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RECENSIONI

CARROLL

LEWIS CARROLL, CONTRO LA VIVISEZIONE – ELLIOT, ROMA 2014

Di Lewis Carroll (1832-1898), scrittore, matematico, fotografo e logico britannico, tutti conoscono i due romanzi dedicati ad Alice, se non per lettura diretta, perlomeno per averne visto la trasposizione cinematografica. Ma questo suo testo pubblicato da Elliot costituisce una sorta di rarità editoriale, poco noto nella radicalità delle tesi espresse e nella vivacità di scrittura.

Contro la vivisezione è un pamphlet pubblicato in rivista nel 1875, accolto con interesse e polemiche proprio perché nello stesso anno erano stati presentati due progetti di legge (di cui uno firmato anche da Charles Darwin) per regolamentare la sperimentazione sugli animali, in quegli anni praticata e difesa culturalmente negli ambienti medici e scientifici di tutta Europa.

In Inghilterra la diffusa sensibilità popolare nei confronti del mondo animale aveva trovato espressione in una legge del 1822 che puniva i maltrattamenti nei confronti di cavalli, asini, buoi utilizzati per motivi di lavoro. Al 1824 risale poi la fondazione della prima Società per la protezione degli animali.

Il saggio di Lewis, teso a confutare le falsità dei sostenitori della vivisezione, e a incoraggiare un più stretto controllo sociale della medicina, investiva essenzialmente il rapporto tra scienza ed etica, interrogando i lettori sulla responsabilità dell’uomo nel suo rapporto quotidiano con l’ambiente naturale e chi lo abita.

Senza arrivare al fanatismo di chi ritiene che uccidere un animale sia sempre e comunque un delitto (dovrebbe valere anche per gli insetti!), Carroll non condanna l’umanità che si nutre di carne o pesce, né dimostra di essere uno strenuo difensore del vegetarianismo, ma si indigna davanti a chi provoca l’inutile sofferenza di qualsiasi essere vivente. Confuta quindi come prive di senso le argomentazioni dei difensori della vivisezione per ragioni scientifiche, accampando ad esempio la superiorità del genere umano rispetto a quello animale, e il diritto a difendere l’umanità dal dolore e dalle malattie, presupponendo che “la sofferenza umana e quella animale siano diverse ‘per natura’”. Nemmeno gli sport venatori, come caccia e pesca, procurano tanto dolore quanto la vivisezione, in quanto in genere producono nelle vittime una morte subitanea.

Inoltre la vivisezione crea in chi la pratica una sorta di assuefazione morale e di imperturbabilità, annullando il sentimento di compassione nei confronti delle cavie: “la tortura, quando il primo istinto di orrore viene attenuato dall’abitudine, diventa, innanzitutto, indifferenza; poi interesse morboso; in seguito, vero e proprio piacere, infine una gioia feroce e terribile”.

Il degrado etico che Carroll teme nell’acutizzarsi e diffondersi della tecnica eccedente ed evitabile  della vivisezione potrebbe addirittura estendersi a esperimenti sugli esseri umani, con la possibilità “che un giorno l’anatomia reclami per sé , come soggetti leciti per la sperimentazione, dapprima i criminali condannati, poi i pazienti nei sanatori per malattie incurabili, quindi gli infermi di mente senza speranza, i ricoverati negli ospedali per i poveri e, in genere, ‘chiunque sia senza soccorso’”.

L’appello appassionato di Lewis Carroll risale a centocinquant’anni fa. È assurdamente allarmistico lo scenario distopico che prospetta? “Quel giorno avremmo costruito un nuovo e più tremendo Frankenstein, un mostro senz’anima fatto solo di scienza”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        16 settembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

CARROZZA

MARIA CHIARA CARROZZA, I ROBOT E NOI – IL MULINO, BOLOGNA 2017

Un affascinante viaggio scientifico e culturale, quello proposto da Maria Chiara Carrozza (deputata del Partito democratico, membro della Commissione Esteri, professore di Bioingegneria Industriale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) nel suo libro I robot e noi, pubblicato delle edizioni Il Mulino. Il volume raccoglie alcune lezioni tenute nel 2016 presso la Scuola di Politiche a Roma, trascritte in seguito con chiaro intento divulgativo, in uno stile lineare e conciso, per un pubblico di lettori non specialistici. Dopo una prima sezione introduttiva, in cui l’autrice riassume brevemente le sue esperienze di studio e professionali (vissute tra prestigiosi centri di ricerca internazionali e il nostro Parlamento), il primo capitolo offre un rapido excursus storico sulle tre rivoluzioni industriali che hanno segnato il progresso dell’umanità, per introdurci poi alla quarta, fondamentale e rivoluzionaria, che stiamo vivendo nel presente e che modificherà radicalmente il nostro futuro. La robotica ha già iniziato a trasformare negli ultimi anni la produzione manifatturiera mondiale e a modificare i comportamenti collettivi e individuali dell’intera popolazione planetaria, trovando impiego non solo nell’industria (dove accelera i tempi di produzione, abbatte i costi del personale, facilita le operazioni più difficoltose e sostituisce gli operai nei lavori ripetitivi o usuranti), ma anche in altri settori quali la medicina, l’esplorazione astronomica e sottomarina, gli scenari di guerra o la vita domestica. Ovunque, insomma, dove ci siano ambienti difficili da raggiungere, condizioni ostili e pericolose per la vita dell’uomo, situazioni fisiche problematiche da soccorrere.

Le tecnologie robotiche stanno indirizzandosi soprattutto, e con finalità eminentemente umanitarie, dalle fabbriche al terziario e ai servizi sociali. Maria Chiara Carrozza segue in modo particolare la socializzazione della robotica nelle sue applicazioni neuro-bioniche. Strumenti microscopici sono in grado di esplorare l’interno del corpo umano riducendo al minimo l’invasività e il dolore nelle operazioni chirurgiche; vista-udito-movimento menomati da gravi incidenti, malattie o mutilazioni possono recuperare le loro funzionalità attraverso micro-dispositivi impiantati nel sistema nervoso o protesi robotiche inserite negli organi danneggiati, grazie a interfacce neurali e a esoscheletri che rivestono un arto o addirittura tutto il corpo. Nella vita quotidiana delle famiglie esistono già robot domestici che facilitano i lavori casalinghi, (il Roomba o il Bimbo, ad esempio); prima di quanto immaginiamo ci troveremo ad avere badanti umanoidi come il Jibo che ci porteranno la colazione a letto, ci faranno compagnia o seguiranno i bambini nei compiti. Le nostre automobili si guideranno da sole, e potremo costruirci un Avatar che ci sostituisca negli impegni sociali più gravosi e indisponenti. Se la robotica ha quindi come fine ultimo quello di superare i limiti della condizione umana, sussiste tuttavia il rischio che finisca per automatizzare ogni aspetto della vita collettiva, riducendo i posti-lavoro, sorvegliandoci in ogni movimento, rimpiazzandoci anche nella creatività.

Mentre leggevo l’ultimo capitolo di questo stimolante saggio, alla radio trasmettevano la V Sinfonia di Shostakovich, così geniale nel suo spaziare dai crescendo esplosivi ai toni più commossi e intimistici. Mi è sorto l’allarmante dubbio su quale sarà il destino futuro dell’opera d’arte, come già si chiedeva Benjamin negli anni ’30: un robot saprà scrivere qualcosa di simile alle elegie rilkiane, comporre preludi eleganti come quelli di Chopin, dipingere gli stessi profili delicati di Beato  Angelico? Se sì, come temo, di cosa potremo mai occuparci noi comuni e limitatissimi mortali?

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/I-robot-e-noi-Carrozza.html            18 settembre 2017

RECENSIONI

CARTABIA-CERETTI

MARTA CARTABIA-ADOLFO CERETTI, UN’ALTRA STORIA INIZIA QUI – BOMPIANI, MILANO 2020

Marta Cartabia, costituzionalista e giurista, e Adolfo Ceretti, criminologo, entrambi docenti universitari, hanno scritto un saggio dal titolo augurale, aperto a un futuro generosamente propositivo: Un’altra storia inizia qui. Quale storia, dunque? E “qui” dove?

La storia è quella che riguarda sessantamila persone rinchiuse nelle carceri italiane: storia che può diventare “altra” a partire da un “qui” di ripartenza, educativa e socializzante. Il sottotitolo del volume, La giustizia come ricomposizione, pare infatti auspicare una giustizia capace di promuovere i valori della convivenza civile, ricucendo i rapporti interpersonali invece di reciderli.

Le riflessioni degli autori si articolano in due interventi – tenuti nel marzo di quest’anno al Centro Carlo Maria Martini – che prendono le mosse proprio dalla testimonianza profondamente umana ed empatica del Cardinale, il quale, facendo ingresso nella Diocesi milanese il 10 febbraio 1980, e passando davanti a San Vittore, promise a se stesso di dedicare a coloro che vi erano segregati la prima visita pastorale. Prima delle molte succedutesi nei 22 anni del suo mandato arcivescovile.

Adolfo Ceretti arricchisce il proprio dotto contributo non solo con le considerazioni filosofiche di Hume, Simmel, Rorty, Shklar, Ricoeur, ma appunto con le riflessioni che Martini maturò sulla pena detentiva e sulle condizioni di vita nelle prigioni. Le sue meditazioni tendevano in primo luogo a incoraggiare una giustizia non puramente punitiva ed emarginante, ma semmai riparativa, in grado di riequilibrare anche la relazione tra vittime e rei.

In una visione profetica, nutrita di profonda sensibilità e cultura teologica, Martini indicava come legittima e necessaria l’opposizione ai delitti e all’illegalità, rifiutando tuttavia con forza ogni ritorsione vendicativa, e ogni espressione di crudeltà nella detenzione. Affermando che nessuna persona va identificata totalmente nel reato commesso, sottolineava il dovere di concedere a chiunque la possibilità di un riscatto, il diritto a un confronto e al dialogo. Invitava inoltre a valutare il peso delle corresponsabilità sociali nella genesi della criminalità, spesso generata da condizioni culturali, economiche ed educative depauperate. Particolare fu ad esempio la disponibilità dimostrata dal Cardinale verso i protagonisti della lotta armata negli anni ’70 e ’80, attraverso l’ascolto delle loro confessioni, da cui emergevano sia ammissioni di responsabilità, sia pentimento e volontà di riparare alle colpe commesse e al dolore provocato.

Marta Cartabia approfondisce le tematiche suggerite dal collega Ceretti con rafforzata, partecipe finezza, testimoniando la sua affinità con le tesi di carità evangelica di Carlo Maria Martini. Citando il versetto di Matteo 25,43 “Ero in carcere e mi avete visitato”, sottolinea la pregnanza umana e religiosa del verbo visitare, cui l’alto prelato attribuiva il significato biblico di incontro, cura e soccorso, al quale mai si era sottratto: “Il carcere è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata”.

Da qualche anno, alcuni giudici della Corte Costituzionale visitano i luoghi di reclusione, facendo proprio l’invito di Martini a valutare le esperienze personali dei detenuti, nella necessità di superare la visione retributiva della giustizia (a lungo condivisa anche dal cristianesimo, nella condanna del peccatore al castigo dell’inferno) attraverso quella di redenzione, in un cammino evolutivo e riformatore della correzione. Due i capisaldi della riflessione martiniana: la dignità della persona, e la costruzione di un sistema penitenziario efficace, in grado di tutelare la sicurezza dei cittadini e di ripristinare l’armonia dei rapporti sociali.

“L’uomo non è bestia da domare… mostro da abbattere, parassita da uccidere”, scriveva il Cardinale nel 2003. In accordo con le sue indicazioni, il sistema giuridico italiano sta sviluppando il concetto di pena come cammino graduale, flessibile e individuale di ciascun detenuto, in un processo di riabilitazione e risocializzazione, e nella prospettiva futura di un superamento del carcere come unico rimedio del male. Già Michel Foucault, nel saggio Sorvegliare e punire del 1976, affermava che la restrizione carceraria, “non è in grado di diminuire il tasso di criminalità e anzi tende a incentivare la recidiva”. Nessuna ritorsione vendicativa della collettività nei riguardi del reo, quindi, ma come indicava Carlo Maria Martini “riconoscimento e riconciliazione”: riconoscimento del male compiuto e ammissione delle responsabilità da parte del colpevole, riconciliazione per ricostruire i legami spezzati dall’agire iniquo.

Marta Cartabia, nel suo excursus culturale sui concetti di colpa, condanna, perdono, si rifà sia alla Bibbia sia ai tragici greci e alla Commedia dantesca, per arrivare ai maggiori pensatori del ’900: Buber, Guardini, Calamandrei, Ricoeur. E conclude con le parole di Papa Francesco: “Si tratta di fare giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”.

Parole che sento di poter condividere personalmente, avendo una figlia che da anni insegna nel carcere di massima sicurezza di Opera: dai suoi resoconti sulla sofferenza di cui è quotidianamente testimone intuisco quanto siano necessari radicali interventi di riforma del nostro sistema giudiziario e penitenziario.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 26 ottobre 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CARVER

RAYMOND CARVER, ORIENTARSI CON LE STELLE – MINIMUM FAX, ROMA 2013

Di Raymond Carver (“il Cechov americano”, secondo una definizione del Guardian di Londra) abbiamo letto un po’ tutti, con commozione e stupore, i racconti agili, veloci, ironici e assolutamente privi di retorica, e un po’ tutti li abbiamo sempre associati al suo modo di essere un cittadino statunitense nato nel 38, vissuto con rabbia e disperazione tra alcol, droga, drammi familiari e povertà in quella temperie culturale e artistica che ha contraddistinto l’America del dopoguerra. Ma la sua voce è sembrata a molti distinguersi per una mai del tutto rinnegata, e quasi pudica, ingenuità e tenerezza: soprattutto quando descrive la morte di un bambino, lo spaesamento adolescenziale, la sofferenza del tradimento, l’abbrutimento delle dipendenze, l’immersione nella natura, con i suoi boschi, i fiumi, il rito disintossicante della pesca. Sono tutti temi che ritornano nelle sue poesie, che hanno attraversato e accompagnato la sua produzione narrativa, intensificandosi negli anni precedenti la morte, segnati dalla lotta contro il tumore. Poesie che a un lettore europeo, abituato alla complessità e alla profondità dei versi degli autori più noti del nostro 900, possono sembrare troppo facili e immediate, con il loro andamento discorsivo, la loro trasparenza descrittiva, il tono assolutamente disarmato e privo di astuzie linguistiche con cui si offrono a chi legge. Carver non si paluda da poeta-vate, racconta con semplicità quello che gli succede, senza pretendere complicità o partecipazione emotiva, che quasi si vieta egli stesso: «Lontano, / un altro uomo cresce i miei figli,/ e va a letto con mia moglie, con mia moglie»; «Non ti crucciare il cuore per me, cara. / Tessiamo con il filo che ci è dato». Ma come non emozionarsi davanti al padre di Limonata, che vede il suo ragazzino morto ripescato dal fiume con una gru, e depositato sull’erba davanti ai suoi piedi? «E lui ricorda / la dolcezza, quando la vita era dolce, e dolcemente / gli era stata assegnata quell’altra vita”.

IBS, 13 maggio 2013

RECENSIONI

CARVER

RAYMOND CARVER, ORIENTARSI CON LE STELLE ‒ MINIMUM FAX, ROMA 2016

Di Raymond Carver (“il Cechov americano”, secondo una definizione del Guardian di Londra) abbiamo letto, con commozione e stupore, i racconti agili, veloci, ironici e assolutamente privi di retorica, associandoli istintivamente al suo essere un cittadino statunitense nato nel ‘38, vissuto con rabbia e disperazione tra alcol, droga, drammi familiari e povertà nella temperie culturale e artistica che ha contraddistinto l’America del dopoguerra. La sua voce ci è sembrata però distinguersi per una mai del tutto rinnegata, e quasi pudica, ingenuità e tenerezza: soprattutto quando descriveva la morte di un bambino, lo spaesamento adolescenziale, la sofferenza del tradimento, l’abbrutimento delle dipendenze, l’immersione nella natura ‒ con i suoi boschi, i fiumi, il rito disintossicante della pesca.  Riguardo all’etichetta di minimalista, che rifiutava, scrisse: «È difficile essere semplici. La lingua dei miei racconti è quella di cui la gente fa comunemente uso, ma al tempo stesso è una prosa che va sottoposta a un duro lavoro prima che risulti trasparente, cristallina. Questa non è una contraddizione in termini. Arrivo a sottoporre un racconto persino a quindici revisioni. A ogni revisione il racconto cambia. Ma non c’è nulla di automatico; si tratta piuttosto di un processo. Scrivere è un processo di rivelazione».

I temi dei racconti ritornano nelle poesie, che hanno attraversato e accompagnato la sua produzione narrativa, intensificandosi negli anni precedenti la morte, segnati dalla lotta contro il tumore. Versi che a un lettore europeo, abituato alla complessità e alla profondità degli autori più noti del nostro ‘900, possono sembrare troppo facili e immediati, con il loro andamento discorsivo, la minuziosità diaristica, la trasparenza descrittiva, il tono assolutamente disarmato e privo di astuzie linguistiche con cui si offrono a chi legge. Carver non si paluda da poeta-vate, narra con semplicità quello che gli succede, senza pretendere complicità o partecipazione emotiva, che vieta anche a sé stesso: «Lontano, / un altro uomo cresce i miei figli, / e va a letto con mia moglie, con mia moglie».

Chi volesse avvicinarsi alle sue poesie, pubblicate da Minimum Fax, dovrebbe forse prima conoscere qualcosa della narrativa, magari ascoltandone la straordinaria resa interpretativa su Radio3, in Ad alta voce. Si accorgerebbe che l’atmosfera è simile, gli avvenimenti raccontati in prosa e in versi sono i medesimi, come ha scritto la sua compagna Tess Gallagher: «Talvolta, senza provare alcun imbarazzo, Ray si è servito degli stessi avvenimenti o degli stessi momenti di consapevolezza sia nelle poesie che nei racconti. I versi spesso chiariscono un sostrato emotivo o biografico lasciato in ombra nei racconti. ‘Sfruttalo sino in fondo’, diceva. ‘Non lasciare niente da parte per dopo’». Infatti alcune poesie sono veri e propri poemetti narrativi, molto estesi e colloquiali (da non perdere Limonata, Il pittore e il pesce, Voi non sapete che cos’è l’amore, La cabina telefonica, Miracolo, Il portafoglio di mio padre, Chiedigli un po’). Ricalcano i moduli della sua scrittura, con le conclusioni inaspettate e spiazzanti, intese soprattutto ad evitare la retorica, o la descrizione particolareggiata dei gesti, osservati quasi al rallentatore («Risaliamo in macchina per guardare il fumo e il fuoco. Il motore è acceso. Annuso la colla dei modellini sulle mie dita. Lui mi guarda mentre avvicino le dita al naso», «Esci dalla statale a sinistra e / scendi giù dal colle. Arrivato / in fondo, gira ancora a sinistra. / Continua sempre a sinistra»).

Gli argomenti che Raymond Carver tratta nelle sue poesie sono comuni e universali, non si distinguono per particolare originalità. L’amore, innanzi tutto, declinato in tutte le sue sfumature: nostalgia, tenerezza, rabbia, sensualità, dolore: «La chiave l’ho lasciata / nel solito posto. Tu sai dove. / Ricordati di me e di tutto quello che abbiamo fatto insieme», «Torna a casa. Mi senti? / I miei polmoni sono pieni del fumo / della tua assenza», «Mi ha detto che lo sapeva / Merda ho 51 anni e lei ne ha 25 / e siamo innamorati e lei è gelosa / Gesù è bellissimo / ha detto che mi strappava gli occhi se venivo quassù a scopare», «Non ti crucciare il cuore per me, cara. / Tessiamo con il filo che ci è dato», «Seppellì sua moglie, che era morta / disperata. E, disperato, lui / si rifugiò nella veranda, da dove osservava / il sole tramontare e sorgere la luna», «È quella / la casa dove, in piedi sulla soglia, / c’è una donna / con il sole nei / capelli. Quella / che è rimasta in attesa / fino a ora. / La donna che ti ama. / L’unica che può dirti: /’Come mai ci hai messo tanto?’».

Oppure gli affetti familiari: padre madre fratello moglie figli, bloccati nella memoria in un solo gesto o in un’unica frase, riscoperti per caso in una fotografia, posizionati nel loro ambiente abituale: la cucina, l’auto, l’officina («Mio padre è ai fornelli che frigge uova / e cervello. Ma chi ha fame / stamattina?», «Poi non posso fare a meno di lanciare un’altra occhiata / alla foto. Il suo ammiccare, il gran sorriso, / l’inclinazione spavalda della sigaretta», «Comunque sono contento. / Vado in macchina con mio fratello, / beviamo una pinta di Old Crow. / Non abbiamo in mente / nessuna meta, andiamo e basta»).

Le difficoltà economiche e la rivendicazione di una maggiore uguaglianza, insieme al disprezzo per la ricchezza immeritata e ostentata: «Mi licenziavano e poi mi riassumevano di nuovo / facevo il magazziniere da loro a 35 anni / e poi mi hanno sbattuto dentro perché rubavo dolci / So cosa significa ci sono stato», «ho incontrato uomini in galera che avevano più stile / della gente che bazzica i college / e va alle letture di poesia / Sono delle sanguisughe che vengono a vedere / se i calzini del poeta sono sporchi / o se gli puzzano le ascelle / Credetemi io non li deluderò quelli lì».

Ancora la morte, temuta, sospettata, prevista e infine attesa con rassegnazione: «La faccia logora della morte! / La fulminea velocità del passato», «Hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / Sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra», «Dammi la mano per un po’. Tienimi la / mia. Così va bene, sì. Stringimela forte. C’era un tempo in cui / pensavamo di avere il tempo dalla nostra. C’era un tempo, c’era / un tempo, / gridano gli uccellini malridotti». Impossibile non emozionarsi davanti al padre di Limonata, che vede il suo ragazzino morto ripescato dal fiume con una gru, e depositato sull’erba davanti ai suoi piedi: «E lui ricorda / la dolcezza, quando la vita era dolce, e dolcemente / gli era stata assegnata quell’altra vita».

In tutto questo (in tutto questo amare e disprezzarsi, bestemmiare e distruggersi, commuoversi e maledire) quello che alla fine rimane come lascito al lettore è un incoraggiamento, quasi una rude pacca sulla spalla, come a dire: siamo sulla stessa barca, soffriamo tutti nella stessa maniera, cerchiamo di resistere.

 

© Riproduzione riservata       «Il Pickwick», 5 marzo 2018

 

 

RECENSIONI

CASADEI

ALBERTO CASADEI, LA CRITICA LETTERARIA CONTEMPORANEA – IL MULINO, BOLOGNA 2015

Credo che chiunque ami la letteratura, o si occupi di studi umanistici a qualsiasi livello, dovrebbe acquistare, consultare e conservare nella sua biblioteca questo importante volume di Alberto Casadei (professore ordinario all’Università di Pisa), che in maniera sintetica ma esauriente, e in un linguaggio limpido e accessibile, offre una panoramica articolata delle tendenze attuali della critica letteraria mondiale.
Il volume si suddivide in un’introduzione e quattro capitoli, inframmezzati da dieci essenziali “quadri”, dedicati agli studiosi che nel corso del ‘900 hanno dato il contributo teorico e interpretativo più rilevante al dibattito su linguaggio e letteratura (da N.Frye a W.Benjamin, da M.Bachtin a R.Barthes…). Dopo una breve ma dettagliata esposizione dei caratteri essenziali della critica letteraria ottocentesca, l’autore ci offre una sintesi dei metodi di ermeneutica testuale più rappresentativi e discussi del secolo scorso, dando spazio sia alla critica accademica sia a quella militante, sia alle scuole di pensiero sia ai contributi di singoli scrittori.
Nei tre capitoli iniziali (il quarto, conclusivo, riguarda le novità degli ultimi anni – sospesi tra postmodernità e globalizzazione – e le stimolanti prospettive future, aperte ai contributi delle nuove tecnologie e delle scienze neurocognitive) Casadei propone una distinzione tra critiche incentrate sull’autore, sul testo o sul lettore: scansione ovviamente passibile di frequenti intersezioni e sconfinamenti a seconda dei periodi e delle aree geografiche prese in considerazione.
La prima sezione (L’autore e il mondo) esamina un insieme di fattori non solo testuali, spesso dipendenti dall’autore e dal suo contesto socioculturale, proponendo ricostruzioni di più ampio respiro psicologico, storico, ideologico. Ci si sofferma quindi sulla critica psicanalitica (da Freud a Lacan, citando anche i nostri Lavagetto e Rella), su quella storicistica (Croce, in primis, e poi Russo, Sapegno, Dionisotti) e marxista (Lukàcs e Benjamin, gli italiani Salinari e Muscetta, fino ai recenti Fortini, Cases, Sanguineti), su quella sociologica (da Weber alla Scuola di Francoforte a Pierre Bourdieu). Non vengono trascurate altre correnti, sia di impianto teologico sia di tematiche folkloriche, archetipiche, mitologiche. E qui Casadei si sbilancia nell’affermare che «…è Michail Bachtin lo studioso che ha maggiormente segnato gli ultimi decenni del Novecento, aprendo nuove vie per l’analisi del folklore, dei generi letterari e specialmente del romanzo… e favorendo i rapporti tra scienza e letteratura».

Nella seconda parte (Il testo e/o l’opera) si prendono in considerazione le correnti focalizzate sull’opera in sé: dagli studi di stilistica (Auerbach e Spitzer) a quelli filologici di Contini, Mengaldo e Branca, per poi soffermarsi sui contributi del formalismo (Jakobson e la Scuola di Praga, Šklovskij e Propp), dello strutturalismo e della semiotica, per approdare infine alla Nouvelle critique e a Roland Barthes. Vengono citati anche gli italiani Eco, Corti, Segre, Isella.
Nel terzo capitolo (Il lettore e le culture) si affronta l’approccio al testo più nuovo e controverso, che indaga l’impatto esercitato dall’opera letteraria sul lettore, e viceversa. Perciò l’ermeneutica, attenta alle modalità interpretative da parte di chi legge (Dilthey e Gadamer, Habermas e Ricoeur), fino agli innovativi studi sull’estetica della ricezione della Scuola di Costanza (Jauss, Iser e il nostro Cadioli), per concludere con le eterodosse posizioni del decostruzionismo (Derrida e Bloom) e della misinterpretazione, che rivendicano l’infinita equivocità del testo, la sua continua reinterpretabilità, e la complessità babelica del linguaggio, a cui ci si dovrebbe avvicinare da posizioni relativistiche e pragmatiche: ridando spazio a letture multiculturali anche lontane dai canoni ufficiali.
Il volume di Casadei, tanto stimolante e istruttivo, è arricchito da una articolata ed esaustiva bibliografia.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/La-critica-letteraria.html        8 dicembre 2015

RECENSIONI

CASADEI

ALBERTO CASADEI, POETICHE DELLA CREATIVITA’ – BRUNO MONDADORI, MILANO 2010

La prospettiva attraverso cui Alberto Casadei (docente di letteratura italiana all’Università di Pisa) interpreta la nostra poesia contemporanea in Poetiche della creatività è senz’altro innovativa e originale.
Superato il formalismo degli strutturalisti, che avvicinava i testi con strumenti assolutamente intrinseci al linguaggio, e la lettura più storicistica e sociologica dei cultural studies, come anche quella più interessata allo scandaglio psicanalitico, l’autore propone di esplorare “il versante dell’inventio, ovvero di come il poeta trova, scopre, crea la sua materia del contenuto e dell’espressione, e insieme quella dello stile” a partire dai contenuti inconsci e pre-razionali, senza limitarsi a indagare solo le dimensioni logico-grammaticali della scrittura.
L’attenzione va posta, quindi, anche all’ambito neurologico e percettivo della creatività individuale, sfruttando le ultime conquiste delle scienze cognitive. Attraverso quest’ottica, Alberto Casadei si avvicina alle produzioni di noti poeti e narratori degli ultimi cinquant’anni (Sinisgalli, Anedda, Benedetti, De Angelis, Ranchetti, Magrelli, Tadini: ma soprattutto, e con una più vivace partecipazione emotiva, Amelia Rosselli), sottolineando in ciascuno di loro il legame tra scrittura e pensiero, stile e visione filosofica, significante e disposizione mentale pre-conscia.

Così può dare, attraverso l’analisi della poesia rosselliana, e addentrandosi acutamente nei territori dell’oscurità poetica, questa calzante ed empatica definizione della poetessa morta suicida nel 1996: “L’inventio di Amelia Rosselli evita i rischi sia del totale non-senso, sia del narcisismo del gioco linguistico autoreferenziale, perché nasce da una spasmodica ricerca dei dati essenziali: la sua poesia è quasi una manifestazione infinitamente ribadita di come si sono modificate le profondità cognitive di un essere umano che ha introiettato inconsciamente l’abnorme plausibilità della sparizione e del crollo improvviso di ogni punto di riferimento”.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Poetiche-creativita-Casadei.html   26 settembre 2016

RECENSIONI

CASATI

ANGELO CASATI, LE PAURE CHE CI ABITANO– ROMENA, AREZZO 2011

Quante e quali sono le paure che abitano i nostri cuori, e ci chiudono al mondo, ci paralizzano, limitandoci nelle nostre espressioni, nei comportamenti, nella stessa adesione al semplice esistere?
Don Angelo Casati ne elenca undici, e a ciascuna di esse dedica riflessioni di «tenerezza e fermezza», come suggerisce la partecipe presentazione di Rosa Siciliano. Sono paure ataviche e accecanti, come quella di vivere o di morire. La prima ci blocca nell’affanno quotidiano, quando ci dimentichiamo che Dio si occupa di noi, ha cura delle nostre giornate ansimanti («il preoccuparsi è segno di stoltezza: puoi forse aggiungere un’ora sola alla tua vita?») Mentre dovremmo «ritornare a incantarci per l’oltre, per il volto che abita le cose e le fa dono… L’incantamento viene da un indugio, da una capacità di sostare… la fretta che ci consuma è parente stretta della voracità…» La seconda paura, che ha le sembianze dell’angoscia heideggeriana, e ha avvinto per poco lo stesso Gesù nel Getsemani, è la paura di morire, di non essere più, di finire con l’ultimo sospiro esalato. Per vincerla dobbiamo lasciare «lungo la strada il pomposo mantello dell’egoismo e indossare quello della compassione… L’amore non sta in una tomba, ha passi di vento…» Le parole delicate e convinte di Don Casati sanno rivestirsi di poesia, e infatti ogni capitolo del suo libro si apre con dei versi, che non hanno nulla della falsa bonomia di cui sono animate spesso le poesie religiose: sono drammatici e scabri, lontani da ogni retorica. Se dunque «neanche la morte, all’apparenza così vincente su tutto e tutti, può cantare vittoria sull’amore, ne esce sconfitta», ecco che ognuno di noi ha un motivo in più per non cedere alle altre paure: dell’inedito, dell’altro, di amare, di essere liberi, di pensare, dell’insicurezza. L’invito pressante dell’autore è a saper osare, innamorandoci della nostra libertà: dobbiamo sconfinare da noi stessi, imparare a essere visionari, superando le barriere delle architetture interne ed esterne ai nostri cuori. È questa libertà che il potere (anche quello ecclesiastico! aggiunge coraggiosamente Don Casati) teme: «meglio avere vassalli obbedienti, accoliti del nulla, esecutori plaudenti, meglio una massa pilotabile e acclamante che un popolo maturo di pensanti e resistenti». Ma il volume affronta e demolisce anche timori meno scontati, come quelli della mitezza e della fragilità, «nella stagione dell’urlo» che viviamo e in cui «incenerire l’altro sembra ormai il sogno estremo». Eppure, il rabbi di Nazaret ( che è entrato a Gerusalemme su un umile asinello, che ha lavato i piedi ai discepoli…) ha promesso che saranno i miti ad ereditare la terra, cosa che spesso dimenticano anche le gerarchie della Chiesa: «Quando una chiesa dimenticò il grembiule e indossò le modalità dell’impero, cancellò dal mondo la notizia buona, divenne ovvietà sulla terra… fino a una sacrilega identificazione con le esibizioni, i riti, le macchinazioni del potere».

Ritrovare coraggio, quindi, e dolcezza consapevole: fidarsi di un Dio che è guida e tenerezza, amare la bellezza come anche la mancanza di bellezza, la luce come le ombre, il volto dell’altro anche quando è deturpato dalla povertà o dall’errore, fare «opera di detronizzazione dentro di sé». E amare con pudore e discrezione, senza invadenza, senza usurpare e travalicare i confini dell’anima altrui : «Anche nell’amore più forte e appassionato, riconosci la distanza». Vincere le paure per vivere più pienamente, più consapevolmente, il nostro mestiere di uomini e donne, con l’umiltà di affidarci a chi ci travalica e ci invita a superare i confini.
Un libro molto intenso, questo di Don Angelo Casati, da meditare e condividere con chi ci è vicino e possibilmente anche con chi è lontano da noi. Senza paura.

 

«Mosaico di pace», settembre 2011

RECENSIONI

CASELLI

ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020, pp. 338

La nuova edizione del volume Storia del Blues di Roberto Caselli, pubblicato con successo di vendite nel 2016, risulta arricchita di un’originale sezione dedicata alla produzione e diffusione italiana di questo genere musicale. Caselli è nome noto e stimato nel mondo della radiofonia e della letteratura specialistica: giornalista e critico, autore di numerose pubblicazioni (sul rock, sul jazz, sulla canzone italiana e su singoli interpreti, da Leonard Cohen a Jim Morrison, da Joan Baez a Paolo Conte), ha diretto diverse riviste ed è voce storica di Radio Popolare.

Il corposo volume illustrato edito da Hoepli consta di nove sezioni, suddivise in capitoli riassuntivi corredati non solo di vari box riportanti aneddoti, curiosità, citazioni, ritratti, commenti ai testi, suggerimenti discografici, bibliografici e cinematografici, ma anche di un’accurata datazione degli eventi fondamentali di ogni periodo storico preso in considerazione.

La scansione cronologica suggerita da Caselli offre la possibilità di seguire al meglio il percorso esistenziale di una musica che, nata dalla sofferenza e da secoli di repressione e schiavitù, è diventata veicolo di emozioni universali, in un viaggio entusiasmante che ha toccato luoghi, stili, interpreti diversi: “Il blues non è solo tristezza, è anche contrapposizione, piacere della trasgressione e dell’ironia con cui il nero si fa beffa dell’uomo bianco giocando sul suo stesso terreno”.

L’etimologia del nome sembra derivare, nella sua accezione più semplice, dal verbo “to be blue” (essere triste), ma potrebbe essersi in seguito arricchito di una sfumatura superstiziosa per la diffusa credenza negli spiriti maligni, quei blue devils che provocavano malattie, persecuzioni, morte. La musica del diavolo, come veniva comunemente definita, era considerata empia e dissacratoria perché non devotamente sottomessa ai dettami della Bibbia.

Il volume parte quindi da Mama Africa, capitolo che indaga le radici etniche da cui il blues ha tratto linfa originaria, per arrivare alla deportazione degli schiavi in America nel 1600 e al loro impiego come raccoglitori di cotone nelle piantagioni del Sud. Nato come canto di lavoro per accompagnare i movimenti cadenzati nei campi, questo genere musicale fu la prima forma culturale condivisa degli afroamericani; era caratterizzato da una struttura antifonale di dodici battute, e utilizzava inizialmente soprattutto la voce umana, in seguito strumenti a corda (chitarre, banjo) e armoniche a bocca, quindi ottoni e pianoforte.

Sia nei canti di lavoro, sia in quelli di protesta e nei gospel religiosi, si rincorrevano gli stessi temi indicanti paura, stanchezza fisica, preghiera, affetti familiari, nostalgia, ribellione.   Con l’elezione di Lincoln, la fine della guerra di secessione (1865) e l’abolizione della schiavitù non ebbero tuttavia termine le persecuzioni razziali né lo sfruttamento dei neri nei lavori più pesanti, e il blues continuò a costituire una valvola di sfogo, imponendosi con orgogliose rivendicazioni di autonomia creativa. Negli anni ’20 fu caratterizzato dalla prepotente presenza di grandi interpreti femminili (Mamie Smith, Ma Rainey, Ida Cox e Bessie Smith), affermandosi lentamente come fenomeno di spettacolo e business redditizio. Film, musical, stazioni radio diffusero nuovi stili (classic, country, ballata), capaci di proporre temi sociali, spunti di cronaca, fantasie erotiche o puro divertissement, ricco di doppi sensi e battute scurrili. Le grandi migrazioni verso il nord lungo la Highway 61 che collegava New Orleans al Canada favorirono il diffondersi del blues verso Memphis, Chicago, Detroit, e improvvisamente queste metropoli divennero casse di risonanza di eccezionali artisti, come Robert Johnson, John Hurt, Fred McDowell. Texas, Lousiana, Kansas, California diedero impulso a suoni più vigorosi, attraverso contaminazioni con il jazz e lo swing, e con l’elettrificazione della chitarra: presto al blues si aprirono le porte dell’ufficialità, con esibizioni nei night club più esclusivi e in teatri prestigiosi.

Musica nera per eccellenza (B.B. King scriveva “Ho sempre sostenuto che suonare il blues è come essere neri due volte”), nella seconda metà del ’900 trovò epigoni bianchi tra gli interpreti del free jazz, del rock e del bebop. Eric Clapton, i Rolling Stones, Janis Joplin e lo stesso Bob Dylan hanno sempre dichiarato il loro debito nei confronti del blues, inglobando in esso elementi tradizionali e rinnovandoli con nuovi ritmi e strumentazioni.

Gli ultimi capitoli del libro di Roberto Caselli sono dedicati agli impulsi arrivati di rimbalzo negli States dall’Europa, al declino dell’interesse del pubblico occidentale negli anni ’90 e quindi a una recente rivitalizzazione capace di riproporre lo spirito originale della “musica del diavolo”, con tecniche strumentali spesso esasperate. Sdoganato anche da noi, molte sono le band e i solisti che si affermano oggi con un loro seguito di pubblico, appoggiati dal fiorire di festival e pubblicazioni specialistiche che ne sottolineano il meritevole valore. Tra gli interpreti italiani più rimarchevoli vengono citati Fabio Treves, Roberto Ciotti, Maurizio Angeletti, Guido Toffoletti, Rudy Rotta, Maurizio Pugno, Laura Fedele. Max De Bernardi & Veronica Sbergia. Amy Winehouse, con acuta sensibilità, ebbe a dire di questa musica dell’anima: “Ogni situazione di difficoltà è una canzone blues che attende di essere scritta”.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 14 gennaio 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ROBERTO CASELLI, STORIA DEL BLUES – HOEPLI, MILANO 2020

 

RECENSIONI

CASELLI

DAVIDE CASELLI, ESPERTI. COME STUDIARLI E PERCHÉ – IL MULINO, BOLOGNA 2020

Eccoli lì, gli esperti: ce li ritroviamo davanti a tutte le ore del giorno in ogni canale televisivo, ascoltiamo i loro sagaci interventi attraverso qualsiasi stazione radio, leggiamo le loro allarmanti previsioni su quotidiani e riviste più o meno specializzate. Sono antropologi, astrologi, climatologi, criminologi, dietologi, grafologi, massmediologi, narratologi, paesologi, psicologi, parapsicologi, politologi, semiologi, ufologi (in rigoroso ordine alfabetico). Oggi soprattutto imperversano con implacabile presenzialismo batteriologi, infettivologi, virologi. Qualcuno di loro, spesso lautamente remunerato, ha candidamente ammesso il proprio narcisismo, altri – presi da delirante senso di onnipotenza – si improvvisano soloni ferrati in ogni scibile umano: tuttologi. Astrofisici che discettano di oncologia, medici che offrono il loro illuminato parere sul fenomeno mafioso, giuristi che dissertano di teologia. Perché ne abbiamo tanto bisogno? Perché li ascoltiamo con umile reverenza, seguendo docilmente i loro consigli, suggerimenti, imperiosi diktat, demandando alla loro decantata professionalità e scientificità i nostri comportamenti, addirittura le nostre idee?

Davide Caselli (Milano, 1981) ha pubblicato per Il Mulino un dotto e documentato volume (Esperti, Come studiarli e perché) in cui analizza la complessa relazione esistente tra chi riveste l’ambito ruolo di esperto e il mondo politico-sociale-amministrativo-finanziario-culturale in cui è inserito.

Partendo dalla propria decennale esperienza di operatore sociale in un quartiere periferico di Milano, con l’incarico di segnalare e assistere situazioni di disagio e povertà nelle classi popolari, Caselli ha condotto la sua ricerca di dottorato in sociologia su vari progetti di coesione sociale e sui piani di sviluppo del welfare nel territorio lombardo, misurando il gap esistente tra il lavoro svolto empiricamente sul campo e i saperi ufficialmente riconosciuti in ambito pubblico, affidati a consulenti e ricercatori specializzati, i cosiddetti “esperti”. Le analisi tecniche, la definizione e la valutazione di strumenti operativi, i progetti e gli studi di fattibilità venivano e vengono tuttora scritti, monitorati e valutati dagli stessi enti e consulenti che definiscono le linee guida, il gergo settoriale e i bandi di concorso dei principali finanziatori, pubblici e privati, escludendo di fatto da sovvenzioni, convegni, ricerche universitarie i cittadini attivi nel terzo settore su base volontaria.

In questo scenario di crescente professionalizzazione, a chi spetta il compito dell’analisi critica del rapporto tra conoscenza e azione, tra sapere e potere “alla luce della progressiva affermazione globale del modello di accumulazione neoliberista a trazione finanziaria”? Sono interrogativi su cui da perlomeno due secoli si interroga la scienza sociale, a partire dai suoi fondatori (Comte, Marx, Durkheim, Weber) per arrivare ai loro epigoni contemporanei (Hacking, Bauman, Foucault, Eyal, Bourdieu, fino ai più emotivamente carismatici Danilo Dolci e Paulo Freire).

Gli esperti, legittimati nella loro operatività da criteri extra-scientifici ed extra-intellettuali, in cui sembra prevalere il know how sul know why, sono perlopiù rappresentati da categorie professionali o singoli individui scelti in base a una competenza pratica e a un agire sociale spesso non canonicamente definito o istituzionalizzato, ma connesso con una rete di clienti, strumenti, assetti sociali in grado di riconoscerli come produttori di saperi specifici e articolati. Essi si muovono tra una dimensione cognitiva e una normativa, tra conoscenza della società e capacità di orientarne l’agire, tra descrizione della realtà e prescrizione “di ciò che la realtà deve continuare a essere o deve diventare, e del modo in cui ciascuno deve contribuire   a riprodurla o a modificarla”. Per nulla imparziali e oggettivi, quindi, gli esperti tendono a incoraggiare “forme di produzione, diffusione e applicazione del sapere segnate dalla chiusura elitaria e dal monopolio professionale”, riproducendo rapporti di potere sotto l’apparente neutralità della competenza professionale.

Il libro di Davide Caselli, corredato da una ricchissima bibliografia, si articola in cinque capitoli introdotti da brani di diario, interviste, spunti di cronaca relativi ai nuclei tematici individuati, riguardanti non solo il welfare milanese, ma il più vasto panorama nazionale dell’economia, del lavoro, del mercato, dell’istruzione, della medicina, della cultura. Sulla base di tali considerazioni, l’autore auspica l’avvio di forme alternative e democratiche di elaborazione e trasmissione della conoscenza, onde evitare il pericolo che i “non esperti” vengano espropriati delle loro abilità, interessi, culture diverse, attraverso la squalificazione esercitata dagli “esperti”, al punto da venire delegittimati all’impegno, privati del diritto alla visibilità e confinati in ruoli d’azione marginali.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 22 agosto 2021