Mostra: 321 - 330 of 1.318 RISULTATI
RECENSIONI

CHESTERTON

GILBERT K. CHESTERTON, L’UOMO CHE FU GIOVEDÌ– BOMPIANI, MILANO 2007/2012

Se non il migliore e il più famoso, L’uomo che fu Giovedì rimane il più paradossale e il più politicamente provocatorio romanzo di Gilbert K. Chesterton. Pubblicato in Inghilterra nel 1908, da allora ha conosciuto molte riedizioni anche in Italia. Quella di Bompiani di cui ci occupiamo è introdotta da una scoppiettante e ammirata prefazione di Enrico Ghezzi, che non nasconde il suo entusiasmo per l’autore, per la sua «indifferenza geniale alla dimensione temporale», per il suo «antipsicologismo» in grado di affrontare giocosamente, con leggerezza priva di mistero, temi filosofici e teologici di alto spessore.

Gilbert Keith Chesterton (18741936), fu scrittore prolifico e versatile. Scrisse centinaia di poesie, un poema epico, drammi, romanzi e circa duecento racconti (tra cui la popolare serie di padre Brown, interpretata da Renato Rascel in una fortunata riduzione televisiva degli anni ’70); fu autore inoltre di più di quattromila saggi giornalistici, vertenti su temi di politica, religione ed economia. Convertitosi al cattolicesimo nel 1922, divenne un vessillo della letteratura cristiana europea, al punto da rischiare la canonizzazione sotto il pontificato di Benedetto XVI: troppo ironico e anticonformista, tuttavia, troppo poco devoto per diventare santo.

L’uomo che fu Giovedì si apre su una istrionesca disputa tra due sedicenti poeti nel sobborgo londinese di Saffron Park: da una parte il sanguigno e irsuto Luciano Gregory, rosso di pelo e di fede politica, convinto che la poesia e il mondo debbano vivere nell’anarchia e nella disubbidienza a qualsiasi regola. Dall’altra l’efebico Gabriele Syme, sostenitore dell’ordine, della rispettabilità e della compitezza. I due rappresentano ideologie agli antipodi, nell’arte e nel pensiero: caos e rigore, bene e male, divino e inferi, così come vanno fronteggiandosi dalla nascita della civiltà. Gregory convince Syme a partecipare a una riunione, tenuta nel segreto di un bunker sotterraneo, del Consiglio Centrale Anarchico. In tale occasione, i sette membri che per sicurezza hanno assunto ciascuno il nome di un giorno della settimana, dovranno sostituire il socio Giovedì, venuto improvvisamente a mancare. Sotto la direzione del gigantesco, pantagruelico e ambiguo Presidente, chiamato Domenica, la scelta della misteriosa setta cade proprio sul poeta rigoroso, Gabriele Syme, che in realtà non è ciò che dichiara di essere, bensì un agente di Scotland Yard, operante sotto copertura per difendere la società britannica e l’universo intero dalla minaccia sovversiva del terrorismo anarchico. Da questa inaspettata rivelazione, nasce una serie di incredibili metamorfosi dei personaggi, di inseguimenti e sparizioni, finti attentati e veri travestimenti, fughe e duelli, sommosse popolari e severe repressioni militari, attraverso cui il lettore lentamente scopre che i ruoli di tutti i personaggi si mascherano e smascherano via via nel loro opposto: ogni rivoluzionario è in realtà un reazionario, ogni terrorista un poliziotto, caricature indecifrabili e bugiarde che scherniscono il potere nel momento in cui lo rappresentano.

Se il finale del romanzo rivela tutta la sua assurda e derisoria beffa onirica, è nella dichiarazione centrale di un ispettore di Scotland Yard che G.K.Chesterton riassume tutto il suo sarcastico credo: il pericolo per l’umanità non è rappresentato dai piccoli delinquenti (i ladri, i bigami, i bombaroli, gli assassini passionali), ma dagli intellettuali, dai filosofi eretici, dai liberi pensatori che con il loro nichilismo minano le basi della società: «È sicuro che il mondo scientifico e artistico siano silenziosamente associati in una crociata contro la famiglia e lo Stato… Noi abbiamo da rintracciare l’origine di quegli spaventosi pensieri che spingono gli uomini da ultimo al fanatismo intellettuale e al delitto cerebrale… Noi diciamo che i delinquenti pericolosi sono quelli istruiti, che il più pericoloso criminale è il moderno filosofo senza legge alcuna». Quanto indigeribile era allora, all’inizio del ’900, il pensiero critico e fuori dagli schemi! Per fortuna oggi le cose sono cambiate. Ma questo romanzo che oscilla tra il picaresco e il fantasy, tra il noir e il fantascientifico, tra la commedia e il poliziesco, ci insegna a sorridere di ogni fasullo fideismo, conservando per quanto possibile la fede in ciò che rimane semplicemente umano.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/L-uomo-che-fu-giovedi-Chesterton.html      8 aprile 2018

RECENSIONI

CHIALA’

SABINO CHIALA’, SILENZI. OMBRE E LUCI DEL TACERE – QIQAJON, MAGNANO 2013

Sabino Chialà, monaco e studioso di spiritualità orientale nel Monastero di Bose, con questo volume ambisce a farci riflettere sul tema rilevante, e poco affrontato dalla cultura contemporanea, del silenzio. Anzi, sui vari tipi di silenzio, al plurale.«Il silenzio è una realtà ambigua, ma irrinunciabile». Tacere infatti può esprimere molte cose opposte: mutismo o comunicazione, disprezzo dell’altro o compassione, autoillusione o umiliazione, esperienza di angoscia o di pacificazione. Il silenzio può essere anche veicolo di ostilità e di odio, può indicare un giudizio umiliante sugli altri, un luogo in cui coltivare inimicizia. E Chialà scrive parole molto dure su alcuni pesantissimi silenzi «dell’uomo religioso, e più specificamente del monaco»; così come riporta passi elogiativi dei Padri del deserto che esaltano «il vero silenzio che sarà il maturare dell’amore per l’altro…nella compassione per ogni creatura». Obbiettivo del vero silenzio «è quello di trovarvi un luogo di pace…del disarmarsi, del cedere…». Ovviamente, molto spazio nel libro viene dato al silenzio nella vita cristiana, come strumento di lotta contro la superficialità e la distrazione, come forma di preghiera e discernimento, come spazio offerto alla Parola di Dio. Ma anche si indaga sul silenzio per eccellenza, quello che è l’unica risposta al male: praticato da Cristo, o da un Dio che si nasconde e deve rimanere nascosto. L’invito pressante è a incamminarsi verso un tacere che sia ascesi, interiorizzazione, combattimento verso un parlare vano. Ne dovremmo fare tesoro tutti, anche i troppi religiosi che invadono rumorosamente i nostri media, più per vanità personale che per desiderio di evangelizzazione. «Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio» (Mt.12,36).

 

«Accademia del Silenzio», 16 gennaio 2014

RECENSIONI

CHINNICI

CATERINA CHINNICI, É COSI’ LIEVE IL TUO BACIO SULLA FRONTE – MONDADORI, MILANO 2015

Caterina Chinnici, attualmente parlamentare europeo, è entrata in magistratura giovanissima sulle orme del padre Rocco, giudice “siciliano autentico”, ideatore del primo “pool antimafia” e ucciso in un attentato nel luglio del 1983. Ha pubblicato nel 2013 questo affettuoso omaggio alla vita e all’eroismo paterno, che adesso Mondadori ripropone in edizione economica. Ne scaturisce l’immagine pubblica e privata di un uomo coraggioso e forte nella sua attività di magistrato, attivissimo nella partecipazione alla vita sociale e culturale palermitana, ma anche teneramente attento e presente nei rapporti con la moglie e i tre figli.
Il ricordo di Caterina, la maggiore, è ancora vivissimo nella descrizione delle laboriose giornate del padre, del suo risveglio mattiniero e del caffè che preparava per tutta la famiglia, dell’abitudine di baciarla sulla fronte prima di recarsi al lavoro, usando sempre la precauzione di uscire di casa da solo, per proteggere i suoi cari.
Così ricostruisce la tragica mattina di quel 29 luglio: «…il suo ultimo ‘Buongiorno’, i passi sul solito percorso studio-cucina-ingresso, la porta di casa chiudersi, la 126 verde imbottita di tritolo esplodere, i vetri di ogni finestra nel giro di 400 metri saltare in aria, l’albero davanti a casa polverizzarsi, le lamiere volare e poi ricadere a terra pesanti».

Chi era Rocco Chinnici? Nato nel 1925 nella campagna palermitana, figlio di un piccolo proprietario terriero, aveva studiato giurisprudenza, ottenendo il primo incarico come pretore nel trapanese: «…metteva la persona al centro…era attento ai bisogni degli individui, li rispettava chiunque fossero…».
Aveva sposato Agata, un’insegnante di scienze: di quegli anni lontani, Caterina scrive: «abbiamo avuto un’infanzia spudoratamente felice», e ripercorrendo trasferimenti e promozioni del padre, l’impegno civile e la sua dedizione allo stato, ne tratteggia un ritratto ammirato e nostalgico, commosso e grato.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/E-cosi-lieve-il-tuo-bacio-sulla.html

29 dicembre 2015

RECENSIONI

CHIUSANO

ITALO ALIGHIERO CHIUSANO, KONRADIN – SAN PAOLO, MILANO 2013

Questa biografia di Corradino di Svevia scritta da Italo Alighiero Chiusano ha l’ampio respiro di un’opera di invenzione e di poesia, pur nella sua fedeltà ai dati storici. Le pagine iniziali di Konradin (San Paolo Edizioni, 2013) si aprono su un ragazzo quattordicenne che vive, cresce, soffre nell’attesa di chissà quale nebuloso e sconvolgente avvenimento futuro: lontano dalla madre, che si è risposata e vive a Milano, Konrad è affidato alla sorveglianza dei due zii materni, Ludovico (violento e ottuso) ed Enrico (subdolo e vile), in un tetro castello della Baviera.
Corradino è l’ultimo erede della stirpe sveva: figlio di Corrado IV, nipote di quel Manfredi «biondo e bello» di cui scrisse Dante, viene educato nel mito della sua antica casata, con il miraggio che sappia meritatamente riportarla ai fasti trascorsi. Va quindi a caccia, compie esercizi ginnici, gioca a scacchi, studia le lingue classiche, presiede diete di principi: è un apprendista imperatore. Ha in effetti i capelli biondi e gli occhi azzurri degli avi, mani lunghe ed energiche «da futuro re», ma è anche un giovane appena sbocciato all’adolescenza, con i turbamenti propri di chi teme l’abbandono dell’infanzia.
Patisce la lontananza dalla madre, cui scrive lettere rancorose e appassionate, lasciando che l’amore spesso si tramuti in odio e sadico livore. Ama la pelle grinzosa della vecchia nutrice Marfrida, che sola gli ha dato le carezze e i baci negati alla sua infanzia dorata e solitaria. Si tormenta nel desiderio del corpo femminile, e nell’altro contrastante ma esaltato proposito di purezza e castità. Ha già molto sofferto, episodi oscuri e tragici come l’uxoricidio dello zio Ludovico, o un tentativo di avvelenamento messo in atto nei suoi confronti da Manfredi, hanno marchiato profondamente la sua psicologia, portata naturalmente alla malinconia e alla riflessione. Non si ribella neppure al sopruso di un matrimonio combinato con Sofia di Landsberg, sconosciuta bimbetta di otto anni, e con rassegnata amarezza così ne scrive alla madre: «…non so nemmeno se assomigli più a un corvo o a una angelo, se ha il nasino ossuto o carnoso, la voce che graffia o che accarezza…E sì, madre, che prendevo molto sul serio il matrimonio, e volevo fare del mio, quando che fosse – ma non certo così presto – una cosa bella, vorrei quasi dire un’opera d’arte. Vale, mater, vale. E tantissime grazie».

Sarà il nonno, Federico II redivivo, comparsogli davanti come deus ex machina e prezioso alter ego della coscienza, a scuoterlo dalla sua remissività, a provocarlo con le sue posizioni irridenti, con le sue violenze arroganti: il ragazzo Corradino protesta, sbraita, gli si oppone, ma alla fine agisce. Nei momenti cruciali delle scelte, Federico II appare al nipote, barbuto e poderoso, scrutandolo col suo unico occhio di un azzurro intenso: da tutti creduto sepolto, ma in realtà scampato alla morte con un sotterfugio, è tornato, vecchio ma indomito, per cercare nell’erede qualcosa di se stesso e richiamarlo all’impegno dovuto al suo nome.
I due svevi si fronteggiano in un continuo duello di idee e atteggiamenti: l’uno miscredente, carnale, feroce, l’altro pio, casto, tenero. Corradino è scisso tra ribellione e obbedienza: «Vorrei staccarmi con la mente da Federico che in parte amo affascinato, in parte (temo maggiore) aborro come una continua violenza a tutto ciò che sono».

Eppure l’avo Federico riconosce nel ragazzo troppo sensibile, troppo capace di leggergli nel pensiero, come tutti «i destinati a morte precoce», il continuatore della missione sveva di conquista: «Decidi, Konrad, se dello Stato vuoi essere il reggitore o solo un bell’ornamento. Se la prima cosa, impara ad amare la durezza». E Corradino decide. Convoca la Dieta di Augusta e scende in Italia, a quindici anni, capo di un esercito che sogna di contendere al papa e a Carlo d’Angiò le terre che erano state degli Svevi.
La storia è nota: colpito dall’anatema papale, Corradino si ferma a Verona, Pavia, Pisa, Siena, raccogliendo vittorie e sconfitte, trionfi e tradimenti, fino alla defezione di molti principi tedeschi che l’avevano accompagnato.

Chiusano si muove in queste vicende con eleganza e fedeltà alla verità storica, regalandoci di suo non pochi personaggi e situazioni compiutamente credibili e riusciti. Come la figura di Lale, sposa vera seppure illegittima di Corradino, che il nonno gli ha donato in uno slancio di affetto sincero e di calcolo opportunistico, e che poi fa avvelenare per paura che distolga il nipote dai suoi doveri di futuro sovrano. Chiusano, sempre più a suo agio nella descrizione di caratteri e momenti delicati, ha agio in questa storia d’amore di rivelare tutte le sue doti di fine indagatore dei turbamenti adolescenziali, di pudori ed esaltazioni che mantengono sempre qualcosa di sacro e incorruttibile, a spregio di qualsiasi volgarità.
Privo della sua Lale, Corradino affronta con adulto coraggio e dignitosa compostezza sia la tragica battaglia di Tagliacozzo, sia la imprevista sconfitta, quindi il processo farsa e la decapitazione, dopo aver rifiutato la demoniaca tentazione offertagli dal nonno di una salvezza solitaria, di un tradimento meschino. E in queste ultime pagine, il sacrificio senz’altro cristiano, quasi messianico di Corradino, viene riconosciuto nella sua nobiltà anche dal nonno, Imperatore Federico II di Svevia: «Sei molto, moltissimo diverso da me… però, sei uno Svevo anche tu… Vai in tutt’altra direzione, ma anche tu voli alto… di te anche i semplici serberanno ricordo».

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Konradin-Italo-Alighiero-Chiusano.html    22 novembre 2015

RECENSIONI

CHLEBNIKOV

VELIMIR CHLEBNIKOV, 47 POESIE FACILI E UNA DIFFICILE –  QUODLIBET, MACERATA 2009

«Sklovskij diceva che era un campione, Jakobson diceva il più grande poeta del Novecento, Tynjanov diceva una direzione, Markov diceva il Lenin del futurismo russo, Ripellino diceva il poeta del futuro, e avevan ragione, secondo me, tutti, però avevano torto, anche, secondo me, e avevano torto perché, secondo me, Chlebnikov è molto di più».

Così Paolo Nori scrive di Velimir Chlebnikov nella postfazione a 47 poesie facili e una difficile, libro edito da Quodlibet nel 2009 e da poco ristampato. Nori si è laureato su questo poeta, e ne ha raccontato la vita nel romanzo Pancetta e in un recital musicale: la sua introduzione rivela l’entusiasmo e l’ammirazione non solo dello studioso e del traduttore, ma dell’innamorato, per un artista che seppe coraggiosamente opporsi a ogni stereotipo sociale, politico e culturale: «Chlebnikov doveva rimanere, per me, una specie di culto privato, rappresentava e rappresenta ancora, in buona parte, un sentimento che è al di là dei confini del linguaggio, è nell’indicibile, è qualcosa che c’è nella mia pancia e che va trattato bene, con cura, bisogna dargli dei fiori, farlo entrare nelle proprie preghiere e accontentarsi di quello…».

Velimir Chlebnikov (Chanskaja Stavka di Astrachan, 1885Santalovo di Novgorod, 1922), fu tra i fondatori del più importante gruppo futurista russo, Hylaea, insieme con Vladimir Majakovskij, che nel suo necrologio lo definì «un poeta per poeti». Poeta non facilmente inquadrabile, apprezzato e compreso da un pubblico ristretto. Dopo aver studiato matematica all’università di Kazan, si era trasferito a Pietroburgo frequentandovi l’ambiente letterario, che si impegnò ad affrancare dal simbolismo attraverso diverse prospettive: lo sperimentalismo linguistico (basato su una continua invenzione fonetica, sull’utilizzo di neologismi e paronomasie, sulla ricerca etimologica), lo studio e il recupero delle radici arcaiche della letteratura russa, l’impiego di tecniche figurative cubiste, un esotismo incantato e visionario, il sogno di una lingua universale e profetica basata sull’allegorismo dei numeri e delle lettere. Fu propugnatore della poesia transmentale (Zaum’), fatta di puri suoni privi di un significato preciso. Autore di saggi utopistici in cui prevedeva un futuro rivoluzionato da nuove modalità di comunicazione, di trasporto, di urbanizzazione, venne travolto dalla sua stessa inquieta ansia di libertà e ribellione, che lo condusse a una vita nomade, di stenti e fame e impieghi precari, conclusa a 37 anni per una paralisi dovuta a inedia: «Quando stanno morendo, i cavalli respirano, / quando stanno morendo, le erbe intristiscono, / quando stanno morendo, i soli si spengono, / quando stanno morendo, gli uomini cantano».

Nei suoi versi troviamo scherno, ironia, divertimento puro («Senti il rumore, eh, amico mio? Questo qua è Dio che salta dentro un pio», «Bobeòbi si cantavano le labbra. / Veeòmi si cantavano gli sguardi. / Pieéo si cantavano le ciglia. / Lieeéi si cantava l’aspetto. / Gsì gsì gséo si cantava la catena. / Così, sulla tela di alcune corrispondenze / fuori della continuità viveva il Volto», «Quando c’era Adamo e Eva, / Chi vinceva, chi perdeva?»). Troviamo elegia («Poco, mi serve. / Una crosta di pane, / un ditale di latte, / e questo cielo / e queste nuvole», «Le ragazze, quelle che camminano, / con stivali di occhi neri / sui fiori del mio cuore. / Le ragazze, che hanno abbassato le lance / Sul lago delle proprie ciglia. / Le ragazze, che si lavano i piedi / Nel lago delle mie parole»). Oppure rabbia («Dal sacco / si sparsero al suolo le cose. / Ed io penso / che il mondo / è soltanto un sogghigno, / che luccica fioco / sulle labbra di un impiccato»).

Ma è soprattutto nell’irrisione della politica ufficiale, del Potere massificante e oppressivo, dell’ortodossia ideologica che sbandiera le sue verità fasulle (Chlebnikov fu arrestato dalla Guardia Bianca negli anni della guerra civile, e costretto a vagabondare mendicando qualsiasi umile lavoro), che il poeta trova i suoi accenti più feroci, in una sorta di canto anarchico inneggiante alla libertà. «Per me è molto più piacevole / Guardare le stelle / Che firmare una condanna a morte. / Per me è molto più piacevole / Ascoltare la voce dei fiori, / Che sussurrano “È lui” / Chinando la testolina, / Quando attraverso il giardino, / Che vedere gli scuri fucili della guardia / Uccidere quelli / Che vogliono uccidere me. / Ecco perché io non sarò mai, / E poi mai, un Governante», «Basta, cavallo, senti, col dovere / Via l’aratro. Sferza e spacca l’acquazzone. / Senti, ci aspettano, fino al mattino, / Sono stalla e ammirazione», «I governi sono in brodo di giuggiole. / Il brodo di giuggiole governativo / fa strage di cavoli novelli. / Le loro code si alzan più in alto di quelle dei vitelli».

La Russia, patria amata nelle sue tradizioni popolari, nelle sue origini asiatiche, negli spazi sconfinati delle pianure, è però detestata nella gabbia ideologica imposta agli individui, nella sua indifferenza verso l’arte, nella censura promulgata contro il pensiero indipendente: «A migliaia di migliaia la Russia ha dato la libertà. / Non c’è cosa migliore. / A lungo la ricorderanno per questo. / Io invece mi sono tolto la camicia, / E tutti i grattacieli di specchi dei miei peli, / Tutte le fessure / Della città del corpo / Hanno esposto tappeti e tessuti rossi. / Le cittadine e i cittadini / Del Me – stato / Si sono affollati alle finestre dei riccioli dalle mille finestre. / Le Olghe e gli Igor’, / Non per convenienza, / Rallegrandosi del sole, hanno guardato attraverso la pelle. / Era finita la prigionia della camicia. / Mi ero semplicemente tolto la camicia / E avevo dato il sole al popolo del Me. / Ero nudo, vicino al mare. / Così ho regalato la libertà ai popoli, / Alle genti che prendevano il sole».

Attraverso le parole, usate con ironia e irriverenza, sperava si potesse attuare una trasformazione della società in una dimensione più democratica e moderna, ed esprimeva tale aspirazione in brevi prose graffianti e aforismi, oppure occupandosi di aspetti minimi e irrilevanti dell’esistenza, di personaggi umili e degli animali (Lo zoo: «Giardino, giardino, dove lo sguardo di una bestia conta di più di mucchi di libri letti»). Con la stessa leggera e sprezzante improntitudine offriva ai lettori un ritratto impietoso e canzonatorio di sé stesso: «Son più dorato di un’abbronzatura, / più velenoso dell’ossido carbonico», «E gli altri io li guardo come sega, / Io sono un poco putrido e cattivo», «Io ah ah ah e ih ih ih, / E raramente, più semplicemente, solo eccì», «Io, non sono Čechov».

Difficile tradurre una poesia così frantumata, immaginosa e stravagante come quella di Velimir Chlebnikov. Paolo Nori ci è riuscito con eleganza e levità, aderendo al testo il più fedelmente possibile: e quando non gli è stato possibile, inventando. Come confessa con divertita umiltà.

 

© Riproduzione riservata                               «Il Pickwick», 23 aprile 2019

 

 

 

RECENSIONI

CHODASEVIC

VLADISLAV CHODASEVIČ, NON È TEMPO DI ESSERE – BOMPIANI, MILANO 2019

Il volume pubblicato da Bompiani, con testo russo a fronte, Non è tempo di essere, costituisce la più ampia scelta finora offerta al lettore italiano dell’opera poetica di Vladislav Chodasevič (Mosca 1886-Parigi 1939). Chodasevič iniziò a scrivere sotto l’influenza del simbolismo, approdando presto a uno stile più classico e ad argomenti di stampo metafisico. Ebbe una vita piuttosto tormentata per motivi di salute, sentimentali e politici, e anche per la sua non facile disposizione caratteriale, introversa, malinconica ed elitaria. Con la giovane compagna e nota scrittrice Nina Berberova, lasciò la Russia nel 1922, riparando dapprima a Berlino, quindi a Sorrento (ospite dell’amico Massimo Gor’kij), e in altre città europee, infine stabilendosi a Parigi, dove visse collaborando con importanti riviste e giornali nel ruolo di influente critico letterario.

I versi raccolti in questa antologia sono stati composti tra il 1906 e il 1928: a lungo sottovalutati in patria (nonostante l’apprezzamento di importanti intellettuali come Nabokov, che li definì “di una complicata meraviglia”), trovarono la debita risonanza solo dopo la perestroika di fine ’900.

Nell’approfondita introduzione della curatrice Caterina Graziadei, che ricostruisce empaticamente l’intera vicenda umana di Chodasevič, inserendola nel corrispondente contesto storico e culturale, la poesia dell’autore moscovita viene ripercorsa nei suoi sviluppi e nelle sue fondamentali proprietà stilistiche: «Un’intonazione senile guida i versi di Vladislav Chodasevič, che inclinano al ricordo, alla meditazione sulla morte, appena scossi da un brivido leggero di compiacimento nel contemplare il disfarsi. Senile è la postura da cui osserva il mondo».

Proprio l’osservare, il guardare dalla finestra un esterno cui è orgogliosamente conscio di non appartenere, è il principale leitmotiv della raccolta: «Guardo dalla finestra, e disprezzo, / Guardo me stesso, pure disprezzato, / Invoco tuoni sulla terra, senza credere al cielo», «Assordato dalla vita triviale, /irreparabilmente ferito, / abbasso le palpebre ‒ / e sogno che più lieve dilegui, / come una risacca lontana, / il fragore della vita terrena. // Meglio dormire che ascoltare la ciarla / malevola della vita umana, / la vuota disputa di piccole verità. / Tutto mi è già noto, e tutto vedo, / meglio in sogno attingere / un’alba sconosciuta».

Estraneo al comune sentire, isolato da un diaframma di esibita consapevolezza di sé, il poeta cerca rifugio nella protettiva quotidianità domestica, nella ripetizione dei gesti più semplici, nella frequentazione di luoghi e personaggi conosciuti e mai ostili, utilizzando un lessico colloquiale che intervenga a spezzare il tono elevato imposto dalla sublimità della meditazione filosofica. Spesso quindi la sua scrittura assume timbri prosastici e narrativi, volutamente misurati, talvolta ironici o addirittura sarcastici, scegliendo come oggetto la banalità di comportamenti consueti, la modestia silenziosa degli interni familiari, gli sfondi cittadini dei parchi, delle strade, dei tram, dei mestieri di Mosca. «Qui c’era una casa. È poco che del tetto / han fatto legna da ardere. Rimane solo / in basso la rozza ossatura di pietra. Spesso / qui vengo di sera a riposare», «Solo, fra le anse del fiume, / allo strìdio di attardate gru, / oggi di nuovo apprendo / la muta sapienza dei campi».

Il richiamo della spiritualità rimane un miraggio, nel confronto con la precarietà del vivere terreno, così frequentemente offeso da cattiverie, inimicizie e difficoltà materiali: «Vivere e cantare è quasi vano: / viviamo in una fragile volgarità. / Cuce il sarto, edifica il falegname: / i punti cederanno, crollerà la casa». Abbandonata la madre Russia, l’orizzonte privato di Chodasevič si fa inesorabilmente fosco e minaccioso, la sua scrittura patisce la sconfortante previsione di un futuro grottesco e sadico, da cui difendersi sfidando la storia e Dio dapprima con rabbiose provocazioni, quindi con un progressivo e inaridito silenzio.

Un plauso particolare va riservato alla nuova collana recentemente inaugurata dalle edizioni Bompiani, “Capoversi”, che offre ai lettori volumi di eccellenti poeti novecenteschi, colpevolmente trascurati o poco conosciuti, con testo originale a fronte, accurate presentazioni, ricchi apparati di note biografiche e bibliografiche, una sobria copertina e una grafica accattivante.

 

© Riproduzione riservata                     31 dicembre 2019

https://www.sololibri.net/Non-e-tempo-di-essere-Vladislav-Chodasevic.html

RECENSIONI

CHOMSKY

NOAM CHOMSKY, LE DIECI LEGGI DEL POTERE – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE, 2017

Scrivere oggi di “padroni”, “odio di classe”, “sfruttati”, “dittatura capitalista” può sembrare obsoleto, retaggio malinconico di un’illusoria eredità sessantottesca, roba da patetico pamphlettista   vetero-marxiano.

Se lo fa Noam Chomsky (Filadelfia,1928), linguistafilosofostoricoteorico della comunicazione, con il suo pervicace e sbandierato anarchismo libertario, risulta un po’ più intrigante, in quanto difficile da liquidare come delirio senescente di un arrabbiato e nostalgico hidalgo delle rivoluzioni che furono. Professore emerito di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, Chomsky è stato il fondatore della grammatica generativo-trasformazionale ‒ oggi messa alquanto in discussione da più cattedre ‒, con alcuni basilari volumi (Syntactic structures, 1957; Language and mind, 1968; The logical structure of linguistic theory, 1975; Language and problems of knowledge, 1988). Ma è stato anche vivacissimo polemista, vox clamans contro l’imperialismo americano (American power and the new mandarins,1969; At war with Asia, 1970; Human rights and american foreign policy,1978), contro l’addomesticamento dei media teso a fabbricare un consenso acritico (Manufacturing consent: the political economy of the mass media, 1988), contro le miopi e corrotte politiche ambientali che stanno portando l’intero pianeta all’autodistruzione.

Queste tesi, provocatorie e impetuose, sono riprese sinteticamente nel volume edito da Ponte alle Grazie, Le dieci leggi del potere, che riporta lo stesso programmatico sottotitolo (Requiem per il sogno americano) del documentario-intervista di Hutchison-Nyks-Scott presente in rete e su Netflix. Il libro si compone di dieci capitoli, corredati ciascuno da un elenco di fonti: brevi estratti da testi di filosofia ed economia, oppure da articoli di giornali, proclami politici, statistiche, degli autori più vari. Si citano Aristotele e Malcolm X, Berlusconi e Bill Clinton, Walt Disney e Mc Donald’s.

In uno stile semplicissimo, paratattico, quasi didascalico, Noam Chomsky ripercorre le motivazioni perverse che hanno condotto la più grande potenza mondiale all’inarrestabile declino etico attuale, all’impasse di immagine del suo profilo di stato-guida agli occhi dell’umanità intera. Sono sostanzialmente ragioni che derivano dalla volontà di concentrare il potere e la ricchezza nelle mani di un’oligarchia finanziaria senza scrupoli, che si appoggia agli interessi delle grandi banche e delle multinazionali, e che per trarre sostanziosi vantaggi economici tende a ridurre gli spazi democratici sia all’interno degli USA sia globalmente. Lo fa plasmando le menti dei consumatori attraverso un bombardamento mediatico mirato, mettendo il silenziatore alle voci critiche, limitando il diritto allo studio, precarizzando il lavoro, privatizzando la sanità. A livello produttivo, penalizza l’industria manifatturiera a vantaggio degli istituti finanziari, delocalizza la manodopera sfruttando lavoratori dei paesi poveri, e ha come unico principio la libertà del mercato e gli interessi delle lobby capitalistiche. Addio solidarietà sociale e tutela degli indifesi, addio sindacalismo e garanzie per la classe operaia, addio all’American Dream di partecipazione democratica di base: e invece sostegno al marketing deregolamentato, alla fabbrica del consenso, alla sostanziale marginalizzazione del popolo, allo spreco consumistico, all’inquinamento ambientale.

Un profeta scomodo, Noam Chomsky, grillo parlante a vuoto in una società che preferisce non ascoltare.

 

© Riproduzione riservata         «Il Pickwick», 22 ottobre 2017

 

 

 

RECENSIONI

CIAPPI

SILVIO CIAPPI, L’UOMO CHE NON VOLEVA MORIRE

GABRIELLI EDITORI, S. PIETRO IN CARIANO 2017

 

Se non bastasse il sottotitolo, Storia di un pescatore di anime, già l’allusiva foto di copertina (due reti strappate che pendono da un legno a forma di croce, con le acque immobili di un lago sullo sfondo) sembra voler predisporre il lettore al contenuto e al messaggio di questo intenso racconto-saggio di Silvio Ciappi (Siena, 1965), noto psicoterapeuta e criminologo.

Il Gesù che fuoriesce prepotentemente da queste pagine ha poco di divino, e l’autore sottolinea più volte la propria indifferenza alle interpretazioni ecclesiali, cui contrappone una partecipe ammirazione verso la figura umana del giovane che dalla Galilea percorre a piedi tutta la Palestina, alla ricerca di se stesso e dell’altro. Un “altro” vivo di reale corporeità, fatto di carne e dolori, di fame e desideri, a cui portare la parola che salva. Il trentenne Yešû si circonda di uomini, donne e bambini che hanno la stessa faccia degli uomini, donne e bambini di oggi: sono gli ultimi della terra, i reietti, gli abbandonati, gli esclusi, macchiati di colpe e delitti, oppure sofferenti per tare fisiche. Ma sono anche i ricchi, i farisaici detentori del potere politico e religioso, ugualmente condannati a una cecità che li rende infelici, privi di significati da dare alla propria esistenza. In tutte le persone che seguono Gesù, lo psichiatra-criminologo Silvio Ciappi scorge lo stesso male di vivere dei pazienti o dei carcerati di cui si occupa professionalmente, in Italia o all’estero, nelle sue consulenze per vari organismi internazionali: il male dell’adolescente suicida, dei genitori che uccidono i figli, delle donne stuprate dalle forze paramilitari in Colombia o dell’infanzia costretta a prostituirsi nelle strade del Brasile.

Per recuperare la vicenda terrena di un uomo di duemila anni fa, Ciappi utilizza le pagine del più antico dei quattro Vangeli, l’unico scritto da chi è stato testimone oculare degli eventi narrati: il misterioso ragazzo presente alla cattura di Gesù nell’orto degli ulivi era forse lo stesso seduto accanto al sepolcro vuoto. Era Marco. Un Vangelo particolare, il suo, scarno di parole, privo di commenti, che non racconta la nascita virginale del bambinello, né re magi o presentazioni al Tempio; ci propone subito un Cristo adulto, indocile, dal linguaggio paradossale, che si fa battezzare da Giovanni e cerca i propri discepoli tra i pescatori. Un testo sacro che finisce al capitolo sedicesimo, con tre donne che non trovando più il cadavere del loro Messia nella tomba hanno paura. “Paura” è la parola conclusiva del paragrafo 16, 1-8, e ancora lo sarebbe di tutto il Vangelo marciano, se non fosse stato aggiunto a posteriori il racconto della resurrezione, per motivi di opportunità e di coerenza con gli altri testi evangelici.

Silvio Ciappi rivisita le Scritture a partire dal Midrash ebraico, cita passi dell’antico Testamento, rilegge con grande sensibilità alcune parabole, commenta il Padre Nostro. A questo interesse teologico ed esegetico, spesso fuori dai ranghi dell’ortodossia cattolica, unisce interessi culturali più vasti, nominando filosofi e poeti che hanno nutrito la sua formazione intellettuale: dai classici greci e latini a Eliot, da Rilke a Freud, da Kierkegaard a Nietzsche, da Buber a Ungaretti e Pasolini. Ma soprattutto alterna l’interpretazione del Vangelo di Marco con descrizioni di incontri avuti nella sua esperienza professionale, oppure con riflessioni sul senso del nostro vivere quotidiano inserito negli spazi e nei tempi dilatati della storia e dell’eternità. Ci invita a riflettere sull’importanza della parola e del silenzio, delle assenze e dei distacchi, dell’odio e del perdono, della malattia e della libertà, della meditazione e della solitudine, della persecuzione e della morte. A proposito della quale, L’uomo che non voleva morire, il giovane Yešû tradito processato e crocefisso, ma «che voleva lottare» per tutti, ha lasciato un insegnamento semplice e fondamentale, che Silvio Ciappi fa suo e ci trasmette: «Non siamo soli al mondo, non siamo l’inizio e la fine di tutto… siamo una goccia d’acqua in un mare più vasto… Non c’è nulla al mondo di più sacro che l’umano».

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/uomo-non-voleva-morire-Ciappi.html;     28  marzo 2017

 

RECENSIONI

CIAPPI

SILVIO CIAPPI, ODIO. L’ALTRA FACCIA DEL DOLORE – GIUNTI, FIRENZE 2023

Silvio Ciappi (Siena 1965) è uno dei più noti e stimati criminologi e psicoanalisti italiani. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, che spaziano dai manuali giuridici al romanzo noir, dal saggio spirituale all’inchiesta sociologica fino alla cronaca giudiziaria.

Il suo ultimo volume, Odio (tra qualche mese uscirà sempre da Giunti un reportage sulla delinquenza giovanile metropolitana) indaga le matrici psicologiche dell’odio mediante l’esposizione, in chiave narrativa, di casi clinici e forensi attinti dall’esperienza umana e professionale vissuta per decenni a stretto contatto con chi delinque.

“L’etimologia della parola ‘odio’ si può ricondurre a una radice indoeuropea che significa ‘colpire, ferire, espellere, spingere, respingere’, in cui ricorre il senso del rifiuto, della repulsione e della ferita. Un’altra ipotesi plausibile, invece, sembra ricondurre la parola ‘odio’ al verbo ‘mangiare’, per cui l’odio sarebbe da intendersi come un rodimento intimo. Entrambe le interpretazioni etimologiche mettono in luce l’estrema negatività di questo sentimento, nel primo caso evidenziandone la forza distruttiva verso l’esterno mentre, nel secondo caso, quella autodistruttiva”.

Si odiano gli altri come si odia sé stessi, afferma Ciappi, che nel libro parla della crudeltà associata al piacere di fare del male, e di come la violenza sia il frutto di un condizionamento originario, oltreché di circostanze esistenziali che si sommano e si accumulano sulla ferita primigenia. I sentimenti più feroci (rabbia, rancore, sete di vendetta, disprezzo) sono per lo più “un disperato tentativo di non contattare il proprio dolore, sono il volto dimenticato del dolore” nato da diverse motivazioni (l’abbandono, il tradimento, la colpa, lo svilimento, l’umiliazione), che spetta allo psicologo sviscerare, con uno scavo quasi archeologico nel passato, e al criminologo analizzare scientificamente.

Consapevole che nessuna persona può considerarsi immune dal gesto violento, e che non tutti gli assassini sono malvagi di animo (così come non tutti i malvagi diventano assassini), Silvio Ciappi è altrettanto convinto che ciascuno si possa sempre salvare, uscendo da situazioni che appaiono senza scampo. Questo ha appreso dai suoi approfonditi studi di giurisprudenza, psicologia e letteratura, ma anche della propria vicenda personale, a partire dalle inquietudini e ribellioni adolescenziali fino al lavoro quotidiano nei penitenziari del nostro paese, e nelle consulenze internazionali sul narcotraffico, il terrorismo, la mafia. Compito dello psicanalista è quello di “mettere insieme compassione e morale, condanna e comprensione, autore e vittima” per cercare di capire cosa, nella vita di chi si rende colpevole di gravi reati, non ha funzionato, inducendolo a compiere gesti gravidi di conseguenze umane e legali.

Chiamato a supervisioni cliniche presso carceri minorili o comunità di recupero, Ciappi per prima cosa cerca di sintonizzarsi sul piano emozionale con le ferite dei minori, spesso aggressivi nei confronti di compagni ed educatori. Il disagio giovanile, che si può esprimere in molti modi (disturbi dell’alimentazione, ansia da prestazione, azioni pantoclastiche o antisociali) indica un profondo senso di smarrimento originato da storie di vita inenarrabili, da perdita degli affetti, da trascuratezza familiare, sociale e ambientale in contesti degradati e di marginalità, e acuito dal confronto con modelli disfunzionali, dal mito del successo facile e del guadagno repentino. Silvio Ciappi racconta con empatia e commozione – sempre indignandosi, sempre interrogandosi (“Cosa avrei fatto io al loro posto?”) – vicende terribili di giovani immigrate costrette a prostituirsi, ladri, violentatori, psicopatici sessuali, talvolta circuiti da carabinieri corrotti e preti truffatori: un caleidoscopio di esistenze a colori truci, che sputano collera e risentimento, terrore e voglia di vendetta, e solo raramente ansia di redenzione o desiderio di tenerezza.

Nel volume si sofferma a lungo sull’esperienza vissuta accanto al serial killer Donato Bilancia, che nel 1997 in pochi mesi aveva ucciso in maniera efferata diciassette persone. La vita dell’assassino viene minuziosamente ripercorsa dalle origini, durante lunghe conversazioni nella prigione di Padova, nel tentativo di spiegare le motivazioni dei suoi gesti omicidi. Cosa l’aveva portato ad agire in maniera tanto crudele, e a quello che lui stesso definiva “il salto nel vuoto” del crimine? Il puro godimento sadico e afinalistico di uccidere, per cui sceglieva a caso le sue vittime, vendicando così la sua infanzia lacerata da genitori dispotici e maneschi, o forse il dolore per un fratello suicidatosi con il nipotino sotto un treno? Secondo Melanie Klein il disamore patito nei primissimi mesi di vita nel rapporto con la madre o altre figure di accudimento, insegue e segna alcuni individui per tutta la vita, inducendoli a reazioni esasperate nei confronti di coloro da cui si sentono rifiutati. Le sensazioni pericolose, angoscianti e cattive vissute da bambini ritornano nella genesi dell’odio, ed esplodono innescate a volte da futili e imprevedibili motivi. “In psicoanalisi l’atto di uccidere può essere considerato l’atto finale di un livello di aggressività che l’uomo si porta dentro. L’essere umano difficilmente tollera l’idea di non essere stato sufficientemente amato, per cui la mente mette in azione due meccanismi per allontanare il dolore, la scissione e la proiezione, attraverso i quali, ci dice Freud, sputare fuori (Ausstoßung) nel mondo esterno il male, sentendolo come estraneo e nemico”.

Oggi il delitto di sangue ha perso le connotazioni leggendarie del passato, e sembra piuttosto evidenziare le debolezze, le vorticose incapacità di relazionarsi con gli altri di chi lo compie: “Si uccide per un bacio non dato, per un cane che abbaia, per vigliaccheria”, esibendo reazioni smodate e incontrollate a situazioni di quotidiana normalità. Freud scriveva che “discendiamo da una serie lunghissima di generazioni di assassini i quali avevano nel sangue, come forse ancora abbiamo noi stessi, il piacere di uccidere”.

Tra i sentimenti analizzati dall’autore come scatenanti odio, un ruolo di primo piano riveste l’invidia – nella coppia, parentale, comunitaria, sociale –, che ha come obiettivo di sminuire l’altro, cancellandone la malintesa superiorità con voracità distruttiva, al fine di riconquistare un primato messo in discussione dalla presenza dell’avversario (ad-versum, che sta di fronte). Altro impulso che spinge ad annullare le differenze è il conformismo, sfruttato politicamente da ogni potere antidemocratico quando invita all’obbedienza cieca in nome di imperativi categorici superiori, o quello espresso attraverso il branco, inteso come estensione dell’io, che raggiunge picchi di feroce frenesia.

Le fantasie ossessive e i comportamenti devianti analizzati da Ciappi nel suo lavoro di psicanalista riguardano persone di età, cultura e provenienza sociale differente: si tratta di feticisti, seduttori, traditori, pedofili, masochisti, necrofili, sadici, pornografi, autolesionisti, ricattatori, narcisisti, isterici, che presentano sintomi di assenza o eccesso di emotività, e chiedono di essere in primo luogo ascoltati e poi aiutati a superare i loro traumi, per venire accettati da se stessi e dalla società che li ospita, dove tutto (lavoro, casa, famiglia, emozioni) viene regolato e tenuto sotto controllo secondo parametri funzionali al mantenimento dello status quo.

Silvio Ciappi racconta con sincerità e modestia anche le proprie ferite, gli inciampi professionali, le difficoltà familiari, i problemi di salute, ma afferma di sentirsi comunque soddisfatto e realizzato quando nel suo delicato e difficile lavoro quotidiano riesce a “evitare il male con piccole dosi di bene praticabile”. Cosa che dovremmo fare tutti, mettendo in discussione noi stessi, le nostre fragilità, sapendo che la tentazione di odiare è presente in chiunque abbia sofferto. Tuttavia dalla sofferenza non nascono solamente sentimenti negativi, poiché attraversando il dolore possono manifestarsi occasioni e doti socialmente fruttuose e individualmente gratificanti: creatività, amore per la bellezza, voglia di riscatto, altruismo.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 30 novembre 2024

 

 

RECENSIONI

CIMATTI

FELICE CIMATTI, SGUARDI ANIMALI – MIMESIS, MILANO 2018

Felice Cimatti (Roma, 1959) si occupa di filosofia, psicanalisi, linguaggio, realtà e sovra-realtà, con un occhio attento anche al mondo non umano. Insegna all’Università della Calabria, e conduce su Rai Radio 3 la trasmissione Uomini e profeti.

In Sguardi animali indaga il concetto di animalità, partendo dal commento di vecchie fotografie in bianco e nero acquistate su bancarelle di robivecchi, in cui il non-umano si accompagna all’umano: personaggi anonimi di ogni età, sesso, condizione sociale posano distrattamente o narcisisticamente, insieme a gatti, cani, cavalli del tutto indifferenti all’obiettivo che li immortala. Oltre alle numerose immagini di sconosciuti, nel libro edito da Mimesis sono presenti scatti di volti famosi, da Mastroianni a Hemingway, quadri celebri, paesaggi e nature morte, collegati tra loro dalla presenza di dettagli estranianti e inattesi, che hanno la funzione di turbare chi guarda, proponendo qualcosa di inafferrabile, di non facilmente razionalizzabile. Questo particolare inquietante è appunto l’animalità dell’oggetto rappresentato, corpo vivo, edificio, albero, ombra che “spezza la composizione e il progetto iniziale” di chi ha scattato la fotografia, lasciando apparire “il mostro”, che nella sua etimologia latina indica il prodigio, l’eccezionalità. Il movimento è bloccato: sul sorriso di una ragazza, su un cagnolino immobile, su una mano o una gamba sbucanti dal margine, su un movimento impedito.

“La fotografia è un luogo esemplare dell’animalità, come apparizione improvvisa e spesso anche sgradita di quell’elemento vitale, animale appunto, del mondo che nessun preesistente quadro concettuale riesce a contenere. Perché l’animalità disturba, proprio come la vita disturba, perché è novità e sorpresa”.

Per animali di solito intendiamo quelli domestici, e addomesticati, quasi umanizzati, a cui attribuiamo dei diritti e concediamo la nostra attenzione morale. Ma gli animali “altri” (una talpa, una zanzara, un ragno, un’ameba, un microbo) li sentiamo allo stesso modo portatori di desideri e intenzioni, e quindi di prerogative di difesa legale, o invece l’idea di animale rimane in qualche modo allegorica, non incarnata, solo pensata? “Un animale è sempre un discorso sull’animale, sia scientifico che mitico, realistico o fantastico, effettivo o immaginario”.

Per Cimatti, l’animale è un ente linguistico, è “vita catturata dal linguaggio”. Allora, l’animalità riguarda i non-umani e gli umani, soggetti e oggetti, attivi e passivi, tutti i corpi materiali che “possono fare qualcosa nel mondo”. Anche un sasso è un corpo, agli occhi di un gatto: “Vedere il mondo dal punto di vista dei corpi, non da quello del soggetto, dell’homo loquax, questa è l’animalità… Si tratta di permettere all’animalità di apparire… semplicemente di apparire”, senza essere categorizzata. L’animalità esprime una lacerazione che rende visibile il mondo, in cui il soggetto diventa oggetto senza cessare di essere soggetto. Anche l’uomo pertanto diviene animale, è visto all’interno di un mondo di intensità pure, aldilà di ogni significato, e “al di qua della distinzione tra conscio e inconscio, fra razionale e irrazionale, fra parola e silenzio… L’animalità non vuole né pensa nulla, non desidera né rimpiange nulla, non manca di nulla”.

La riflessione teorica di Felice Cimatti si situa tra indagine psicanalitica e problematicità filosofica, ma nel commento delicato e sensibile alle immagini fotografiche sfiora l’impalpabile grazia della poesia.

 

© Riproduzione riservata        SoloLibri.net › Sguardi-animali-Cimatti    28 dicembre 2021