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RECENSIONI

AAVV – POETI GIAPPONESI

AAVV, POETI GIAPPONESI – EINAUDI, TORINO 2020

Mancava, nel nostro panorama letterario, un’antologia aggiornata ed ampia della poesia giapponese contemporanea, e l’iniziativa dell’editore Einaudi di inserire una tale accurata rassegna nella sua “collana bianca” risulta pertanto opportuna e lodevole. Il volume, con testo a fronte, comprende ventidue autori e autrici scelti fra le generazioni che si sono susseguite a partire dai nati negli anni Venti, come Ishimure Michiko (1927), fino a Fuzuki Yumi (1991): due donne ad aprire e chiudere un secolo.

L’approfondita introduzione di Maria Teresa Orsi (professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma, e autrice di fondamentali lavori sulla letteratura giapponese) e le preziose note di Alessandro Clementi degli Albizzi, ci avviano alla conoscenza di una cultura poetica finora non abbastanza frequentata in Italia, presentandoci un ventaglio di scritture diverse negli stili e nei temi, ma sempre originali e interessanti.

Tratto comune agli autori presentati è l’utilizzo del verso libero, introdotto nella poesia giapponese alla fine del XIX secolo su imitazione dei modelli occidentali, e in seguito adottato continuativamente, in un reciproco e intenso scambio con la produzione americana ed europea, pur nel rispetto della tradizione classica nipponica. A questa compenetrazione tra oriente e occidente, era affiancata la perenne influenza esercitata sulla poesia giapponese dalla cultura e dalla lingua cinese, proficuo terreno di formazione letteraria per intere generazioni. Alla fine della seconda guerra mondiale, si impose necessariamente la volontà di rompere con un passato di celebrazioni nazionalistiche e retoriche, di esasperata liricità e simbolismi, nella ricerca di contenuti che rendessero evidente la critica ideologica a ogni fanatismo ideologico e bellico, testimoniando invece il dolore e il lutto collettivo di una nazione, la fatica della ricostruzione, il senso opprimente di disperazione e morte. I poeti nati negli anni ’30 ambivano a porre l’accento soprattutto sulle proprie esperienze individuali, accentuando la particolarità delle loro scelte stilistiche, in cui venivano privilegiati ritmo, musicalità e linguaggio colloquiale, senza trascurare una vena più ironica nell’interpretazione del proprio vissuto.

Fondamentali furono, nell’inaugurare questo nuovo indirizzo creativo, le raccolte e gli interventi critici pubblicati negli anni ’50 da Ōoka Makoto e Tanikawa Shuntarō, i quali proposero nuove e differenziate modalità di espressione, dal sonetto ai testi di canzoni, dal metro classicheggiante alla sperimentazione surrealistica. Negli anni del dopoguerra, con la veloce sterzata dell’economia in direzione di uno sviluppo capitalistico e consumistico, divennero più frequenti e vivaci i contatti con altri fenomeni artistici, dalla pittura al teatro, dal cinema alla pubblicità. A una dinamica attività editoriale volta a diffondere la poesia si affiancarono negli anni ’70 i festival, le letture in pubblico, le performance, dando un valore sempre più accentuato all’oralità, al suono, alla recitazione dei versi: in questo campo fu ed è tuttora maestro Yoshimasu Gōzō, teorizzatore di una nuova libertà sintattico-grammaticale nel testo scritto, e di un’interpretazione destabilizzante e innovativa nella proposta vocale. La sua famosa A fianco (cotes) della poesia utilizza in maniera inedita e sovversiva simboli, spaziature, caratteri tipografici, onomatopee, frantumazioni, proponendo una clamorosa rottura con la tradizione poetica orientale.

Maria Teresa Orsi presenta nell’introduzione una particolareggiata rassegna degli autori antologizzati, nei loro peculiari caratteri esistenziali ed espressivi: dal raffinato estetismo dei temi omoerotici di Takahashi Mutsuo a quelli mitologici e leggendari di Irisawa Yasuo, dalle battaglie ambientali di Ishimure Michiko a quelle politiche di Sasaki Mikirō e di Fujii Sadakazu, fino alla recente produzione che riflette sul disastro ecologico di Fukushima.

Molti testi alternano ai versi brani prosastici, utilizzando tecnicismi, slang, dialetti; altri riprendono stilemi classicheggianti e metri tradizionali, soprattutto quando tratteggiano in modi sfumati ed elegiaci il paesaggio, o affrontano concetti spirituali e atmosfere magico-religiose.

A poesie evocative e nostalgiche di ambienti familiari o di memorie infantili si contrappongono messaggi divulgativi e terminologie provocatorie degli autori più giovani, o proposte di ardua interpretazione a livello semantico e stilistico di scrittori di nicchia come Arakawa Yōji e Nomura Kiwao. Quest’ultimo così teorizzava in un articolo: “La cosiddetta poesia moderna di cui mi occupo si chiama anche poesia libera. Infatti non ha una forma prestabilita come lo haiku o il tanka, ma volta per volta si sposta senza sosta e scorre liberamente da una forma all’altra. Assomiglia all’immagine di un viandante”.

Largo spazio viene dato alla poesia delle donne, che dagli anni ’80 a oggi si è imposta in Giappone con assoluta rilevanza in termini di successo di pubblico e di prestigio culturale. Sulla scia delle istanze femministe occidentali, tra le poetesse contemporanee si è fatto strada l’interesse per l’esplorazione psicologica e fisiologica della femminilità, attraverso un uso del linguaggio istintuale e spregiudicato (Itō Hiromi, Sugimoto Maiko, Fuzuki Yumi).

Una panoramica esauriente, quindi, quella che ci viene offerta da questo volume, che propone ai lettori appassionati di poesia un secolo di storia, cultura e costume del Giappone letto attraverso gli occhi dei poeti.

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Poeti-giapponesi.html       1 giugno 2020

RECENSIONI

AAVV – SIA LODE ALLA LENTEZZA!

«Bisogna essere lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro, e invece correre è guardarne solo la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto, sentire la stanchezza conquistare come una malinconia le membra, invidiare l’anarchia dolce di chi inventa di momento in momento la strada. Bisogna imparare a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto essere felici di avere in tasca soltanto le mani. Andare lenti è incontrare cani senza travolgerli, è dare i nomi agli alberi, agli angoli, ai pali della luce, è trovare una panchina, è portarsi dentro i propri pensieri lasciandoli affiorare a seconda della strada, bolle che salgono a galla e che quando son forti scoppiano e vanno a confondersi al cielo. È suscitare un pensiero involontario e non progettante, non il risultato dello scopo e della volontà, ma il pensiero necessario, quello che viene su da solo, da un accordo tra mente e mondo. Andare lenti è fermarsi su un lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata, su una collina bruciata dall’estate, andare col vento di una barca e zigzagare per andar dritti. Andare lenti è conoscere le mille differenze della propria forma di vita, i nomi degli amici, i colori e le piogge, i giochi e le veglie, le confidenze e le maldicenze. Andare lenti sono le stazioni intermedie, i capistazione, i bagagli antichi e i gabinetti, la ghiaia e i piccoli giardini, i passaggi a livello con gente che aspetta, un vecchio carro con un giovane cavallo, una scarsità che non si vergogna, una fontana pubblica, una persiana con occhi nascosti all’ombra. Andare lenti è rispettare il tempo, abitarlo con poche cose di grande valore, con noia e nostalgia, con desideri immensi sigillati nel cuore e pronti ad esplodere oppure puntati sul cielo perché stretti da mille interdetti. Andare lenti vuol dire avere un grande armadio per tutti i sogni, con grandi racconti per piccoli viaggiatori, teatri plaudenti per attori mediocri, vuol dire una corriera stroncata da una salita, il desiderio attraverso gli sguardi, poche parole capaci di vivere nel deserto, la scomparsa della folla variopinta delle merci e il tornar grandi delle cose necessarie. Andare lenti è essere provincia senza disperare, al riparo dalla storia vanitosa, dentro alla meschinità e ai sogni, fuori della scena principale e più vicini a tutti i segreti. Il pensiero lento offrirà ripari ai profughi del pensiero veloce, quando la macchina inizierà a tremare sempre di più e nessun sapere riuscirà a soffocare il tremito. Il pensiero lento è la più antica costruzione antisismica».

Questo brano poeticissimo e sapiente, espressione di una saggezza antica − quando gesti, riflessioni e parole non subivano la pressione della fretta, l’ansia del profitto, il desiderio di superare limiti propri e altrui −, è tratto da un importante libro di Franco Cassano, professore di sociologia all’Università di Bari, saggista, editorialista e deputato del Partito Democratico: Il pensiero meridiano.
Oggi che lo “slow life” sta diventando un monito e una parola d’ordine, quasi un imperativo di moda negli ambiti più disparati della nostra frenetica quotidianità (dallo slow food al sesso tantrico, dallo yoga al pilates, dalla medicina omeopatica al viaggio a piedi o in bicicletta), Franco Cassano ci ricorda che il recupero di una dimensione più rilassata dell’esistenza, meno competitiva e non orientata solamente verso l’innovazione, il successo e la velocità, deve diventare un obiettivo per tutti, pena l’autodistruzione individuale e collettiva. In un volume più recente, Modernizzare stanca. Perdere tempo, guadagnare tempo, ci invita a non lasciarci condizionare e ipnotizzare da alcuni stereotipi imposti dai mass media: l’ossessione salutistica che ci costringe a jogging quotidiani stressanti; il tecnicismo che ci induce ad acquistare l’ultimo modello di auto, di computer, di cellulare; l’ansia di prestazione nel lavoro, nella sessualità, nello sport; l’allarmismo costante che ipotizza di continuo catastrofi ambientali, belliche, finanziarie. Stiamo diventando sempre più impazienti, pressati da impegni inderogabili e attratti da mete irraggiungibili: finiamo per “considerare inutili e noiose tutte le strade che conoscono la salita, le curve e la sosta, il mutare delle prospettive”. E questo ci succede anche nei rapporti umani che stabiliamo con gli altri: intimità, gioco, elaborazione del desiderio, costruzione di un’amicizia, silenzio e solitudine vengono considerati momenti fallimentari, non proficui, superflui. «Abbiamo scelto Cartesio invece di Montaigne, la via del controllo razionale e tecnologico del mondo invece di quella della saggezza, di quel sapere che non si è mai proposto di esorcizzare il limite, ma ha continuamente dialogato con esso». Forse, secondo Cassano, è ora di rivalutare la vita flemmatica della provincia, la passeggiata senza scopo, «la nobiltà del cazzeggiare» perdendo tempo, i momenti di vuoto, di noia e di inoperosità in cui recuperare fantasie trascurate e nostalgie rimosse, il cappuccino gustato seduti in piazza piuttosto dell’espresso trangugiato in piedi al bar. Coltivando “un’arte più sottile, quella di provare a uscire di lato dalle giornate, a sospenderne la pressione per rimettere in ordine le proporzioni, ciò che viene prima e ciò che, anche se crede di essere importante, deve imparare a fare la fila e attendere il suo turno. Bisognerebbe disporre di molte parentesi da collocare ogni tanto, come dei paraventi, nelle nostre giornate, per imparare a ritrovarci da soli o con chi ci piace…”.

Queste argomentazioni vengono riprese da un punto di vista più razionalmente stringente anche da Lamberto Maffei (neurobiologo, direttore dell’Istituto di Neuroscienze del CNR dal 1980 al 2008, dal 2009 al 2015 presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei), che in Elogio della lentezza spiega che al nostro cervello necessitano processi mentali “lenti” per produrre pensieri e riflessioni elaborate. Se infatti reagiamo velocemente, istintivamente e automaticamente agli stimoli ambientali, in modo da metterci al riparo da eventuali pericoli e garantirci la sopravvivenza, quando siamo alle prese con un lavoro artistico o scientifico dobbiamo forzatamente procedere con più cautela, poiché entrano in gioco valutazioni più complesse, memorie, dubbi, interrogativi. Ed è un bene sia così, perché se la velocità speculativa diventasse il solo parametro di valutazione intellettuale «il successo evolutivo degli uomini rapidi porterebbe con sé la scomparsa di tutte le azioni considerate inutili, come la contemplazione, la poesia, la conversazione per il piacere di parlare, e la comparsa di una nuova arte, quella della rapidità, dove la poesia è un tweet e la pittura una pennellata». Quindi, ben vengano i processi mentali lunghi del ragionamento, dell’argomentazione e della sperimentazione rispetto all’irrazionale compulsivismo dell’azione non meditata, che ci spinge a obbedire in maniera meccanicistica a stimoli esterni molto spesso indotti dalla tecnologia mercificata e dalle esigenze del profitto economico. Maffei invita pertanto a un recupero dell’umanesimo e dei valori culturali basati sia sull’arte sia su una scienza libera, nobilmente gratuita, non asservita al capitale, ma al potenziamento della conoscenza universale.
Peter Handke − che nella sua raccolta di saggi Lentamente nell’ombra ha ripreso il verso virgiliano (Buc. I. 4) “lentus in umbra” −, accosta al concetto di lentezza quello della durata, come riflessione sul tempo sospeso, in attesa, in grado di insegnarci la bellezza di uno sguardo calmo, contemplativo, non arrogante, non ingordo. Rileggiamo alcuni versi da Canto alla durata:

«mi venne così di descrivere / la sensazione della durata / come il momento in cui ci si mette in ascolto, / il momento in cui ci si raccoglie in se stessi, / in cui ci si sente avvolgere, / il momento in cui ci si sente raggiungere / da cosa? Da un sole in più, / da un vento fresco, / da un delicato accordo senza suono / in cui tutte le dissonanze si compongono e si fondo assieme. […] // Ecco, la durata è la sensazione di vivere. […] // Credo di capire / che essa diventa possibile solo / quando riesco / a restare fedele a ciò che riguarda me stesso, / quando riesco a essere cauto, / attento, lento, / sempre presente a me stesso sino nelle punte delle dita. […] // E io, / affinché da me nascano i momenti della durata / e diano un’espressione al mio volto rigido / e mettano nel mio petto vuoto un cuore, / devo assolutamente esercitare un anno dopo l’altro / il mio amore./ Restando fedele / a ciò che mi è caro e che è la cosa più importante, / impedendo in tal maniera che si cancelli con gli anni, / sentirò poi forse / del tutto inatteso / il brivido della durata / e ogni volta per gesti di poco conto / nel chiudere con cautela la porta, / nello sbucciare con cura una mela, / nel varcare con attenzione la soglia, / nel chinarmi a raccogliere un filo. […] // Singolare è il sentimento della durata / anche alla vista di certe piccole cose / quanto meno appariscenti, tanto più toccanti: / un cucchiaio / che mi ha accompagnato in tutti i traslochi / un asciugamano / appeso nelle stanze da bagno più diverse, / la teiera e la sedia di vimini / per anni lasciata in cantina / o accantonata da qualche parte / e ora finalmente di nuovo al suo posto, / un altro, in verità, diverso da quello originario / e tuttavia al suo posto. […] // Anche a casa mi si fa accanto molte volte / quando cammino su e giù per il giardino / nella neve, nella pioggia, al sole, sotto il temporale, / […] oppure quando mi siedo nella mia stanza / al cosiddetto tavolo da lavoro – / non per attendere alla mia occupazione, al testo, / ma per fare tutti quei soliti gesti secondari: / spostare indietro la sedia, / dare uno sguardo nel cassetto […] / sbirciare dalla finestra in giardino / dove i gatti lasciano le loro tracce / nella neve profonda e tra l’erba alta, / mentre ascolto da diverse direzioni a seconda del vento / il fischio e il trabalzare / dei treni che percorrono la pianura. […] // O durata, mia quiete! / O durata, mia sosta! […]».

Anche Milan Kundera, nel suo romanzo La lentezza si esprime celebrando il piacere della perdita di tempo, della rilassatezza, della sospensione di ogni vacuo attivismo:

«Perché è scomparso il piacere della lentezza? Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo? Dove sono quegli eroi sfaccendati delle canzoni popolari, quei vagabondi che vanno a zonzo da un mulino all’altro e dormono sotto le stelle? Sono scomparsi insieme ai sentieri tra i campi, insieme ai prati e alle radure, insieme alla natura? Un proverbio ceco definisce il loro placido ozio con una metafora: essi contemplano le finestre del buon Dio. Chi contempla le finestre del buon Dio non si annoia; è felice. Nel nostro mondo, l’ozio è diventato inattività, che è tutt’altra cosa: chi è inattivo è frustrato, si annoia, è costantemente alla ricerca del movimento che gli manca. Guardo nello specchietto retrovisore: sempre la stessa macchina che non riesce a superarmi a causa del traffico in senso inverso. Accanto al guidatore è seduta una donna; perché l’uomo non le racconta qualcosa di divertente? Perché non le appoggia la mano sul ginocchio? Macché: l’uomo maledice l’automobilista davanti a lui perché va troppo piano, e neppure la donna pensa a toccarlo con la mano, mentalmente sta guidando anche lei, e anche lei mi maledice».

Sia lode alla lentezza, dunque, valore sminuito quando non disprezzato dalle ideologie contemporanee del progresso forzato, della produttività esasperata, della ipervelocità dominatrice. Sia lode alla lentezza che ci fa approdare a una dilatazione consapevole dell’istante, a un’estensione orizzontale dell’adesso, inducendoci − come aveva intuito già Sant’Agostino − a raggiungere anche un’estensione dell’anima.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 26 gennaio 2018

 

 

RECENSIONI

AAVV – TARTAGLIA

AAVV, L’ERETICO FERDINANDO TARTAGLIA – POLISTAMPA, FIRENZE 2011

Le edizioni Polistampa pubblicano gli atti di un convegno dedicato alla controversa, dibattuta e spesso ingiustamente dimenticata figura del poeta, teologo e filosofo Ferdinando Tartaglia: il sottile e prezioso volume raccoglie, oltre ad una dettagliata biografia del personaggio, 14 poesie inedite (delle 6749 lasciate da lui manoscritte hanno visto la luce finora poche, esemplari testimonianze), una lettera di Sergio Givone, un ricordo affettuoso firmato da Eleonora Barbara Nomellini (che giustamente sottolinea la generosa opera di recupero e catalogazione dell’immenso materiale attuata dalla moglie di Tartaglia, Germaine Mühlethaler). Ma soprattutto propone ai lettori due appassionati e approfonditi saggi dei Professori Adriano Marchetti e Marco Marchi, convinti estimatori del pensiero e della scrittura del sacerdote “eretico” di Parma, “scomunicato vitando” nel 1946 e riammesso nella comunità ecclesiale solo poco prima della morte, avvenuta nel 1988. Il Professor Marchi definisce Tartaglia «un personaggio irrubricabile…nella sua eccentricità contestataria e solitaria e nel suo inesausto sperimentalismo di dizione»; e in lui intuisce «una sorta di testimonianza globale vorace, insaziata e insaziabile, irriguardosa quanto onesta, che a tutto espone, che tutto distrugge e scompone e che di niente ha paura in vista di verità originarie predicabili oltre la distruzione». Il Professor Marchetti, inchinandosi davanti «alla verticalità assoluta della sua figura…con le sue disperazioni, le sue effervescenze, i suoi abbandoni estatici, la sua visionaria lucidità, la sua collera di profeta», conclude: «Tartaglia rifiuta tutto in blocco, è contro la stessa condizione umana che insorge, meglio ancora, contro la condizione fisica e astronomica dell’Universo se l’alfa e l’omega di ogni suo orizzonte non fanno segno essenzialmente ed esclusivamente al Regno di Dio».

«Mosaico di pace – Approfondimenti», dicembre 2012-gennaio 2013

RECENSIONI

AAVV – UN ALTRO MONDO IN QUESTO MONDO

AAVV, UN ALTRO MONDO IN QUESTO MONDO – MORETTI&VITALI, BERGAMO 2014

Con l’esplicito sottotitolo Mistica e Politica, questo volume curato da Wanda Tommasi offre ai lettori dodici qualificatissimi interventi sul significato storico e sociale della pratica mistica, così come si è venuta delineando dal medioevo ad oggi. In margine a un convegno tenutosi all’Università di Verona nel settembre del 2013, gli autori dei saggi (che poi sono nella quasi totalità autrici) hanno ritenuto opportuno e fecondo esaminare quanto rilievo possa avere ancora nella nostra contemporaneità l’aspirazione ad aprirsi, in questo mondo, a un percorso “altro”, in grado non solo di sottrarsi alle logiche utilitaristiche del potere, ma addirittura di riuscire a incrinarle facendo riferimento a un lato invisibile della realtà, «a un ordine senza nome né forma che noi non possiamo definire ma che tuttavia ci orienta»- come suggerisce la prefatrice. Quali sono, quindi, le ragioni e le caratteristiche che determinano la funzione essenziale dell’esperienza mistica oggi? Secondo Giancarlo Gaeta, massimo studioso di Simone Weil, la mistica è «un accesso al soprannaturale limitato a pochissimi», che tuttavia ha un decisivo «effetto di crescita sulla vita comune…così come lo è il lievito nella massa della farina», perché «da sempre e sotto ogni cielo si è avuta certezza dell’esistenza di un ambito superiore, l’ambito del bene assoluto, in cui hanno cittadinanza parole come verità, giustizia, bellezza, amore». Wanda Tommasi raccomanda di fare un uso sapienziale di alcune formule dell’agire mistico che possono servirci da orientamento anche nella nostra quotidianità. A partire dall’umile regola che si era proposta Teresa d’Avila: «fare il poco che dipende da me», invito a una considerazione realistica «della propria forza e della propria miseria» nell’indirizzarsi verso un agire comunque trasformativo. Proposito ripreso secoli dopo da Simone Weil, Etty Hillesum, Cristina Campo, nel loro dare largo spazio all’ infinitamente piccolo, al niente senza nome, ma «irrinunciabile», che rinvia al soprannaturale.

Cinque teologhe (Morra, Vantini, Simonelli, Tomassone, Potente) indagano il misticismo soprattutto come fenomeno religioso legato alla cristianità. Forti di quando affermava Karl Rahner negli anni ’60: «i credenti del terzo millennio o saranno mistici o non esisteranno per niente», analizzano la relazione tra mistica e possessione diabolica (Stella Morra) come «rimosso» della storia; l’intuizione atea di Julia Kristeva (Lucia Vantini), che individua psicanaliticamente la dimensione di eccesso e di ulteriorità non addomesticabile del misticismo; la preghiera come pratica trasformatrice e modalità di abitare il mondo (Cristina Simonelli); l’ illuminante esempio di resistenza politica della pacifista tedesca Dorothee Sölle (Letizia Tomassone); e infine la necessità di accogliere in se stessi la gratuità del vuoto, il silenzio del nulla (Antonietta Potente). La teorica del femminismo Luisa Muraro afferma che «la mistica è una lotta contro i dualismi che sono già stabiliti, oppure che si producono… dalla perdita di contatto con la propria interiorità». Erminia Macola, docente universitaria e psicoanalista a Padova, ritrova nelle estasi di Santa Teresa e nel suo abbandono totale a Dio una rivendicazione della fisicità come ricerca della verità. Gloria Zanardo rilegge «l’impersonale» di Simone Weil («l’intima estraneità», lo svuotamento spassionato) come un grimaldello capace di scardinare le interpretazioni tradizionali di politica e giustizia. Contemplazione e Kenosi sono poi alla base del rinnovamento etico e di pensiero introdotto nella scuola di poesia veneziana La settima stanza di Laura Guadagnin. Per concludere la breve analisi di questi testi, tirando un po’ le fila delle loro intuizioni e proposte interpretative, citerò il saggio di Annarosa Buttarelli, più polemicamente critico dei precedenti. Buttarelli afferma: «sono convinta che la politica delle donne abbia bisogno di un respiro ulteriore che l’esperienza mistica e l’eterno extra-storico possono dare per immettere un cuneo nella fase costituente di oggi». Una mistica però più declinata al femminile che al maschile, se è vero che nella storia occidentale più donne che uomini hanno vissuto un’esperienza in prima persona di ciò a cui diamo nome Dio. Ma soprattutto perché, come sostiene la studiosa della Comunità di Diotima, «nella mistica maschile prevale nettamente l’idea che sia necessario perseguire l’annichilimento dell’Io, non per amore del mondo, ma per incoraggiare e coltivare la solitudine e la perfezione del gesto…il cammino di perfezione sembra essere percorso come ‘cura sui’….cura-di-sé piuttosto che lotta perché…prevalgano le relazioni». Mentre una politica delle donne che sappia «collocare in un altrove non umano e misterioso la fonte del potere» mettendo «in grado di governare senza incarnare alcunché, di restare creativi e sovrabbondanti di idee, di non avere conti sospesi con nessuno, nemmeno con dio» (e viene citato l’esempio luminoso di Cristina di Svezia) «apre alla generatività dell’amore».

«Leggendaria» n.112, luglio 2015

RECENSIONI

AAVV – VERSI DA RIDERE

AAVV, VERSI DA RIDERE – IL SAGGIATORE, MILANO 2007

È un luogo comune che i poeti siano sempre tristi, malinconici, tormentati, o risponde a verità? E come mai le poesie divertenti, giocose, spensierate sono così rare nella nostra letteratura, e più in generale, nella letteratura mondiale? Davvero risulta così difficile sorridere e far sorridere scrivendo versi? Versi da ridere, questa antologia curata da Daniele Piccini, tenta di sfatare un mito, forse con qualche difficoltà, visto che i poeti presentati sono per lo più medievali, rinascimentali, romantici, e solo in un unico caso (con il romagnolo Raffaello Baldini) si spingono alla contemporaneità… Di quest’ultimo viene pubblicata, con traduzione dal dialetto, Contentarsi, una litania dei malanni fisici e morali che affliggono un anziano artigiano: poemetto spiritoso, certo, ma con un retrogusto alquanto amarognolo.

I più antichi tra i poeti proposti (Rustico Filippi, Cecco Angiolieri, Guido Cavalcanti, Lorenzo de’ Medici, Francesco Berni e altri) sghignazzano su donne, vino, liti tra amici, fisicità esibite. Ma dobbiamo forse arrivare all’Ottocento dei nostri grandi poeti dialettali (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa) per riuscire a ridere con pienezza e ammirazione, non solo per le situazioni realmente comiche che vengono descritte, ma anche per la pungente ironia che sferza il malcostume politico e sociale, privato e pubblico, con toni spesso irriverenti e sarcastici anche nei confronti della religione.
La poesia comico-burlesca, secondo il curatore di questa antologia, «non è appannaggio di irregolari, beoni e dissipatori (l’identità tra la letteratura giocosa e la biografia è stata enfatizzata da certo Romanticismo), ma una risorsa di stile e di lingua alternativa a quella aulica». Eppure, se lo stesso Daniele Piccini giustifica l’esclusione di importanti poeti contemporanei come Palazzeschi, Sanguineti e Zeichen in quanto hanno vissuto «le loro operazioni in àmbiti di più spinta cerebralità», tanti altri nomi avrebbero meritato di comparire in queste pagine: dai futuristi a Scialoja.

 

© Riproduzione riservata                  www.sololibri.net/Versi-da-ridere-Piccini.html         12 ottobre 2016

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AAVV – VIOLENZA DIVINA

JEAN-DANIEL CAUSSE, ÉLIAN CUVILLER, ANDRÉ WÉNIN, VIOLENZA DIVINA. UN PROBLEMA ESEGETICO E ANTROPOLOGICO – EDB, BOLOGNA 2012

L’educazione cattolica tradizionale ci ha abituato a un’immagine del cristianesimo irenica, rasserenante, confortante, soprattutto se paragonata a quella attribuita ad altre religioni, ritenute sanguinarie, vendicative, brutali. In realtà, nelle Sacre Scritture non sono rare le pagine in cui tracima violenza, sia da parte della divinità che da parte degli uomini, e il volume di tre titolati autori francesi (due teologi e uno psicanalista) pubblicato da EDB scandaglia in profondità questo tema, attraverso un’esplorazione esegetica e antropologica che apre a stimolanti punti di riflessione, anche per i credenti più ortodossi. Il libro si articola in quattro capitoli: il primo è dedicato all’indagine della violenza nell’Antico Testamento, che viene esercitata all’interno delle famiglie e dei popoli, ma anche prescritta da Dio, attraverso sacrifici umani e uccisioni di vittime innocenti. Nel secondo saggio si affronta la violenza dei testi sacri dal punto di vista della psicanalisi, recuperando l’analisi freudiana (la pulsione arcaica a divorare, a incorporare l’altro, negandone l’alterità) e indagando gli aspetti problematici del silenzio e della gelosia divina. Nel terzo capitolo si esaminano i testi del Nuovo Testamento, in particolare l’Apocalisse, le lettere di Paolo e in Vangelo di Matteo: il cammino della lotta contro il male e lo scandalo della Passione, in cui Gesù accetta di subire la violenza degli uomini senza rispondere con la violenza. Nell’intervento finale ci si confronta con l’interpretazione nietzschiana tendente a demistificare il messaggio di pace e di amore divino, in realtà fondato sul risentimento nei riguardi della vita e della sua umana e positiva fisicità. Gli autori ripropongono quindi una rilettura del cristianesimo attraverso la rivalutazione del dono, della mitezza, della trasfigurazione della morte intesa come sconfitta.

«Mosaico di pace – Approfondimenti», dicembre 2012-gennaio 2013

RECENSIONI

AAVV, FONDAZIONE MIGRANTES

FONDAZIONE MIGRANTES, IN FUGA – TAU, TODI 2023

Fondazione Migrantes ha realizzato una graphic novel rivolta soprattutto, ma non solo, ai giovani e ai più piccoli: In fuga è un volumetto illustrato di 36 pagine, pubblicato dalla casa editrice Tau, seguendo l’originale proposta creativa di un gruppo di fumettisti e sceneggiatori composto da Emanuele Bissattini, Valerio Chiola, Mariacristina Molfetta, Chiara Marchetti, Duccio Faccini e Manuela Valsecchi.

In primo luogo, è opportuno presentare le attività di Fondazione Migrantes, organismo pastorale della Conferenza Episcopale Italiana istituito nel 1987 “per accompagnare e sostenere nella conoscenza, nell’opera di evangelizzazione e nella cura pastorale dei migranti, italiani e stranieri, per promuovere nelle comunità cristiane atteggiamenti e opere di fraterna accoglienza nei loro riguardi, per stimolare nella società civile la comprensione e la valorizzazione della loro identità in un clima di pacifica convivenza, con l’attenzione alla tutela dei diritti della persona e della famiglia migrante e alla promozione della cittadinanza”. Le persone cui si rivolge l’attività della Fondazione, sono singoli, famiglie e comunità coinvolte dal fenomeno della mobilità umana, e in modo particolare gli immigrati ed emigrati stranieri e italiani, i rifugiati, i profughi, gli apolidi e i richiedenti asilo, la gente dello spettacolo viaggiante, i Rom, Sinti e nomadi.

Il fumetto, disegnato con immagini realistiche e vivacemente colorate, si basa sulle testimonianze rese da migranti nel volume Il Diritto d’asilo 2022 sui diversi trattamenti che vengono riservati a chi scappa dalle guerre a seconda del paese di origine. Presenta personaggi differenti per provenienza, lingua, sesso, età: interi nuclei familiari o singoli immigrati che provengono dall’Ucraina, dall’Africa o dal Medio Oriente, fuggendo da guerre e privazioni, attraverso percorsi dolorosi, subendo violenze fisiche, fame e umiliazioni di ogni tipo. Si chiamano Dimitry, Veronika, Rashid, Natalka, Amaka, Bidemi, Alì. Raggiungono sedi diverse in Italia, o riunendosi a familiari già residenti nel nostro paese, o alloggiati temporaneamente nei centri di accoglienza definiti CAS e SAI.

Uno degli operatori ritratti nel libro afferma: “Ci sono gli stessi problemi per situazioni sempre diverse”, e in effetti gli ostacoli da superare per chi arriva in Italia a prima vista sembrano simili: la sistemazione logistica, l’apprendimento della lingua, la ricerca di un lavoro, l’inserimento scolastico, il riconoscimento dei titoli di studio, la separazione dai parenti, l’impossibilità di fuoriuscire dallo stato senza perdere i diritti acquisiti, le esasperanti lentezze burocratiche.

In realtà esistono sostanziali differenze tra chi proviene da paesi europei come l’Ucraina, e chi invece è originario di altri continenti. Ai primi si offrono garanzie legali e premure più sollecite e solidali, dal punto di vista sanitario, educativo, giuridico; agli altri viene serbato un trattamento meno favorevole, e spesso discriminatorio nei risultati effettivamente conseguiti. Un motivo di più per riflettere e far riflettere i lettori sulla legislazione e sui diversi atteggiamenti messi in atto nel nostro paese che ama definirsi civile.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net           19 dicembre 2023

RECENSIONI

AAVV, GIORGIO BERTANI EDITORE RIBELLE

AAVV, GIORGIO BERTANI EDITORE RIBELLE – MILIEU EDITORE, MILANO 2020

Marc Tibaldi, giornalista freelance da sempre impegnato nell’analisi dei fenomeni sociali di opposizione e dei meccanismi ambientali di emarginazione (collabora con Agenzia X, Carmilla e Il manifesto, ed è autore di “Metix babel felix. Meticciamento, passing, divenire e conflitto”), ha curato per l’editore milanese Milieu il volume Giorgio Bertani editore ribelle, proponendo numerose testimonianze sul lavoro politico di Bertani, e un’ampia rassegna a colori delle copertine più significative del suo catalogo.

Il libro è arricchito da un docufilm in dvd, “Verona city lights” – con regia dello stesso Tibaldi e musiche inedite di Claudio Fasoli -, che raccoglie interviste inedite all’editore e ai protagonisti più importanti di un periodo denso di tensioni culturali e di utopie rivoluzionarie, quali quelle emerse tra il 1968 e la fine degli anni ’80.

Nato da un’iniziativa condivisa di crowdfunding, e dall’intelligenza collettiva di molti protagonisti di quella stagione di militanza, ancora attivi nel panorama intellettuale italiano di oggi – come Antonio Moresco e Carlo Rovelli- , il volume racconta la passione con cui Bertani ha dato spazio, nei suoi libri e nelle riviste, alle voci più significative del pensiero critico internazionale di allora: Bataille, Nizan, Derrida, Guattari, Deleuze, Baudrillard, Goldmann, Dario Fo e Franca Rame, Bifo, Franco Rella, Alberto Tomiolo, Dacia Maraini, Vittorino Andreoli, Giangiacomo Feltrinelli. Un’attenzione specifica veniva prestata alle insurrezioni dell’IRA, della RAF e dei Tupamaros, alle lotte operaie, alle esperienze alternative della didattica, alla ricerca non accademica, alle nascenti inquietudini religiose, alle novità in campo artistico e teatrale.

Giorgio Bertani, “polemico e candido, buffo e gentile”, si distingueva anche per un istrionismo dai tratti gigioneschi, che in una città cattolicamente inamidata come Verona risultava spesso provocatorio ed esasperante, e purtroppo facile da neutralizzare attraverso il ridimensionamento nel pittoresco e nel folclorico.

Marc Tibaldi ricostruisce con stima e affetto la vicenda esistenziale dell’editore, dalla sua nascita avvenuta in una famiglia operaia nel 1937, fino alla morte nel luglio del 2019. Rimasto presto orfano, Bertani si impiegò ancora ragazzo come commesso nella libreria Dante, di cui divenne in seguito direttore, formandosi da autodidatta sui testi classici della letteratura e della filosofia. Nel 1962 fece parte del gruppo che rapì il viceconsole spagnolo in Italia per protestare contro la condanna di tre giovani antifranchisti; nel 1968 fondò le edizioni EDB, e quattro anni dopo la casa editrice cui diede il suo nome. Sempre vicino all’area socialista e anarchica, partecipò a numerose azioni di solidarietà durante il conflitto jugoslavo. Dal 2002 al 2007 fu consigliere dei Verdi al Comune di Verona, rivestendo la carica di Presidente della Commissione Cultura, schierandosi poi negli ultimi anni di vita a fianco dei movimenti antirazzisti, femministi, pacifisti, e occupandosi attivamente dei problemi dei senzatetto.  Tra il ’77 e la chiusura della sua attività per difficoltà economiche, Bertani conobbe perquisizioni e arresti, due tentativi di suicidio e una progressiva emarginazione politico-culturale.  “Eretico e polemico, basco rosso in testa, in bicicletta, immancabile a ogni manifestazione cittadina … in una Verona diventata negli ultimi decenni laboratorio della collaborazione di tutti i gruppi fondamentalisti e reazionari, Bertani ha continuato a rivendicare le sue origini proletarie e antifasciste”, deciso a rispondere con intelligenza e gioiosa creatività all’intolleranza e alla violenza reazionaria, scrive Tibaldi.

Ai suoi funerali ha partecipato commossa la parte più democratica della città, e recentemente la Biblioteca Civica si è offerta di creare un archivio comprendente i testi editi e inediti, la corrispondenza e tutta la documentazione relativa alla sua casa editrice.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 21 novembre 2020

 

RECENSIONI

AAVV, IL VENETO CHE AMIAMO

AAVV, IL VENETO CHE AMIAMO – EDIZIONI DELL’ASINO, ROMA 2020 (ebook)

Quattro grandissimi della letteratura italiana del ’900, quattro autori che hanno reso il Veneto migliore, sono i protagonisti di questo originale e interessante ebook pubblicato dalle Edizioni dell’Asino: Andrea Zanzotto, Mario Rigoni Stern, Luigi Meneghello, Fernando Bandini. Intervistati, coinvolti in una serie di riflessioni, pungolati da Goffredo Fofi, Gianfranco Bettin, Marco Paolini, Nicola De Cilia, Leonardo Ruffin, raccontano se stessi e il territorio in cui sono nati e vissuti, e che ha nutrito la loro scrittura. Parlano di ciò che il Veneto è stato, nella storia e nella cultura, e di quello che rappresenta oggi per l’economia, l’arte, la politica, l’ambiente del nostro paese.

Nella prefazione, Fofi, amico in particolare di Zanzotto e Bandini, tratteggia un ritratto del Nordest in bilico tra l’affettuosa ammirazione e un fastidio insofferente: “Il Veneto che ha dato così tanto alla storia e alla cultura dell’Italia e che ha saputo resistere e sa ancora resistere al generale degrado, morale e culturale prima ancora che politico” è la stessa regione che con la Lombardia ha contribuito a diffondere comportamenti di scandaloso malaffare, corruzione, inquinamento. Il docile paese conosciuto da Fofi negli anni ’50-60 era ancora fatto di contadini e proletari che emigravano, di famiglie cattoliche numerose, di soldati e servette che animavano la narrativa e il cinema neorealista, di dialetti cantilenanti che riflettevano la dolcezza del paesaggio. In seguito, le rivolte dei movimenti studenteschi padovani e degli operai di Marghera, la crescente industrializzazione e cementificazione edilizia hanno contribuito a modificare l’immaginario collettivo e gli stereotipi più radicati. Oggi il Veneto si è imbruttito e involgarito, nella corsa allo sviluppo e alla ricchezza individuale che ha trasformato i lineamenti del territorio e il carattere degli abitanti. Troviamo tracce di questo accanimento feroce e autodistruttivo nei romanzi di Carlotto e di Bettin, nelle inchieste di Rumiz.

Andrea Zanzotto (1921-2011) parlando nel giorno del suo 87esimo compleanno, lamenta che la sua Pieve di Soligo sia stata deturpata da un’aggressiva pianificazione urbanistica. “Oggi abbiamo un paesaggio in cui sembra prevalere la fabbrichetta velenosa, la puzzolente discarica, l’orribile intasamento del traffico per strade sempre più insufficienti e pericolose”. La poesia rimane come baluardo, “forma di salute e di resistenza biologica”, che proprio nel salvare un’immagine sana dell’habitat, compie un’operazione ecologica di mantenimento della bellezza. Perché “la poesia dice quello che deve dire sempre da una specie di esilio dentro la realtà…”. Zanzotto racconta degli anni del dopoguerra, della sua emigrazione in Svizzera, dell’insegnamento e dei primi amori giovanili: da poeta, ne tratta con toni affabulatori, sorridenti e nostalgici. Rispetto a un mondo guasto e frenetico, conclude, “meglio stare qui, anca picadi a un spin, ma comunque qui”.

I ricordi privati diventano memoria collettiva e civile nelle testimonianze di tutti gli intervistati.

Mario Rigoni Stern (1921-2008), asciutto cronista e memorialista della seconda guerra mondiale e della campagna di Russia, profondo conoscitore dell’altopiano di Asiago nelle sue tradizioni e in ogni anfratto territoriale, constata come preambolo al suo discorso che quando la neve si scioglie a 2500 metri di altezza è unta. Unta, sporca, come l’aria appestata dal carburante degli aerei e le montagne invase dai rifiuti degli alpinisti della domenica: uomini e donne che per cercare un paesaggio vergine, in realtà contribuiscono a inquinarlo. Rigoni Stern parla di tutto, della televisione che condiziona i pensieri, dell’editoria interessata solo al mercato, degli scrittori giovani esibizionisti e di quelli maturi permalosi ed egocentrici. Concludendo pessimisticamente: “È difficile liberarsi del mondo che avanza. Mi sono detto, salviamo almeno quello che è stato abbandonato. Lo diceva Rilke: andremo a cercare ai margini delle strade quello che abbiamo buttato via”.

Anche Luigi Meneghello (1922-2007), indimenticato autore di Libera nos a Malo, prende spunto dalla propria biografia per meditare sulla storia passata e recente della regione in cui è nato. Partendo dagli anni fascisti della sua infanzia da “balilla”, rievoca gli studi universitari, la guerra combattuta come alpino, la partecipazione attiva alla Resistenza, il matrimonio con la moglie ebrea ungherese scampata ai lager, la passione per le motociclette, e infine l’emigrazione in Inghilterra, con l’impegno accademico a Reading durato tutta la vita lavorativa. Quindi i suoi romanzi, vivacizzati dal “trasporto” in italiano di molti termini dialettali, e il recupero ironico di una koinè linguistica che definiva anche un modo di stare al mondo, con solidale indulgenza: “Volta la carta… la ze finia”.

Ultimo ma non ultimo, Fernando Bandini (1931-2013), raffinato poeta in italiano e latino, si sofferma sulla necessità di un impegno fattivo nella politica locale: “Sono totalmente immerso in Vicenza, in un rapporto di odio-amore, cerco di interpretare il mio tempo partendo da questo piccolo spazio”. E ribadisce il dovere che abbiamo di dialogare con i morti, come memoria familiare e storica: “L’interesse per il passato aiuta a riannodare fatti e personaggi, a farti presente che sono esistite una storia nazionale, una storia culturale e sociale estremamente ricche di cui adesso si è voluto dimenticare tutto, sia la sinistra che i cosiddetti ‘laici’ che i cattolici”.

Non solamente laudatores temporis acti, quindi, questi “grandi vecchi” della letteratura italiana, ma anche esempio di uno spessore morale e intellettuale di assoluta rilevanza, propositivo e fiducioso nell’aprire alla speranza di un cambiamento, che a partire dalla campagna, dai monti, dalle cittadine in cui sono nati e vissuti, possa investire tutto il Veneto, e l’intera nazione.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 19 giugno 2020

RECENSIONI

AAVV, LE TRENTASEI POETESSE IMMORTALI

AAVV, LE TRENTASEI POETESSE IMMORTALI – GATTOMERLINO, ROMA 2024

La scrittrice e traduttrice Piera Mattei ha curato, per la casa editrice Gattomerlino da lei fondata nel 2010, un prezioso libriccino, Le trentasei poetesse immortali, dalla vivace copertina di raffinata ambientazione orientale. Nel suo approfondito saggio di apertura, L’importanza del numero, Mattei ci accompagna in un excursus illustrativo della poesia giapponese, a partire dalla differenza esistente tra le forme letterarie dei Tanka e degli Haiku, per inoltrarsi poi in un originale confronto con la poesia femminile del nostro ’500.

Il tanka si componeva di cinque versi, in cui la prima parte aveva la struttura ereditata dall’Haiku (5-7-5 sillabe) e la seconda era costruita in due versi di 7 sillabe, per un totale di 31 sillabe il cui schema era rigorosamente rispettato dai poeti della corte imperiale, in omaggio a un’ideale di armonia e ricercatezza espressiva.

Nate in contrapposizione al soverchiante modello cinese, queste brevi composizioni venivano raccolte in antologie imperiali riportanti i contributi dei 36 vincitori di una rituale competizione letteraria a tema fisso. Tra queste antologie divenne molto popolare quella delle Trentasei poetesse immortali, le cui autrici erano state scelte, oltre che per la sensibilità ed eleganza nella scrittura, anche per la perizia nelle arti della calligrafia, della musica, della danza e della pittura.

Gattomerlino propone una scelta di tanka tratti da una celebre raccolta del tredicesimo secolo conservata alla NY Library, basandosi sulla traduzione inglese di Andrew J. Pekarik, arricchita dalle illustrazioni del pittore Eishi (1756-1829).

Delle trentasei poetesse che vissero tutte alla corte di Kyoto tra il X e il XIII secolo, sei erano di altissimo rango (principesse o concubine imperiali), le altre erano dame della media nobiltà in servizio a palazzo per funzioni attinenti ad abbigliamento, nutrizione, etichetta, diplomazia, e per tali motivi ammesse alla vita privata del sovrano e delle sue numerose mogli e concubine.

La poligamia e lo stato di dipendenza totale dalle figure maschili in tutta la società medievale, relegava le donne a un ruolo di sudditanza, solitudine ed esclusione dall’ufficialità, che sia nei diari sia nei tanka veniva espressa in toni di rassegnata malinconia, attraverso un repertorio di immagini e situazioni letterariamente collaudate, ereditate dal canone cinese.

Pur nella rigidità e brevità della formula compositiva in cui erano costretti, gli stati d’animo delle trentasei poetesse (indicate singolarmente per nome ed epoca di riferimento), manifestavano un ventaglio di emozioni differenti, dalla nostalgia al rimpianto, dal risentimento al desiderio sensuale, dalla gelosia all’autocompassione: “Quando potremo scioglierci / insieme, nodo così difficile / da allacciare / così facilmente disfatto / che leghi le mie vesti, la notte?” ; “Pensavo che / infine questa vita sarebbe stata quella /  che avevo desiderato. / Perché dovrei, d’impulso / troncarla, per colpa dell’amore?”; “Uomini, senza pensare / fanno promesse / che sono di fatto bugie. / Ciò che fa male è questa mia vita / dove il cambiamento è abitudine”; “Più che mai / e di nuovo sono inzuppate / queste mie maniche delle lacrime / che ho versato / pensando al lontano passato”; “Questa stretta stuoia, / il letto in cui mi abbandonò / pensando “Solo per una notte” / è rimasta intatta, / oggi è coperta di sporcizia e di polvere!”; “Nessuna visita giunge / con lo spirare di questo / vento d’autunno. / Se tu fossi un germoglio di canna / un suono – almeno – emettesti”.

Numerosi sono i tanka da cui si effonde un sentimento di incantata ammirazione per il paesaggio, con la consolante risonanza della malinconia nell’osservazione della natura. Pioggia e rugiada ricordano le lacrime di cui sono intrise le maniche dei chimoni, la luna rischiara delicatamente la minacciosa oscurità notturna: “Il vento della baia / che violento batte la riva / trascina uccelli di sabbia. / Sollevando onde sta arrivando. / Odo i suoi gridi nella notte”; “Con un velo di nebbia / che ancora sale in questa primavera / ecco la luce della luna / rende visibile la bellezza / della profondissima notte”.

Piera Mattei nella prefazione propone un interessante parallelo tra la produzione poetica delle dame giapponesi e la stagione di grande creatività femminile sviluppatasi nel nostro Cinquecento a opera di letterate petrarchiste, ugualmente segnate “dal culto della raffinatezza, dall’ossimoro, di un’originale imitazione in forma chiusa, e inoltre, spesso, dal senso di solitudine (e inversamente dal respiro di libertà) connesso alla condizione di un rapporto amoroso non sempre esclusivo, talvolta precario… Interessa nella loro poesia l’esplicita dichiarazione di desiderio e d’attesa, la disposizione a prendere atto di una disfatta o dello spegnimento di una passione, una libertà mentale e affettiva impensabile per le onorabili donne ita liane d’allora”.

I nomi citati sono quelli famosi di Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Gaspara Stampa, Veronica Franco, e di un’ulteriore dozzina di artiste meno note al grande pubblico. Di alcune di loro vengono riportati i versi, in un’interessante comparazione tematica con le trentasei poetesse immortali, creature di un mondo lontano nel tempo e nello spazio, ancora vicino nella sensibilità e nel patimento dell’esclusione sociale.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net           21 maggio 2024