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RECENSIONI

CASELLI

ROBERTO CASELLI, LEONARD COHEN – HOEPLI, MILANO 2021

Fedele a un’antica e radicata passione, Roberto Caselli (giornalista, critico musicale, voce storica di Radio Popolare) ha pubblicato un nuovo, documentato, esauriente volume sul cantautore e poeta canadese Leonard Cohen (1934-2016). Già nel 2014 Caselli aveva dedicato un libro di successo al commento dei suoi testi (Leonard Cohen, Hallelujiah), convinto che meritassero di venire analizzati nei loro molteplici significati – culturali, simbolici, psicanalitici. L’intera produzione del celebre songwriter veniva vagliata nelle sue fonti e negli esiti letterari e musicali.

In questo nuovo lavoro (Leonard Cohen. Quasi come un blues), Caselli ne approfondisce in maniera particolareggiata non solo l’attività artistica, ma tutta la vicenda biografica, dalla nascita avvenuta nell’esclusivo quartiere di Westmount a Montreal, in un’agiata famiglia ebrea di origine russa, all’inquieta adolescenza, trascorsa tra le prime seduzioni della musica e della poesia, del sesso e della spiritualità. Quindi i contatti con il mondo accademico progressista canadese, l’esodo londinese e il battesimo letterario, il fascino esercitato dalla figura carismatica di Bob Dylan, la trasgressione del periodo newyorkese, vissuta accanto a personaggi di grande rilievo intellettuale degli anni ’60.

Caselli si sofferma in particolare sulle vicissitudini sentimentali di Leonard Cohen, dalla prima coinvolgente convivenza con la norvegese Marianne Ihlen nell’isola greca di Idra, ad altre numerose e intense relazioni: con Jony Mitchell, con Suzanne Elrod, madre dei suoi figli, incontrata nella chiesa di Scientology, e poi ancora con Dominique Issermann, Rebecca De Mornay e Anjani Thomas: grandi passioni vissute tra reciproci tormenti e gelosie, raccontate con malinconia e struggimento in canzoni che hanno fatto sognare milioni di fans. Tutte queste donne bellissime, intelligenti e innamorate, non sono riuscite tuttavia a distogliere il genio canadese dalla sua vocazione per la scrittura, espressa sia in testi narrativi e poetici, sia in musica. “Più volte i suoi biografi si sono soffermati sul concetto di lavoro come elemento essenziale e prioritario della sua vita, come requisito assoluto entro cui incanalare ogni forma di circostanza, sia essa amorosa, sociale o politica… Cohen è convinto che quando l’amore diventa totalizzante paralizzi, irretisca e impedisca alla creatività di manifestarsi in tutta la sua forza dirompente, creando frustrazione e disarmonia”. Il sesso, invece, rimase sempre per lui esperienza di crescita personale e apertura mentale, insieme all’uso di droghe e allo studio di discipline quali il misticismo orientale, le sacre scritture, la psicanalisi freudiana. Qualsiasi arricchimento di conoscenza veniva trasmesso e rielaborato nei romanzi, nelle poesie, nelle canzoni.

Tra i suoi pezzi migliori, il più famoso e coverizzato rimane l’ispirato gospel Hallelujah, troppo spesso frainteso in senso esclusivamente religioso, quando invece l’intenzione che ha guidato Cohen in ogni ambito espressivo è stata quella di celebrare l’esistenza umana in tutti i suoi aspetti, materiali e spirituali, alla ricerca di un significato che illuminasse il proprio percorso esistenziale.

In questo senso, l’incontro con Joshu Sasakiroshi e la pratica Zen, che nel 1993 lo condussero a un ritiro monacale di sei anni a Mount Baldy, con l’assunzione di una nuova identità e di un nuovo nome (Jikan, “il silenzioso”), lo aiutarono a superare prove drammatiche, come la truffa subita da parte della sua manager Kelley Linch, e ad approdare a una più composta saggezza, con l’accettazione matura del bene e del male riservatigli dalla quotidianità. Agli ultimi quattro album, pubblicati dopo aver ripreso più che settantenne a esibirsi in tournee internazionali per ristabilire le sue finanze disastrate, Cohen affidò il proprio testamento spirituale, ancora una volta pervaso di erotismo e ansia metafisica, ma nutrito anche di interessi per i problemi sociali, la corruzione politica e i disastri ecologici, riscoprendo nell’abbandono fiducioso al disegno divino una nuova e corroborante vitalità.

Il volume firmato da Roberto Caselli consta di dieci capitoli tematici illustrati da un’ampia rassegna fotografica, attestante luoghi, amicizie, amori, concerti e il successo planetario del protagonista. È corredato di utili quadri sintetici che scandiscono la cronologia degli avvenimenti biografici principali, e raccoglie testimonianze, citazioni, commenti ai testi, discografia e bibliografia: una chicca da non perdere per gli estimatori dello straordinario songwriter di Montreal.

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Leonard-Cohen-Caselli    16 novembre 2021

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CASELLI

ROBERTO CASELLI, LA STORIA DELLA BLACK MUSIC – HOEPLI, MILANO 2024

 

L’ultima autorevole e documentata pubblicazione di Roberto Caselli riguarda La storia della black music, edita da Hoepli come tutti i precedenti volumi dell’autore.

Caselli, giornalista, critico musicale e voce storica di Radio Popolare, ha al suo attivo lunghe collaborazioni con quotidiani, giornali specializzati, enciclopedie e siti web. È stato direttore della rivista Hi Folks! e del mensile musicale Jam. Tra i suoi numerosi libri che spaziano tra rock, blues e musica d’autore vanno citati il saggio Hallelujah sui testi di Leonard Cohen, La storia del bluesJim MorrisonStoria della canzone italianaLa storia del rock in Italia.

In questo lavoro (che ha richiesto due anni di studio e indagini storiografiche, insieme a traduzioni e commenti dei testi), viene analizzata l’evoluzione della musica afroamericana a partire dalle sue origini, cioè dalla deportazione dei neri dall’Africa in America, per arrivare alle ultime espressioni artistiche del rap e del trap. Una potente esplosione di creatività e versatilità, che nel corso del ’900 i discografici bianchi hanno cercato di annacquare, trasformandone la potenza deflagrante in prodotti più gradevoli e commerciali, meno politicamente pericolosi.

Caselli apre il suo excursus esplorativo affrontando il tema del colonialismo, che ha determinato la diaspora africana e l’istituzione dello schiavismo da parte delle potenze europee. La sofferenza di milioni di neri, costretti ad abbandonare il proprio continente, si espresse musicalmente nello spiritual, dando voce all’angoscia, alla tristezza e alla rabbia successivamente incanalate in una ribellione sociale collettiva, che trovava rispondenza e consolazione nelle vicende bibliche, dal tormentato cammino percorso dal popolo ebraico per arrivare alla terra promessa, fino alle pagine evangeliche che promettono un riscatto e un premio celeste. Lo spiritual si nutriva non solo di accenti religiosi cristiani, ma manteneva tracce di culti animistici africani, e addirittura celava nei testi indicazioni di vie di fuga da seguire per raggiungere gli stati antischiavisti del nord e il Canada.

Allo stesso modo, altri generi musicali furono successivamente in grado di traghettare aspirazioni, proteste e lotte della popolazione nera, e Roberto Caselli mette in luce soprattutto questo aspetto sovversivo, rivoluzionario, ideologico, veicolato da testi e ritmi. Contemporaneamente, vengono riletti i momenti cruciali della storia americana in maniera critica e antiretorica, a partire dalle intenzioni non del tutto libertarie, democratiche e antirazziste della guerra civile, passando attraverso i drammatici linciaggi e la nascita del Ku Klux Klan, il proibizionismo, la grande depressione, il maccartismo, i movimenti per i diritti civili, le marce pacifiste. La protesta dei neri si radicalizzava, fino a trasformarsi in lotta aperta alle istituzioni, con Malcom X, il Black Power, le Black Panthers, Angela Davis.

Ci furono coraggiose figure di spicco nella letteratura, nel teatro e nell’arte che appoggiarono la lotta contro ogni discriminazione razziale (Langston Hughes, Lawrence Beitler, e poi grandi scrittori come Caldwell, Faulkner, O’Connor, Kerouac, Ginsberg): a tutti loro viene dedicata un’approfondita scheda informativa.

La narrazione di Caselli segue i momenti più rilevanti dello sviluppo della black music, offrendo un esaustivo repertorio dei vari stili susseguitisi in due secoli di storia, partendo appunto dai canti di lavoro, dagli spiritual e dai blues del Delta e di Chicago, per spingersi fino al jazz, allo swing, al bebop, al R&B e al soul, e arrivare infine alle ultime espressioni della discomusic, dell’hip hop e del trap. Vengono raccontate le vite e le esecuzioni eccezionali di artisti famosissimi e meno noti (Odetta, Bessie Smith, Robert Johnson, Muddy Waters, James Brown, Otis Redding, Billie Holiday, Charlie Parker, Nina Simone, Isaac Hayes, Tupac, Run DMC, Beyoncé, Dr. Dre, per fare solo alcuni nomi), attraverso il commento dei loro album, la descrizione di concerti, festival e raduni, i percorsi biografici, le dipendenze, le inimicizie e le persecuzioni, gli amori e i lutti.

La nascita del rock’n’roll negli anni ’50 prese avvio proprio dal misto di eccitazione e rozzezza che costituiva la sostanza grezza della black music, assumendo da subito un carattere oppositivo alla cultura ufficiale, che venne presto associato alla delinquenza. Il pubblico adulto bianco, spaventato dalla sua forza trasgressiva, diresse la discografia verso una commercializzazione blanda del fenomeno, che dopo i rocker della prima ora, propose interpreti più docili e sentimentali come Pat Boone, Gene Pitney, Neil Sedaka, Paul Anka. A questa edulcorazione si oppose la commistione del rock con il blues e il soul proposta da Otis Redding, Aretha Franklin, Wilson Pickett, James Brown.

Con il tramonto delle utopie rivoluzionarie subentrò un periodo di riflusso, in cui la disco music segnò un ritorno al privato, con una ricerca ossessiva del piacere e del divertimento, celebrato dai disk jockey che imponevano i gusti da seguire. Nei ghetti resisteva il funky, mentre dalla vicina Giamaica arrivava il reggae con l’esaltante figura di Bob Marley. A partire dagli anni ’80 dalle periferie newyorkesi più disastrate si fece largo un nuovo movimento culturale articolato non solo musicalmente, ma anche sul fronte della danza (break dance) e del          writing (graffiti).

A questi ultimi decenni della black music, Caselli dedica particolare attenzione, soffermandosi sugli sviluppi del fenomeno hip hop e del rap che ben presto uscirono dai confini del Bronx per conquistare il mondo intero, ed evolvendosi poi nel trap, subito sedotto dal richiamo del successo e della ricchezza economica. Solo con la nascita del movimento “Black Lives Matter” nuovi rapper tornarono ad attivare un rifiuto consapevole del consumismo capitalista: una presa di posizione coraggiosa che si affiancò alle lotte che i giovani neri ingaggiavano per far riconoscere i propri diritti sociali e politici in un’America che continua tuttora a marginalizzarli.

Le otto sezioni del libro di Roberto Caselli, suddivise in cinque capitoli arricchiti da schede informative e da un ricco repertorio iconografico, offrono la possibilità di accedere utilizzando i QR code a canzoni riferite a ogni argomento trattato, e a un ulteriore “extended book” di approfondimento bibliografico e letterario.

La storia della black music è un volume accattivante non solo per l’esposizione formale, chiara e concisa, ma anche per la vivacità tipografica e la ricchezza delle illustrazioni, dei manifesti colorati, dei titoli e degli slogan riportati nella loro enunciazione originale. La commossa prefazione del cantante e deejay americano Ronnie Jones, da molti anni residente in Italia, ribadisce l’importanza avuta dalla musica nera nella ricostruzione orgogliosa dell’identità del popolo afroamericano, sottolineando l’abisso di sofferenza e di ingiusti soprusi patiti per secoli.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 15 giugno 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CASSIAN

NINA CASSIAN, C’E’ MODO E MODO DI SPARIRE – ADELPHI, MILANO 2013

Della poetessa romena Nina Cassian (Galați 1924), Ottavio Fatica scrive, nell’ affettuosamente complice postfazione alla ricca antologia da poco pubblicata da Adelphi, che fu «poetessa lirica, ultralirica… l’ultima modernista… piena di rumori e discordie», animata da «furor uterinus» e «impudica grazia». E in effetti, l’impressione più vivida che si ricava dalla lettura di queste centosette poesie, è quella di una vitalità disarmante, giocosa e fiera, arguta e appassionata. Che sia questa poetessa novantenne (residente a New York dal 1985, quando ottenne l’asilo politico per evitare l’arresto a Bucarest) a dare una sferzata di corposo ottimismo alla nostra assonnata e sospirosa produzione letteraria in versi, non deve apparirci paradossale: vista l’intensità con cui Nina ha attraversato passioni sentimentali, culturali e politiche, nutrendosi di tradizioni ebraiche e comunismo critico, di diverse esperienze editoriali e artistiche, di polemiche, di amicizie viscerali e ostilità altrettanto esibite, di conoscenze linguistiche effettive e supposte. Troviamo così nella sua vastissima produzione nell’amata lingua materna («Pur se verrò sepolta / in una terra aliena: / risorgerò un giorno / nella lingua romena») le stigmate di un orgoglio indomito, di una provocazione sarcastica: «Avida sono. L’asceta mi rimprovera / di scorrere a perdifiato / l’indice delle materie della vita / e di bramare e aver voglia di tutto. // Eh, sì, che volete! Ho fame. Ho sete, / come il suono mi aggiro nel mondo dei vivi».

Anche la natura, che dipinge con la sua abilità di celebrata illustratrice, appare in lei selvaggia e lussureggiante, sempre animata: «La finestra restò tutta la notte aperta. / La foresta entrò e si posò sul muro». Gli animali descritti paiono tutt’altro che docili e addomesticati: sono tigri, pantere, piccoli squali, elefanti. E persino la poesia viene vissuta come preda da conquistare: «Oh, giocare alla Genesi, che spasso!», «E adesso / quale parola domare?», o come allegra visionarietà, fiaba stralunata, sulle tracce della commedia dell’assurdo di un altro grande romeno, suo contemporaneo: Ionesco. «I miei visitatori sono: / un signore interrotto nel mezzo, / una donna continua / e la loro figlia di latta, / un professore che insegna formaggio, / un assassino raffreddato, una colonna / di formiche nubili, / un albero coi baffi … // Alla fine compare / il cane della sera / abbaia forte / e li caccia tutti via».

Nina Cassian non nasconde di avere un’alta considerazione di sé, del suo valore e della sua forte personalità, a partire già dal fisico descritto in un beffardo autoritratto («Mi è toccato questo volto strano, triangolare»), con l’imponente profilo del naso che la accomuna ad altri due eccelsi esuli – Ovidio e Dante- ; ma soprattutto dalla orgogliosa consapevolezza del suo anticonformismo, del suo coraggioso opporsi a ogni minaccia o seduzione del potere (nei versi di Esorcismo elenca tutte le cose di cui non ha paura….). E poi afferma con vigore: «Posso stare da sola. / So stare da sola»,  «Io sono io. / Sono personale, / soggettiva, intima, singolare, / confessionale». Della sua infanzia ricorda non affettuosi quadretti d’interno, ma scapestrate corse in campagna. Rinfaccia agli amori la banalità e l’egoismo («Perdonami se ti ho fatto piangere. / Avrei dovuto farti fuori», «Da quando mi hai lasciato divento sempre più attraente»), sbeffeggiando la farisaica simbiosi della coppia, e arrivando a concludere sette Lettere all’amato con l’esplicita e crudele affermazione «non ti amo». Nemmeno di Dio ha bisogno, e infatti non lo nomina mai, se non in una lirica programmaticamente intitolata Farsa, in cui le sue «ossa atee» si piegano nella finzione della preghiera. Rifiuta il ricatto affettivo della sofferenza, in una terribile composizione dedicata agli storpi. Celebra invece gioiosamente, sfrontatamente, il peccato («I nostri peccati erano appesi / alla coda dell’occhio, come alghe»), e l’unico colore che le sembra meritare continue citazioni è il rosso («Rosso da rosso, rosso al rosso»), simbolo di bandiere al vento e di sangue versato. E riserva tutta la sua acida ironia alla noia del pomeriggio, che anestetizza l’universo, come una grassa donna di mezza età che uccide le sue vittime imponendo loro la sua indolente presenza.
L’attaccamento alla vita fisica di Nina Cassian si esprime nel corrispondente e fiducioso attaccamento alla parola, al linguaggio, che è romeno, e poi inglese, e poi romeno tradotto in inglese, o addirittura lingua d’invenzione – lo spargano – imitativo di altri idiomi; ma è soprattutto estrema volontà di espressione e comunicazione, anche nell’età più avanzata e vicina alla morte: «la mia mano artritica / eietta a volte una penna / per iniettare una poesia / come una puntura, un’endovena, / nelle braccia manchevoli di Venere». Meritano di essere ricordati i traduttori, Anita Natascia Bernacchia e Ottavio Fatica, che sono riusciti a rendere icasticamente viva nei lettori l’energia sprigionata da questi versi.

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

CASTALDI

MAROSIA CASTALDI, FERMATA KM. 501 – TRANCHIDA, MILANO 1997

Forse chiunque scrive, lo fa per esorcizzare paure: paura di morire, in primo luogo, e paura di vivere. Tra vita e morte, tra le angosce prodotte dall’esistere e dal non esistere più, si situa questo romanzo di Marosia Castaldi, Fermata Km.501. L’autrice si confronta con una dimensione vastissima, atemporale e preconscia, in cui la parola diventa l’unico elemento concreto e stabilizzante, la scrittura è la sola possibilità di ancoraggio a un qui e a un’ora definiti.
Chi scrive è demiurgo della propria materia, ma insieme si mimetizza e confonde nel magma del proprio racconto, e in esso si riconosce e da esso pretende la propria identità:«Io vengo dopo perché racconto. Questo lo so per certo. Io sono il testimone. Ho scritto da me la mia storia…Li ho seguiti nel viaggio come una ladra, come uno che ruba cibo che non gli appartiene».  E’ attraverso la testimonianza che la scrittrice diventa ciò che è, si definisce anche come persona portatrice di una storia propria: l’auto-identificazione nasce proprio dalla scrittura, la realtà deriva la sua essenza dal fatto di venire interpretata e descritta:

«E la pagina è come l’abisso in cui allora mi trovavo, un’incognita che avrebbe preso forma solo in conseguenza del mio scriverla, un futuro senza futuro su cui ad ogni istante affacciavo il passo incerto. Puri pretesti, allora, paiono le esistenze dei personaggi; le loro parole, i gesti, il nascere e il morire: Giulia, Laura, Ermanno. Ettore, Canio, Marta confondono i propri destini e ruoli, sovrappongono i loro confini».

Solo elemento unificante della famiglia a cui appartiene l’autrice è pertanto il cognome, “Arlo”, che personalizza, riconoscendoli, incastrandoli in un casellario definito, i vari membri. «Signora Arlo? Ero dunque io la signora Arlo? E cos’era quel nome che mi si era appiccicato? Avrei dunque dovuto portarmelo dietro, oltre la vita, per tutta l’eternità?». Gli Arlo tutti biondi e «bellalti», poco rappresentativi della meridionalità di cui fanno parte: ma ogni riferimento fisico, ambientale, anche geografico sfilaccia i suoi contorni in una irrealtà nebbiosa, si confonde nell’immaginazione e nel ricordo. E le frasi dell’uno vengono ripetute e fatte proprie dall’altro, addirittura il dato più personale che appartiene a un’esistenza, il momento della morte, viene attribuito a personaggi diversi. L’agonia della madre diventa quella della figlia, le parole pronunciate dal figlio primogenito amatissimo, Ermanno, nel momento in cui è colpito dall’embolia cerebrale che lo ucciderà, sono riciclate in bocca ai fratelli, ai genitori: «impazzisco», diceva Ermanno prima di cadere, e questa constatazione che è anche una supplica, diventa la parola chiave del romanzo, il leit motiv continuamente riaffiorante. La città che accoglie la storia degli Arlo è Napoli, ma potrebbe essere Barcellona come Marsiglia. Elementi caratterizzanti sono il mare, la metropolitana, il caldo, una pasticceria, la montagna. Soprattutto la montagna, sacra, incombente, fatta di roccia e di sangue, di lava e di miti ancestrali: ha una valenza simbolica, è un Olimpo abitato da divinità casalinghe e brulicante di turisti insensibili. Tutta la famiglia va alla montagna, come in un rito propiziatorio e magico, e si identifica in essa: è un’ascesi purificatoria, un’ascesa iniziatica e liberatoria, alla ricerca del compimento del proprio destino: «Ognuno è salito quando ha potuto. I tempi non sempre coincidono, perché nessuno di noi ha più saputo esattamente quando cominciava e quando finiva il tempo. Così ci siamo andati dietro, in circolo, senza sapere più chi è madre e chi è figlio, chi viene prima e chi viene dopo».

Proprio la circolarità, del tempo e dell’azione, è il carattere più peculiare del romanzo: storie che si rincorrono, incubi che entrano uno nell’altro e si animano e si decompongono (il vomito, l’ago nella vena, la finestra da cui buttarsi, flussi mestruali inarrestabili, bocche che masticano), riaffiorando di quando in quando nelle pagine. Altro elemento di rilievo è l’angoscia, la non serenità, il prevalere di colori cupi, foschi. Non c’è sollievo o limpidezza, non c’è sospensione del dolore, mai. I rapporti tra i familiari sono segnati dall’incomprensione, dalla non fiducia, dalla gelosia: la madre tradita minaccia perpetuamente il suicidio, il padre inquieto rifugge da qualsiasi coinvolgimento affettivo, i fratelli ondeggiano tra simbiosi e rifiuto violento. Ma nessuno viene descritto in un particolare fisico, in un gesto abituale, in qualcosa che lo definisca in positivo. La negatività dei rapporti diventa ostilità, fastidio evidente per qualsiasi dato corporale, concreto: tutto rimane fluttuante e indistinto, nell’inconsistenza ansiosa del sogno che mai si svela, mai sfora in un risveglio lucido e rassicurante.
Fermata Km. 501 è un romanzo complesso, nato da una ferita e alimentato da essa, teso in una scrittura non rappacificata, in perpetua ricerca della causa di tanto dolore. Una ricerca che l’autrice sa vana, ma a cui non riesce a sottrarsi: «E immagino un paese pieno di viaggi in cui dal centro alla circonferenza i padri e i figli e i vivi e i morti non cessano di andare di parlare e di rincorrersi e mi sembra normalissimo questo viaggio senza fine e mi domando in quale luogo ci fermeremo della pace perché non c’è senso a fuggire dal paradiso?».

 

«L’Immaginazione» n. 148, luglio 1998

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CASTELLANETA

CARLO CASTELLANETA, PROGETTI D’ALLEGRIA – MONDADORI, MILANO 1978

Perché un romanzo arriva a essere venduto, perché è in testa alle Hit Parade delle librerie, cos’è che fa scattare il meccanismo del successo: quale ricetta occorre per vendere? L’autore in questione è Carlo Castellaneta, direttore di Storia Illustrata e romanziere amoroso. Il suo ultimo romanzo è Progetti d’allegria, ovvero Quando una donna cerca se stessa. La storia è questa: una trentacinquenne dell’alta borghesia milanese (ma la condizione attuale è riscattata e giustificata da un’origine umilissima e dal passato umiliante di puttanella) si separa dal marito, naturalmente bonario e maturo, ma terribilmente noioso, e mette su un negozio di antiquariato all’angolo tra Corso Venezia e Via Spiga. Ha a che fare con vari uomini, di cui uno, il Gianmario succitato, si uccide coi sonniferi; un altro – Silvio Maderna (e i nomi li riporto perché costituiscono uno spaccato di società) – la truffa in affari; un altro ancora è un grosso finanziere col pelo sullo stomaco che fa di lei un manager dell’industria. Poi c’è l’uomo ideale, che si chiama “David”, fotografo impegnato: un puro, un ingenuo che fa l’amore con delicatezza, e convive con una ragazza madre che fortunatamente muore di cancro e così la protagonista può unirsi felicemente a lui. Almeno tutti ci si aspetterebbe questa conclusione, invece no, perché lei sceglie la solitudine e fa l’eroina. Poi c’è anche il fratello della giovane donna, che deve essere un brigatista rosso, o qualcosa del genere, uno della sinistra rivoluzionaria di quelli che non si sa cosa vogliono, che si mette nei guai con la polizia per un sequestro mal riuscito. E con quest’altro ingrediente anche il rimando all’attualità e all’impegno sociale è salvo. La morale del libro non è poi tanto chiara: un messaggio di ottimismo, se si dà ascolto al risvolto di copertina, che predica che siamo noi a costruirci il nostro destino. La morale potrebbe essere che quando una donna cerca se stessa fallisce, perché la protagonista fallisce, non c’è dubbio. O la morale è semplicemente amorale: il libro è un prodotto confezionato per rispondere a certe “basse” esigenze del mercato, un libro fiutato nell’aria, scritto male, con personaggi senza spessore e senza motivo, un libro che costa seimila lire.

«Quotidiano dei Lavoratori», 27 maggio 1978

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CASTRONUOVO

PAOLO CASTRONUOVO, BUGIARDINO – CONVIVIO, CATANIA 2023

Un libro “come un referto improrogabile e necessario”, scrive Alfonso Guida nella prefazione a Bugiardino, piccolo volume di poesie di Paolo Castronuovo, parlando di una ferita non rimarginabile e di una cura posta al limite tra speranza e scacco. Il foglietto di indicazioni che accompagna ogni scatola di medicinali diventa nel titolo metafora della possibilità di salvezza da una malattia che attanaglia soprattutto l’anima, e come tale si scandisce in sezioni esplicative del contenuto, delle modalità di assunzione, degli effetti indesiderati e del metodo di conservazione.

La fatica di vivere viene avvertita già dal mattino: “una giornata inizia col peso / smisurato della luce / un fardello roboante di ferraglia”, e il prosieguo del giorno si svolge come in “un centro riabilitativo / senza infermieri”, dove “i libri sono sbarre di un carcere”.

Se “non c’è una via di fuga dal male”, spetta all’immaginazione più visionaria aprire mente e cuore all’evasione benefica; nei versi di Castronuovo le immagini si susseguono esplodendo nella loro ricchezza di colori, suoni, personaggi, come in un caleidoscopio di sogni bizzarri e vivaci: ballerine e rapinatori, sassofoni e lamiere accartocciate, elefanti e droni, pullman e compressori, urla e silenzio, deflagrazioni di bianco-giallo-nero. Scatti di luce e buio mimano la danza allucinata di percezioni visive e uditive scollegate tra loro, secondo la lezione mai superata del surrealismo, rivisitata dall’eredità della beat generation, con sprazzi di brutalità filmica alla Cronenberg: “una continuità fluente / senza logica ma con un filo tesissimo / un ritmo surreale, automatico, sostenuto, / la corsa del corpo e la pacatezza della mente / sedata dopata impazzita”. A tale ritmo sincopato si alternano momenti di quiete e riflessione malinconica: “L’urna della vita / è solo piena / di cenere // non vale la pena / piangere”.

 

© Riproduzione riservata                IBS, 17 aprile 2024

 

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CASU

ANTONIO CASU, I CASI DELLA VITA – PUBBLICATO IN PROPRIO, REGGIO EMILIA 1976

Reggio Emilia è una città strana, estremamente politicizzata, quindi con una coscienza civile e anche culturale notevole, che mantiene tuttavia “sacche” provinciali di sottocultura, e zone intere che invece vivono di un patrimonio folkloristico ancora vivace e particolarmente sentito: anche qui si pubblicano raccoltine poetiche edulcorate, frutto di cattive letture e aspirazioni frustrate. Ma ci si pubblica anche altra roba. Io che vado a Reggio ogni tanto ho trovato in una libreria del centro un libretto (cm.10 X 12) color canarino, scarno e patetico anche nel prezzo -500 lire-. Sulla copertina  Casu AntonioI casi della vita, titolo onnicomprensivo, che sa tanto di buon senso antico, di famiglia patriarcale. Come se la sapienza del mondo – quella vera sostanziale – fosse raccolta in queste non so quante pagine, non c’è il numero, né indice, né presentazione, (forse per risparmiare sulle spese di stampa). Alla fine,una specie di avvertenza: «Autore di queste rime poetiche è il signor Casu Antonio residente a Pratofontana Via Don Leuratti 12 Reggio Emilia». E allora voglio scrivere qualcosa di queste rime poetiche, come le chiama il suo autore; non “poesie”. La struttura è semplice e ripetuta uguale in tutte, rima ABABABCC nelle più complesse, rispettata a ritmo quasi ossessivo (“mangiare, male, dolore, sudore, morire, ecc.”). Do un esempio di questa estrema cura e attenzione per la rima: «La festa della Vergine Maria / che si ricorda annualmente / bisogna fare pregatoria / che ci dia salute totalmente / ognuno con la sua familia / senza essere indifferente / insieme con Gesù / che il benessere ci dia di più».

Da qui potrei riallacciarmi al discorso religioso che è un filo sotteso per tutta la raccolta, una fede limpida nei dogmi, un’avversione per il nuovo e anche per il pensiero corruttore, un abbandonarsi alla preghiere imparate da piccoli senza mettere in dubbio niente, seguendo la morale sana e severa dei vecchi. Questo “rimatore” parla sempre di cristiani che devono sopportare e amare e pregare per ricevere il frutto delle loro pene («ma Dio ce la dia la salvezza / d’avere compassione del brutto destino / bisogna avere buonigno cuore / per grazia del Signore», «Non bisogna perdere la speranza / quando si ha la fede del Signore / nessuna cosa viene in mancanza / e può sanare quel dolore / ci sono dei miracoli in abbondanza / tutto merito di valore / sono casi che succedono in vita / prima di essere finita») esalta figure di sacerdoti e di perpetue, onora i papi e specialmente GIOVANNI RONCAGLIA – per la rima con battaglia-, fa del moralismo severo contro la dissoluzione dei costumi, contro la legge Merlin, si scaglia indignato contro la malavita le rapine e i sequestri, dedica una decina di rime agli agenti di pubblica sicurezza uccisi, recrimina su Mario Tuti e sulla strage di Piazza Fontana. Politicamente, è difficile definirlo: come dalla Sardegna si è trasferito alla terra che ci ha dato il fascio e i comuni rossi, così passa dal rimpianto nostalgico per i tempi del duce all’esaltazione di Berlinguer e del glorioso PCI; deplora la disoccupazione, la cassa integrazione, i ghetti industriali, ma non arriva ai più che leciti collegamenti tra le varie manifestazioni della corruzione politica, o si limita a generiche accuse contro il malgoverno. Vengono in mente i cantastorie siciliani, anche per i bozzetti di vita contadina, per il gusto del macabro e del particolare pietoso: adora la cronaca nera, uccisioni stupri vendette: si sente che questa è materia sua, su cui sa lavorare meglio, su cui sa stendere giudizi più recisi. La ritiene forse oggetto di poesia, ma anche questo gusto ha alle spalle una solida tradizione di ballate, di cantilene nutrite del piccante che offre la vita quotidiana. E’ un reazionario questo signor Casu? Forse. Meglio, si fa portavoce di contenuti in sé reazionari, ma lo fa con un’innocenza e un’ingenuità che si avvicinano alla poesia. Nelle sue rime c’è una morale triste ma profondamente umana, e quello che più conta, radicatissima tra la gente di campagna: l’ossequio al passato, all’esperienza del già vissuto. Un anziano contadino che scrive rime del genere è chiaro che non vuole fare un’operazione culturale (anche se indirettamente la fa), non è un operatore, un tecnico della parola. Scrive perché qualcuno lo legga e respiri un po’ l’aria di un mondo arretrato e lontano quanto si vuole, però vivo, ancora legato a leggi severe: forse non capirebbe questo articolo, certo non capirebbe la gente de La Tenda. La poesia per lui è l’equivalente della canzonetta da intonare dopo il lavoro dei campi, o della predica a messa, o del bollettino della radio: con in più la rima. Eppure ha delle intuizioni vergini, conia parole che potrebbero essere invidiate dalla nostra avanguardia, e non lo fa per sfizio per hobby per ricerca linguistica. E’ il suo mondo e sono le sue parole, è una morale che sa di fieno. Finisco con due poesie (queste sì a buon diritto) che si commentano da sole: «Se le pensioni hanno aumentato / aiutando il consumatore / tante volte considerato / ma sempre con minimo valore / come una elemosina sempre fatto / non considerando il valore / che nella nazione lui ha dato / mi riferisco al contadino / che lui è l’ultimo poverino», «Se volete che la terra dia frutto / bisogna darla a chi lavora / il benessere viene compiuto / ognuno deve avere la sua dimora / così abbandonato è dappertutto / e la vogliono lasciare più ancora / tutto dipende dai terrieri / che lasciano incolti i poderi».

 

«La Tenda», anno IV, n. 7, luglio 1976

RECENSIONI

CATTAFI

BARTOLO CATTAFI, POESIE SCELTE – MONDADORI, MILANO 1978

Gli Oscar Mondadori stanno assolvendo (come la collana economica di poesia della Garzanti) la pregevole funzione di fornire ai lettori ricche antologie di poeti contemporanei a un prezzo accessibilissimo, in un periodo in cui leggere poesia costa parecchio. Ultimo testo uscito nella collana è quello dedicato a Bartolo Cattafi e alla sua produzione poetica tra il ’46 e il ’73. Cattafi è nato nel 1922 in Sicilia, e della sua regione si è portato dietro la mediterraneità (il colore-il calore, la corposità come amore dei corpi, la polemica ideologica contro la terraferma e i suoi padroni): poi ha viaggiato molto, cosicché la sua poesia si è arricchita di stimoli e accenti diversi, si è asciugata, essenzializzata da quel meridionalismo che poteva risultare eccessivo. Quella di Cattafi è una produzione che non conosce i toni sfumati, i paesaggi delicati: dietro si intuisce lo stesso ambiente che ha fatto da sfondo a Guttuso. Anche letterariamente la presa della parola è sempre precisa, rapida, stringente; le poesie sono man mano che si procede sempre più brevi, con chiuse epigrafiche, quasi proverbiali. Un appunto si può muovere all’antologia, ed è quello di essere troppo ricca di testi, quindi “troppo” rappresentativa, di aver incluso nella scelta anche poesie mediocri, con il risultato di appesantire la lettura. La presentazione, un po’ generica a mio parere, è di Giovanni Raboni; ed è seguita, come in tutti gli altri Oscar, da alcune notazioni critiche di vari autori e da una puntuale scheda bibliografica. Trascrivo una poesia di Cattafi, tra le più sottili.

Messina:

«Ricca grassa seduta / nel posto giusto / quasi un’elvetica mediterranea / teneva banco e cassa. / La povera Messina. / Fu quel suo male un tempo sconosciuto / annidato alla base alle radici / la terra e il mare sommossi / oscillanti incredibili nemici. / E la guerra. / E chi successe alla guerra / e chi succede a chi successe / e non fa succedere…».

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 27 maggio 1978

RECENSIONI

CATTAFI

BARTOLO CATTAFI, L’OSSO, L’ANIMA – LE LETTERE, FIRENZE, 2022

La casa editrice fiorentina Le Lettere propone l’edizione critica del più noto e importante libro di Bartolo Cattafi, L’osso, l’anima, con la cura di Diego Bertelli, che tre anni fa si era già occupato della pubblicazione dell’intera opera del poeta siciliano. Proprio a Bertelli va rivolto un sincero plauso per la dedizione e la competenza con cui ha commentato – nelle trentacinque pagine introduttive, nelle ottanta di postfazione e nella scelta di un ricco repertorio bibliografico – storia, caratteristiche e significato di questo classico della poesia novecentesca, indagandone stile, ricezione e interpretazioni critiche con la perizia non solo dello studioso, ma dell’adepto appassionato.                                                                                        

Bartolo Cattafi (Barcellona Pozzo di Gotto,1922Milano,1979) dopo la laurea in legge, visse tra Milano, dove lavorava come pubblicitario, e la Sicilia, viaggiando spesso in Europa e in Africa.

L’osso, l’anima, pubblicato nel 1964, è un libro esorbitante di temi, forme, indicazioni di senso diverse e fuorvianti, quasi l’autore si fosse posto l’esplicito obiettivo di disorientare il lettore, indicandogli percorsi di lettura di non facile transitabilità, in direzioni improvvisamente interrotte, e altrettanto inaspettatamente riprese. Un viaggio a singhiozzo attraverso le circa duecento composizioni del volume, che proprio del viaggio, dello spostamento tra interni ed esterni, tra paesaggi fisici e sentimentali in contrasto tra loro, fa il suo perno strutturale. Basta scorrere i titoli delle poesie per constatare quante di esse facciano riferimento a luoghi concreti o mitici, pullulanti di multiformi presenze umane e animali, di una vegetazione lussuriosa, con un’attenzione concentrata sui cambiamenti climatici: dal sole accecante, alle piogge ostinate, ai venti impetuosi d’un tratto sospesi in minacciosa immobilità. Luoghi pieni di colori odori rumori, mediterranei e caldi soprattutto, con l’elemento equoreo che la fa da padrone: “Ma navi rumoreggiano col vento / stormiscono coi platani coi panni dei cortili, / navi che ci riportano nell’alto / mare da dove uscimmo, dove / un palmo d’azzurro costa parecchio /  ed è tutto malcerto, anche l’azzurro” (In altomare), “Il fiume   / aveva foglie gialle di platani e colori / su cui l’occhio patisce: acciaio, bitume,  / quello della biscia / che scorre lungo i sogni velenosi” (Sottozero), “la barca i remi il mare   /   liscio crespo turbato / tinte chiare e cupe / i venti leggeri dell’estate” (Mare).

Acqua e acque sono sostantivi ripetuti più di quaranta volte in tutta la raccolta: acqua di cielo e di terra, del fiume Giordano, dei pozzi sahariani, del bicchiere e del bidet. Ma anche deserti e foreste, narrati con uguale partecipe adesione. Per Cattafi ogni luogo manifesta una sua segreta magia: “La mente non capisce questo amore / per certi posti remoti dell’interno, / insidiosi, inospiti, / di barbara bellezza. / Non capisce / la necessaria perdita nei boschi” (Anabasi). Il viaggio, quindi, che sia di fuga o approdo, esotico o domestico, della memoria o del futuro, vittorioso o sconfitto, è sempre scoperta e incontro. Accompagnato talvolta da una figura femminile, mai acquiescente, mai amichevole o clemente, invece in contrasto, nella lotta inesorabile di corpi che si attraggono e respingono senza indulgenza: “Intanto ami, abbracci, ignori / perché di là dal morbido, dal tenero, dal caldo / avverti un’ambigua rigidezza” (Di qui non puoi), “Ora di notte geme / si rivolta nel letto / inarca le reni / mi prende il sesso / mi dice Vieni (In sogno), “Sull’alto sgabello appollaiata /  chiuse il giornale / strinse un po’ i ginocchi /  che aveva divaricati / sorrise con la bocca / non con gli occhi / Ti ho aspettato disse /  Andiamo” (Andiamo). La donna è chiamata amore in una sola poesia, Tabula rasa, che elenca una sconfortata rassegna di colpe reciproche: “D’accordo, amore. Espungiamo / dal testo perle d’acqua / su petali, / le frange estese, / le bolle della schiuma. / Le cose lietamente necessarie. / Togliamo anche / l’acqua l’aria il pane. / Giunti all’osso buttiamo / fuori della vita / l’osso, l’anima, / per credere alla tua / tabula che mai / avrà l’icona, l’idolo, la cara calamita?” (Tabula rasa).

La guerra è un altro filone tematico presente nel libro, non solo nell’immagine del contrasto con una presenza ostile a livello personale, ma come strategia d’attacco o di difesa declinata in termini militareschi (battaglia, assedio, invasione, imboscata, ammutinamento, pistole, colpi in canna, ordigni, tiro a segno, veterani): “È buono, ben aguzzo / temprato con le mie mani in tanti anni, / tra vampate e dolori. / Vi ammazzo bestie se tentate /   d’uscire dalla stanza: / nel punto giusto, sul dorso, / tra   un’ala e l’altra / se fate tanto d’alzarvi / a un volo di speranza” (Minaccia), “Adottato il mantello del nemico / andammo all’assalto di noi stessi. / I nostri colpi furono i peggiori” (Mimesi), “a mezzanotte approssimati / mettigli sotto le tue bombe. / E non fuggire, aspetta / che lo scoppio t’investa” (La retta).

Altrettanto frequenti sono le immagini di malattia, morte, suicidio e omicidio. Scrive Diego Bertelli: “Si tratta di azioni lesive ai danni di cose e persone tanto quanto ai danni di se stessi; sfoghi da vera e propria Anger room, paradossalmente necessari a ristabilire quello che oggi la psicoterapia chiamerebbe uno stato di ‘benessere’. Cattafi sottolinea, in questo modo, la prospettiva nevrotica e malata della modernità”.

Il continuo rovello del rapporto, esistenziale e sociale, con l’altro da sé, si esplica in un assedio feroce della realtà, che non promette consolazione nemmeno quando si offre in tutta la sua bellezza, avvertita perlopiù come una sfida. L’insensatezza, l’assenza, la solitudine campeggiano tragiche, e l’ironia, lo sberleffo, il sarcasmo accentuano il disagio del non sapersi abbandonare: “La mente è un’abile / astuta acrobata. Teme l’abisso, il vuoto” (Ipotesi), “C’è un calmiere che regola i rapporti / col prossimo tuo e con te stesso. / Sei solo e vinto, / debole, deforme, / devi andare al mercato. / Stordirti e scegliere / le voci nel brusio. / Stipulare contratti, / vendere, comprare / i beni che consumano la vita” (Al mercato), “Studiammo le strade, le tabelle / di orari e di convogli. / Ma che vale giungere alla meta / se essa dice sei / arrivato, guarda gli orari, / le partenze, / parti” (Meta).

La convinzione che “La vita porta disordine, dolore” (Un prisma) può essere forse attenuata dalla consapevolezza di un unico destino che accomuna il poeta con altri disorientati e delusi come lui, probabilmente i suoi coetanei, nati e cresciuti sotto la dittatura fascista, travolti dalla guerra, illusi di una rinascita civile ed etica che poi non c’è stata: “Rovistando – inventario / di cocci, osservazione / di perduti pianeti, rimembrare / parole lontane in mezzo ai libri –, / ci ferimmo col filo / tagliente dell’errore” (Un prisma). Ancora più marcata è la disillusione nei versi di Delle pene: “Alla prova dei fatti / non ci fu di che essere allegri: / torti, errori, viltà, / debolezze del cuore, / insanie che inquinarono la mente. / Pagammo in disparte nascondendo / le voci, l’ammontare, / i conti d’impossibile chiusura. / Vorremmo un’era / forte, aperta, precisa, / di pubblica chiarezza per le pene. / Non più pagare mediante equivalenze, / con conguagli privati, silenziosi, / ma tormenti, tenaglie squillanti / maschera gogna ruota rogo. / Visibile a tutta la città / la corda che ci tira per il collo”.

La poesia, testimonianza quasi testamentaria, assume la forma epigrammatica, rapida e concitata, del proclama ad alta voce, della sferzata ribelle contro la viltà dell’abitudine e l’impotente rassegnazione. Scevra da artificiosità, lontana da ogni sperimentalismo formale come dall’esplicito impegno politico, la scrittura di Cattafi utilizza un linguaggio quotidiano, una tecnica cronachistica che esibisce i suoi debiti sia dalla pittura (esercitata anche personalmente), nella visionarietà delle immagini e nel gusto vivace dei colori, sia dalla coeva narrativa in prosa, comprendente le atmosfere del giallo e del noir per l’atmosfera costante di attesa, di conflitto e di incubo che domina molte descrizioni ambientali. In uno stile paratattico, perentorio o addirittura sentenzioso, ricco di metafore e accumulazioni verbali, l’autobiografismo evidente nelle pagine de L’osso, l’anima non si riduce a una speciosa autoreferenzialità, ma diventa curiosità del mondo e giudizio severo.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 8 giugno 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

CAVALLI

PATRIZIA CAVALLI, DATURA – EINAUDI, TORINO 2013

La recente raccolta einaudiana di Patrizia Cavalli, che offre al lettore componimenti piuttosto eterogenei (dai poemetti di più ampio respiro, a un pezzo teatrale, a brevi poesie amorose, fino agli epigrammi), si intitola ambiguamente Datura, oscillando nel significato dal participio futuro femminile del verbo dare (“che si darà”, nel senso forse di una generosa e imprevedibile eredità ventura), al nome di una pianta spinosa e medicinale, dagli effetti talvolta allucinogeni. Metafora della poesia? Proprio a questo vegetale, e ai suoi fiori notturni e profumati, rende omaggio l’ultimo poemetto del volume. Proibendosi qualsiasi retorica commozione, l’autrice individua la causa delle sue «lacrime spaesate» in oscuri fenomeni atmosferici, meteorologici, che agendo sulle «parti più segrete del cervello» provocherebbero «soltanto nostalgia che gira e si rigira / dentro il suo molto affaccendato niente». Fosche trepidazioni di morte ? «Ma io non voglio andarmene così, / lasciando tutto come ho trovato / in questa scialba geografia che assegna / l’effetto alla sua causa». L’ambizione del poeta è ben altra: «giocare alle parole / immaginando, senza un’identità, / una visione». E quindi, davanti ai fiori caduchi e pallidi della datura, convincersi «che dipenda da me la sua apparenza, / che ne sia io la sola responsabile, / questa è la gioia fiera del mio compito, / qui è il mio valore. Io valgo più del fiore».
La rivendicazione orgogliosa della sua centralità, fisica e mentale, della sua quasi immortale resistenza al tempo, ritorna ancora in molte delle poesie più brevi, insieme a un auscultare preoccupato e ironico di minimi segni di malessere: «io bevo molta acqua minerale / per poi molto pisciare, mi curo in questo / perfettissimo ospedale che vuole / fare secco il mio gran dio ormonale», «Come se il cuore inciampasse, / può cadere», «Che qualcosa di me / possa valere, dopo di me, / anche solo cinque lire più di me, / mi è insopportabile», «Rivoglio la mia salute, / fantasiosa salute / così potente e certa», «Salivo così bene le scale, / possibile che io debba morire? //…Ma adesso / che cazzo vuole da me questo dolore / al petto quasi al centro! Che faccio, muoio? / O resto e mi lamento?»

Una poesia provocatoriamente fisica, quella di Patrizia Cavalli, che si impone con prepotenza quasi canora, nei declamati endecasillabi, nelle rime ribadite, nelle immagini sempre concrete, visivamente scolpite, mai sfumate, mai eteree. Anche i versi amorosi hanno una loro sfrontata presunzione: «E se mi guardi davvero e poi mi vedi? / Io voglio che stravedi non che vedi!», «Annoiarsi da soli forse è un lusso, / ma annoiarsi in due è disperazione». Molti i punti interrogativi, molti gli esclamativi, per una poesia che si vuole soprattutto orale, declamata a voce alta. Una poesia che assume con fierezza un energico carattere teatrale, come è dimostrato anche dall’intermezzo drammatico dei  Tre risvegli, e dalle esperienze di traduzione da Molière e Shakespeare.
Altri due ironici, risentiti e appassionati poemetti sono qui riproposti dopo essere apparsi nel 2011 per le edizioni Nottetempo: L’angelo labiale è una sorta di divertissement giocato sul contrasto non solo fisico, ma anche etico, che contrappone il rumore insultante alla discrezione del silenzio, per concludersi con una spiritosa e svagata elegia pseudo-amorosa. Più spavaldamente dissacrante e pungente è  La Patria, amara galanteria in versi rivolta all’idea obsoleta, retorica, vituperata e decaduta di nazione: «Ostile e spersa / stranita…braccata…tentata…sbattuta / eccomi qui a pensare alla patria». Per raccontare la nostra terra comune, Patrizia Cavalli elenca una serie di figure tradizionali, sbeffeggiandole: la madre «calma e abbondante», «la stanca vedova in affanno» che vizia una prole stupida ed egoista, «la donna giovane, ma austera» casta e asessuata, la cortigiana «scostumata», la pazza ubriacona in estasi intellettuale da megalomane. Diffidando di queste immagini tradizionali e abusate, la poetessa preferisce affidarsi ai sensi, alle nostalgie, agli odori delle botteghe e dei mercati: meglio cercare la propria patria nei «giorni santi, stupefatti», nella luce di un «trasparente cielo fino di battista».
Non si può poi tralasciare di commentare un altro poemetto, La maestà barbarica, sarcastico e bruciante, in cui si tratteggia una figura femminile poetante, che invade con la sua spudorata presenza i quartieri romani: «Grande impresaria della sua pazzia… Ha una recitazione / arcaico-tragica», «Ha un’autorevolezza ormai consolidata. / Lei non chiede, possiede», «La sua eleganza / è quasi una minaccia»: anche in questo mordace ritratto, Patrizia Cavalli si dimostra impareggiabile bozzettista, di implacabile e sferzante abilità satirica.
Ma non sarà forse eccessivo quanto scrivono Berardinelli e Agamben nella quarta di copertina, parlando di «poesie fatte per illuminare e conoscere», e addirittura definendole come «la poesia più intensamente etica della letteratura italiana del novecento»?

«criticaletteraria», 11 ottobre 2013