«Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro, e invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo. Andare lenti è fermarsi su un lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata, su una collina bruciata dall’estate, andare col vento di una barca e zigzagare per andar dritti. Andare lenti è conoscere le mille differenze della propria forma di vita, i nomi degli amici, i colori e le piogge, i giochi e le veglie, le confidenze e le maldicenze. Andare lenti sono le stazioni intermedie, i capistazione, i bagagli antichi e i gabinetti, la ghiaia e i piccoli giardini, i passaggi a livello con gente che aspetta, un vecchio carro con un giovane cavallo, una scarsità che non si vergogna, una fontana pubblica, una persiana con occhi nascosti all’ombra. Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti ad esplodere oppure puntati sul cielo perché stretti da mille interdetti. Andare lenti vuol dire avere un grande armadio per tutti i sogni, con grandi racconti per piccoli viaggiatori, teatri plaudenti per attori mediocri, vuol dire una corriera stroncata da una salita, il desiderio attraverso gli sguardi, poche parole capaci di vivere nel deserto, la scomparsa della folla variopinta delle merci e il tornar grandi delle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori della scena principale e più vicini a tutti i segreti. Il pensiero lento offrirà ripari ai profughi del pensiero veloce, quando la macchina inizierà a tremare sempre di più e nessun sapere riuscirà a soffocare il tremito. Il pensiero lento è la più antica costruzione antisismica».
Questo brano poeticissimo e sapiente, espressione di una saggezza antica − quando gesti, riflessioni e parole non subivano la pressione della fretta, l’ansia del profitto, il desiderio di superare limiti propri e altrui −, è tratto da un importante libro di Franco Cassano, professore di sociologia all’Università di Bari, saggista, editorialista e deputato del Partito Democratico: Il pensiero meridiano.
Oggi che lo “slow life” sta diventando un monito e una parola d’ordine, quasi un imperativo di moda negli ambiti più disparati della nostra frenetica quotidianità (dallo slow food al sesso tantrico, dallo yoga al pilates, dalla medicina omeopatica al viaggio a piedi o in bicicletta), Franco Cassano ci ricorda che il recupero di una dimensione più rilassata dell’esistenza, meno competitiva e non orientata solamente verso l’innovazione, il successo e la velocità, deve diventare un obiettivo per tutti, pena l’autodistruzione individuale e collettiva. In un volume più recente, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, ci invita a non lasciarci condizionare e ipnotizzare da alcuni stereotipi imposti dai mass media: l’ossessione salutistica che ci costringe a jogging quotidiani stressanti; il tecnicismo che ci induce ad acquistare l’ultimo modello di auto, di computer, di cellulare; l’ansia di prestazione nel lavoro, nella sessualità, nello sport; l’allarmismo costante che ipotizza di continuo catastrofi ambientali, belliche, finanziarie. Stiamo diventando sempre più impazienti, pressati da impegni inderogabili e attratti da mete irraggiungibili: finiamo per “considerare inutili e noiose tutte le strade che conoscono la salita, le curve e la sosta, il mutare delle prospettive”. E questo ci succede anche nei rapporti umani che stabiliamo con gli altri: intimità, gioco, elaborazione del desiderio, costruzione di un’amicizia, silenzio e solitudine vengono considerati momenti fallimentari, non proficui, superflui. «Abbiamo scelto Cartesio invece di Montaigne, la via del controllo razionale e tecnologico del mondo invece di quella della saggezza, di quel sapere che non si è mai proposto di esorcizzare il limite, ma ha continuamente dialogato con esso». Forse, secondo Cassano, è ora di rivalutare la vita flemmatica della provincia, la passeggiata senza scopo, «la nobiltà del cazzeggiare» perdendo tempo, i momenti di vuoto, di noia e di inoperosità in cui recuperare fantasie trascurate e nostalgie rimosse, il cappuccino gustato seduti in piazza piuttosto dell’espresso trangugiato in piedi al bar. Coltivando “un’arte più sottile, quella di provare a uscire di lato dalle giornate, a sospenderne la pressione per rimettere in ordine le proporzioni, ciò che viene prima e ciò che, anche se crede di essere importante, deve imparare a fare la fila e attendere il suo turno. Bisognerebbe disporre di molte parentesi da collocare ogni tanto, come dei paraventi, nelle nostre giornate, per imparare a ritrovarci da soli o con chi ci piace…”.
Queste argomentazioni vengono riprese da un punto di vista più razionalmente stringente anche da Lamberto Maffei (neurobiologo, direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR dal 1980 al 2008, dal 2009 al 2015 presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei), che in Elogio della lentezza spiega che al nostro cervello necessitano processi mentali “lenti” per produrre pensieri e riflessioni elaborate. Se infatti reagiamo velocemente, istintivamente e automaticamente agli stimoli ambientali, in modo da metterci al riparo da eventuali pericoli e garantirci la sopravvivenza, quando siamo alle prese con un lavoro artistico o scientifico dobbiamo forzatamente procedere con più cautela, poiché entrano in gioco valutazioni più complesse, memorie, dubbi, interrogativi. Ed è un bene sia così, perché se la velocità speculativa diventasse il solo parametro di valutazione intellettuale «il successo evolutivo degli uomini rapidi porterebbe con sé la scomparsa di tutte le azioni considerate inutili, come la contemplazione, la poesia, la conversazione per il piacere di parlare, e la comparsa di una nuova arte, quella della rapidità, dove la poesia è un tweet e la pittura una pennellata». Quindi, ben vengano i processi mentali lunghi del ragionamento, dell’argomentazione e della sperimentazione rispetto all’irrazionale compulsivismo dell’azione non meditata, che ci spinge a obbedire in maniera meccanicistica a stimoli esterni molto spesso indotti dalla tecnologia mercificata e dalle esigenze del profitto economico. Maffei invita pertanto a un recupero dell’umanesimo e dei valori culturali basati sia sull’arte sia su una scienza libera, nobilmente gratuita, non asservita al capitale, ma al potenziamento della conoscenza universale.
Peter Handke − che nella sua raccolta di saggi Lentamente nell’ombra ha ripreso il verso virgiliano (Buc. I. 4) “lentus in umbra” −, accosta al concetto di lentezza quello della durata, come riflessione sul tempo sospeso, in attesa, in grado di insegnarci la bellezza di uno sguardo calmo, contemplativo, non arrogante, non ingordo. Rileggiamo alcuni versi da Canto alla durata:
«mi venne così di descrivere / la sensazione della durata / come il momento in cui ci si mette in ascolto, / il momento in cui ci si raccoglie in se stessi, / in cui ci si sente avvolgere, / il momento in cui ci si sente raggiungere / da cosa? Da un sole in più, / da un vento fresco, / da un delicato accordo senza suono / in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondo assieme. […] // Ecco, la durata è la sensazione di vivere. […] // Credo di capire / che essa diventa possibile solo / quando riesco / a restare fedele a ciò che riguarda me stesso, / quando riesco a essere cauto, / attento, lento, / sempre presente a me stesso sino nelle punte delle dita. […] // E io, / affinché da me nascano i momenti della durata / e diano un’espressione al mio volto rigido / e mettano nel mio petto vuoto un cuore, / devo assolutamente esercitare un anno dopo l’altro / il mio amore./ Restando fedele / a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante, / impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni, / sentirò poi forse / del tutto inatteso / il brivido della durata / e ogni volta per gesti di poco conto / nel chiudere con cautela la porta, / nello sbucciare con cura una mela, / nel varcare con attenzione la soglia, / nel chinarmi a raccogliere un filo. […] // Singolare è il sentimento della durata / anche alla vista di certe piccole cose / quanto meno appariscenti, tanto più toccanti: / un cucchiaio / che mi ha accompagnato in tutti i traslochi / un asciugamano / appeso nelle stanze da bagno più diverse, / la teiera e la sedia di vimini / per anni lasciata in cantina / o accantonata da qualche parte / e ora finalmente di nuovo al suo posto, / un altro, in verità, diverso da quello originario / e tuttavia al suo posto. […] // Anche a casa mi si fa accanto molte volte / quando cammino su e giù per il giardino / nella neve, nella pioggia, al sole, sotto il temporale, / […] oppure quando mi siedo nella mia stanza / al cosiddetto tavolo da lavoro – / non per attendere alla mia occupazione, al testo, / ma per fare tutti quei soliti gesti secondari: / spostare indietro la sedia, / dare uno sguardo nel cassetto […] / sbirciare dalla finestra in giardino / dove i gatti lasciano le loro tracce / nella neve profonda e tra l’erba alta, / mentre ascolto da diverse direzioni a seconda del vento / il fischio e il trabalzare / dei treni che percorrono la pianura. […] // O durata, mia quiete! / O durata, mia sosta! […]».
Anche Milan Kundera, nel suo romanzo La lentezza si esprime celebrando il piacere della perdita di tempo, della rilassatezza, della sospensione di ogni vacuo attivismo:
«Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri tra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia; è felice. Nel nostro mondo, l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca. Guardo nello specchietto retrovisore: sempre la stessa macchina che non riesce a superarmi a causa del traffico in senso inverso. Accanto al guidatore è seduta una donna; perché l’uomo non le racconta qualcosa di divertente? Perché non le appoggia la mano sul ginocchio? Macché: l’uomo maledice l’automobilista davanti a lui perché va troppo piano, e neppure la donna pensa a toccarlo con la mano, mentalmente sta guidando anche lei, e anche lei mi maledice».
Sia lode alla lentezza, dunque, valore sminuito quando non disprezzato dalle ideologie contemporanee del progresso forzato, della produttività esasperata, della ipervelocità dominatrice. Sia lode alla lentezza che ci fa approdare a una dilatazione consapevole dell’istante, a un’estensione orizzontale dell’adesso, inducendoci − come aveva intuito già Sant’Agostino − a raggiungere anche un’estensione dell’anima.
© Riproduzione riservata «Il Pickwick», 26 gennaio 2018