / questo livido enigma», «La vita è questo. // Io perché non ne ho voglia?», «Si aspetta il verde, si traversa la strada, / si scende nel metrò, si fa la spesa, / si prenotano viaggi, si entra in banca. // E dopo e dopo e dopo?», «Dove sei, gioia? Dove sei, speranza?», «Che c’è vita lo sento da qualche suono anomalo, / il mio respiro, / il mio sfogliare un libro / che non voglio leggere, / no, né questo né un altro».

In questa totale apatia, senso di inappartenenza, delusione verso tutto e tutti, la più grave e incisiva scontentezza riguarda la propria persona, non all’altezza, non più all’altezza dello sforzo quotidiano di esistere, e con fantasie continue di morte: «Ma anche la metropolitana mi conforta, / perché prolunga il viaggio: se mai dovessi pensare al suicidio / lo farei quaggiù in mezzo agli altri», «Io un nulla incoronato / e votato a sconfitta. // Ho un posto, uno stipendio come tanti. / Visto da fuori, tutto ben riuscito», «Così io non ho misericordia di me stessa, / e non ho niente che mi abbracci dentro», «Io-sciagura, io mio unico male».

Gli amici non bastano a salvare, sono appendici inutili che volteggiano nei riti serali di inviti, chiacchiere salottiere, bevute, incontri che non rivelano più nulla: «Ora è l’altro che ascolta – ascolta? / No, pensa solo: non la fare lunga», «Ci vediamo di furia / solo per dire: non ci siamo persi, / poi è il sollievo di un ‘anche questa è fatta’», «Gli amici ancora vivi – chi saranno? // Voci. Ci telefoneremo sulle dieci. / Come stai? Non c’è male. / Hai visto come piove? / E oggi cosa fai?».

Anche l’amore è deludente, non risponde mai al desiderio di assoluto: «Ma il mio compagno è assorto / o tace o parla d’altro», «non mi devi parlare come a un comune umano, / amore è dire all’altro non hai fine. / O io sono immortale oppure niente», «ho una casa decente e faccio inviti, / ho un matrimonio in cui si va d’accordo / sulla guerra in Irak, non su me stessa». E’ strano osservare come nella prosaicità priva di lirismo di questa poesia ogni tanto sbuchino improvvisi degli endecasillabi molto cantati, quasi consolatori: come se ci si aspettasse uno spiraglio nella negatività, un raggio di sole nella nebbia: «E’ nella mia casa di sempre il male, / è dalla mia esistenza / che non dovrei passare anche se amo quegli alberi all’inizio del parco / e il loro inverno e la neve». Il percorso biografico di Anna Maria Carpi giustifica tanto dolore, tanta disperata assenza di bene? Figlia unica e tardiva di due genitori che non si amavano, da allora si è aperta una voragine che il tempo non ha saputo richiudere: «E rannicchiata dorme / nel letto con sua madre la piccola obbediente. / Mai sarà altro, mai di più che questo, / soltanto brava, brava e diligente». Viaggiare serve a poco, immaginare scenari diversi (la Russia innevata, con un Pietro il Grande bambino; la Germania troppo ordinata e asfissiante; i bistrot francesi che portano echi di una lingua dolce e malinconica) non libera mente e cuore. L’unica possibilità di resistenza al male di vivere sussiste nella ripetizione ordinata e priva di slanci dei gesti più banali: «Solo un metro più sotto / c’è la disperazione. // Ancora un’ora, poi berrai qualcosa, / poi guarderai le mail, il telegiornale, / poi qualcuno telefona». E la carta dell’asso fatta a pezzi e buttata nella neve da un soldato tedesco a Stalingrado per spregio contro i russi diventa metafora del gesto gratuito e inutile che forse solo può salvare dall’incombere ossessivo della presenza nemica.

 

«criticaletteraria», 25 novembre 2013

RECENSIONI

CARRERA

ALESSANDRO CARRERA, SAPERE – IL MULINO, BOLOGNA 2023, p. 152

Alessandro Carrera, professore di Italian Studies e World Cultures and Literatures alla University of Houston, in Texas, è autore di numerosi volumi di critica letteraria, di romanzi e poesie; si interessa da sempre di musica, e per Feltrinelli ha tradotto tutte le canzoni e le prose di Bob Dylan, a cui ha dedicato diversi studi. È pienamente titolato, quindi, a interrogarsi – nel suo volume Sapere, edito da Il Mulino – sul valore della cultura e della sapienza che ad essa si collega nell’origine e nelle finalità: sapere inteso come “bene” non solo intellettuale, ma anche etico, civile, di collante sociale. “Il sapere non è né l’istruzione che ho ricevuto né la somma dei libri che ho letto. Inizia insieme all’umanità, ben prima che si formi la nozione di cultura. È, per prima cosa, il sapere delle origini…”

Quindi, il sapere è originario e collettivo, si differenzia presto dalla cultura, anche se spesso le loro strade si intersecano. Con un’azzeccata intuizione, Carrera definisce il sapere come l’inconscio della cultura, la quale può essere classificata, conservata in biblioteche, commercializzata e addirittura cancellata. Il sapere no, rimane, resiste, è indistruttibile, perché introduce alla visione delle idee, non ha una funzione eminentemente pratica. Il problema da porsi è come tramandarlo alle generazioni future, in maniera non dogmatica né gerarchica.

Il primo capitolo del libro si occupa proprio della gerarchizzazione del sapere, a partire dalle esperienze personali dell’autore: un suo primo impiego come caporedattore in un giornale di medicina e alimentazione alternativa, gli studi di estetica musicale, il trasferimento negli Stati Uniti nel 1987, un viaggio a Kyoto a visitare il parco Ryoanji. Esperienze che l’hanno convinto dell’irrilevanza delle teorie che pretendono di spiegare il reale, catalogandolo, quando invece vengono continuamente superate, modificate da nuovi paradigmi ideologici (hanno stancato molti -ismi idolatrati in passato: strutturalismo, personalismo, esistenzialismo, storicismo, cognitivismo ecc.). Al loro posto si stende un’orizzontalità assoluta, un vuoto che è anche immanenza ma in senso antigerarchico, disegnando una diversa topologia dei campi del sapere, dove non esiste “né sopra né sotto, né destra né sinistra”. Alla verticalità cristallizzata di valori – in scala a seconda della loro rilevanza e del loro prestigio culturale –, si sostituisce la ricchezza della compresenza di posizioni e situazioni non confrontabili tra loro, eppure ugualmente potenti. “I Beatles sono ‘come’ Stockhausen, Bob Dylan è ‘come’ Miles Davis”. Ogni prodotto culturale in futuro sarà letto con criteri interpretativi oggi sconosciuti: bisogna riuscire a considerare artefatti diversissimi tra loro sul piano della compresenza, pur sapendo che

appartengono a momenti temporali diversi e non paragonabili, per approdare a un pensiero non gerarchico, analogico, immediato. Il concetto di diacronia va relativizzato rispetto alla sincronia dei saperi nel momento in cui appaiono, globalmente e in maniera differenziata: la cultura dominante mezzo secolo fa oggi è considerata di nicchia, non più egemonica, e viene di continuo sostituita da nuovi saperi prima ritenuti periferici, di minoranza.

Quale sapere trasmettere, quindi, e come? Nel secondo capitolo Alessandro Carrera riflette sulla sua professione di docente, ora universitario, precedentemente in ogni grado di scuola. Ironicamente si definisce un disc jockey della cultura, dato che oggi i concetti di classicità, bellezza, significanza  sono stati profondamente modificati in senso funzionale: di efficienza, resa economica, produttività. Il tablet, nella sua piattezza unidimensionale, è più comodo del libro; la rapidità è preferibile alla lentezza; il progresso tecnologico è essenziale, mentre le discipline umanistiche non lo sono. Anzi, mancando di utilità pratica, costituiscono un privilegio.

Se il knowing how è più importante del knowing what, l’insegnante dovrà adeguarsi a una nuova metodologia di trasmissione del sapere, tracciando un ambiente di apprendimento non lineare, trasmettendo capacità di discernimento, idee, gusto, stile, e concependo collegamenti attraverso cui le opere confluiscono una nell’altra, in forme contigue che si incastrano tra di loro. Come fa il dj miscelando musiche diverse. Confessa Carraro: “Faccio girare qualunque remix riesco a trovare. Ho imparato a tagliare, mischiare, graffiare, campionare e sequenziare. Imposto le frequenze, passo da una playlist all’altra in dissolvenza incrociata e ci faccio sopra qualche rap. Ma sia chiaro che non sto insegnando nulla, e lo so benissimo. Certamente nulla di come è stato insegnato a me. Sto facendo il dj della cultura”. Insomma, l’interpretazione pare valere di più della comprensione, e la conoscenza non sembra importante quanto la comunicazione.

Ma anche la comunicazione presenta pericoli, equivoci, tranelli: negli ultimissimi anni, più che la pandemia, il cambiamento climatico, le guerre in Europa orientale e in Asia, o il divario economico tra i ceti sociali, l’opinione pubblica si è focalizzata su due problemi messi in luce dal movimento MeToo e dall’uccisione dell’afroamericano George Floyd a Minneapolis: le questioni riguardanti il sesso e la razza “hanno messo in gioco l’intera autopercezione della cultura occidentale, nonché di riflesso planetaria”, più di qualsiasi altro argomento politico internazionale. I gender studies e i race studies monopolizzano tutte le ricerche e discipline nelle facoltà umanistiche, provocando una radicalizzazione estrema delle scelte linguistiche

La political correctness e la cancel culture, pur giustificate negli obiettivi da raggiungere, utilizzano spesso metodi di sorveglianza sulla produzione scritta e orale capaci di creare faglie epistemologiche di difficile ricomposizione, senza riuscire a sanare le lacerazioni che qualsiasi approfondimento culturale e scientifico crea nelle coscienze più fragili. Quale soluzione si può proporre che non sia inibente nei riguardi delle varietà culturali? Forse, senza pretendere di fornire scandagli esaustivi di analisi alle nuove generazioni, basterebbe fornire loro ciò che è sufficiente “per passare all’azione, per vivere”, scendendo dalla cattedra, e ponendosi tutti assieme le stesse domande.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 30 marzo 2024

RECENSIONI

CARRERE

EMMANUEL CARRÈRE, A CALAIS – ADELPHI, MILANO 2016

Tra un bestseller e l’altro, Emmanuel Carrère ha trovato il tempo (due settimane) di recarsi a Calais – nell’inferno della cittadina francese sulla Manica, dove da molti mesi si accampano migliaia di disperati provenienti dalle zone più povere e tormentate dell’Africa e del Medio Oriente -, con il proposito di scrivere una sorta di pamphlet giornalistico su ciò che si trovava a osservare intorno a sé.
L’intenzione che lo ha motivato a redigere questo reportage sul campo è stata quella di “rivolgere lo sguardo alla città e ai suoi abitanti”, di sondarne gli umori e le rabbie, di verificare l’esistenza o meno di episodi di razzismo o intolleranza, di documentare lo sfinimento economico dei settantamila abitanti “costretti” ad accogliere “settemila disgraziati ridotti allo stremo, che dormono in tende di fortuna, nel fango, al freddo e che ispirano, a seconda del carattere di ciascuno, apprensione, pietà o sensi di colpa”.

In effetti, quello di recarsi nella cosiddetta “Giungla”, dove sono ammassate famiglie intere che vivono “un incubo di miseria e di insalubrità, in cui succedono cose terribili, regolamenti di conti e stupri”, è l’ultima cosa che Carrère fa, procrastinando ai momenti finali del suo soggiorno l’impatto con la sofferenza. Prima, cerca di comprendere quanto profondo sia il malessere dei residenti francesi, ridotti alla disoccupazione e a un’inerzia rassegnata, con la loro fiorente attività turistica andata a rotoli e con la secolare industria del merletto completamente decaduta.

Il famoso scrittore visita il teatro cittadino, siede ogni giorno nel caffè più frequentato di Calais – il Minck -, passeggia nelle piazze e lungo le banchine del porto, chiacchiera con giovani e vecchi, interroga intellettuali e commercianti, poliziotti e giornalisti, annusando passioni e ossessioni, animosità e slanci solidali. Viene anche contestato dagli attivisti pro e contro migranti, stufi di essere esaminati come cavie nei loro comportamenti e nei loro stati d’animo. “Perché in questa città niente va per il verso giusto. Tutto si è fossilizzato, i radical chic chiusi nella loro bolla di vetro, i fessi nei loro casermoni di periferia, i politici nel loro grottesco habitus politichese, i professionisti del filo spinato tutt’intorno alla circonvallazione e nella zona dell’Eurotunnel. È avvilente, caro Carrère…”

Pare non esistere più nessuna prospettiva futura, nessuna soluzione per riportare Calais, i suoi abitanti e i suoi poveri ospiti a una vita che abbia le sembianze della normalità: per lo meno, Emanuel Carrère non sa proporre nulla. Si limita ad accusare il trattato di Le Touquet firmato da Francia e Inghilterra nel 2003 di aver provocato un disastro insanabile: “Sembra di essere in un film di guerra o in un videogioco postapocalittico… È tutto un roteare di lampeggiatori, ululare di sirene, rincorrersi di uomini”.

Non basta più la comprensione generosa, la generosità fraterna per calmare gli animi avvelenati da una parte e dall’altra: non basta scriverne, nemmeno se si è una celebrità letteraria.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/A-Calais-Emmanuel-Carrere.html    27 luglio 2016

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CARROLL

LEWIS CARROLL, CONTRO LA VIVISEZIONE – ELLIOT, ROMA 2014

Di Lewis Carroll (1832-1898), scrittore, matematico, fotografo e logico britannico, tutti conoscono i due romanzi dedicati ad Alice, se non per lettura diretta, perlomeno per averne visto la trasposizione cinematografica. Ma questo suo testo pubblicato da Elliot costituisce una sorta di rarità editoriale, poco noto nella radicalità delle tesi espresse e nella vivacità di scrittura.

Contro la vivisezione è un pamphlet pubblicato in rivista nel 1875, accolto con interesse e polemiche proprio perché nello stesso anno erano stati presentati due progetti di legge (di cui uno firmato anche da Charles Darwin) per regolamentare la sperimentazione sugli animali, in quegli anni praticata e difesa culturalmente negli ambienti medici e scientifici di tutta Europa.

In Inghilterra la diffusa sensibilità popolare nei confronti del mondo animale aveva trovato espressione in una legge del 1822 che puniva i maltrattamenti nei confronti di cavalli, asini, buoi utilizzati per motivi di lavoro. Al 1824 risale poi la fondazione della prima Società per la protezione degli animali.

Il saggio di Lewis, teso a confutare le falsità dei sostenitori della vivisezione, e a incoraggiare un più stretto controllo sociale della medicina, investiva essenzialmente il rapporto tra scienza ed etica, interrogando i lettori sulla responsabilità dell’uomo nel suo rapporto quotidiano con l’ambiente naturale e chi lo abita.

Senza arrivare al fanatismo di chi ritiene che uccidere un animale sia sempre e comunque un delitto (dovrebbe valere anche per gli insetti!), Carroll non condanna l’umanità che si nutre di carne o pesce, né dimostra di essere uno strenuo difensore del vegetarianismo, ma si indigna davanti a chi provoca l’inutile sofferenza di qualsiasi essere vivente. Confuta quindi come prive di senso le argomentazioni dei difensori della vivisezione per ragioni scientifiche, accampando ad esempio la superiorità del genere umano rispetto a quello animale, e il diritto a difendere l’umanità dal dolore e dalle malattie, presupponendo che “la sofferenza umana e quella animale siano diverse ‘per natura’”. Nemmeno gli sport venatori, come caccia e pesca, procurano tanto dolore quanto la vivisezione, in quanto in genere producono nelle vittime una morte subitanea.

Inoltre la vivisezione crea in chi la pratica una sorta di assuefazione morale e di imperturbabilità, annullando il sentimento di compassione nei confronti delle cavie: “la tortura, quando il primo istinto di orrore viene attenuato dall’abitudine, diventa, innanzitutto, indifferenza; poi interesse morboso; in seguito, vero e proprio piacere, infine una gioia feroce e terribile”.

Il degrado etico che Carroll teme nell’acutizzarsi e diffondersi della tecnica eccedente ed evitabile  della vivisezione potrebbe addirittura estendersi a esperimenti sugli esseri umani, con la possibilità “che un giorno l’anatomia reclami per sé , come soggetti leciti per la sperimentazione, dapprima i criminali condannati, poi i pazienti nei sanatori per malattie incurabili, quindi gli infermi di mente senza speranza, i ricoverati negli ospedali per i poveri e, in genere, ‘chiunque sia senza soccorso’”.

L’appello appassionato di Lewis Carroll risale a centocinquant’anni fa. È assurdamente allarmistico lo scenario distopico che prospetta? “Quel giorno avremmo costruito un nuovo e più tremendo Frankenstein, un mostro senz’anima fatto solo di scienza”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        16 settembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

CARROZZA

MARIA CHIARA CARROZZA, I ROBOT E NOI – IL MULINO, BOLOGNA 2017

Un affascinante viaggio scientifico e culturale, quello proposto da Maria Chiara Carrozza (deputata del Partito democratico, membro della Commissione Esteri, professore di Bioingegneria Industriale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) nel suo libro I robot e noi, pubblicato delle edizioni Il Mulino. Il volume raccoglie alcune lezioni tenute nel 2016 presso la Scuola di Politiche a Roma, trascritte in seguito con chiaro intento divulgativo, in uno stile lineare e conciso, per un pubblico di lettori non specialistici. Dopo una prima sezione introduttiva, in cui l’autrice riassume brevemente le sue esperienze di studio e professionali (vissute tra prestigiosi centri di ricerca internazionali e il nostro Parlamento), il primo capitolo offre un rapido excursus storico sulle tre rivoluzioni industriali che hanno segnato il progresso dell’umanità, per introdurci poi alla quarta, fondamentale e rivoluzionaria, che stiamo vivendo nel presente e che modificherà radicalmente il nostro futuro. La robotica ha già iniziato a trasformare negli ultimi anni la produzione manifatturiera mondiale e a modificare i comportamenti collettivi e individuali dell’intera popolazione planetaria, trovando impiego non solo nell’industria (dove accelera i tempi di produzione, abbatte i costi del personale, facilita le operazioni più difficoltose e sostituisce gli operai nei lavori ripetitivi o usuranti), ma anche in altri settori quali la medicina, l’esplorazione astronomica e sottomarina, gli scenari di guerra o la vita domestica. Ovunque, insomma, dove ci siano ambienti difficili da raggiungere, condizioni ostili e pericolose per la vita dell’uomo, situazioni fisiche problematiche da soccorrere.

Le tecnologie robotiche stanno indirizzandosi soprattutto, e con finalità eminentemente umanitarie, dalle fabbriche al terziario e ai servizi sociali. Maria Chiara Carrozza segue in modo particolare la socializzazione della robotica nelle sue applicazioni neuro-bioniche. Strumenti microscopici sono in grado di esplorare l’interno del corpo umano riducendo al minimo l’invasività e il dolore nelle operazioni chirurgiche; vista-udito-movimento menomati da gravi incidenti, malattie o mutilazioni possono recuperare le loro funzionalità attraverso micro-dispositivi impiantati nel sistema nervoso o protesi robotiche inserite negli organi danneggiati, grazie a interfacce neurali e a esoscheletri che rivestono un arto o addirittura tutto il corpo. Nella vita quotidiana delle famiglie esistono già robot domestici che facilitano i lavori casalinghi, (il Roomba o il Bimbo, ad esempio); prima di quanto immaginiamo ci troveremo ad avere badanti umanoidi come il Jibo che ci porteranno la colazione a letto, ci faranno compagnia o seguiranno i bambini nei compiti. Le nostre automobili si guideranno da sole, e potremo costruirci un Avatar che ci sostituisca negli impegni sociali più gravosi e indisponenti. Se la robotica ha quindi come fine ultimo quello di superare i limiti della condizione umana, sussiste tuttavia il rischio che finisca per automatizzare ogni aspetto della vita collettiva, riducendo i posti-lavoro, sorvegliandoci in ogni movimento, rimpiazzandoci anche nella creatività.

Mentre leggevo l’ultimo capitolo di questo stimolante saggio, alla radio trasmettevano la V Sinfonia di Shostakovich, così geniale nel suo spaziare dai crescendo esplosivi ai toni più commossi e intimistici. Mi è sorto l’allarmante dubbio su quale sarà il destino futuro dell’opera d’arte, come già si chiedeva Benjamin negli anni ’30: un robot saprà scrivere qualcosa di simile alle elegie rilkiane, comporre preludi eleganti come quelli di Chopin, dipingere gli stessi profili delicati di Beato  Angelico? Se sì, come temo, di cosa potremo mai occuparci noi comuni e limitatissimi mortali?

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/I-robot-e-noi-Carrozza.html            18 settembre 2017

RECENSIONI

CARTABIA-CERETTI

MARTA CARTABIA-ADOLFO CERETTI, UN’ALTRA STORIA INIZIA QUI – BOMPIANI, MILANO 2020

Marta Cartabia, costituzionalista e giurista, e Adolfo Ceretti, criminologo, entrambi docenti universitari, hanno scritto un saggio dal titolo augurale, aperto a un futuro generosamente propositivo: Un’altra storia inizia qui. Quale storia, dunque? E “qui” dove?

La storia è quella che riguarda sessantamila persone rinchiuse nelle carceri italiane: storia che può diventare “altra” a partire da un “qui” di ripartenza, educativa e socializzante. Il sottotitolo del volume, La giustizia come ricomposizione, pare infatti auspicare una giustizia capace di promuovere i valori della convivenza civile, ricucendo i rapporti interpersonali invece di reciderli.

Le riflessioni degli autori si articolano in due interventi – tenuti nel marzo di quest’anno al Centro Carlo Maria Martini – che prendono le mosse proprio dalla testimonianza profondamente umana ed empatica del Cardinale, il quale, facendo ingresso nella Diocesi milanese il 10 febbraio 1980, e passando davanti a San Vittore, promise a se stesso di dedicare a coloro che vi erano segregati la prima visita pastorale. Prima delle molte succedutesi nei 22 anni del suo mandato arcivescovile.

Adolfo Ceretti arricchisce il proprio dotto contributo non solo con le considerazioni filosofiche di Hume, Simmel, Rorty, Shklar, Ricoeur, ma appunto con le riflessioni che Martini maturò sulla pena detentiva e sulle condizioni di vita nelle prigioni. Le sue meditazioni tendevano in primo luogo a incoraggiare una giustizia non puramente punitiva ed emarginante, ma semmai riparativa, in grado di riequilibrare anche la relazione tra vittime e rei.

In una visione profetica, nutrita di profonda sensibilità e cultura teologica, Martini indicava come legittima e necessaria l’opposizione ai delitti e all’illegalità, rifiutando tuttavia con forza ogni ritorsione vendicativa, e ogni espressione di crudeltà nella detenzione. Affermando che nessuna persona va identificata totalmente nel reato commesso, sottolineava il dovere di concedere a chiunque la possibilità di un riscatto, il diritto a un confronto e al dialogo. Invitava inoltre a valutare il peso delle corresponsabilità sociali nella genesi della criminalità, spesso generata da condizioni culturali, economiche ed educative depauperate. Particolare fu ad esempio la disponibilità dimostrata dal Cardinale verso i protagonisti della lotta armata negli anni ’70 e ’80, attraverso l’ascolto delle loro confessioni, da cui emergevano sia ammissioni di responsabilità, sia pentimento e volontà di riparare alle colpe commesse e al dolore provocato.

Marta Cartabia approfondisce le tematiche suggerite dal collega Ceretti con rafforzata, partecipe finezza, testimoniando la sua affinità con le tesi di carità evangelica di Carlo Maria Martini. Citando il versetto di Matteo 25,43 “Ero in carcere e mi avete visitato”, sottolinea la pregnanza umana e religiosa del verbo visitare, cui l’alto prelato attribuiva il significato biblico di incontro, cura e soccorso, al quale mai si era sottratto: “Il carcere è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata”.

Da qualche anno, alcuni giudici della Corte Costituzionale visitano i luoghi di reclusione, facendo proprio l’invito di Martini a valutare le esperienze personali dei detenuti, nella necessità di superare la visione retributiva della giustizia (a lungo condivisa anche dal cristianesimo, nella condanna del peccatore al castigo dell’inferno) attraverso quella di redenzione, in un cammino evolutivo e riformatore della correzione. Due i capisaldi della riflessione martiniana: la dignità della persona, e la costruzione di un sistema penitenziario efficace, in grado di tutelare la sicurezza dei cittadini e di ripristinare l’armonia dei rapporti sociali.

“L’uomo non è bestia da domare… mostro da abbattere, parassita da uccidere”, scriveva il Cardinale nel 2003. In accordo con le sue indicazioni, il sistema giuridico italiano sta sviluppando il concetto di pena come cammino graduale, flessibile e individuale di ciascun detenuto, in un processo di riabilitazione e risocializzazione, e nella prospettiva futura di un superamento del carcere come unico rimedio del male. Già Michel Foucault, nel saggio Sorvegliare e punire del 1976, affermava che la restrizione carceraria, “non è in grado di diminuire il tasso di criminalità e anzi tende a incentivare la recidiva”. Nessuna ritorsione vendicativa della collettività nei riguardi del reo, quindi, ma come indicava Carlo Maria Martini “riconoscimento e riconciliazione”: riconoscimento del male compiuto e ammissione delle responsabilità da parte del colpevole, riconciliazione per ricostruire i legami spezzati dall’agire iniquo.

Marta Cartabia, nel suo excursus culturale sui concetti di colpa, condanna, perdono, si rifà sia alla Bibbia sia ai tragici greci e alla Commedia dantesca, per arrivare ai maggiori pensatori del ’900: Buber, Guardini, Calamandrei, Ricoeur. E conclude con le parole di Papa Francesco: “Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”.

Parole che sento di poter condividere personalmente, avendo una figlia che da anni insegna nel carcere di massima sicurezza di Opera: dai suoi resoconti sulla sofferenza di cui è quotidianamente testimone intuisco quanto siano necessari radicali interventi di riforma del nostro sistema giudiziario e penitenziario.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 26 ottobre 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CARVER

RAYMOND CARVER, ORIENTARSI CON LE STELLE – MINIMUM FAX, ROMA 2013

Di Raymond Carver (“il Cechov americano”, secondo una definizione del Guardian di Londra) abbiamo letto un po’ tutti, con commozione e stupore, i racconti agili, veloci, ironici e assolutamente privi di retorica, e un po’ tutti li abbiamo sempre associati al suo modo di essere un cittadino statunitense nato nel 38, vissuto con rabbia e disperazione tra alcol, droga, drammi familiari e povertà in quella temperie culturale e artistica che ha contraddistinto l’America del dopoguerra. Ma la sua voce è sembrata a molti distinguersi per una mai del tutto rinnegata, e quasi pudica, ingenuità e tenerezza: soprattutto quando descrive la morte di un bambino, lo spaesamento adolescenziale, la sofferenza del tradimento, l’abbrutimento delle dipendenze, l’immersione nella natura, con i suoi boschi, i fiumi, il rito disintossicante della pesca. Sono tutti temi che ritornano nelle sue poesie, che hanno attraversato e accompagnato la sua produzione narrativa, intensificandosi negli anni precedenti la morte, segnati dalla lotta contro il tumore. Poesie che a un lettore europeo, abituato alla complessità e alla profondità dei versi degli autori più noti del nostro 900, possono sembrare troppo facili e immediate, con il loro andamento discorsivo, la loro trasparenza descrittiva, il tono assolutamente disarmato e privo di astuzie linguistiche con cui si offrono a chi legge. Carver non si paluda da poeta-vate, racconta con semplicità quello che gli succede, senza pretendere complicità o partecipazione emotiva, che quasi si vieta egli stesso: «Lontano, / un altro uomo cresce i miei figli,/ e va a letto con mia moglie, con mia moglie»; «Non ti crucciare il cuore per me, cara. / Tessiamo con il filo che ci è dato». Ma come non emozionarsi davanti al padre di Limonata, che vede il suo ragazzino morto ripescato dal fiume con una gru, e depositato sull’erba davanti ai suoi piedi? «E lui ricorda / la dolcezza, quando la vita era dolce, e dolcemente / gli era stata assegnata quell’altra vita”.

IBS, 13 maggio 2013

RECENSIONI

CARVER

RAYMOND CARVER, ORIENTARSI CON LE STELLE ‒ MINIMUM FAX, ROMA 2016

Di Raymond Carver (“il Cechov americano”, secondo una definizione del Guardian di Londra) abbiamo letto, con commozione e stupore, i racconti agili, veloci, ironici e assolutamente privi di retorica, associandoli istintivamente al suo essere un cittadino statunitense nato nel ‘38, vissuto con rabbia e disperazione tra alcol, droga, drammi familiari e povertà nella temperie culturale e artistica che ha contraddistinto l’America del dopoguerra. La sua voce ci è sembrata però distinguersi per una mai del tutto rinnegata, e quasi pudica, ingenuità e tenerezza: soprattutto quando descriveva la morte di un bambino, lo spaesamento adolescenziale, la sofferenza del tradimento, l’abbrutimento delle dipendenze, l’immersione nella natura ‒ con i suoi boschi, i fiumi, il rito disintossicante della pesca.  Riguardo all’etichetta di minimalista, che rifiutava, scrisse: «È difficile essere semplici. La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro prima che risulti trasparente, cristallina. Questa non è una contraddizione in termini. Arrivo a sottoporre un racconto persino a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c’è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un processo. Scrivere è un processo di rivelazione».

I temi dei racconti ritornano nelle poesie, che hanno attraversato e accompagnato la sua produzione narrativa, intensificandosi negli anni precedenti la morte, segnati dalla lotta contro il tumore. Versi che a un lettore europeo, abituato alla complessità e alla profondità degli autori più noti del nostro ‘900, possono sembrare troppo facili e immediati, con il loro andamento discorsivo, la minuziosità diaristica, la trasparenza descrittiva, il tono assolutamente disarmato e privo di astuzie linguistiche con cui si offrono a chi legge. Carver non si paluda da poeta-vate, narra con semplicità quello che gli succede, senza pretendere complicità o partecipazione emotiva, che vieta anche a sé stesso: «Lontano, / un altro uomo cresce i miei figli, / e va a letto con mia moglie, con mia moglie».

Chi volesse avvicinarsi alle sue poesie, pubblicate da Minimum Fax, dovrebbe forse prima conoscere qualcosa della narrativa, magari ascoltandone la straordinaria resa interpretativa su Radio3, in Ad alta voce. Si accorgerebbe che l’atmosfera è simile, gli avvenimenti raccontati in prosa e in versi sono i medesimi, come ha scritto la sua compagna Tess Gallagher: «Talvolta, senza provare alcun imbarazzo, Ray si è servito degli stessi avvenimenti o degli stessi momenti di consapevolezza sia nelle poesie che nei racconti. I versi spesso chiariscono un sostrato emotivo o biografico lasciato in ombra nei racconti. ‘Sfruttalo sino in fondo’, diceva. ‘Non lasciare niente da parte per dopo’». Infatti alcune poesie sono veri e propri poemetti narrativi, molto estesi e colloquiali (da non perdere Limonata, Il pittore e il pesce, Voi non sapete che cos’è l’amore, La cabina telefonica, Miracolo, Il portafoglio di mio padre, Chiedigli un po’). Ricalcano i moduli della sua scrittura, con le conclusioni inaspettate e spiazzanti, intese soprattutto ad evitare la retorica, o la descrizione particolareggiata dei gesti, osservati quasi al rallentatore («Risaliamo in macchina per guardare il fumo e il fuoco. Il motore è acceso. Annuso la colla dei modellini sulle mie dita. Lui mi guarda mentre avvicino le dita al naso», «Esci dalla statale a sinistra e / scendi giù dal colle. Arrivato / in fondo, gira ancora a sinistra. / Continua sempre a sinistra»).

Gli argomenti che Raymond Carver tratta nelle sue poesie sono comuni e universali, non si distinguono per particolare originalità. L’amore, innanzi tutto, declinato in tutte le sue sfumature: nostalgia, tenerezza, rabbia, sensualità, dolore: «La chiave l’ho lasciata / nel solito posto. Tu sai dove. / Ricordati di me e di tutto quello che abbiamo fatto insieme», «Torna a casa. Mi senti? / I miei polmoni sono pieni del fumo / della tua assenza», «Mi ha detto che lo sapeva / Merda ho 51 anni e lei ne ha 25 / e siamo innamorati e lei è gelosa / Gesù è bellissimo / ha detto che mi strappava gli occhi se venivo quassù a scopare», «Non ti crucciare il cuore per me, cara. / Tessiamo con il filo che ci è dato», «Seppellì sua moglie, che era morta / disperata. E, disperato, lui / si rifugiò nella veranda, da dove osservava / il sole tramontare e sorgere la luna», «È quella / la casa dove, in piedi sulla soglia, / c’è una donna / con il sole nei / capelli. Quella / che è rimasta in attesa / fino a ora. / La donna che ti ama. / L’unica che può dirti: /’Come mai ci hai messo tanto?’».

Oppure gli affetti familiari: padre madre fratello moglie figli, bloccati nella memoria in un solo gesto o in un’unica frase, riscoperti per caso in una fotografia, posizionati nel loro ambiente abituale: la cucina, l’auto, l’officina («Mio padre è ai fornelli che frigge uova / e cervello. Ma chi ha fame / stamattina?», «Poi non posso fare a meno di lanciare un’altra occhiata / alla foto. Il suo ammiccare, il gran sorriso, / l’inclinazione spavalda della sigaretta», «Comunque sono contento. / Vado in macchina con mio fratello, / beviamo una pinta di Old Crow. / Non abbiamo in mente / nessuna meta, andiamo e basta»).

Le difficoltà economiche e la rivendicazione di una maggiore uguaglianza, insieme al disprezzo per la ricchezza immeritata e ostentata: «Mi licenziavano e poi mi riassumevano di nuovo / facevo il magazziniere da loro a 35 anni / e poi mi hanno sbattuto dentro perché rubavo dolci / So cosa significa ci sono stato», «ho incontrato uomini in galera che avevano più stile / della gente che bazzica i college / e va alle letture di poesia / Sono delle sanguisughe che vengono a vedere / se i calzini del poeta sono sporchi / o se gli puzzano le ascelle / Credetemi io non li deluderò quelli lì».

Ancora la morte, temuta, sospettata, prevista e infine attesa con rassegnazione: «La faccia logora della morte! / La fulminea velocità del passato», «Hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra», «Dammi la mano per un po’. Tienimi la / mia. Così va bene, sì. Stringimela forte. C’era un tempo in cui / pensavamo di avere il tempo dalla nostra. C’era un tempo, c’era / un tempo, / gridano gli uccellini malridotti». Impossibile non emozionarsi davanti al padre di Limonata, che vede il suo ragazzino morto ripescato dal fiume con una gru, e depositato sull’erba davanti ai suoi piedi: «E lui ricorda / la dolcezza, quando la vita era dolce, e dolcemente / gli era stata assegnata quell’altra vita».

In tutto questo (in tutto questo amare e disprezzarsi, bestemmiare e distruggersi, commuoversi e maledire) quello che alla fine rimane come lascito al lettore è un incoraggiamento, quasi una rude pacca sulla spalla, come a dire: siamo sulla stessa barca, soffriamo tutti nella stessa maniera, cerchiamo di resistere.

 

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 5 marzo 2018

 

 

RECENSIONI

CASADEI

ALBERTO CASADEI, LA CRITICA LETTERARIA CONTEMPORANEA – IL MULINO, BOLOGNA 2015

Credo che chiunque ami la letteratura, o si occupi di studi umanistici a qualsiasi livello, dovrebbe acquistare, consultare e conservare nella sua biblioteca questo importante volume di Alberto Casadei (professore ordinario all’Università di Pisa), che in maniera sintetica ma esauriente, e in un linguaggio limpido e accessibile, offre una panoramica articolata delle tendenze attuali della critica letteraria mondiale.
Il volume si suddivide in un’introduzione e quattro capitoli, inframmezzati da dieci essenziali “quadri”, dedicati agli studiosi che nel corso del ‘900 hanno dato il contributo teorico e interpretativo più rilevante al dibattito su linguaggio e letteratura (da N.Frye a W.Benjamin, da M.Bachtin a R.Barthes…). Dopo una breve ma dettagliata esposizione dei caratteri essenziali della critica letteraria ottocentesca, l’autore ci offre una sintesi dei metodi di ermeneutica testuale più rappresentativi e discussi del secolo scorso, dando spazio sia alla critica accademica sia a quella militante, sia alle scuole di pensiero sia ai contributi di singoli scrittori.
Nei tre capitoli iniziali (il quarto, conclusivo, riguarda le novità degli ultimi anni – sospesi tra postmodernità e globalizzazione – e le stimolanti prospettive future, aperte ai contributi delle nuove tecnologie e delle scienze neurocognitive) Casadei propone una distinzione tra critiche incentrate sull’autore, sul testo o sul lettore: scansione ovviamente passibile di frequenti intersezioni e sconfinamenti a seconda dei periodi e delle aree geografiche prese in considerazione.
La prima sezione (L’autore e il mondo) esamina un insieme di fattori non solo testuali, spesso dipendenti dall’autore e dal suo contesto socioculturale, proponendo ricostruzioni di più ampio respiro psicologico, storico, ideologico. Ci si sofferma quindi sulla critica psicanalitica (da Freud a Lacan, citando anche i nostri Lavagetto e Rella), su quella storicistica (Croce, in primis, e poi Russo, Sapegno, Dionisotti) e marxista (Lukàcs e Benjamin, gli italiani Salinari e Muscetta, fino ai recenti Fortini, Cases, Sanguineti), su quella sociologica (da Weber alla Scuola di Francoforte a Pierre Bourdieu). Non vengono trascurate altre correnti, sia di impianto teologico sia di tematiche folkloriche, archetipiche, mitologiche. E qui Casadei si sbilancia nell’affermare che «…è Michail Bachtin lo studioso che ha maggiormente segnato gli ultimi decenni del Novecento, aprendo nuove vie per l’analisi del folklore, dei generi letterari e specialmente del romanzo… e favorendo i rapporti tra scienza e letteratura».

Nella seconda parte (Il testo e/o l’opera) si prendono in considerazione le correnti focalizzate sull’opera in sé: dagli studi di stilistica (Auerbach e Spitzer) a quelli filologici di Contini, Mengaldo e Branca, per poi soffermarsi sui contributi del formalismo (Jakobson e la Scuola di Praga, Šklovskij e Propp), dello strutturalismo e della semiotica, per approdare infine alla Nouvelle critique e a Roland Barthes. Vengono citati anche gli italiani Eco, Corti, Segre, Isella.
Nel terzo capitolo (Il lettore e le culture) si affronta l’approccio al testo più nuovo e controverso, che indaga l’impatto esercitato dall’opera letteraria sul lettore, e viceversa. Perciò l’ermeneutica, attenta alle modalità interpretative da parte di chi legge (Dilthey e Gadamer, Habermas e Ricoeur), fino agli innovativi studi sull’estetica della ricezione della Scuola di Costanza (Jauss, Iser e il nostro Cadioli), per concludere con le eterodosse posizioni del decostruzionismo (Derrida e Bloom) e della misinterpretazione, che rivendicano l’infinita equivocità del testo, la sua continua reinterpretabilità, e la complessità babelica del linguaggio, a cui ci si dovrebbe avvicinare da posizioni relativistiche e pragmatiche: ridando spazio a letture multiculturali anche lontane dai canoni ufficiali.
Il volume di Casadei, tanto stimolante e istruttivo, è arricchito da una articolata ed esaustiva bibliografia.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/La-critica-letteraria.html        8 dicembre 2015