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RECENSIONI

AAVV – POESIE SUGLI ALBERI

AAVV, POESIE SUGLI ALBERI – GARZANTI, MILANO 2022

L’antologia recentemente pubblicata da Garzanti in cartaceo e digitale, a cura di Giuliana Mancuso, raccoglie un’ottantina di Poesie sugli alberi scritte da autori internazionali di tutte le epoche, a partire da Petrarca per arrivare ad Antonia Pozzi. Proprio il nostro grande aretino inizia il catalogo arboreo rendendo omaggio a una “giovene donna sotto un verde lauro”: alloro definito “dolce, duro, vivo, ben colto”, essendo comunque evidente che l’attenzione del poeta si volge più che alla vegetazione a “’l bel viso e le chiome” dell’amata. Matteo Bandello, brindando in allegria, esalta la “nova vite” che dona “uve gialle”. Tra i romantici, l’inglese Charlotte Smith ringrazia il rude olivo, dai sacri rami emblema della pace: “Sebbene i tuoi pallidi fiori essenza non effondano / Nell’aria che i venti sollevano, / In te risiede il vero valore”; Goethe apprezza l’esotico Ginkgo biloba; il sognante Hölderlin loda le querce, figlie del monte, “liete e libere dalle possenti radici” (“Ma voi, voi querce gloriose! Vi ergete come un popolo di titani / Nel mondo addomesticato, e siete solo vostre e del cielo, / Che vi nutre e vi ha cresciuto, e della terra, che vi ha dato la vita”); Novalis ringrazia gli ontani “dai rami frondosi”, che regalano ombra agli abbracci degli amanti; Karl Meyer onora il “Vecchio pioppo tedesco” (un po’ di sano nazionalismo non guasta!), mentre Joseph von Eichendorff ricorda di aver intagliato il nome della sua fidanzata sulla corteccia di un tiglio. Il cantore dei boschi John Clare azzarda una similitudine: “Grande olmo dal tronco spaccato, tutt’inciso e sfregiato, / Simile è il tuo destino a quello di un guerriero!”, e Heinrich Heine si commuove osservando la fredda solitudine di un abete nordico. Poteva mancare nell’elenco Giacomo Leopardi? Malinconicamente segue con lo sguardo il volteggiare di una foglia di faggio. Se Walt Whitman si rispecchia orgogliosamente in una robusta quercia della Louisiana (“E il suo aspetto rude, deciso, vigoroso mi ha fatto pensare a me stesso”), con una sensibilità tipicamente femminile Luise Büchner si accorge che il faggio protegge le specie animali e vegetali più piccole e indifese. Nel classico trio ottocentesco italico, celeberrimo è il verde melograno di Carducci, mentre il mite Pascoli accarezza con grato pensiero l’agrifoglio, e il ricercato D’Annunzio glorifica l’astrusa siliqua. L’imperialista Rudyard Kipling ossequia tutti gli alberi che “adornano la vecchia Inghilterra”, mentre più modestamente la lombarda Ada Negri celebra l’albicocco del suo giardino: “Nei tre più alti rami / fiorì, leggero: in sua bianchezza alata / ride all’azzurro con stupor d’infanzia”; anche l’americana Amy Lowell si rivela affezionata al melo. Chissà se le due poetesse preparavano nelle loro cucine – come me! – conserve e marmellate, e per questo dimostravano riconoscenza agli alberi da frutto… Rilke raffinato e altero amava gli alti cipressi scuri, il solare Machado le palmette nane e l’arancio, il sensuale Lawrence il mandorlo in fiore, l’estenuato Lorca il limoneto. Infine la giovane, dolce, infelice Antonia Pozzi scriveva versi tristemente premonitori: “Io / sotto l’abete / in pace / come una cosa della terra, / come un ciuffo di eriche / arso dal gelo”…

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net › Poesie-sugli-alberi           5 giugno 2022

RECENSIONI

AAVV – POETI GIAPPONESI

AAVV, POETI GIAPPONESI – EINAUDI, TORINO 2020

Mancava, nel nostro panorama letterario, un’antologia aggiornata ed ampia della poesia giapponese contemporanea, e l’iniziativa dell’editore Einaudi di inserire una tale accurata rassegna nella sua “collana bianca” risulta pertanto opportuna e lodevole. Il volume, con testo a fronte, comprende ventidue autori e autrici scelti fra le generazioni che si sono susseguite a partire dai nati negli anni Venti, come Ishimure Michiko (1927), fino a Fuzuki Yumi (1991): due donne ad aprire e chiudere un secolo.

L’approfondita introduzione di Maria Teresa Orsi (professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma, e autrice di fondamentali lavori sulla letteratura giapponese) e le preziose note di Alessandro Clementi degli Albizzi, ci avviano alla conoscenza di una cultura poetica finora non abbastanza frequentata in Italia, presentandoci un ventaglio di scritture diverse negli stili e nei temi, ma sempre originali e interessanti.

Tratto comune agli autori presentati è l’utilizzo del verso libero, introdotto nella poesia giapponese alla fine del XIX secolo su imitazione dei modelli occidentali, e in seguito adottato continuativamente, in un reciproco e intenso scambio con la produzione americana ed europea, pur nel rispetto della tradizione classica nipponica. A questa compenetrazione tra oriente e occidente, era affiancata la perenne influenza esercitata sulla poesia giapponese dalla cultura e dalla lingua cinese, proficuo terreno di formazione letteraria per intere generazioni. Alla fine della seconda guerra mondiale, si impose necessariamente la volontà di rompere con un passato di celebrazioni nazionalistiche e retoriche, di esasperata liricità e simbolismi, nella ricerca di contenuti che rendessero evidente la critica ideologica a ogni fanatismo ideologico e bellico, testimoniando invece il dolore e il lutto collettivo di una nazione, la fatica della ricostruzione, il senso opprimente di disperazione e morte. I poeti nati negli anni ’30 ambivano a porre l’accento soprattutto sulle proprie esperienze individuali, accentuando la particolarità delle loro scelte stilistiche, in cui venivano privilegiati ritmo, musicalità e linguaggio colloquiale, senza trascurare una vena più ironica nell’interpretazione del proprio vissuto.

Fondamentali furono, nell’inaugurare questo nuovo indirizzo creativo, le raccolte e gli interventi critici pubblicati negli anni ’50 da Ōoka Makoto e Tanikawa Shuntarō, i quali proposero nuove e differenziate modalità di espressione, dal sonetto ai testi di canzoni, dal metro classicheggiante alla sperimentazione surrealistica. Negli anni del dopoguerra, con la veloce sterzata dell’economia in direzione di uno sviluppo capitalistico e consumistico, divennero più frequenti e vivaci i contatti con altri fenomeni artistici, dalla pittura al teatro, dal cinema alla pubblicità. A una dinamica attività editoriale volta a diffondere la poesia si affiancarono negli anni ’70 i festival, le letture in pubblico, le performance, dando un valore sempre più accentuato all’oralità, al suono, alla recitazione dei versi: in questo campo fu ed è tuttora maestro Yoshimasu Gōzō, teorizzatore di una nuova libertà sintattico-grammaticale nel testo scritto, e di un’interpretazione destabilizzante e innovativa nella proposta vocale. La sua famosa A fianco (cotes) della poesia utilizza in maniera inedita e sovversiva simboli, spaziature, caratteri tipografici, onomatopee, frantumazioni, proponendo una clamorosa rottura con la tradizione poetica orientale.

Maria Teresa Orsi presenta nell’introduzione una particolareggiata rassegna degli autori antologizzati, nei loro peculiari caratteri esistenziali ed espressivi: dal raffinato estetismo dei temi omoerotici di Takahashi Mutsuo a quelli mitologici e leggendari di Irisawa Yasuo, dalle battaglie ambientali di Ishimure Michiko a quelle politiche di Sasaki Mikirō e di Fujii Sadakazu, fino alla recente produzione che riflette sul disastro ecologico di Fukushima.

Molti testi alternano ai versi brani prosastici, utilizzando tecnicismi, slang, dialetti; altri riprendono stilemi classicheggianti e metri tradizionali, soprattutto quando tratteggiano in modi sfumati ed elegiaci il paesaggio, o affrontano concetti spirituali e atmosfere magico-religiose.

A poesie evocative e nostalgiche di ambienti familiari o di memorie infantili si contrappongono messaggi divulgativi e terminologie provocatorie degli autori più giovani, o proposte di ardua interpretazione a livello semantico e stilistico di scrittori di nicchia come Arakawa Yōji e Nomura Kiwao. Quest’ultimo così teorizzava in un articolo: “La cosiddetta poesia moderna di cui mi occupo si chiama anche poesia libera. Infatti non ha una forma prestabilita come lo haiku o il tanka, ma volta per volta si sposta senza sosta e scorre liberamente da una forma all’altra. Assomiglia all’immagine di un viandante”.

Largo spazio viene dato alla poesia delle donne, che dagli anni ’80 a oggi si è imposta in Giappone con assoluta rilevanza in termini di successo di pubblico e di prestigio culturale. Sulla scia delle istanze femministe occidentali, tra le poetesse contemporanee si è fatto strada l’interesse per l’esplorazione psicologica e fisiologica della femminilità, attraverso un uso del linguaggio istintuale e spregiudicato (Itō Hiromi, Sugimoto Maiko, Fuzuki Yumi).

Una panoramica esauriente, quindi, quella che ci viene offerta da questo volume, che propone ai lettori appassionati di poesia un secolo di storia, cultura e costume del Giappone letto attraverso gli occhi dei poeti.

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Poeti-giapponesi.html       1 giugno 2020

RECENSIONI

AAVV – SIA LODE ALLA LENTEZZA!

«Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro, e invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo. Andare lenti è fermarsi su un lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata, su una collina bruciata dall’estate, andare col vento di una barca e zigzagare per andar dritti. Andare lenti è conoscere le mille differenze della propria forma di vita, i nomi degli amici, i colori e le piogge, i giochi e le veglie, le confidenze e le maldicenze. Andare lenti sono le stazioni intermedie, i capistazione, i bagagli antichi e i gabinetti, la ghiaia e i piccoli giardini, i passaggi a livello con gente che aspetta, un vecchio carro con un giovane cavallo, una scarsità che non si vergogna, una fontana pubblica, una persiana con occhi nascosti all’ombra. Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti ad esplodere oppure puntati sul cielo perché stretti da mille interdetti. Andare lenti vuol dire avere un grande armadio per tutti i sogni, con grandi racconti per piccoli viaggiatori, teatri plaudenti per attori mediocri, vuol dire una corriera stroncata da una salita, il desiderio attraverso gli sguardi, poche parole capaci di vivere nel deserto, la scomparsa della folla variopinta delle merci e il tornar grandi delle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori della scena principale e più vicini a tutti i segreti. Il pensiero lento offrirà ripari ai profughi del pensiero veloce, quando la macchina inizierà a tremare sempre di più e nessun sapere riuscirà a soffocare il tremito. Il pensiero lento è la più antica costruzione antisismica».

Questo brano poeticissimo e sapiente, espressione di una saggezza antica − quando gesti, riflessioni e parole non subivano la pressione della fretta, l’ansia del profitto, il desiderio di superare limiti propri e altrui −, è tratto da un importante libro di Franco Cassano, professore di sociologia all’Università di Bari, saggista, editorialista e deputato del Partito Democratico: Il pensiero meridiano.
Oggi che lo “slow life” sta diventando un monito e una parola d’ordine, quasi un imperativo di moda negli ambiti più disparati della nostra frenetica quotidianità (dallo slow food al sesso tantrico, dallo yoga al pilates, dalla medicina omeopatica al viaggio a piedi o in bicicletta), Franco Cassano ci ricorda che il recupero di una dimensione più rilassata dell’esistenza, meno competitiva e non orientata solamente verso l’innovazione, il successo e la velocità, deve diventare un obiettivo per tutti, pena l’autodistruzione individuale e collettiva. In un volume più recente, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, ci invita a non lasciarci condizionare e ipnotizzare da alcuni stereotipi imposti dai mass media: l’ossessione salutistica che ci costringe a jogging quotidiani stressanti; il tecnicismo che ci induce ad acquistare l’ultimo modello di auto, di computer, di cellulare; l’ansia di prestazione nel lavoro, nella sessualità, nello sport; l’allarmismo costante che ipotizza di continuo catastrofi ambientali, belliche, finanziarie. Stiamo diventando sempre più impazienti, pressati da impegni inderogabili e attratti da mete irraggiungibili: finiamo per “considerare inutili e noiose tutte le strade che conoscono la salita, le curve e la sosta, il mutare delle prospettive”. E questo ci succede anche nei rapporti umani che stabiliamo con gli altri: intimità, gioco, elaborazione del desiderio, costruzione di un’amicizia, silenzio e solitudine vengono considerati momenti fallimentari, non proficui, superflui. «Abbiamo scelto Cartesio invece di Montaigne, la via del controllo razionale e tecnologico del mondo invece di quella della saggezza, di quel sapere che non si è mai proposto di esorcizzare il limite, ma ha continuamente dialogato con esso». Forse, secondo Cassano, è ora di rivalutare la vita flemmatica della provincia, la passeggiata senza scopo, «la nobiltà del cazzeggiare» perdendo tempo, i momenti di vuoto, di noia e di inoperosità in cui recuperare fantasie trascurate e nostalgie rimosse, il cappuccino gustato seduti in piazza piuttosto dell’espresso trangugiato in piedi al bar. Coltivando “un’arte più sottile, quella di provare a uscire di lato dalle giornate, a sospenderne la pressione per rimettere in ordine le proporzioni, ciò che viene prima e ciò che, anche se crede di essere importante, deve imparare a fare la fila e attendere il suo turno. Bisognerebbe disporre di molte parentesi da collocare ogni tanto, come dei paraventi, nelle nostre giornate, per imparare a ritrovarci da soli o con chi ci piace…”.

Queste argomentazioni vengono riprese da un punto di vista più razionalmente stringente anche da Lamberto Maffei (neurobiologo, direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR dal 1980 al 2008, dal 2009 al 2015 presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei), che in Elogio della lentezza spiega che al nostro cervello necessitano processi mentali “lenti” per produrre pensieri e riflessioni elaborate. Se infatti reagiamo velocemente, istintivamente e automaticamente agli stimoli ambientali, in modo da metterci al riparo da eventuali pericoli e garantirci la sopravvivenza, quando siamo alle prese con un lavoro artistico o scientifico dobbiamo forzatamente procedere con più cautela, poiché entrano in gioco valutazioni più complesse, memorie, dubbi, interrogativi. Ed è un bene sia così, perché se la velocità speculativa diventasse il solo parametro di valutazione intellettuale «il successo evolutivo degli uomini rapidi porterebbe con sé la scomparsa di tutte le azioni considerate inutili, come la contemplazione, la poesia, la conversazione per il piacere di parlare, e la comparsa di una nuova arte, quella della rapidità, dove la poesia è un tweet e la pittura una pennellata». Quindi, ben vengano i processi mentali lunghi del ragionamento, dell’argomentazione e della sperimentazione rispetto all’irrazionale compulsivismo dell’azione non meditata, che ci spinge a obbedire in maniera meccanicistica a stimoli esterni molto spesso indotti dalla tecnologia mercificata e dalle esigenze del profitto economico. Maffei invita pertanto a un recupero dell’umanesimo e dei valori culturali basati sia sull’arte sia su una scienza libera, nobilmente gratuita, non asservita al capitale, ma al potenziamento della conoscenza universale.
Peter Handke − che nella sua raccolta di saggi Lentamente nell’ombra ha ripreso il verso virgiliano (Buc. I. 4) “lentus in umbra” −, accosta al concetto di lentezza quello della durata, come riflessione sul tempo sospeso, in attesa, in grado di insegnarci la bellezza di uno sguardo calmo, contemplativo, non arrogante, non ingordo. Rileggiamo alcuni versi da Canto alla durata:

«mi venne così di descrivere / la sensazione della durata / come il momento in cui ci si mette in ascolto, / il momento in cui ci si raccoglie in se stessi, / in cui ci si sente avvolgere, / il momento in cui ci si sente raggiungere / da cosa? Da un sole in più, / da un vento fresco, / da un delicato accordo senza suono / in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondo assieme. […] // Ecco, la durata è la sensazione di vivere. […] // Credo di capire / che essa diventa possibile solo / quando riesco / a restare fedele a ciò che riguarda me stesso, / quando riesco a essere cauto, / attento, lento, / sempre presente a me stesso sino nelle punte delle dita. […] // E io, / affinché da me nascano i momenti della durata / e diano un’espressione al mio volto rigido / e mettano nel mio petto vuoto un cuore, / devo assolutamente esercitare un anno dopo l’altro / il mio amore./ Restando fedele / a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante, / impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni, / sentirò poi forse / del tutto inatteso / il brivido della durata / e ogni volta per gesti di poco conto / nel chiudere con cautela la porta, / nello sbucciare con cura una mela, / nel varcare con attenzione la soglia, / nel chinarmi a raccogliere un filo. […] // Singolare è il sentimento della durata / anche alla vista di certe piccole cose / quanto meno appariscenti, tanto più toccanti: / un cucchiaio / che mi ha accompagnato in tutti i traslochi / un asciugamano / appeso nelle stanze da bagno più diverse, / la teiera e la sedia di vimini / per anni lasciata in cantina / o accantonata da qualche parte / e ora finalmente di nuovo al suo posto, / un altro, in verità, diverso da quello originario / e tuttavia al suo posto. […] // Anche a casa mi si fa accanto molte volte / quando cammino su e giù per il giardino / nella neve, nella pioggia, al sole, sotto il temporale, / […] oppure quando mi siedo nella mia stanza / al cosiddetto tavolo da lavoro – / non per attendere alla mia occupazione, al testo, / ma per fare tutti quei soliti gesti secondari: / spostare indietro la sedia, / dare uno sguardo nel cassetto […] / sbirciare dalla finestra in giardino / dove i gatti lasciano le loro tracce / nella neve profonda e tra l’erba alta, / mentre ascolto da diverse direzioni a seconda del vento / il fischio e il trabalzare / dei treni che percorrono la pianura. […] // O durata, mia quiete! / O durata, mia sosta! […]».

Anche Milan Kundera, nel suo romanzo La lentezza si esprime celebrando il piacere della perdita di tempo, della rilassatezza, della sospensione di ogni vacuo attivismo:

«Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri tra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia; è felice. Nel nostro mondo, l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca. Guardo nello specchietto retrovisore: sempre la stessa macchina che non riesce a superarmi a causa del traffico in senso inverso. Accanto al guidatore è seduta una donna; perché l’uomo non le racconta qualcosa di divertente? Perché non le appoggia la mano sul ginocchio? Macché: l’uomo maledice l’automobilista davanti a lui perché va troppo piano, e neppure la donna pensa a toccarlo con la mano, mentalmente sta guidando anche lei, e anche lei mi maledice».

Sia lode alla lentezza, dunque, valore sminuito quando non disprezzato dalle ideologie contemporanee del progresso forzato, della produttività esasperata, della ipervelocità dominatrice. Sia lode alla lentezza che ci fa approdare a una dilatazione consapevole dell’istante, a un’estensione orizzontale dell’adesso, inducendoci − come aveva intuito già Sant’Agostino − a raggiungere anche un’estensione dell’anima.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 26 gennaio 2018

 

 

RECENSIONI

AAVV – TARTAGLIA

AAVV, L’ERETICO FERDINANDO TARTAGLIA – POLISTAMPA, FIRENZE 2011

Le edizioni Polistampa pubblicano gli atti di un convegno dedicato alla controversa, dibattuta e spesso ingiustamente dimenticata figura del poeta, teologo e filosofo Ferdinando Tartaglia: il sottile e prezioso volume raccoglie, oltre ad una dettagliata biografia del personaggio, 14 poesie inedite (delle 6749 lasciate da lui manoscritte hanno visto la luce finora poche, esemplari testimonianze), una lettera di Sergio Givone, un ricordo affettuoso firmato da Eleonora Barbara Nomellini (che giustamente sottolinea la generosa opera di recupero e catalogazione dell’immenso materiale attuata dalla moglie di Tartaglia, Germaine Mühlethaler). Ma soprattutto propone ai lettori due appassionati e approfonditi saggi dei Professori Adriano Marchetti e Marco Marchi, convinti estimatori del pensiero e della scrittura del sacerdote “eretico” di Parma, “scomunicato vitando” nel 1946 e riammesso nella comunità ecclesiale solo poco prima della morte, avvenuta nel 1988. Il Professor Marchi definisce Tartaglia «un personaggio irrubricabile…nella sua eccentricità contestataria e solitaria e nel suo inesausto sperimentalismo di dizione»; e in lui intuisce «una sorta di testimonianza globale vorace, insaziata e insaziabile, irriguardosa quanto onesta, che a tutto espone, che tutto distrugge e scompone e che di niente ha paura in vista di verità originarie predicabili oltre la distruzione». Il Professor Marchetti, inchinandosi davanti «alla verticalità assoluta della sua figura…con le sue disperazioni, le sue effervescenze, i suoi abbandoni estatici, la sua visionaria lucidità, la sua collera di profeta», conclude: «Tartaglia rifiuta tutto in blocco, è contro la stessa condizione umana che insorge, meglio ancora, contro la condizione fisica e astronomica dell’Universo se l’alfa e l’omega di ogni suo orizzonte non fanno segno essenzialmente ed esclusivamente al Regno di Dio».

«Mosaico di pace – Approfondimenti», dicembre 2012-gennaio 2013

RECENSIONI

AAVV – UN ALTRO MONDO IN QUESTO MONDO

AAVV, UN ALTRO MONDO IN QUESTO MONDO – MORETTI&VITALI, BERGAMO 2014

Con l’esplicito sottotitolo Mistica e Politica, questo volume curato da Wanda Tommasi offre ai lettori dodici qualificatissimi interventi sul significato storico e sociale della pratica mistica, così come si è venuta delineando dal medioevo ad oggi. In margine a un convegno tenutosi all’Università di Verona nel settembre del 2013, gli autori dei saggi (che poi sono nella quasi totalità autrici) hanno ritenuto opportuno e fecondo esaminare quanto rilievo possa avere ancora nella nostra contemporaneità l’aspirazione ad aprirsi, in questo mondo, a un percorso “altro”, in grado non solo di sottrarsi alle logiche utilitaristiche del potere, ma addirittura di riuscire a incrinarle facendo riferimento a un lato invisibile della realtà, «a un ordine senza nome né forma che noi non possiamo definire ma che tuttavia ci orienta»- come suggerisce la prefatrice. Quali sono, quindi, le ragioni e le caratteristiche che determinano la funzione essenziale dell’esperienza mistica oggi? Secondo Giancarlo Gaeta, massimo studioso di Simone Weil, la mistica è «un accesso al soprannaturale limitato a pochissimi», che tuttavia ha un decisivo «effetto di crescita sulla vita comune…così come lo è il lievito nella massa della farina», perché «da sempre e sotto ogni cielo si è avuta certezza dell’esistenza di un ambito superiore, l’ambito del bene assoluto, in cui hanno cittadinanza parole come verità, giustizia, bellezza, amore». Wanda Tommasi raccomanda di fare un uso sapienziale di alcune formule dell’agire mistico che possono servirci da orientamento anche nella nostra quotidianità. A partire dall’umile regola che si era proposta Teresa d’Avila: «fare il poco che dipende da me», invito a una considerazione realistica «della propria forza e della propria miseria» nell’indirizzarsi verso un agire comunque trasformativo. Proposito ripreso secoli dopo da Simone Weil, Etty Hillesum, Cristina Campo, nel loro dare largo spazio all’ infinitamente piccolo, al niente senza nome, ma «irrinunciabile», che rinvia al soprannaturale.

Cinque teologhe (Morra, Vantini, Simonelli, Tomassone, Potente) indagano il misticismo soprattutto come fenomeno religioso legato alla cristianità. Forti di quando affermava Karl Rahner negli anni ’60: «i credenti del terzo millennio o saranno mistici o non esisteranno per niente», analizzano la relazione tra mistica e possessione diabolica (Stella Morra) come «rimosso» della storia; l’intuizione atea di Julia Kristeva (Lucia Vantini), che individua psicanaliticamente la dimensione di eccesso e di ulteriorità non addomesticabile del misticismo; la preghiera come pratica trasformatrice e modalità di abitare il mondo (Cristina Simonelli); l’ illuminante esempio di resistenza politica della pacifista tedesca Dorothee Sölle (Letizia Tomassone); e infine la necessità di accogliere in se stessi la gratuità del vuoto, il silenzio del nulla (Antonietta Potente). La teorica del femminismo Luisa Muraro afferma che «la mistica è una lotta contro i dualismi che sono già stabiliti, oppure che si producono… dalla perdita di contatto con la propria interiorità». Erminia Macola, docente universitaria e psicoanalista a Padova, ritrova nelle estasi di Santa Teresa e nel suo abbandono totale a Dio una rivendicazione della fisicità come ricerca della verità. Gloria Zanardo rilegge «l’impersonale» di Simone Weil («l’intima estraneità», lo svuotamento spassionato) come un grimaldello capace di scardinare le interpretazioni tradizionali di politica e giustizia. Contemplazione e Kenosi sono poi alla base del rinnovamento etico e di pensiero introdotto nella scuola di poesia veneziana La settima stanza di Laura Guadagnin. Per concludere la breve analisi di questi testi, tirando un po’ le fila delle loro intuizioni e proposte interpretative, citerò il saggio di Annarosa Buttarelli, più polemicamente critico dei precedenti. Buttarelli afferma: «sono convinta che la politica delle donne abbia bisogno di un respiro ulteriore che l’esperienza mistica e l’eterno extra-storico possono dare per immettere un cuneo nella fase costituente di oggi». Una mistica però più declinata al femminile che al maschile, se è vero che nella storia occidentale più donne che uomini hanno vissuto un’esperienza in prima persona di ciò a cui diamo nome Dio. Ma soprattutto perché, come sostiene la studiosa della Comunità di Diotima, «nella mistica maschile prevale nettamente l’idea che sia necessario perseguire l’annichilimento dell’Io, non per amore del mondo, ma per incoraggiare e coltivare la solitudine e la perfezione del gesto…il cammino di perfezione sembra essere percorso come ‘cura sui’….cura-di-sé piuttosto che lotta perché…prevalgano le relazioni». Mentre una politica delle donne che sappia «collocare in un altrove non umano e misterioso la fonte del potere» mettendo «in grado di governare senza incarnare alcunché, di restare creativi e sovrabbondanti di idee, di non avere conti sospesi con nessuno, nemmeno con dio» (e viene citato l’esempio luminoso di Cristina di Svezia) «apre alla generatività dell’amore».

«Leggendaria» n.112, luglio 2015

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AAVV – VERSI DA RIDERE

AAVV, VERSI DA RIDERE – IL SAGGIATORE, MILANO 2007

È un luogo comune che i poeti siano sempre tristi, malinconici, tormentati, o risponde a verità? E come mai le poesie divertenti, giocose, spensierate sono così rare nella nostra letteratura, e più in generale, nella letteratura mondiale? Davvero risulta così difficile sorridere e far sorridere scrivendo versi? Versi da ridere, questa antologia curata da Daniele Piccini, tenta di sfatare un mito, forse con qualche difficoltà, visto che i poeti presentati sono per lo più medievali, rinascimentali, romantici, e solo in un unico caso (con il romagnolo Raffaello Baldini) si spingono alla contemporaneità… Di quest’ultimo viene pubblicata, con traduzione dal dialetto, Contentarsi, una litania dei malanni fisici e morali che affliggono un anziano artigiano: poemetto spiritoso, certo, ma con un retrogusto alquanto amarognolo.

I più antichi tra i poeti proposti (Rustico Filippi, Cecco Angiolieri, Guido Cavalcanti, Lorenzo de’ Medici, Francesco Berni e altri) sghignazzano su donne, vino, liti tra amici, fisicità esibite. Ma dobbiamo forse arrivare all’Ottocento dei nostri grandi poeti dialettali (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa) per riuscire a ridere con pienezza e ammirazione, non solo per le situazioni realmente comiche che vengono descritte, ma anche per la pungente ironia che sferza il malcostume politico e sociale, privato e pubblico, con toni spesso irriverenti e sarcastici anche nei confronti della religione.
La poesia comico-burlesca, secondo il curatore di questa antologia, «non è appannaggio di irregolari, beoni e dissipatori (l’identità tra la letteratura giocosa e la biografia è stata enfatizzata da certo Romanticismo), ma una risorsa di stile e di lingua alternativa a quella aulica». Eppure, se lo stesso Daniele Piccini giustifica l’esclusione di importanti poeti contemporanei come Palazzeschi, Sanguineti e Zeichen in quanto hanno vissuto «le loro operazioni in àmbiti di più spinta cerebralità», tanti altri nomi avrebbero meritato di comparire in queste pagine: dai futuristi a Scialoja.

 

© Riproduzione riservata                  www.sololibri.net/Versi-da-ridere-Piccini.html         12 ottobre 2016

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AAVV – VIOLENZA DIVINA

JEAN-DANIEL CAUSSE, ÉLIAN CUVILLER, ANDRÉ WÉNIN, VIOLENZA DIVINA. UN PROBLEMA ESEGETICO E ANTROPOLOGICO – EDB, BOLOGNA 2012

L’educazione cattolica tradizionale ci ha abituato a un’immagine del cristianesimo irenica, rasserenante, confortante, soprattutto se paragonata a quella attribuita ad altre religioni, ritenute sanguinarie, vendicative, brutali. In realtà, nelle Sacre Scritture non sono rare le pagine in cui tracima violenza, sia da parte della divinità che da parte degli uomini, e il volume di tre titolati autori francesi (due teologi e uno psicanalista) pubblicato da EDB scandaglia in profondità questo tema, attraverso un’esplorazione esegetica e antropologica che apre a stimolanti punti di riflessione, anche per i credenti più ortodossi. Il libro si articola in quattro capitoli: il primo è dedicato all’indagine della violenza nell’Antico Testamento, che viene esercitata all’interno delle famiglie e dei popoli, ma anche prescritta da Dio, attraverso sacrifici umani e uccisioni di vittime innocenti. Nel secondo saggio si affronta la violenza dei testi sacri dal punto di vista della psicanalisi, recuperando l’analisi freudiana (la pulsione arcaica a divorare, a incorporare l’altro, negandone l’alterità) e indagando gli aspetti problematici del silenzio e della gelosia divina. Nel terzo capitolo si esaminano i testi del Nuovo Testamento, in particolare l’Apocalisse, le lettere di Paolo e in Vangelo di Matteo: il cammino della lotta contro il male e lo scandalo della Passione, in cui Gesù accetta di subire la violenza degli uomini senza rispondere con la violenza. Nell’intervento finale ci si confronta con l’interpretazione nietzschiana tendente a demistificare il messaggio di pace e di amore divino, in realtà fondato sul risentimento nei riguardi della vita e della sua umana e positiva fisicità. Gli autori ripropongono quindi una rilettura del cristianesimo attraverso la rivalutazione del dono, della mitezza, della trasfigurazione della morte intesa come sconfitta.

«Mosaico di pace – Approfondimenti», dicembre 2012-gennaio 2013

RECENSIONI

AAVV, FONDAZIONE MIGRANTES

FONDAZIONE MIGRANTES, IN FUGA – TAU, TODI 2023

Fondazione Migrantes ha realizzato una graphic novel rivolta soprattutto, ma non solo, ai giovani e ai più piccoli: In fuga è un volumetto illustrato di 36 pagine, pubblicato dalla casa editrice Tau, seguendo l’originale proposta creativa di un gruppo di fumettisti e sceneggiatori composto da Emanuele Bissattini, Valerio Chiola, Mariacristina Molfetta, Chiara Marchetti, Duccio Faccini e Manuela Valsecchi.

In primo luogo, è opportuno presentare le attività di Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana istituito nel 1987 “per accompagnare e sostenere nella conoscenza, nell’opera di evangelizzazione e nella cura pastorale dei migranti, italiani e stranieri, per promuovere nelle comunità cristiane atteggiamenti e opere di fraterna accoglienza nei loro riguardi, per stimolare nella società civile la comprensione e la valorizzazione della loro identità in un clima di pacifica convivenza, con l’attenzione alla tutela dei diritti della persona e della famiglia migrante e alla promozione della cittadinanza”. Le persone cui si rivolge l’attività della Fondazione, sono singoli, famiglie e comunità coinvolte dal fenomeno della mobilità umana, e in modo particolare gli immigrati ed emigrati stranieri e italiani, i rifugiati, i profughi, gli apolidi e i richiedenti asilo, la gente dello spettacolo viaggiante, i Rom, Sinti e nomadi.

Il fumetto, disegnato con immagini realistiche e vivacemente colorate, si basa sulle testimonianze rese da migranti nel volume Il Diritto d’asilo 2022 sui diversi trattamenti che vengono riservati a chi scappa dalle guerre a seconda del paese di origine. Presenta personaggi differenti per provenienza, lingua, sesso, età: interi nuclei familiari o singoli immigrati che provengono dall’Ucraina, dall’Africa o dal Medio Oriente, fuggendo da guerre e privazioni, attraverso percorsi dolorosi, subendo violenze fisiche, fame e umiliazioni di ogni tipo. Si chiamano Dimitry, Veronika, Rashid, Natalka, Amaka, Bidemi, Alì. Raggiungono sedi diverse in Italia, o riunendosi a familiari già residenti nel nostro paese, o alloggiati temporaneamente nei centri di accoglienza definiti CAS e SAI.

Uno degli operatori ritratti nel libro afferma: “Ci sono gli stessi problemi per situazioni sempre diverse”, e in effetti gli ostacoli da superare per chi arriva in Italia a prima vista sembrano simili: la sistemazione logistica, l’apprendimento della lingua, la ricerca di un lavoro, l’inserimento scolastico, il riconoscimento dei titoli di studio, la separazione dai parenti, l’impossibilità di fuoriuscire dallo stato senza perdere i diritti acquisiti, le esasperanti lentezze burocratiche.

In realtà esistono sostanziali differenze tra chi proviene da paesi europei come l’Ucraina, e chi invece è originario di altri continenti. Ai primi si offrono garanzie legali e premure più sollecite e solidali, dal punto di vista sanitario, educativo, giuridico; agli altri viene serbato un trattamento meno favorevole, e spesso discriminatorio nei risultati effettivamente conseguiti. Un motivo di più per riflettere e far riflettere i lettori sulla legislazione e sui diversi atteggiamenti messi in atto nel nostro paese che ama definirsi civile.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net           19 dicembre 2023

RECENSIONI

AAVV, GIORGIO BERTANI EDITORE RIBELLE

AAVV, GIORGIO BERTANI EDITORE RIBELLE – MILIEU EDITORE, MILANO 2020

Marc Tibaldi, giornalista freelance da sempre impegnato nell’analisi dei fenomeni sociali di opposizione e dei meccanismi ambientali di emarginazione (collabora con Agenzia X, Carmilla e Il manifesto, ed è autore di “Metix babel felix. Meticciamento, passing, divenire e conflitto”), ha curato per l’editore milanese Milieu il volume Giorgio Bertani editore ribelle, proponendo numerose testimonianze sul lavoro politico di Bertani, e un’ampia rassegna a colori delle copertine più significative del suo catalogo.

Il libro è arricchito da un docufilm in dvd, “Verona city lights” – con regia dello stesso Tibaldi e musiche inedite di Claudio Fasoli -, che raccoglie interviste inedite all’editore e ai protagonisti più importanti di un periodo denso di tensioni culturali e di utopie rivoluzionarie, quali quelle emerse tra il 1968 e la fine degli anni ’80.

Nato da un’iniziativa condivisa di crowdfunding, e dall’intelligenza collettiva di molti protagonisti di quella stagione di militanza, ancora attivi nel panorama intellettuale italiano di oggi – come Antonio Moresco e Carlo Rovelli- , il volume racconta la passione con cui Bertani ha dato spazio, nei suoi libri e nelle riviste, alle voci più significative del pensiero critico internazionale di allora: Bataille, Nizan, Derrida, Guattari, Deleuze, Baudrillard, Goldmann, Dario Fo e Franca Rame, Bifo, Franco Rella, Alberto Tomiolo, Dacia Maraini, Vittorino Andreoli, Giangiacomo Feltrinelli. Un’attenzione specifica veniva prestata alle insurrezioni dell’IRA, della RAF e dei Tupamaros, alle lotte operaie, alle esperienze alternative della didattica, alla ricerca non accademica, alle nascenti inquietudini religiose, alle novità in campo artistico e teatrale.

Giorgio Bertani, “polemico e candido, buffo e gentile”, si distingueva anche per un istrionismo dai tratti gigioneschi, che in una città cattolicamente inamidata come Verona risultava spesso provocatorio ed esasperante, e purtroppo facile da neutralizzare attraverso il ridimensionamento nel pittoresco e nel folclorico.

Marc Tibaldi ricostruisce con stima e affetto la vicenda esistenziale dell’editore, dalla sua nascita avvenuta in una famiglia operaia nel 1937, fino alla morte nel luglio del 2019. Rimasto presto orfano, Bertani si impiegò ancora ragazzo come commesso nella libreria Dante, di cui divenne in seguito direttore, formandosi da autodidatta sui testi classici della letteratura e della filosofia. Nel 1962 fece parte del gruppo che rapì il viceconsole spagnolo in Italia per protestare contro la condanna di tre giovani antifranchisti; nel 1968 fondò le edizioni EDB, e quattro anni dopo la casa editrice cui diede il suo nome. Sempre vicino all’area socialista e anarchica, partecipò a numerose azioni di solidarietà durante il conflitto jugoslavo. Dal 2002 al 2007 fu consigliere dei Verdi al Comune di Verona, rivestendo la carica di Presidente della Commissione Cultura, schierandosi poi negli ultimi anni di vita a fianco dei movimenti antirazzisti, femministi, pacifisti, e occupandosi attivamente dei problemi dei senzatetto.  Tra il ’77 e la chiusura della sua attività per difficoltà economiche, Bertani conobbe perquisizioni e arresti, due tentativi di suicidio e una progressiva emarginazione politico-culturale.  “Eretico e polemico, basco rosso in testa, in bicicletta, immancabile a ogni manifestazione cittadina … in una Verona diventata negli ultimi decenni laboratorio della collaborazione di tutti i gruppi fondamentalisti e reazionari, Bertani ha continuato a rivendicare le sue origini proletarie e antifasciste”, deciso a rispondere con intelligenza e gioiosa creatività all’intolleranza e alla violenza reazionaria, scrive Tibaldi.

Ai suoi funerali ha partecipato commossa la parte più democratica della città, e recentemente la Biblioteca Civica si è offerta di creare un archivio comprendente i testi editi e inediti, la corrispondenza e tutta la documentazione relativa alla sua casa editrice.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 21 novembre 2020

 

RECENSIONI

AAVV, IL PANE E LE ROSE

AAVV, IL PANE E LE ROSE –  ALEGRE, ROMA 2025

Ho pubblicato la mia prima recensione nel giugno del 1976, su una rivistina universitaria: era dedicata al libro di Ferruccio Brugnaro Vogliono cacciarci sotto, uscito l’anno prima per le edizioni veronesi di Giorgio Bertani nella collana Letteratura operaia. Brugnaro (Mestre 1936) con Luigi di Ruscio (1930-2011) è stato il più noto poeta operaio, e tra i maggiori rappresentanti della letteratura subalterna. In quel suo primo volume, che era accompagnato da una nota di Andrea Zanzotto, dichiarava nell’introduzione: “La poesia è utile se nasce come strumento di lotta, di riflessione e azione, strumento di intervento reale… essa diventa per me e per i miei compagni un momento di riflessione, di arresto per poi ripartire subito con più chiarezza, con più forza… Voglio dire ancora che lo scrivere versi per me non significa altro che fare delle azioni di lotta; azioni concrete perché la società in cui viviamo abbia a cambiare presto, perché gli uomini e il mondo vengano sottratti presto alla cecità e alla sete di sangue del capitalismo. Non potrò mai intendere una poesia che non tenga conto della realtà bruciante quotidiana dell’uomo”.

Negli anni ’80, da Zurigo (dove mi sono occupata per Agorà, un settimanale delle Colonie Libere, anche della scrittura dell’emigrazione) ho iniziato a collaborare con la rivista Abiti-Lavoro, diretta da Sandro Sardella e Giovanni Garancini, che poi ho conosciuto personalmente. Abiti-Lavoro, di cui conservo ancora religiosamente tutti i numeri, è stata una storica rivista di poesia operaia, aperta al contributo di maestranze, sindacalisti, studenti, insegnanti e intellettuali impegnati nel sociale.

Sono quindi tornata indietro di cinquant’anni con la memoria, e con molta emozione, scoprendo alcuni giorni fa che la coraggiosa casa editrice romana Alegre ha inaugurato una collana intitolata Working Class, sotto la direzione di Alberto Prunetti, dedicata alla narrativa prodotta da lavoratori inseriti nel mondo industriale, agricolo, della ristorazione. Dagli anni 60-70, in cui il mondo professionale godeva di una rappresentazione di eccellenza nelle nostre patrie lettere (la rivista Comunità di Adriano Olivetti, le ambientazioni industriali di Ottieri, Volponi, Bianciardi, Calvino, il Menabò numero 4 di Elio Vittorini, la collana di poesia edita da Savelli sotto l’egida di Majorino), l’interesse del mondo editoriale italiano per il tema del lavoro è andato via via scemando, fino quasi a scomparire, nonostante la sua rilevanza sociale e politica continui a essere basilare. Oggi la letteratura sembra più orientata verso l’intrattenimento e il disimpegno, e l’industria del libro riproduce al proprio interno gli squilibri nella distribuzione del capitale culturale, dove le persone di classe operaia – necessarie per la stampa, il magazzinaggio e la logistica del libro – sono indispensabili ma completamente invisibili, e i rari premi letterari sul tema del lavoro vengono sponsorizzati da banche e associazioni come Confindustria, limitandosi a privilegiare momenti di incontro mondano.

Proprio Prunetti introduce Il pane e le rose, volume che raccoglie alcuni racconti operai premiati nelle prime due edizioni del Festival di Letteratura Working Class tenutosi nell’aprile del 2022 e del 2023 al presidio ex Gkn di Campi Bisenzio, collegato al premio omonimo ideato da un gruppo di bibliotecari e lavoratori della cultura del comune di Montelupo Fiorentino. In un progetto di convergenza culturale, il Collettivo di fabbrica degli operai ex Gkn, (protagonisti dell’assemblea permanente più lunga del movimento operaio italiano), la casa editrice Alegre, la Società operaia di mutuo soccorso Insorgiamo e l’ARCI di Firenze, hanno creato un evento internazionale di riflessione sull’immaginario letterario della classe lavoratrice, a cui il comune di Campi Bisenzio ha prestato il patrocinio.

Questo festival, ormai alla quarta edizione, ha come obbiettivo di dare centralità e nuova visibilità alla letteratura working class, per produrre effetti pratici nelle mobilitazioni di appoggio alle lotte sindacali contro licenziamenti, delocalizzazioni e speculazioni finanziarie, soffermandosi sul tema del lavoro sfruttato e oppresso. Il Festival è forse il primo tentativo a livello europeo di costruire una forma radicale di literary public sphere, per intervenire con la letteratura nella società, costruendo e mobilitando un pubblico a partire dalla solidarietà popolare attorno a una mobilitazione sindacale: un festival della classe operaia per la classe operaia. Ha sempre ottenuto molto successo in termini di partecipazione, di vendite di libri, con presenze di relatori internazionali e centinaia di volontari, ma è stato anche ferocemente boicottato, con l’utilizzo minaccioso di droni sorvolanti la manifestazione, con la contestazione di interventi solidali come quello di Elio Germano, con un attentato alla cabina elettrica per bloccare la luce.

I racconti antologizzati nel volume Il pane e le rose hanno temi comuni, pur nella diversità delle situazioni rappresentate. Vengono ribaditi il senso di precarizzazione e sfruttamento, la disumanizzazione dei rapporti interpersonali e la difficoltà nel mantenere salde le relazioni familiari, la deresponsabilizzazione e l’egoismo dei vertici aziendali, il timore e la rabbia per il ripetersi di incidenti causati dalla mancanza di sicurezza, le ingiustizie salariali, i turni massacranti, i licenziamenti e i trasferimenti immotivati, e poi la volontà di ritrovare una solidarietà comune nell’organizzazione degli scioperi e dell’occupazione delle fabbriche. Si tratta di esperienze vissute tragicamente sulla propria pelle: una lavoratrice di un’azienda agricola australiana che si ferisce e non viene soccorsa dai responsabili, un operaio anziano che si arrampica come ogni giorno faticosamente su una ciminiera di 100 metri e sventola uno striscione di protesta, il giovane laureato che non riesce a trovare un’occupazione adeguata, lo stabilimento siderurgico di Piombino su cui si diffonde una nube tossica dopo un’esplosione, l’addetto alla cura del verde (matricola 108712) che viene discriminato dai colleghi, il lavoratore che ricostruisce un secolo di storia delle Officine Meccaniche Reggiane… La conclusione di Dario Salvetti – Rsu e portavoce del Collettivo di fabbrica ex Gkn –, rende conto dei due anni di lotta della fabbrica toscana, che non ha avuto e non deve avere solo rivendicazioni economiche, perché “lo scontro passa anche per la capacità di essere soggetto narrante e narrato, di raccontare e di raccontarsi, sapendo scendere nel dettaglio del colore di una tuta, ma tenendolo assieme ai grandi fatti storici della classe operaia e dei movimenti sociali”.

Il titolo della seconda edizione del Festival Working Class citava Mark Fisher: “Non siamo qui per intrattenervi”, sottolineando la volontà di creare un pubblico di lettori capace di trasformare il mondo dei libri fuori dai libri, e aprendo spazi di riflessione per cambiare i rapporti di forza nella società.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 8 aprile 2025