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RECENSIONI

CAVICCHIA

DANIELE CAVICCHIA, LA SIGNORA DELL’ACQUA – ED. PASSIGLI, FIRENZE 2011

Presso l’editore Passigli, il poeta abruzzese Daniele Cavicchia ha pubblicato il volume La signora dell’acqua, che comprende il poemetto omonimo, scandito in sei sezioni, e poesie sparse, composte per lo più nell’arco degli ultimi due anni. «Poemetto sapienziale», lo definisce nella sua dotta e partecipe prefazione il filosofo Sergio Givone, dedicato «all’ elemento più inafferrabile: perché l’acqua è fonte, origine, scaturigine». E trasparenza, aggiungerei, frescura, scorrevolezza: memoria di purezza primigenia, nostalgia di sorgente. Se si dovesse attribuirle una divinità, ecco che essa sarebbe al femminile: appunto «una signora dell’acqua».

Ma questa incantata, affabulatoria composizione in versi non è affatto limpida e leggera; invece appare profonda, a tratti misteriosa, allusiva a realtà nascoste e rivelatrice di arcane verità. Si tratta probabilmente di un omaggio all’eterno femminino, inteso come fascino e grazia, fecondità e ispirazione. Il poeta segue le indicazioni di questa musa e maestra alla ricerca di un suo graal di ricompensa e consolazione, di rivelazione e salvezza. E’ un dialogo, evidenziato anche dai diversi caratteri di stampa (il corsivo che indica il sogno, la visionarietà; il tondo, quando il richiamo al reale e alla razionalità si fa più imperioso) tra due figure femminili – una presente, l’altra solo evocata- e diversi protagonisti maschili: il primo, il secondo e il terzo uomo, forieri di un’inquietudine tormentosa, di una colpa non detta, ma paralizzante. E l’uomo che si divide in tre persone, ha «la cicatrice che gli attraversa il volto», è «l’imputato che tutto ha visto», «piange»», «in ginocchio bussa alla porta del tempio», implora risposte. Ma La signora dell’acqua dice e non dice, indica sempre qualcosa d’altro, appare immersa in un paesaggio perennemente mutante: a volte un bosco, a volte un deserto, o un’abitazione spettrale: «La casa era vuota, le sedie bruciacchiate, / le tende ingiallite, i lampadari vestiti dai ragni». Parla come un oracolo, per enigmi o frasi gnomiche: «Ciò che il silenzio nasconde il silenzio rivela», «Quello che sarà è già stato», «Ciò che siamo, probabilmente saremo, / ma ciò che saremo non saprà chi eravamo», e le sue divinazioni sono consegnate ai messaggeri in rotoli, in pergamene, letti alla luce di candele, in un tempo che è sempre attesa, e insieme confonde passato e futuro, lasciando il presente nella sua ombra.

Daniele Cavicchia in questo poemetto dimostra di avere quasi visceralmente assorbito, oltre a una sua personale e inconsolabile disperazione, una conoscenza approfondita di testi sapienziali antichi, dai presocratici alle Sacre Scritture (il paesaggio desertico, con le tende, le acque salate, i piccoli serpenti, il vento rendono addirittura visivamente il ricordo di pagine dell’Esodo), ma anche la mistica islamica e medievale, per arrivare alle fiabe celtiche e a Yeats. Qui, in questo territorio dell’anima, dove non sussiste certezza e forse salvezza, il poeta cerca una riposta minima, un’eco di parola che, come suggerisce Givone, sia «generatrice di senso»: glielo può far intuire questa figura femminile, incarnazione della poesia e della maternità, promessa di ristoro e di sollievo, polla che disseta nella desolazione dell’aridità, verbo che rompe il silenzio. E’ il segno che solo può dare l’ amata, moglie o madre o figlia tragicamente morta nell’adolescenza, a cui il poeta continua a rivolgersi in versi straziati: «Esiste un grido che è solo grido. / Tu sei quel grido», «Non immagino il colore / del temuto altrove / né il nome che ti identifica / né la tua luce, tra tanta luce; / quando verrò sarò una scarnificata / domanda, l’osso di una preghiera»;

Ma il miracolo può esistere: il dolore sa farsi poesia, una figura cara e scomparsa può essere recuperata nelle parole: «Bussa piano per non interrompere il canto, / sulle labbra brucia o galleggia ancora / la memoria del fuoco o delle onde».

 

«incroci on line», 2 marzo 2016

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CECHOV

ANTON CECHOV, LA LETTURA . KASTANKA – ADELPHI, MILANO 2012

Adelphi propone due racconti di Anton Cechov, La lettura (1884) e Kastanka (1887), tradotti magistralmente da Tommaso Landolfi e da lui pubblicati nell’antologia dei “Narratori russi” edita da Bompiani nel 1948. La prima, “fulminante”, novella narra con asciutta ironia della decisione di un consigliere di stato di imporre agli impiegati del suo ufficio (pigri, ignoranti e privi di qualsivoglia curiosità culturale) la lettura quotidiana di capolavori letterari, nel tentativo ambizioso e velleitario di accrescerne la sensibilità e profondità intellettuale: ottenendone invece il risultato contrario, e facendo sprofondare tutto il personale nella disperazione e nell’apatia. Protagonista del secondo racconto è una bastardina, vivace e affettuosa, che dopo essersi persa seguendo le orme del suo burbero padrone falegname, viene adottata e ammaestrata da un artista circense, che la fa esibire insieme a un gatto e a una papera in esilaranti e complicate acrobazie. Kastanka osserva la varia umanità e gli animali che la circondano con una curiosità e un’emotività quasi umane, abbandonandosi a fantasie, incubi e ricordi indicatori della sua particolare capacità di relazionarsi con il mondo esterno. Durante la sua prima esibizione in un caleidoscopico spettacolo pubblico, riconosce il suo antico padrone, e decide impulsivamente di seguirlo, abbandonando il “lungo sogno, imbrogliato e penoso”, in cui era casualmente piombata. Il volumetto adelphiano è corredato da una appassionata postfazione di Giovanni Maccari, che oltre a situare nel tempo e nel contesto culturale specifico sia l’opera di Cechov sia la traduzione di Landolfi, tenta un parallelo tra le loro due scritture, il loro comune «ideale di purezza artistica… indifferente ai contenuti politici, ideologici o sociali», interessati entrambi soprattutto alla «verità poetica» degli accadimenti reali.

IBS, 30 agosto 2012

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CECHOV

ANTON CECHOV, LA SIGNORA CON IL CAGNOLINO – EINAUDI, TORINO 2001

Il miracolo della prosa di Anton Cechov dura ancora dopo più di un secolo, in questi due magistrali racconti riproposti da Einaudi. La sua scrittura è in grado di mantenere uno stile elegante, pulito, lineare senza ricorrere ad alcuno stratagemma linguistico: non troviamo ricercatezze lessicali, frasi involute o programmaticamente ad effetto, sperimentalismi artificiosi. Solo il piacere della narrazione dei fatti, l’attenzione calibrata ai gesti e alle parole dei protagonisti, la sensibilità particolare con cui sa rendere ogni emozione. Quando racconta che sul lungomare di Jalta il maturo seduttore Gurov rimane colpito vedendo passare “una giovane donna bionda, di statura media, con un berretto, seguita da un volpino bianco”, e decide così di mettere in atto una discreta strategia di avvicinamento, subito da grande scrittore approfondisce l’avvenimento esteriore suggerendo pudicamente questa intuizione psicologica: “Eppure c’è in lei qualcosa che dà pena”. E dopo che i due hanno fatto l’amore: “In lei era rimasta la timidezza di prima, lo stesso impaccio, la stessa goffaggine dovuta alla giovinezza inesperta e un sentimento di inquietudine, come se da un momento all’altro dovessero bussare alla porta”. E se i due amanti si incontrano sulla spiaggia: “Le foglie degli alberi non si muovevano, le cicale frinivano, e il rumore monotono, sordo del mare, che giungeva dal basso, parlava del riposo, del sonno eterno che ci attende. C’era già quel rumore prima che Jalta e Oreanda esistessero, e ci sarà sempre, altrettanto indifferente e sordo, anche quando noi non ci saremo più”. Quella che doveva essere un’avventura stagionale diventa per entrambi la storia della vita: “sembrava loro che la sorte li avesse destinati l’uno all’altra e non capivano perché li aveva fatti sposare con altri; erano come due uccelli migratori, maschio e femmina, catturati insieme e messi in due gabbie separate”.

IBS, 14 maggio 2014

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CECHOV

ANTON CECHOV, UNA SCOMMESSA – ENSEMBLE, MILANO 2017

Uno tra i più famosi racconti di Anton Cechov (che come sempre in questo grandissimo autore mette in luce l’abisso morale che separa saggezza e follia, verità e menzogna, onestà e frode) è stato recentemente riproposto dalle edizioni romane Ensemble. La scommessa è quella pattuita tra un borioso banchiere milionario e un giovane legale, nel corso di una festa in cui tra gli invitati si sviluppa un acceso confronto tra chi è favorevole o contrario alla pena di morte. Il banchiere si pronuncia per la pena capitale, ritenendola meno crudele dell’ergastolo; l’avvocato venticinquenne afferma invece che una detenzione a vita sia comunque preferibile alla morte. Tra i due nasce una sfida che li induce a scommettere temerariamente e in maniera divergente sul loro futuro. Il banchiere promette al giovane due milioni se volontariamente si lascerà rinchiudere per quindici anni in un padiglione sorvegliato nel suo giardino, senza poter mai uscire o ricevere visite, con la sola compagnia di uno strumento musicale e di tutti i libri che vorrà richiedere. L’avvocato accetta la prigionia, più per puntiglio che con la speranza di conquistare una somma mirabolante.

Negli anni legge centinaia di volumi, impara perfettamente sei lingue, approfondisce materie prima trascurate, studiando soprattutto il vangelo e testi di teologia, e comunicando con l’esterno solo attraverso una scarna corrispondenza, ridottasi a nulla col passare del tempo. Il banchiere si tiene informato sulla salute della sua vittima, sicuro che prima o poi debba cedere, implorando la libertà: ma lui stesso arriva a rischiare la propria vita a causa di investimenti sbagliati che lo riducono quasi in miseria. Allo scadere del quindicesimo anno, il milionario caduto in rovina, temendo di dover consegnare al giovane legale gli ultimi due milioni rimastigli, decide di sopprimerlo. Si reca quindi nottetempo nel padiglione e penetra nella cella. Lo trova seduto immobile alla scrivania, pallido, scheletrico, sporco, zitto, davanti a un foglio scritto con grafia minuta. Legge alcune righe che gli paiono farneticanti: «Io disprezzo i vostri libri, disprezzo tutti i beati mondi e la saggezza. Tutto è inconsistente, effimero, diafano e illusorio come un miraggio. Siate pure orgogliosi, saggi e stupendi, ma la morte vi spazzerà dalla faccia della terra allo stesso modo dei topi del sottosuolo, e la vostra progenie, la storia e l’immortalità dei vostri geni geleranno o bruceranno assieme al globo terrestre. Voi avete perso la ragione e non seguite la giusta via. Scambiate la menzogna per la verità e la deformità per la bellezza… Vi stupireste se in seguito a qualche particolare circostanza, sui meli e sugli aranci all’improvviso crescessero rane e lucertole invece che frutti, oppure se le rose emanassero odore di cavalli sudati; così io mi stupisco di voi che avete barattato il cielo con la terra. Io non voglio capirvi. Per dimostrare con i fatti il disprezzo che ho per voi, per quello di cui vivete, rinuncio ai due milioni che un tempo sognavo come si sogna il paradiso e che ora disprezzo. Per privarmi del diritto a essi, uscirò di qui cinque ore prima del termine concordato e in tal modo violerò l’accordo».

Il banchiere, colpito dalle parole lette, in cui intuisce tuttavia una sorta di folle nobiltà, rinuncia all’assassinio progettato e torna nella sua villa, portando con sé la lettera del recluso. Il mattino dopo, cinque ore prima del termine fissato nella scommessa, il giovane esce dalla sua cella, rinunciando al premio concordato, e fa perdere le sue tracce.

 

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https://www.sololibri.net/Una-scommessa-AntoCechov.html            20 febbraio 2018

 

 

 

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CECHOV

ANTON CECHOV, L’UOMO NELL’ASTUCCIO – FALIGI, AOSTA 2016 (ebook)

In questa novella del 1898, quel grande scrutatore di anime e descrittore di vizi e virtù sociali che fu Anton Cechov, narra con più compassione che sarcasmo l’incredibile vicenda di un uomo imbozzolato nelle sue paure e nella sua solitudine, così come viene raccontata da un anziano insegnante di nome Burkin al suo amico Ivan Ivanic dopo una battuta di caccia. I due trascorrono la notte in un fienile, intrattenendosi in varie conversazioni: meditano, tra l’altro, sul motivo che spinge alcune persone a vivere isolate, timorose di frequentare il prossimo, chiuse nel loro guscio «come una lumaca». A Ivanic che ascolta con una certa noia, fumando in silenzio, Burkin descrive con saccente ironia la figura del suo collega Belikov, professore di greco antico: uomo impaurito di tutto, sgomentato dalla realtà, sessuofobo e reazionario. Questo personaggio rattrappito, dal musetto simile a una puzzola, pallido e taciturno, girava anche in estate con parapioggia, soprascarpe, soprabito foderato dal bavero rialzato, occhiali affumicati e cotone nelle orecchie, quasi a volersi difendere da una grave minaccia esterna: chiuso e intabarrato come in un astuccio. Fissato sulle regole da rispettare, temeva qualsiasi minima infrazione o cambiamento, commentando ogni novità con la frase «Purché non succeda poi qualcosa!». Era riuscito, col suo comportamento diffidente e circospetto, a soffocare qualsiasi moto di allegria e slancio vitale sia tra gli allievi sia tra i colleghi, e in tutta la cittadina. Sicché quando improvvisamente si materializzò nella comunità, come un sorprendente miracolo, la vivace sorella di un collega ucraino, Varenka, tanto differente dall’indole e dalle abitudini di lui, la piccola e pettegola società intorno ai due si coalizzò incoraggiando in tutti i modi la loro intimità, nella speranza di indurre L’uomo nell’astuccio a sposare la bella e sensuale giovane donna. Ma proprio quando la vicenda stava per concludersi con un fidanzamento, una impietosa vignetta che li ritraeva denigrando il professore, suscitò la sua reazione furiosa, provocandogli un violento alterco con il futuro cognato. Schernito da Varenka e dall’intera cittadinanza, Belikov si chiuse in casa, si mise a letto e morì dopo un mese. Al suo funerale parteciparono in molti, fingendo compunzione, ma in realtà sentendo una sorta di sollievo. «Seppellire persone come Belikov fa piacere», commenta sarcastico il suo collega Burkin. Il cadavere «dentro la bara aveva un’espressione dolce, gradevole, quasi lieta, come se fosse contento di essere finalmente stato messo dentro un astuccio da cui non sarebbe più uscito. Aveva raggiunto il suo ideale». Ma, suggerisce Cechov attraverso le parole conclusive di Ivan Ivanic, non siamo tutti noi rinchiusi in un astuccio di finzioni, futilità, pregiudizi e timori?

 

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https://www.sololibri.net/L-uomo-nell-astuccio-Anton-Cechov.html           22 febbraio 2018

 

 

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CECHOV

ANTON ČECHOV, IL MONACO NERO – ZOOM FELTRINELLI, MILANO 2015

“Il professor Andrej Vasilij Kovrin era sovraffaticato e aveva un esaurimento nervoso”. Così inizia il superbo racconto di Anton Čechov, con una frase lapidaria che in poche parole racchiude il destino del personaggio: uno studioso di filosofia stanco ed esaurito, facile preda, quindi, di morbose fantasie ed allucinazioni. Kovrin dunque, depresso e indebolito, seguendo il consiglio del suo medico si trasferisce in campagna per l’estate, presso una cara famiglia che frequentava già dall’infanzia, i Pasockij, proprietari di molta terra, di una grande villa e di un giardino lussurioso. Un giardino ricco di ogni specie di coloratissimi fiori e alberi, vivacemente animato dalla presenza di animali e contadini, che lasciava sempre in chi vi passeggiava un’impressione di serenità e gioia di vivere. Nella casa vivevano un vecchio e irascibile signore, Egor Semënyj, e sua figlia Tanja, “debole, loquace esserino”, che Kovrin ricordava bambina, ed ora ritrova adulta e incantevole. “Il meraviglioso presente e l’impressione del passato che si ridestava in lui si fondevano; e l’anima si sentiva troppo colma, ma felice”.

Un pomeriggio, ritrovandosi solo con Tanja, il professore le narra la leggenda di un monaco nero che mille anni fa, vagando solitario in un deserto orientale, si rendeva contemporaneamente visibile – come un miraggio – in diversi altri punti del globo e del cielo. “Lo vedevano ora in Africa, ora in Spagna, ora in India, ora nell’estremo Nord… Finalmente uscì dai confini dell’atmosfera terrestre, e ora vaga per tutto l’universo senza mai incontrare le condizioni che potrebbero farlo svanire”. Secondo una sinistra profezia, il monaco, essendo trascorso esattamente un millennio da allora, sarebbe tornato tra poco a rendersi manifesto agli uomini. Vedendo Tanja turbata dal racconto, Kovrin si allontana verso il fiume, percorrendo un sentiero tra i campi, quando viene investito da una turbine di vento che presto si trasforma in un’alta colonna, rivelando le sembianze di un monaco vestito di nero, dal volto pallido e magro, con le mani incrociate sul petto, che gli rivolge un sorriso sinistro per poi allontanarsi tra le nubi. Colpito ma non impressionato dalla visione, il professore torna nella sua stanza e alla vita quotidiana con i suoi amici, padre e figlia Pasockij, affiatati ma perpetuamente in tensione tra di loro, e decide di dichiarare il suo amore a Tanja. Tuttavia, il giorno dopo, il monaco nero gli si ripresenta, sedendosi a fianco sulla stessa panchina, e gli comunica un messaggio ultraterreno, con l’apparenza di un’investitura: “Sei uno dei pochi che a ragione si chiamano eletti di Dio. Tu servi la verità eterna. I tuoi pensieri, i tuoi propositi, la tua straordinaria cultura e tutta la tua vita recano su di sé un’impronta divina, celeste, poiché sono consacrati al razionale e al sublime, cioè a ciò che è eterno.”

A questo punto Krovin, considerandosi servitore di un principio superiore, un predestinato che avrebbe reso l’umanità migliore, si sente esaltato nel suo amor proprio, orgoglioso di sé e delle ricerche che torna ad affrontare con rinnovata passione, intensificando nel contempo gli incontri e le discussioni col fantasma del monaco, da cui trae incoraggiamento e beneficio. Dopo le nozze, i suoi deliri e le allucinazioni si intensificano, e i parenti decidono di farlo curare psichicamente. Una volta guarito, tuttavia, il professore si rende conto di aver perso slancio e gioia di vivere, e ogni entusiasmo per gli studi, essendo rientrato nel “gregge dei mediocri”. Čechov accompagna il protagonista in questo ritorno alla normalità con la descrizione del lento appassirsi della natura circostante, e con l’intristita consunzione dei rapporti familiari. “Come furono fortunati Buddha e Maometto o Shakespeare che i buoni parenti e i medici non li avessero curati dall’estasi e dall’ispirazione!”.

L’eccitazione della mente malata di Krovin, la sciocca ansia di primeggiare, l’applicazione smodata allo studio per raggiungere ruoli accademici di prestigio, lo porteranno a scelte distruttive per sé e per la sua famiglia, che il grande autore russo mette in rilievo con malinconica amarezza.

 

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https://www.sololibri.net/Il-monaco-nero-cechov.html                     10 ottobre 2018

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CELA

CAMILO JOSÉ CELA, LA FAMIGLIA DI PASCUAL DUARTE – UTOPIA, MILANO 2020

Camilo José Cela nacque in Galizia nel 1916, morì a Madrid nel 2002.  Aveva combattuto nella Guerra civile spagnola a fianco dei nazionalisti, e una volta tornato alla vita civile si era dedicato al giornalismo e a diversi lavori impiegatizi. Membro dell’Accademia Reale Spagnola, entrò nel Guinness dei primati per la quantità di onorificenze ricevute. Nella sua carriera letteraria, Cela sperimentò diversi stili di scrittura, aderendo a differenti correnti letterarie (dall’esistenzialismo all’espressionismo, dal realismo al surrealismo fantastico), sempre all’insegna di una coraggiosa ricerca sperimentale, in grado di affrontare le tematiche più complesse: superstizione, magia, erotismo, malattie mentali, rivendicazioni sociali, povertà, fanatismo religioso.

Nel 1942 il suo romanzo La famiglia di Pascal Duarte conobbe un notevole successo di pubblico, meritando anche una considerevole attenzione da parte della critica. Oggi viene riproposto dalla giovane casa editrice milanese Utopia, nella traduzione di Salvatore Battaglia, con una realizzazione grafica raffinata e accattivante.

La narrazione è preceduta da una “Nota”, in cui un anonimo trascrittore afferma di aver trovato un fascicolo di fogli scomposti abbandonato in una farmacia di Almendralejo, e di essersi limitato a ricomporne e poi a copiarne le pagine squadernate, censurando i particolari più crudi. L’autore del diario e protagonista del racconto (assunto a esempio da non seguire) si firmava col nome di Pascal Duarte, e aveva vergato le sue memorie mentre era recluso nel Carcere di Badajoz per aver aderito impulsivamente al “troppo male” insegnatogli dalla vita.

Pascual Duarte accusava il destino cieco e maligno di essere responsabile del baratro morale in cui era sprofondato, in parte assolvendosi dai delitti commessi: “Io, signore, non sono cattivo, sebbene non mi manchino le ragioni per esserlo. Tutti i mortali si nasce di una stessa pelle e tuttavia, mentre andiamo crescendo, il destino si compiace di modellarci variamente come se fossimo di cera e ci obbliga per diverse vie alla stessa meta: la morte. Ci sono uomini ai quali si ordina di camminare sulla via dei fiori e uomini a cui s’impone di trascinarsi per la via dei cardi e dei rovi”. Nato cinquantacinque anni prima in un “villaggio caldo e soleggiato, assai ricco di ulivi e di maiali”, Pascal viveva con i genitori e i fratelli, e in seguito con le due mogli, in una casupola sporca e maleodorante: lavorava saltuariamente, andava a caccia, pescava anguille. Abituato dall’infanzia a un’esistenza rozza, priva di affetti e ambizioni, il suo cuore si era indurito sull’esempio di quello dei genitori: la madre ubriacona e manesca, il padre delinquente e violento. Gli episodi dei suoi primi anni di vita (elencati saltando “dall’inizio alla fine e dalla fine all’inizio come una cavalletta inseguita”), vengono raccontati con pacata e fatalistica accettazione, anche quando si manifestano in tutta la loro odiosa brutalità. La nascita inattesa della sorella Rosario, cresciuta ribelle e ladruncola, quella di un fratello menomato, la fine grottesca e crudele del padre, il matrimonio tormentato con la prima moglie Lola, i figli abortiti o morti in culla: tutto concorre a creare il Pascal un senso di frustrazione misto a rancore e rabbia, che tende a sfogare con furia cieca su persone e animali innocenti: “Chissà che non fosse scritto nella divina memoria che la sventura doveva essere il mio unico cammino, la sola traccia lungo la quale dovevano trascorrere i miei tristi giorni!”, “Le più grandi tragedie degli uomini sembrano giungere come all’insaputa, con il loro passo di lupo guardingo, per coglierci con il loro morso subitaneo e preciso come quello dello scorpione”.

Travolto da un crescendo di umiliazioni e di tragedie familiari, Pascal Duarte si arrende al fato avverso, concorrendo volontariamente alla propria rovina: da uomo mite e sfortunato (“un mansueto agnello, atterrito e aizzato dalla vita”, lo aveva definito il cappellano del carcere), si trasforma in rabbioso assassino, cercando nella vendetta una rivalsa sulle ingiustizie e angherie subite. Il contrasto tra le azioni efferate del protagonista e il tono composto, rassegnato, addirittura garbato con cui vengono descritte, costituisce la cifra narrativa più originale nel romanzo.

Camilo José Cela tratteggia la dolente umanità dei suoi personaggi con indulgente e solidale comprensione, come ha giustamente sottolineato la motivazione del premio Nobel attribuitogli nel 1989, lodando la sua “prosa ricca ed intensa, che con la pietà trattenuta forma una visione mutevole della vulnerabilità dell’uomo”.

© Riproduzione riservata                9 ottobre 2020

https://www.sololibri.net/La-famiglia-Pascual-Duarte-Jose-Cela.html

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CELAN

PAUL CELAN, LA SABBIA DELLE URNE – EINAUDI, TORINO 2016

L’editore Suhrkamp riuscì a pubblicare solamente nel 2003 la raccolta Der Sand aus der Urnen con cui Paul Celan, nato nel 1920 a Czernowitz in Bucovina (allora territorio annesso alla Romania), aveva esordito come poeta in lingua tedesca. Il volume, ora proposto per la prima volta in Italia da Einaudi con una superba traduzione di Dario Borso, ebbe vita travagliata. Raccoglie versi scritti tra il 1941 e il 1948 lungo le «vie traverse» che Celan si trovò a percorrere nella sua difficile esistenza: dalla città natale ai due lager in cui fu rinchiuso (Tăbărăşti e Fälticeni), poi a Bucarest, a Vienna e infine a Parigi, dove si era trasferito nel 1947, e dove si suicidò nel 1970. Oggi ci viene presentato suddiviso in tre sezioni – Alle porte, Papavero e memoria, Fuga di morte -, e con una ricca appendice di testi espunti dalla prima edizione del 1948. Ma inizialmente, e nelle intenzioni dell’autore, consisteva di 48 poesie pubblicate in 500 copie numerate dall’editore viennese Sexl, mai distribuite perché contenenti troppi refusi. La raccolta fu in seguito rimaneggiata, cambiò titolo, e rifluì in diversi lavori successivi.

Lo stile di questi versi giovanili è meno frammentato e spigoloso di quello più tardo e tipicamente celaniano, riflette atmosfere non così ossessive e angoscianti, e risente nella sonorità di qualche eco rilkiana. Soprattutto nella prima parte ci troviamo di fronte a diciassette composizioni bucovine, scritte tra il 1941 e il 1943, che esprimono nel loro tono sospeso, quasi favolistico, il miraggio di un oltre da raggiungere, superando il dato fisico e concreto di qualsiasi violenza imposta dalla storia o dalla natura. Silenzio, fragilità, sogno, lontananza, ombra, vaghezza sembrano volersi opporre alla compattezza impenetrabile del reale. I corpi sono descritti attraverso particolari secondari (sopracciglia, guance, spalle; da memorizzare un verso splendido: «a me la spalla rimase sola, perché portò». Il peso che isola, il dolore che opprime…). L’ambiente è prevalentemente boschivo, con alberi che si animano interagendo con la fantasia del poeta, definiti con precisione botanica mista a stupore religioso. Il clima è umido, piovoso o nevoso sempre, ma avvolgente, materno: «Ti manca il cielo col migrare degli uccelli? / Fa’ che la pietra sia la nube, io la gru».

La seconda sezione, più surreale ed estraniante già dal titolo, Papavero e memoria, è la più corposa, e comprende versi scritti tra il 1944 e il 1948 in Romania, a Vienna e a Parigi. I colori si fanno più cupi, il freddo più intenso, prevalgono le notti e le nubi oscurano il cielo in molte poesie (Wolken, Regenwolken, Gewölk, Wolkenwagen). Nel buio lampeggiano lame, coltelli, pugnali, spade; gli occhi dei viventi sono sbarrati, minacciosi o testimoni impauriti in un crescendo di ansioso smarrimento: «Sottratti all’estate sono i cuori: / la frutta, che ti si maturò al crepuscolo, issata / alle torri dentate / dell’aria. Sopra merli di cenere. / Nel grembo lupesco del dio». Qui la scrittura preannuncia la cifra stilistica più tipica di Celan, la sua visionarietà angosciosa, l’annaspo balbettante della parola. Il testo finale, Todesfuge, con il lapidario ossimoro iniziale (Schwarze milch), costituisce forse la più famosa poesia di Celan, implacabile e inorridita denuncia dell’orrore dei lager.

La selezione scrupolosa delle poesie presenti nell’Appendice e le curatissime note che riportano data di composizione e varianti di ogni testo, documentano l’attenzione con cui il volume è stato allestito. Infine, la traduzione di Dario Borso sa rendere egregiamente il ritmo franto dei versi e la loro densità lessicale, anche nell’intensa singolarità dei neologismi e dei vocaboli desueti proposti (imbluisce, avviticchi, abbuia, verdefoglia, imbrunenti, falbi, chiarostellare, colchico, ingialla, eufrasia, almanacca, aquilegie, mezereo, ambrette, gittagi…).

«Poesia» n. 317, luglio 2016

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CELAN

PAUL CELAN, L’ANTOLOGIA ITALIANA – NOTTETEMPO, MILANO 2020

Con introduzione e cura di Dario Borso, Nottetempo ha pubblicato L’antologia italiana, proponendo ai lettori quarantotto composizioni di Paul Celan, secondo un ordine indicato dallo stesso autore più di sessant’anni fa. Celan, nato da famiglia ebrea nel 1920 a Czernowitz in Bucovina (allora territorio annesso alla Romania, oggi parte dell’Ucraina), ebbe un’esistenza tormentata da persecuzioni, esili e malattie psichiche: rinchiuso nei due campi di lavoro di Tăbărăşti e Fälticeni, dopo aver perso i genitori catturati dai nazisti, si trasferì prima a Bucarest, poi a Vienna e infine a Parigi, dove morì nel 1970 gettandosi nella Senna.

Poeta celebrato per la profondità concettuale e la densità lessicale dei versi, contestato per l’oscuro e respingente ermetismo stilistico, poco frequentato per l’ombrosità del carattere, progettò in totale autonomia un’unica scelta antologica della sua produzione, ed è appunto la silloge da lui suggerita che oggi viene pubblicata nella traduzione di Borso.

Fu nell’aprile del 1964 che Celan, giunto a Milano per una conferenza al Goethe Institut (rivelatasi quanto mai ostica per il pubblico presente), incontrò poi Vittorio Sereni, direttore letterario della Mondadori, per concordare la pubblicazione di un volume nella collana de Lo Specchio. La casa editrice aveva contattato Celan nel 1961, dopo il conferimento del prestigioso premio Büchner, ma da subito la trattativa si era arenata sulla scelta del traduttore. Scartati Marianello Marianelli e Giuseppe Bevilacqua, nella primavera del 1963 Sereni aveva indicato il nome di Ferruccio Masini. Anche l’opzione di quest’ultimo si rivelò inadeguata per vistose divergenze interpretative, e quindi l’iniziativa mondadoriana venne abbandonata, per essere recuperata solo sei anni dopo la morte di Celan, senza tenere più conto delle sue indicazioni.

Dario Borso ricostruisce fatti e antefatti che accompagnarono l’impegno editoriale del poeta in Italia, attraverso le testimonianze di chi lo aveva incontrato in quell’occasione: il direttore del Goethe Institut, Vittorio Sereni e Ida Porena, che l’aveva accompagnato in una visita alla necropoli di Cerveteri, per lui rivelatasi motivo di grande turbamento. Una coinvolgente relazione amorosa con un’attrice svedese, gli incontri con intellettuali del calibro di Jean Starobinski e Heinrich Böll, l’accusa di plagio rivoltagli dalla vedova di un amico scrittore, le devastanti cure psichiatriche e i ricoveri in clinica, avevano contribuito a minare il già precario equilibrio mentale del poeta, inducendolo alla tragica scelta finale.

Nel volume edito da Nottetempo possiamo ritrovare i titoli più noti (Der Sand aus den Urnen, Corona, Todesfuge, Nachts, Psalm, Mandorla, Anabasis, In der Luft), tratti da quattro raccolte uscite tra il 1952 e il 1963 (Papavero e memoria, Di soglia in soglia, Grata di parole, La rosa di nessuno).

Sono versi connotati da un’angosciosa visionarietà, espressa in ritmi franti e concitati, con tonalità cupe e risentite, rese più accese dalla memoria inorridita dello sterminio nazista: “Latte nero dell’alba lo beviamo di sera / lo beviamo a mezzodì e al mattino lo beviamo di notte / beviamo e beviamo / scaviamo una fossa nell’aria lì non si sta stretti… // … Grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco / grida archeggiate più scuri i violini così salirete come fumo nell’aria / così avrete una tomba tra le nuvole lì non si sta stretti”, “Scavavano e scavavano, così trascorreva / il loro giorno, la loro notte. E non lodavano Dio / che, così udirono, voleva tutto ciò, / che, così udirono, sapeva tutto ciò”.

Il presagio della morte aleggia in ogni poesia, e pervade qualsiasi aspetto dell’esistenza, scandita dall’implacabilità del tempo che passa: “È tempo che la pietra si decida a fiorire, / che all’inquietudine batta un cuore. / È tempo che sia tempo. // È tempo”, “Venne, venne. / Venne una parola, venne, / venne attraverso la notte, / voleva far luce, voleva far luce. // Cenere. / Cenere, cenere. / Notte. / Notte-e-notte”.

Nemmeno tra creature simili, sottoposte alla stessa violenza, si instaurano sentimenti di fiducia, solidarietà, amicizia: “Stanno divisi nel mondo, / ciascuno con la sua notte, / ciascuno con la sua morte, / scontrosi, a testa nuda, / brinati / di prossimità e distanza”, “Ci sarà un ciglio, / volto in dentro nella roccia, / temprato di non-pianto, / il più fine degli aghi. // Davanti a voi compie l’opera / come se, essendoci pietra, ancora esistessero fratelli”.

Anche le donne amate, la moglie Gisèle, assumono sembianze minacciose, mentre intorno a loro si muovono allucinate visioni di coltelli, tombe, nubi, lampi, polvere e sabbia: “Ti batte il tamburo di muschio e di amaro vello pubico; / con alluce purulento dipinge nella sabbia il tuo sopracciglio. / Più lungo lo traccia di quant’era, e il rosso del tuo labbro”, “Io come un vento notturno sostavo nel grembo venale di tua sorella; / i tuoi capelli pendevano sopra noi dall’albero, però non eri lì”.

La natura incombe ostile, rispecchiando indifferente la crudeltà del mondo; cielo terra mare non offrono riparo, e anzi si oppongono a qualsiasi richiesta di consolazione: “Secco, insabbiato il letto alle tue spalle, ricoperta di giunchi / la sua ora, sopra, / accanto all’astro, i lattei / meandri parlottano nel limo, dattero di mare, / sotto, algoso, si apre all’azzurro, un arbusto / di caducità, bello, / saluta la tua memoria”, “Il tavolo ondeggia su e giù per le ore, / il vento riempie i calici, / il mare rotola il cibo fin qui: / l’occhio errante, l’orecchio in tempesta, / il pesce e il serpe”, “Una ruota, lenta, / gira da sé, i raggi / rampicano / rampicano su campo nerastro, la notte / non abbisogna di stelle, in nessun luogo / si chiede di te”.

E infine Dio stesso è risucchiato nel vuoto della negazione e del rifiuto: “Ci gettò la tua immagine negli occhi, Signore. / Occhi e bocca stan così aperti e vuoti, Signore. / Abbiamo bevuto, Signore. / Il sangue e l’immagine ch’era nel sangue, Signore. // Prega, Signore. / Siamo vicini”, “Nessuno ci plasma più da terra e argilla, / nessuno scongiura la nostra polvere. / Nessuno. // Lodato tu sia, Nessuno. Per te noi vogliamo / fiorire. / Verso / te. // Un niente / eravamo, siamo, / resteremo, fiorendo: / la rosa di niente, / di Nessuno”.

Poeta del grido strozzato, della mano che annaspa, della fuga nel buio, Paul Celan ha saputo esprimere lo smarrimento di chi pone testardamente la stessa domanda sul perché del male, pur sapendo di non poter ricevere risposta.

 

© Riproduzione riservata     «Gli Stati Generali», 17 novembre 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

CELAN-SACHS

PAUL CELAN, NELLY SACHS, CORRISPONDENZA – GIUNTINA, FIRENZE 2018

Trent’anni di differenza dividevano i due poeti ebrei Nelly Sachs (1891-1970) e Paul Celan (1920-1970), accomunati però da un’uguale tragica sofferenza patita durante le persecuzioni naziste, nell’esilio e nella malattia mentale. L’editrice Giuntina pubblica ora per la prima volta integralmente, (con illustrazioni, un ricco apparato di note e un puntuale confronto biografico), la loro corrispondenza, così come è andata svolgendosi tra il 1954 e il 1969.

Nelly Sachs, premio Nobel per la letteratura nel 1968, si era rifugiata con la madre a Stoccolma, scampando così fortunosamente dal trasferimento in un lager. Nella città svedese aveva trovato una certa solidarietà intellettuale, riuscendo a pubblicare alcuni volumi di versi: la notorietà non l’aveva tuttavia messa al riparo da frequenti crisi psichiche e dagli internamenti in diverse cliniche. Celan, abbandonata la Romania, aveva trovato ospitalità nella capitale francese: “Tra Parigi e Stoccolma passa il meridiano del dolore e della consolazione”, scriveva in un messaggio Nelly, sottolineando con forza il legame affettivo, di reciproca confidenza, ammirazione e sostegno, nato tra i due poeti. Che risulta evidente già dalle intestazioni delle lettere: “Caro poeta, caro essere umano… Caro amico… Caro fratello… Caro poeta dalle profondità meravigliose… Poeta benedetto… Paul caro… Caro Paul Celan, benedetto da Bach e da Hölderlin… Mia amata famiglia…”, esordiva Nelly. “Gentile, stimatissima signora… Cara, sinceramente ammirata… Mia cara, mia buona Nelly!… Cara, buona, felice Nelly…”, le faceva eco Paul.

I due si scambiavano poesie, giudizi critici, incoraggiamenti, confidandosi speranze, paure e delusioni. L’incubo della guerra e della Shoah era ancora per entrambi vivissimo e straziante, così come il timore per l’antisemitismo sempre manifesto e minaccioso: “Questo spettrale e muto non-ancora, questo ancor più spettrale, più muto, non-più, e di-nuovo, e nel frattempo l’imprevedibile, già domani, già oggi… O mondo / Noi ti accusiamo!… Sento che il demone che ti funesta – che funesta anche me… La rete oscura…”, denunciava Celan. “Ma quante morti dobbiamo morire, finché non viene quella giusta… Io sono fuori, inginocchiata sulla soglia, carica di lacrime e di polvere… Ogni giorno la perfidia entra nella mia casa, ogni giorno, mi creda. Cos’altro dovremo affrontare, noi ebrei?… Spero di superare tutta la sofferenza che ancora mi aspetta, oppure di trovare una quieta morte liberatrice, desidero tanto raggiungere i miei cari defunti… questo mio periodo buio… nella mia disperazione, nel pieno di quel viaggio agli inferi…”, rispondeva Nelly Sachs, sprofondando lentamente nell’abisso psicotico.

Eppure, pur nella comune disperazione e nel delirio persecutorio, tutti e due riuscivano ad aggrapparsi alla certezza salvifica e consolatoria della parola poetica, al “segreto che sommessamente si dischiude… un mezzo per salvare il respiro dal soffocamento… Vive in me con ogni mio respiro la fede in un’attività cui siamo stati chiamati: impregnare di dolore la polvere, darle un’anima… Sento l’energia della luce che fa scaturire la musica dalle pietre… Questi sono i raggi invisibili che ci sostengono…” (Nelly); “C’è chi cerca il tuo sguardo – mandalo, quello sguardo, mandalo ancora all’aperto, consegnagli le tue parole vere, le tue parole liberatrici, affidati a lui, affida a noi, tuoi compagni di vita, della tua vita, questo sguardo, fai in modo che noi, già liberi, diventiamo i più liberi in assoluto, facci stare ritti, con te, nella luce!” (Paul).

I due poeti arrivarono finalmente ad incontrarsi, nel 1960, prima a Zurigo e poi a Parigi, parlando “del troppo, del troppo poco… della luce che offusca, di cose ebraiche, di Dio”. Sopravvissero in qualche modo a se stessi e al dolore per un ulteriore decennio. La morte li colse lontani, lui nella Senna a Parigi, lei in un letto di ospedale a Stoccolma, nel 1970. L’ultimo biglietto di Paul Celan augurava: “Tante cose liete, cara Nelly, tanta luce!”

 

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https://www.sololibri.net/Corrispondenza-Celan-Sachs.html         2 luglio 2018