Mostra: 301 - 310 of 1.318 RISULTATI
RECENSIONI

CAVALLI

PATRIZIA CAVALLI, LA PATRIA – NOTTETEMPO, ROMA 2011-2014

Nel 2011 le edizioni romane Nottetempo avevano pubblicato un libriccino (riproposto in e-book nel 2014) della poeta umbra Patrizia Cavalli, venuta a mancare l’altro giorno, e ricordata con rimpianto e stima da numerosi organi di stampa italiani e stranieri. Sotto il titolo La Patria erano riuniti due poemetti ironici e risentiti, acuti e intelligenti, amari e appassionati. Il secondo, “L’angelo labiale”, era una sorta di divertissement giocato sul contrasto non solo fisico, ma anche etico, che contrappone il rumore (l’insulto, la sopraffazione) alla discrezione e alla gentilezza del silenzio, per concludersi con una spiritosa e svagata elegia pseudo-amorosa. Ma più particolare ancora, più spavaldamente dissacrante e pungente era la prima composizione (letta in anteprima a Piazza del Popolo dal palco della manifestazione di Se non ora quando del 13 febbraio 2011), un omaggio in versi all’idea obsoleta, retorica, vituperata e decaduta di “patria”. “Ostile e spersa / stranita… braccata. ..  tentata. ..  sbattuta. .. / eccomi qui obbligata a pensare alla patria”. Come si può, con quali abusate metafore, cantare la propria nazione, di cui magari ci si vergogna un poco, che si vorrebbe diversa, più nobile e orgogliosa di sé? Forse con le immagini femminili di cui si servivano i poeti antichi, imponente matrona bardata di pepli e corone?

Patrizia Cavalli elencava invece una serie di figure tradizionali, sbeffeggiandole in controcanto: la madre “calma e abbondante”, “la stanca vedova in affanno” che vizia una prole stupida e egoista, la “donna giovane, ma austera” – casta e asessuata -, la cortigiana “scostumata”, la pazza ubriacona in estasi intellettuale da megalomane. Nemmeno queste sembravano le rappresentazioni più convincenti a Patrizia Cavalli. “Beh, io alla fine di questa tiritera… / volenterosa mi ritrovo priva / di una qualunque intera, definita / figura della patria”. Meglio cercare tra le cose quotidiane, affidarsi ai sensi, agli impulsi, alle nostalgie, agli odori delle botteghe e dei mercati, alla vista di lavori artigianali o di sfaccendati “assistenti del niente” ciondolanti davanti ai bar. Meglio cercare la propria patria nell’aria, nei “giorni santi, stupefatti”, nella luce di un “trasparente cielo fino di batista”.

“Io allora / basta così, ringrazio”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 23 giugno 2022

 

RECENSIONI

CAVARERO – SCOLA

CAVARERO-SCOLA, NON UCCIDERE – IL MULINO, BOLOGNA 2011

La filosofa Adriana Cavarero e il Cardinale Angelo Scola si confrontano in questo volume dedicato al commento del quinto comandamento, Non uccidere, ovviamente ciascuno secondo il suo punto di vista, irriducibilmente laico la prima, fondato su millenni di tradizione religiosa il secondo. Entrambi citano con ammirazione Lévinas, la sua critica radicale alla violenza e la sua utopica fede nella possibilità di una pace originaria, basata sul rispetto verso l’unicità del volto dell’altro.
L’intervento di Mons. Scola è un dottissimo excursus storico-ideologico a partire dal concetto biblico di alleanza tra l’uomo e Dio, che comporta la decisione del credente «di stare nel patto e di vivere al cospetto della Presenza», ubbidendo non solo alla lettera veterotestamentaria, ma anche aderendo alla regola morale indicata da Gesù. Naturalmente i riferimenti sono Sant’Agostino e San Tommaso – che pure ammettevano la legittima difesa e la guerra giusta – , ma anche Ricoeur e Jonas, e dall’affermazione decisa dell’inviolabilità di ogni identità umana («questa gloria dell’essere, che è l’uomo») arriva a considerare le scottanti domande della contemporaneità riguardo all’aborto e all’eutanasia.
Con altrettanta veemenza e radicalità di opinioni gli risponde Adriana Cavarero, avvalendosi delle tesi di pensatori come Foucault e Arendt, Burkert e Girard, ma soprattutto proponendo una riflessione che partendo dall’ebraismo e dai greci ripercorre il significato dei termini vita-morte, della loro naturalità e irrimediabilità, con puntualizzazioni critiche sugli argomenti imprescindibili dell’autodeterminazione, della qualità dell’esistenza, dell’eliminazione degli embrioni congelati. Nel libro troviamo riferimenti all’istinto predatorio dell’uomo, alla sua distruttività (Klein, Freud, Lorenz), con un’apertura utopistica verso una «femminilizzazione» dell’umanità, in cui possa prevalere una cultura della nascita su quella della morte, capace di scalzare l’io dal suo sogno narcisistico a vantaggio delle funzione etica e ontologica del “tu”.

 

© Riproduzione riservata  

www.sololibri.net/-Recensioni-di-libri-.html      5 febbraio 2016

RECENSIONI

CAVAZZONI

ERMANNO CAVAZZONI, GLI EREMITI DEL DESERTO – QUODLIBET, MACERATA 2016

Ermanno Cavazzoni (Reggio Emilia, 1947) ha scritto libri sempre piuttosto lontani dalla tradizione letteraria italiana più consueta: visionari, fantastici, ironici, da lui stesso definiti come “sfoghi di maniacalità”. «Mi vengono così – ha confessato – dovete scusare». Gli eremiti del deserto è un esempio di questa sua narrativa atipica: raccoglie infatti una sessantina di ritratti, per lo più brevi e stilizzati, di eremiti egiziani, palestinesi e siriani vissuti tra il III e IV secolo, rielaborando i testi tramandatici dalla patristica, e scegliendo tra loro «le vite più estreme e esemplari».

Il volume si apre con la descrizione delle prime tre figure ascetiche votate a Dio nelle solitudini desertiche: Paolo, Antonio e Ilarione. Della biografia di Antonio (senz’altro il più noto, a cui anche Flaubert dedicò un libro) vengono sottolineate la vocazione, le persecuzioni familiari, la ricerca del luogo adatto per l’isolamento, la resistenza irremovibile al peccato, la morte sopravvenuta dopo i cento anni. Caratteristiche comuni alle vite di questi santi anacoreti furono senz’altro la preghiera assidua, la meditazione, l’intercessione in favore del prossimo, la lotta combattuta contro le tentazioni del demonio. I sacrifici a cui si sottoponevano amplificavano la loro fama di santità, per cui molti malati, storpi e anime inquiete li interpellavano supplicando una guarigione o un qualsivoglia conforto. Altro tratto tipico dell’esistenza degli eremiti di cui scrive Cavazzoni erano le privazioni che imponevano a se stessi soprattutto per vincere la lotta con il diavolo, che appariva loro sotto le sembianze di bestie feroci, o allettandoli con lusinghe sessuali, o ancora tormentandoli con allucinazioni visive e uditive. Eusebio così si esprimeva a questo proposito: «Se vinco il maligno nelle piccole cose poco importanti, non mi vincerà nelle importanti, e non mi infiammerà con la concupiscenza, con le passioni e la vanità». Quindi, cibo frugalissimo (datteri, lenticchie, farina bagnata, fichi, radici, erbe) assunto in dosi minime, idratazione ridotta all’essenziale, semi-nudità o vestiario limitato a stracci, coperte logore o mantelli di cuoio. L’ambiente in cui si costringevano a vivere era il più misero e disagevole possibile: grotte, buche nel terreno, capanne, pozzi, casse e gabbie di legno, o colonne altissime sopra le quali rimanevano immobili giorno e notte, spesso in posizione eretta.  Il corpo veniva mortificato con cilici, catene, collari, pesi di ferro, mutilazioni, digiuni protratti fino allo sfinimento, oppure esponendolo alle intemperie e sfiancandolo in pesanti fatiche fisiche.

Ermanno Cavazzoni stuzzica la nostra curiosità con aneddoti e stranezze, confessando la sua attrazione per questi personaggi, e per le loro scelte di vita oggi non più proponibili (in quale deserto potrebbe ormai rifugiarsi un anacoreta, nel nostro mondo invaso da esplorazioni satellitari e turismo incontrollato?): «Ho sempre letto queste vite con ammirazione e invidia, per quei tempi di libertà, di povertà volontaria non sindacalizzata, di avventure interiori e incontri fantastici straordinari».

© Riproduzione riservata            www.sololibri.net/Gli-eremiti-del-deserto-Cavazzoni.html            15 novembre 2017

 

RECENSIONI

CAVICCHIA

DANIELE CAVICCHIA, LA SIGNORA DELL’ACQUA – ED. PASSIGLI, FIRENZE 2011

Presso l’editore Passigli, il poeta abruzzese Daniele Cavicchia ha pubblicato il volume La signora dell’acqua, che comprende il poemetto omonimo, scandito in sei sezioni, e poesie sparse, composte per lo più nell’arco degli ultimi due anni. «Poemetto sapienziale», lo definisce nella sua dotta e partecipe prefazione il filosofo Sergio Givone, dedicato «all’ elemento più inafferrabile: perché l’acqua è fonte, origine, scaturigine». E trasparenza, aggiungerei, frescura, scorrevolezza: memoria di purezza primigenia, nostalgia di sorgente. Se si dovesse attribuirle una divinità, ecco che essa sarebbe al femminile: appunto «una signora dell’acqua».

Ma questa incantata, affabulatoria composizione in versi non è affatto limpida e leggera; invece appare profonda, a tratti misteriosa, allusiva a realtà nascoste e rivelatrice di arcane verità. Si tratta probabilmente di un omaggio all’eterno femminino, inteso come fascino e grazia, fecondità e ispirazione. Il poeta segue le indicazioni di questa musa e maestra alla ricerca di un suo graal di ricompensa e consolazione, di rivelazione e salvezza. E’ un dialogo, evidenziato anche dai diversi caratteri di stampa (il corsivo che indica il sogno, la visionarietà; il tondo, quando il richiamo al reale e alla razionalità si fa più imperioso) tra due figure femminili – una presente, l’altra solo evocata- e diversi protagonisti maschili: il primo, il secondo e il terzo uomo, forieri di un’inquietudine tormentosa, di una colpa non detta, ma paralizzante. E l’uomo che si divide in tre persone, ha «la cicatrice che gli attraversa il volto», è «l’imputato che tutto ha visto», «piange»», «in ginocchio bussa alla porta del tempio», implora risposte. Ma La signora dell’acqua dice e non dice, indica sempre qualcosa d’altro, appare immersa in un paesaggio perennemente mutante: a volte un bosco, a volte un deserto, o un’abitazione spettrale: «La casa era vuota, le sedie bruciacchiate, / le tende ingiallite, i lampadari vestiti dai ragni». Parla come un oracolo, per enigmi o frasi gnomiche: «Ciò che il silenzio nasconde il silenzio rivela», «Quello che sarà è già stato», «Ciò che siamo, probabilmente saremo, / ma ciò che saremo non saprà chi eravamo», e le sue divinazioni sono consegnate ai messaggeri in rotoli, in pergamene, letti alla luce di candele, in un tempo che è sempre attesa, e insieme confonde passato e futuro, lasciando il presente nella sua ombra.

Daniele Cavicchia in questo poemetto dimostra di avere quasi visceralmente assorbito, oltre a una sua personale e inconsolabile disperazione, una conoscenza approfondita di testi sapienziali antichi, dai presocratici alle Sacre Scritture (il paesaggio desertico, con le tende, le acque salate, i piccoli serpenti, il vento rendono addirittura visivamente il ricordo di pagine dell’Esodo), ma anche la mistica islamica e medievale, per arrivare alle fiabe celtiche e a Yeats. Qui, in questo territorio dell’anima, dove non sussiste certezza e forse salvezza, il poeta cerca una riposta minima, un’eco di parola che, come suggerisce Givone, sia «generatrice di senso»: glielo può far intuire questa figura femminile, incarnazione della poesia e della maternità, promessa di ristoro e di sollievo, polla che disseta nella desolazione dell’aridità, verbo che rompe il silenzio. E’ il segno che solo può dare l’ amata, moglie o madre o figlia tragicamente morta nell’adolescenza, a cui il poeta continua a rivolgersi in versi straziati: «Esiste un grido che è solo grido. / Tu sei quel grido», «Non immagino il colore / del temuto altrove / né il nome che ti identifica / né la tua luce, tra tanta luce; / quando verrò sarò una scarnificata / domanda, l’osso di una preghiera»;

Ma il miracolo può esistere: il dolore sa farsi poesia, una figura cara e scomparsa può essere recuperata nelle parole: «Bussa piano per non interrompere il canto, / sulle labbra brucia o galleggia ancora / la memoria del fuoco o delle onde».

 

«incroci on line», 2 marzo 2016

RECENSIONI

CECHOV

ANTON CECHOV, LA LETTURA . KASTANKA – ADELPHI, MILANO 2012

Adelphi propone due racconti di Anton Cechov, La lettura (1884) e Kastanka (1887), tradotti magistralmente da Tommaso Landolfi e da lui pubblicati nell’antologia dei “Narratori russi” edita da Bompiani nel 1948. La prima, “fulminante”, novella narra con asciutta ironia della decisione di un consigliere di stato di imporre agli impiegati del suo ufficio (pigri, ignoranti e privi di qualsivoglia curiosità culturale) la lettura quotidiana di capolavori letterari, nel tentativo ambizioso e velleitario di accrescerne la sensibilità e profondità intellettuale: ottenendone invece il risultato contrario, e facendo sprofondare tutto il personale nella disperazione e nell’apatia. Protagonista del secondo racconto è una bastardina, vivace e affettuosa, che dopo essersi persa seguendo le orme del suo burbero padrone falegname, viene adottata e ammaestrata da un artista circense, che la fa esibire insieme a un gatto e a una papera in esilaranti e complicate acrobazie. Kastanka osserva la varia umanità e gli animali che la circondano con una curiosità e un’emotività quasi umane, abbandonandosi a fantasie, incubi e ricordi indicatori della sua particolare capacità di relazionarsi con il mondo esterno. Durante la sua prima esibizione in un caleidoscopico spettacolo pubblico, riconosce il suo antico padrone, e decide impulsivamente di seguirlo, abbandonando il “lungo sogno, imbrogliato e penoso”, in cui era casualmente piombata. Il volumetto adelphiano è corredato da una appassionata postfazione di Giovanni Maccari, che oltre a situare nel tempo e nel contesto culturale specifico sia l’opera di Cechov sia la traduzione di Landolfi, tenta un parallelo tra le loro due scritture, il loro comune «ideale di purezza artistica… indifferente ai contenuti politici, ideologici o sociali», interessati entrambi soprattutto alla «verità poetica» degli accadimenti reali.

IBS, 30 agosto 2012

RECENSIONI

CECHOV

ANTON CECHOV, LA SIGNORA CON IL CAGNOLINO – EINAUDI, TORINO 2001

Il miracolo della prosa di Anton Cechov dura ancora dopo più di un secolo, in questi due magistrali racconti riproposti da Einaudi. La sua scrittura è in grado di mantenere uno stile elegante, pulito, lineare senza ricorrere ad alcuno stratagemma linguistico: non troviamo ricercatezze lessicali, frasi involute o programmaticamente ad effetto, sperimentalismi artificiosi. Solo il piacere della narrazione dei fatti, l’attenzione calibrata ai gesti e alle parole dei protagonisti, la sensibilità particolare con cui sa rendere ogni emozione. Quando racconta che sul lungomare di Jalta il maturo seduttore Gurov rimane colpito vedendo passare “una giovane donna bionda, di statura media, con un berretto, seguita da un volpino bianco”, e decide così di mettere in atto una discreta strategia di avvicinamento, subito da grande scrittore approfondisce l’avvenimento esteriore suggerendo pudicamente questa intuizione psicologica: “Eppure c’è in lei qualcosa che dà pena”. E dopo che i due hanno fatto l’amore: “In lei era rimasta la timidezza di prima, lo stesso impaccio, la stessa goffaggine dovuta alla giovinezza inesperta e un sentimento di inquietudine, come se da un momento all’altro dovessero bussare alla porta”. E se i due amanti si incontrano sulla spiaggia: “Le foglie degli alberi non si muovevano, le cicale frinivano, e il rumore monotono, sordo del mare, che giungeva dal basso, parlava del riposo, del sonno eterno che ci attende. C’era già quel rumore prima che Jalta e Oreanda esistessero, e ci sarà sempre, altrettanto indifferente e sordo, anche quando noi non ci saremo più”. Quella che doveva essere un’avventura stagionale diventa per entrambi la storia della vita: “sembrava loro che la sorte li avesse destinati l’uno all’altra e non capivano perché li aveva fatti sposare con altri; erano come due uccelli migratori, maschio e femmina, catturati insieme e messi in due gabbie separate”.

IBS, 14 maggio 2014

RECENSIONI

CECHOV

ANTON CECHOV, UNA SCOMMESSA – ENSEMBLE, MILANO 2017

Uno tra i più famosi racconti di Anton Cechov (che come sempre in questo grandissimo autore mette in luce l’abisso morale che separa saggezza e follia, verità e menzogna, onestà e frode) è stato recentemente riproposto dalle edizioni romane Ensemble. La scommessa è quella pattuita tra un borioso banchiere milionario e un giovane legale, nel corso di una festa in cui tra gli invitati si sviluppa un acceso confronto tra chi è favorevole o contrario alla pena di morte. Il banchiere si pronuncia per la pena capitale, ritenendola meno crudele dell’ergastolo; l’avvocato venticinquenne afferma invece che una detenzione a vita sia comunque preferibile alla morte. Tra i due nasce una sfida che li induce a scommettere temerariamente e in maniera divergente sul loro futuro. Il banchiere promette al giovane due milioni se volontariamente si lascerà rinchiudere per quindici anni in un padiglione sorvegliato nel suo giardino, senza poter mai uscire o ricevere visite, con la sola compagnia di uno strumento musicale e di tutti i libri che vorrà richiedere. L’avvocato accetta la prigionia, più per puntiglio che con la speranza di conquistare una somma mirabolante.

Negli anni legge centinaia di volumi, impara perfettamente sei lingue, approfondisce materie prima trascurate, studiando soprattutto il vangelo e testi di teologia, e comunicando con l’esterno solo attraverso una scarna corrispondenza, ridottasi a nulla col passare del tempo. Il banchiere si tiene informato sulla salute della sua vittima, sicuro che prima o poi debba cedere, implorando la libertà: ma lui stesso arriva a rischiare la propria vita a causa di investimenti sbagliati che lo riducono quasi in miseria. Allo scadere del quindicesimo anno, il milionario caduto in rovina, temendo di dover consegnare al giovane legale gli ultimi due milioni rimastigli, decide di sopprimerlo. Si reca quindi nottetempo nel padiglione e penetra nella cella. Lo trova seduto immobile alla scrivania, pallido, scheletrico, sporco, zitto, davanti a un foglio scritto con grafia minuta. Legge alcune righe che gli paiono farneticanti: «Io disprezzo i vostri libri, disprezzo tutti i beati mondi e la saggezza. Tutto è inconsistente, effimero, diafano e illusorio come un miraggio. Siate pure orgogliosi, saggi e stupendi, ma la morte vi spazzerà dalla faccia della terra allo stesso modo dei topi del sottosuolo, e la vostra progenie, la storia e l’immortalità dei vostri geni geleranno o bruceranno assieme al globo terrestre. Voi avete perso la ragione e non seguite la giusta via. Scambiate la menzogna per la verità e la deformità per la bellezza… Vi stupireste se in seguito a qualche particolare circostanza, sui meli e sugli aranci all’improvviso crescessero rane e lucertole invece che frutti, oppure se le rose emanassero odore di cavalli sudati; così io mi stupisco di voi che avete barattato il cielo con la terra. Io non voglio capirvi. Per dimostrare con i fatti il disprezzo che ho per voi, per quello di cui vivete, rinuncio ai due milioni che un tempo sognavo come si sogna il paradiso e che ora disprezzo. Per privarmi del diritto a essi, uscirò di qui cinque ore prima del termine concordato e in tal modo violerò l’accordo».

Il banchiere, colpito dalle parole lette, in cui intuisce tuttavia una sorta di folle nobiltà, rinuncia all’assassinio progettato e torna nella sua villa, portando con sé la lettera del recluso. Il mattino dopo, cinque ore prima del termine fissato nella scommessa, il giovane esce dalla sua cella, rinunciando al premio concordato, e fa perdere le sue tracce.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/Una-scommessa-AntoCechov.html            20 febbraio 2018

 

 

 

RECENSIONI

CECHOV

ANTON CECHOV, L’UOMO NELL’ASTUCCIO – FALIGI, AOSTA 2016 (ebook)

In questa novella del 1898, quel grande scrutatore di anime e descrittore di vizi e virtù sociali che fu Anton Cechov, narra con più compassione che sarcasmo l’incredibile vicenda di un uomo imbozzolato nelle sue paure e nella sua solitudine, così come viene raccontata da un anziano insegnante di nome Burkin al suo amico Ivan Ivanic dopo una battuta di caccia. I due trascorrono la notte in un fienile, intrattenendosi in varie conversazioni: meditano, tra l’altro, sul motivo che spinge alcune persone a vivere isolate, timorose di frequentare il prossimo, chiuse nel loro guscio «come una lumaca». A Ivanic che ascolta con una certa noia, fumando in silenzio, Burkin descrive con saccente ironia la figura del suo collega Belikov, professore di greco antico: uomo impaurito di tutto, sgomentato dalla realtà, sessuofobo e reazionario. Questo personaggio rattrappito, dal musetto simile a una puzzola, pallido e taciturno, girava anche in estate con parapioggia, soprascarpe, soprabito foderato dal bavero rialzato, occhiali affumicati e cotone nelle orecchie, quasi a volersi difendere da una grave minaccia esterna: chiuso e intabarrato come in un astuccio. Fissato sulle regole da rispettare, temeva qualsiasi minima infrazione o cambiamento, commentando ogni novità con la frase «Purché non succeda poi qualcosa!». Era riuscito, col suo comportamento diffidente e circospetto, a soffocare qualsiasi moto di allegria e slancio vitale sia tra gli allievi sia tra i colleghi, e in tutta la cittadina. Sicché quando improvvisamente si materializzò nella comunità, come un sorprendente miracolo, la vivace sorella di un collega ucraino, Varenka, tanto differente dall’indole e dalle abitudini di lui, la piccola e pettegola società intorno ai due si coalizzò incoraggiando in tutti i modi la loro intimità, nella speranza di indurre L’uomo nell’astuccio a sposare la bella e sensuale giovane donna. Ma proprio quando la vicenda stava per concludersi con un fidanzamento, una impietosa vignetta che li ritraeva denigrando il professore, suscitò la sua reazione furiosa, provocandogli un violento alterco con il futuro cognato. Schernito da Varenka e dall’intera cittadinanza, Belikov si chiuse in casa, si mise a letto e morì dopo un mese. Al suo funerale parteciparono in molti, fingendo compunzione, ma in realtà sentendo una sorta di sollievo. «Seppellire persone come Belikov fa piacere», commenta sarcastico il suo collega Burkin. Il cadavere «dentro la bara aveva un’espressione dolce, gradevole, quasi lieta, come se fosse contento di essere finalmente stato messo dentro un astuccio da cui non sarebbe più uscito. Aveva raggiunto il suo ideale». Ma, suggerisce Cechov attraverso le parole conclusive di Ivan Ivanic, non siamo tutti noi rinchiusi in un astuccio di finzioni, futilità, pregiudizi e timori?

 

© Riproduzione riservata            

https://www.sololibri.net/L-uomo-nell-astuccio-Anton-Cechov.html           22 febbraio 2018

 

 

RECENSIONI

CECHOV

ANTON ČECHOV, IL MONACO NERO – ZOOM FELTRINELLI, MILANO 2015

“Il professor Andrej Vasilij Kovrin era sovraffaticato e aveva un esaurimento nervoso”. Così inizia il superbo racconto di Anton Čechov, con una frase lapidaria che in poche parole racchiude il destino del personaggio: uno studioso di filosofia stanco ed esaurito, facile preda, quindi, di morbose fantasie ed allucinazioni. Kovrin dunque, depresso e indebolito, seguendo il consiglio del suo medico si trasferisce in campagna per l’estate, presso una cara famiglia che frequentava già dall’infanzia, i Pasockij, proprietari di molta terra, di una grande villa e di un giardino lussurioso. Un giardino ricco di ogni specie di coloratissimi fiori e alberi, vivacemente animato dalla presenza di animali e contadini, che lasciava sempre in chi vi passeggiava un’impressione di serenità e gioia di vivere. Nella casa vivevano un vecchio e irascibile signore, Egor Semënyj, e sua figlia Tanja, “debole, loquace esserino”, che Kovrin ricordava bambina, ed ora ritrova adulta e incantevole. “Il meraviglioso presente e l’impressione del passato che si ridestava in lui si fondevano; e l’anima si sentiva troppo colma, ma felice”.

Un pomeriggio, ritrovandosi solo con Tanja, il professore le narra la leggenda di un monaco nero che mille anni fa, vagando solitario in un deserto orientale, si rendeva contemporaneamente visibile – come un miraggio – in diversi altri punti del globo e del cielo. “Lo vedevano ora in Africa, ora in Spagna, ora in India, ora nell’estremo Nord… Finalmente uscì dai confini dell’atmosfera terrestre, e ora vaga per tutto l’universo senza mai incontrare le condizioni che potrebbero farlo svanire”. Secondo una sinistra profezia, il monaco, essendo trascorso esattamente un millennio da allora, sarebbe tornato tra poco a rendersi manifesto agli uomini. Vedendo Tanja turbata dal racconto, Kovrin si allontana verso il fiume, percorrendo un sentiero tra i campi, quando viene investito da una turbine di vento che presto si trasforma in un’alta colonna, rivelando le sembianze di un monaco vestito di nero, dal volto pallido e magro, con le mani incrociate sul petto, che gli rivolge un sorriso sinistro per poi allontanarsi tra le nubi. Colpito ma non impressionato dalla visione, il professore torna nella sua stanza e alla vita quotidiana con i suoi amici, padre e figlia Pasockij, affiatati ma perpetuamente in tensione tra di loro, e decide di dichiarare il suo amore a Tanja. Tuttavia, il giorno dopo, il monaco nero gli si ripresenta, sedendosi a fianco sulla stessa panchina, e gli comunica un messaggio ultraterreno, con l’apparenza di un’investitura: “Sei uno dei pochi che a ragione si chiamano eletti di Dio. Tu servi la verità eterna. I tuoi pensieri, i tuoi propositi, la tua straordinaria cultura e tutta la tua vita recano su di sé un’impronta divina, celeste, poiché sono consacrati al razionale e al sublime, cioè a ciò che è eterno.”

A questo punto Krovin, considerandosi servitore di un principio superiore, un predestinato che avrebbe reso l’umanità migliore, si sente esaltato nel suo amor proprio, orgoglioso di sé e delle ricerche che torna ad affrontare con rinnovata passione, intensificando nel contempo gli incontri e le discussioni col fantasma del monaco, da cui trae incoraggiamento e beneficio. Dopo le nozze, i suoi deliri e le allucinazioni si intensificano, e i parenti decidono di farlo curare psichicamente. Una volta guarito, tuttavia, il professore si rende conto di aver perso slancio e gioia di vivere, e ogni entusiasmo per gli studi, essendo rientrato nel “gregge dei mediocri”. Čechov accompagna il protagonista in questo ritorno alla normalità con la descrizione del lento appassirsi della natura circostante, e con l’intristita consunzione dei rapporti familiari. “Come furono fortunati Buddha e Maometto o Shakespeare che i buoni parenti e i medici non li avessero curati dall’estasi e dall’ispirazione!”.

L’eccitazione della mente malata di Krovin, la sciocca ansia di primeggiare, l’applicazione smodata allo studio per raggiungere ruoli accademici di prestigio, lo porteranno a scelte distruttive per sé e per la sua famiglia, che il grande autore russo mette in rilievo con malinconica amarezza.

 

© Riproduzione riservata              

https://www.sololibri.net/Il-monaco-nero-cechov.html                     10 ottobre 2018

RECENSIONI

CELA

CAMILO JOSÉ CELA, LA FAMIGLIA DI PASCUAL DUARTE – UTOPIA, MILANO 2020

Camilo José Cela nacque in Galizia nel 1916, morì a Madrid nel 2002.  Aveva combattuto nella Guerra civile spagnola a fianco dei nazionalisti, e una volta tornato alla vita civile si era dedicato al giornalismo e a diversi lavori impiegatizi. Membro dell’Accademia Reale Spagnola, entrò nel Guinness dei primati per la quantità di onorificenze ricevute. Nella sua carriera letteraria, Cela sperimentò diversi stili di scrittura, aderendo a differenti correnti letterarie (dall’esistenzialismo all’espressionismo, dal realismo al surrealismo fantastico), sempre all’insegna di una coraggiosa ricerca sperimentale, in grado di affrontare le tematiche più complesse: superstizione, magia, erotismo, malattie mentali, rivendicazioni sociali, povertà, fanatismo religioso.

Nel 1942 il suo romanzo La famiglia di Pascal Duarte conobbe un notevole successo di pubblico, meritando anche una considerevole attenzione da parte della critica. Oggi viene riproposto dalla giovane casa editrice milanese Utopia, nella traduzione di Salvatore Battaglia, con una realizzazione grafica raffinata e accattivante.

La narrazione è preceduta da una “Nota”, in cui un anonimo trascrittore afferma di aver trovato un fascicolo di fogli scomposti abbandonato in una farmacia di Almendralejo, e di essersi limitato a ricomporne e poi a copiarne le pagine squadernate, censurando i particolari più crudi. L’autore del diario e protagonista del racconto (assunto a esempio da non seguire) si firmava col nome di Pascal Duarte, e aveva vergato le sue memorie mentre era recluso nel Carcere di Badajoz per aver aderito impulsivamente al “troppo male” insegnatogli dalla vita.

Pascual Duarte accusava il destino cieco e maligno di essere responsabile del baratro morale in cui era sprofondato, in parte assolvendosi dai delitti commessi: “Io, signore, non sono cattivo, sebbene non mi manchino le ragioni per esserlo. Tutti i mortali si nasce di una stessa pelle e tuttavia, mentre andiamo crescendo, il destino si compiace di modellarci variamente come se fossimo di cera e ci obbliga per diverse vie alla stessa meta: la morte. Ci sono uomini ai quali si ordina di camminare sulla via dei fiori e uomini a cui s’impone di trascinarsi per la via dei cardi e dei rovi”. Nato cinquantacinque anni prima in un “villaggio caldo e soleggiato, assai ricco di ulivi e di maiali”, Pascal viveva con i genitori e i fratelli, e in seguito con le due mogli, in una casupola sporca e maleodorante: lavorava saltuariamente, andava a caccia, pescava anguille. Abituato dall’infanzia a un’esistenza rozza, priva di affetti e ambizioni, il suo cuore si era indurito sull’esempio di quello dei genitori: la madre ubriacona e manesca, il padre delinquente e violento. Gli episodi dei suoi primi anni di vita (elencati saltando “dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio come una cavalletta inseguita”), vengono raccontati con pacata e fatalistica accettazione, anche quando si manifestano in tutta la loro odiosa brutalità. La nascita inattesa della sorella Rosario, cresciuta ribelle e ladruncola, quella di un fratello menomato, la fine grottesca e crudele del padre, il matrimonio tormentato con la prima moglie Lola, i figli abortiti o morti in culla: tutto concorre a creare il Pascal un senso di frustrazione misto a rancore e rabbia, che tende a sfogare con furia cieca su persone e animali innocenti: “Chissà che non fosse scritto nella divina memoria che la sventura doveva essere il mio unico cammino, la sola traccia lungo la quale dovevano trascorrere i miei tristi giorni!”, “Le più grandi tragedie degli uomini sembrano giungere come all’insaputa, con il loro passo di lupo guardingo, per coglierci con il loro morso subitaneo e preciso come quello dello scorpione”.

Travolto da un crescendo di umiliazioni e di tragedie familiari, Pascal Duarte si arrende al fato avverso, concorrendo volontariamente alla propria rovina: da uomo mite e sfortunato (“un mansueto agnello, atterrito e aizzato dalla vita”, lo aveva definito il cappellano del carcere), si trasforma in rabbioso assassino, cercando nella vendetta una rivalsa sulle ingiustizie e angherie subite. Il contrasto tra le azioni efferate del protagonista e il tono composto, rassegnato, addirittura garbato con cui vengono descritte, costituisce la cifra narrativa più originale nel romanzo.

Camilo José Cela tratteggia la dolente umanità dei suoi personaggi con indulgente e solidale comprensione, come ha giustamente sottolineato la motivazione del premio Nobel attribuitogli nel 1989, lodando la sua “prosa ricca ed intensa, che con la pietà trattenuta forma una visione mutevole della vulnerabilità dell’uomo”.

© Riproduzione riservata                9 ottobre 2020

https://www.sololibri.net/La-famiglia-Pascual-Duarte-Jose-Cela.html